XL.
Fu
apposta alle amarezze dategli la sua morte. Io non lo credo; e so che
non si muor di dolore. Quanto allo sdegno, così non si sfoga,
così non si cela lo sdegno. Nominaronsi i padri Gesuiti; e io
dirò de’ padri Gesuiti senz’odio o paura di loro,
senza paura punto degli avversi a loro. Io che, quand’erano
deboli e vinti, li difesi, così come feci i Tedeschi datisi
vinti, quant’era in me, dagli oltraggi di pochi più
ardenti che generosi, li difesi per quella ragione che altri avrebbe
assalito, perchè impotenti e perchè non amici; e così
facendo non speravo nè gratitudine nè compassione, e
non l’ebbi, e nella risposta non provocata a un mio libro mi
sentî da taluno di loro rinfacciare con lepidezza tanto
cristiana ed urbana quanto coraggiosa ed arguta la disgrazia della
mia cecità (di che li ringrazio, perchè tale linguaggio
mi sdebitò da repliche lunghe); io non ispero adesso scusa da
loro a’ miei veri o supposti sbagli se affermo che gli assalti
al Rosmini non vennero dalla Compagnia tutta quanta, che taluni di
loro l’hanno in onore, che gli assalitori manifesti si
credevano forse di fare cosa lecita e buona; e a questo affermare
m’induce la troppo dolorosa esperienza che mostra come nelle
discordie e letterarie e civili e religiose gli affetti, non che le
passioni, illudano la coscienza. Non usurpiamo (parole d’esso
Rosmini) il giudizio di Dio, non giudichiamo nè condanniamo
alcuno. Ma poi soggiungo che se taluno, chierico o avverso a’
chierici, si fosse figurato tanto potente da turbare la pace
d’Antonio Rosmini, si sarebbe tristamente ingannato; perchè
il vapore di stagno breve non può togliere il sole all’ampia
foresta che ascende ardua le spalle della montagna. Anzi di qui a lui
sorgeva una consolazione degna dell’anima sua austera e
gentile; che, ricordandosi com’egli avesse severamente trattato
altrui, sebbene con intenzione retta e bontà di ragioni, il
vedersi ora trattato severamente da altri, gli sarà parso una
desiderabile espiazione.
Il
germe della sua malattia covava da anni. Il Rosmini era nato
fortemente sano, e sentì da’ primi anni la pienezza così
della corporea come della spirituale vita, potenti tanto più
quanto meglio dalla virtù mantenute in armonia pacatamente
operosa. Ma gli studi intensi, continuati nelle ore della digestione
e del diporto, e insinuati alle vacue occupazioni del convivere
sociale inevitabili a ricco buono in paese piccolo, cominciarono a
logorargli la vita. Fin dal 1827 pativa di fegato pel quale temeva
già gl’induramenti il Dottore Ramondini, vecchio medico
reputato che aveva conosciuto il Marmontel e altri uomini allora
chiari; pativa di stomaco tanto da vedere vicina la morte, e
scriveva: chi sa che Dio non abbia destinato che il tutto si
faccia senza di me? Queste parole nella rassegnazione palesano un
concetto formato già, e altri indizi anteriori ne dimostrano i
germi: come quando nel 1820 raccomanda agli amici stare forti e
sicuri nella virtù e ne’ grandi propositi; quando
nel 1819 stringe una società alla difesa della religione, e
del poco effetto accagiona il proprio orgoglio; quando dell’età
di diciassett’anni scrive per conciliare due fratelli tra sè
discordi e litiganti, che non satollino gli avvocati, i giudici,
gli uscieri, i birri, e chi più schifoso animale è fra
quelle bestie; quando poco dopo scriveva a un cugino queste
parole pregne di presentimenti, e che segnano il suo destino: «Ah
non t’affidar mai di far gran cose da te, ma molto meno dove i
nemici esterni congiurano con gl’interni alla nostra rovina. E’
grave schifarlo, e S. Paolo il piangeva specialmente in quel
bellissimo tratto che egli chiude con dire: infelice me, chi mi
libererà da questo corpo di morte? Ora che avremo da dire
noi altri? O caro, chi sa? chi sa?... in un mio sonetto ho scritto, e
forse a questa adatto, questi tre versi (parlo al Signore):
Sì, già la
pietra ch’ogni uom tiene inetta
Ad
ogni lavorio, lustra e polita
Fu del tuo tempio per
colonna eletta.
«Iddio
ha scelto i men dotti secondo il mondo per confondere i dotti, ha
scelto i più vili e spregevoli secondo il mondo e ciò
che era un niente, per distruggere ciò che vi era di più
grande, affinchè niuno si glorî innanzi a lui? Ma
dove trascorro io inavvedutamente? Torno tosto a noi». Qui lo
vedi che s’affaccia all’avvenire, e si ritrae sbigottito
del tempo, e dell’eterno, e di sè
. . . . . . . . magnum
si pectore possit
Excussisse deum . . . .
. . .
In
questa lotta coll’Angelo suo pareva a lui che il suo cuore
fosse freddo e spento, l’intelletto restìo
e tardo, l’animo piccolo e neghittoso.
Questo doppio sentimento d’umiltà e di grandezza
apparisce in un suo libro scritto dell’età d’anni
sedici, sul fare di quel di Boezio: dove intende studiare la
legislazione ch’è porta nel cuore, e raccogliere
il bello e il nuovo delle cose pensate, assoggettando fin
d’allora alla Chiesa i suoi pensamenti, pronto a rivocare
tutto quello in che per ignoranza fallasse; e ivi ingiunge a
sè stesso di far tacere lo spirito della vanità,
e ridice i noti versi di Dante sulla futilità della fama.
Ma
per ritornare al vensette e alla sua malattia, con la temperanza de’
cibi (i prescelti, a lui, polenta e patate), temperante in ogni altro
fuorchè nello studio, si condusse ventotto anni ancora, non
senza il quasi quotidiano travaglio di digestioni gravi e dolori al
fegato, significati non con parole, ma con cenni che precorrevano la
sua volontà. Lotta tanto più dura quanto più
robusta la tempra che resisteva alla lenta dissoluzione, e doveva
rendergli palpitante di terribile vitalità la stessa agonia.
Otto dì innanzi la morte, che i medici l’avevano già
da più di tre settimane spedito, io lo visitai che i suoi già
ne vedevano d’ora in ora la fine; e agli atti e al viso e alla
voce presentivo che durerebbe a penare tuttavia. E la mente,
scegliendo quasi tra gli organi del corpo i più docili a sè,
fino all’ultimo se ne serviva a’ suoi nobili usi, e
combatteva colla morte alla qual pure era pronto. Della stessa sua
malattia ragionava fisiologicamente da filosofo, e quasi celiando, ma
con profondo senso, diceva che nel dolore del corpo egli sentiva due
e fin tre uomini in sè; fra le altre cose intendendo forse che
i varî, come li chiaman, sistemi i quali anco in sanità
hanno attività differente, e, se ci badassimo, ci darebbero
forse sentimento distinto di sè ciascheduno, in malattia si
dispaiano, e mentre che l’uno già si dissolve, l’altro
è tuttavia pien di vita. Intendeva fors’anco che un alto
vero adombravasi nell’antica distinzione della vita vegetativa,
sensitiva, razionale; e che sebbene nell’uomo gli antichi le
dicessero raccolte in una, in certi stati le si discernono come nel
raggio i colori. Domandava taluno come fosse che quel cervello uso a
lavoro tanto intenso non infermasse esso, e la morte preoccupasse
organi men nobili, meno faticosamente esercitati: ma appunto il
cervello assorbendo l’operosità della vita faceva altri
organi men validi all’uffizio loro, che pur doveva essere forte
assai da ministrare alle virtù cerebrali: ed è legge
della materia e dello spirito, del viver morale e del civile, che
l’infermità venga dall’attività
soverchiante dell’una potenza, non perchè questa sia
attiva, ma perchè toglie alle altre potenze la debita
attività.
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