XXXVIII.
Invitato
a predicare una quaresima in Domodossola, prese per tutti i sermoni
un tema unico a svolgere, l’imitazione di Cristo, egli che
questa parola intendeva in senso non rettorico e non servile ma tanto
più alto e bello di quel d’Aristotele, quanto dell’Etica
e della Rettorica aristotelica la Morale e la Poesia cristiana è
più bella e alta; egli amoroso leggitore del Kempis, che
giovane, ne faceva a me dono d’una edizioncina elegante, con
queste parole: piccolo segno di grande amicizia. E giova
rammentare che delle prime stampe pregiate di Venezia è un
volgarizzamento del Kempis, e che un Veneto, il Cesari, doveva
rifarlo con affettazioni meno del solito discordanti, e riuscirne una
delle opere sue migliori. Il Rosmini stendeva il disegno delle sue
prediche, mancando il tempo di scriverle; ma le faceva più
volte a mente, sì che nulla era a caso, e conciliavansi i
pregi dell’improvviso e del meditato.
Nel
trentaquattro Rovereto sua patria lo chiama parroco, ed egli,
ancorchè il papa se ne mostrasse scontento, per rispondere
secondo l’istituto suo a ogni chiamata, scende dal diletto suo
monte, e va a fare il parroco daddovero come faceva da prevosto
quell’Antonio Muratori, semplice perchè grande, e quanto
più buono più grande. Fare il catechismo, visitare i
malati e gli afflitti, soccorrere di consiglio e d’elemosina,
confessare ogni dì, raccogliere la sera operai che tra
esercizi non gravosi di spirito si stornassero dalla taverna e da’
vizi, e così meritare le benedizioni delle famiglie meno
affamate e meno maltrattate di prima; erano a lui dolci, ma gravi,
cure. Non potendo nel confessionale sedersi per infermità di
petto e di stomaco, si teneva ritto: ma, affralito dal lavoro
insolito, già sputava sangue. Non tanto per questo, quanto per
vedere altri, e non concittadini, ostanti alla sua benefica
popolarità, nel seguente anno depose l’incarico; che
aggiunse però esperienza al suo senno, e al suo zelo
tolleranza, e poi anco alquanto vigore al corpo, riposato che l’ebbe.
Ritornò
quindi a’ suoi confratelli; e nel trentanove, approvata da
Gregorio XVI la Società, fece i voti solenni il dì del
suo battesimo, il dì 25 di marzo: e ne aveva, dopo molto
esitare fermato il proposito il dì 25 di dicembre del 1825.
Elettone a mal suo grado Generale, non fece pesare sopra nessuno la
propria autorità, serbandola spirituale in tutto e sempre, e
per sè ritenendo le men facili dipendenze. Da’ suoi
segretari, la cui famigliarità ognun vede quanto sia preziosa
al cuore e all’ingegno e raccomandata dalla stessa prudenza e
dall’affetto del bene, si distaccava a ogni bisogno altrui,
ch’era a lui comodo e legge. Tenne seco preti non ascritti alla
sua Società, senza insistere che ci entrassero, e lasciò
in loro arbitrio l’andare e lo starsene. Agli alunni suoi
stessi non imponeva le proprie opinioni, egli sì caldo e
possente a difenderle; e interrogato da uno come avesse a governarsi
con un esaminatore di dottrina diversa, rispose: come vi pare. E così
nella scelta e nell’ordine degli studi lasciava libertà
a ciascheduno; zelante più egli dell’obbedire che del
richiedere obbedienza.
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