XXXIX.
Parco
a sè, generoso ad altrui; elemosiniere prudente, perseverante,
segreto; caritatevole per istinto: e la sua balia, vivente ancora in
casa di lui, racconta come volesse merenda di più e qualche
soldo da dare, come dell’età di sei anni dèsse a
un poveretto scalzo nel verno le sue calze nuove, per avere sentito:
Chi ha, dia a chi non ha. In libri spendeva: e trovandosi da
vendere per quattrocento scudi la ricca Biblioteca Venier, egli
scolaro scrive da Padova al padre lettera dignitosa e supplichevole,
e di quell’arte dell’affetto che il Caro non insegna nè
altri. Da libri propri che fruttarono a’ librai, non ha mai
lucrato. Voleva da ultimo piantare stamperia (e l’estreme
parole dettate furon di questo) per avere agio a correggere sulle
bozze lo stile e a rifondere, come fa quell’amico suo
incontentabile di sè medesimo, e quanto da’ lettori
amato, tanto dagli stampatori temuto. Spese in murare, non in tutto
provvidamente, ma giovano anco i suoi sbagli a dimostrare come poco
egli fosse speculatore di lucri, se a dimostrarlo non bastasse l’uso
fatto de’ propri averi e de’ lasciti altrui. De’
quali taluno egli abbandonava quasi all’altrui arbitrio, per
tema di cadere in amministratore del cui fatto avesse a diffidare o a
dolersi: e le anime conscie della generosità sanno quanto
costino doglianze tali, e quanto più costi il dover diffidare
dell’altrui probità.
La
probità del Rosmini, dico la probità di Antonio
Rosmini, fu da taluno non solamente dubitata ma coraggiosamente e
quasi allegramente negata: fu detto che le arti sue tolsero a chi ne
aveva il diritto un’eredità; mentre che quella eredità
toccò ad un parente il quale ne fa uso buono, e che gli altri
parenti lontanissimi della testatrice non avevano diritto a più
di quello che ottennero da’ suoi lasciti s’ella moriva
intestata. Trattasi dunque d’una casa lasciata al Rosmini in
proprietà, all’erede in usufrutto sua vita durante, la
qual casa esso erede poi cedè al legatario verso un annuo
compenso, non ne potendo sostener le gravezze; trattasi d’una
casa posta nel luogo dov’esso Rosmini aveva con gravissimi
dispendi edificata una casa; di casa il cui possesso gl’imponeva
oltre al fitto già detto e oltre alla forte imposta da pagare
allo Stato, un’ospitalità dispendiosa, incomoda spesso
a’ suoi studi, esercitatrice di non facile pazienza, rubatrice
a lui di quel tempo che gli era inestimabile ricchezza, e poteva,
volendo lui, cambiarglisi anco in moneta ben più sonante di
cotesto lascito calunniato. Giacchè l’accusa fu mossa e
qualche onest’uomo ignaro de’ fatti ci sospettò un
che di vero, importa ribatterla espressamente pur coll’accenno
de’ fatti, già messi in chiaro co’ documenti alla
mano e con accuratezza che in questi tempi di fiacche prudenze è
debito chiamar coraggiosa, dall’erudito illustratore
d’Aristotele, Ruggiero Bonghi. Ma per sollevare il pensiero da
queste miserie, giacchè sempre accanto a una memoria di cosa
ignobile Dio benedetto prepara più altre di consolazione agli
onesti, e giacchè alla vita degli uomini famosi e buoni
s’intessono quasi per necessaria affinità ricordanze ed
esempi d’altre virtù e d’altre fame; rammenteremo
che congiunto di sangue a cotesta testatrice fu quel Crevenna il cui
nome a’ bibliografi non è lecito ignorare, e che spese
in libri ricchezza di molta; rammenteremo che prima fonte alla
ricchezza della testatrice fu il mestiere del sarto esercitato da uno
de’ suoi maggiori in Germania, il quale ritornato a morire
sulle care sponde del lago natio, portò seco gli arnesi
dell’arte sua, e li serbava con vanto modesto, come non piccola
parte dell’eredità da lasciare a’ suoi nepoti,
come reliquia e documento.
Queste
cose importava notare per dedurne a’ giovani che s’avviano
per vie di bene intentate in tempi discordi, dedurne l’avvertimento,
che nè altezza d’ingegno, nè innocenza di vita,
nè splendore di fama, nè testimonianze d’uomini
immacolati e della intera nazione potrà scamparli da’
giudizi severi di chi, così giudicando, credono forse di
rendere servigio alla libertà e benefizio alla patria. Niente
d’incredibile è da sperare che non possa essere creduto
dagli odî di parte: a ogni cosa dunque bisogna, con tali esempi
davanti, a ogni cosa essere preparati. L’uomo che dalla sua
adolescenza dedicava tutto sè alla verità, che arde
dell’amore di Dio e de’ fratelli, spenda pure in
quest’opera gli averi e le notti, affatichi l’ingegno,
consumi il vigore del corpo, incanutisca anzi tempo e s’accorci
la vita per adornare di fregi novelli l’abito sacerdotale, per
accrescere l’eredità de’ maggiori, sgomento a’
nepoti; affronti ostacoli e contraddizioni, calunnie e dolori; si
sforzino d’accorarlo a gara la tiepidezza degli amici, la
sconoscenza de’ beneficati, il sospetto de’ più
caramente diletti; non ne prenda egli però nè rammarico
nè maraviglia, e ringrazi l’onnipotenza di Dio che gli
tocchi da ultimo, gettato come il tozzo dell’elemosina, un
dimittantur.
Questa
parola, repressa fin qui, mi prorompe dal cuore; e ne chieggo scusa
ai figli del Rosmini che pregano non si ritocchi il passato, ne
chieggo perdono a quell’anima generosa che ha perdonato e si
tacque. Ma ripensando appunto quel silenzio innocente come di agnello
sotto la mano del tosatore, quella mitezza semplice come di bambino e
forte come di spirito sopravolante alla terra; mi prende un
sentimento più alto che l’ammirazione, più sacro
che la pietà; e mi parrebbe non aver viscere d’uomo se
non dicessi, non ai presenti (so quello che c’è da
aspettare da loro), ma agli avvenire: espiate la nostra vergogna.
|