XLIV.
Meglio
che nel ritratto parlante fattone dall’Hayez (e non è a
caso che un pittore veneziano lo facesse a richiesta del figliastro
d’Alessandro Manzoni), nel gesso della maschera ravvisansi i
lineamenti di Dante, dall’età e dalla malattia fatti
quasi da scalpello più rilevati, siccome il ritratto di
recente scoperto di Dante giovane lo mostra somigliante alla
giovanile fisonomia del Rosmini: dacchè fu già notata
dall’Edwars la fisiologica omogeneità della razza veneta
con l’etrusca, delle quali questi due sono come tipi ideali.
Forse nel Rosmini la fronte più alta e spaziosa e serena, come
più affabile la rallegratura del viso, e l’aria più
cordiale. L’occhio suo miope, fino agli estremi era chiaro: ma
il contrarre delle sopracciglia e delle labbra e della fronte
nell’intenso pensiero scolpivano esso pensiero quasi in marmo
cedevole, e pur saldo e lucente; e il sorriso socchiuso e arguto
temperava la dignità che a momenti aveva non so che di
terribile, faceva la mestizia più tenera e sapiente. E il
volto e la persona brillava d’esultazione a ogni raggio del
vero, come quella statua che al primo sole metteva armonie. Armoniche
le proporzioni di tutta la persona, senonchè forse alla
mezzana statura sopraeccedenti un po’ quelle del capo, per gli
organi del pensiero naturalmente più capaci, e poi di continuo
esercitati. Agili nella gravità i movimenti, sebbene e’
sdegnasse fanciullo apprendere il ballo, e inducesse il fratello
altresì a rimandare il maestro stanco, e anche un po’
canzonato: dacchè l’istinto della celia era in lui, nè
la virtù potè altro che indirizzarlo a bene e sovente,
piuttosto che spegnerlo, temperarlo. Pronti e acuti in lui tutti i
sensi: l’odorato potente di finezza gli apportava in un
giardino di fiori delizie ignote fino alla delicatezza delle più
tra le donne, ma ne lo gastigava poi con l’incomodo d’ogni
alito men che grato, insensibile ad altri. E così l’orecchio
s’inebbriava non solo di musica eletta, ma eziandio di
pronunzia sonante e pura. Sovranamente notò l’Aquinate
che gli uomini di più fino intelletto hanno il tatto più
fino; e ognun sa che a tatto riduconsi tutti i sensi.
Commozioni
erano, non agitazioni, le sue, sì nella gioia e sì nel
dolore; intellettuali i diletti, cordiali i pensamenti, serene le
dispiacenze, le allegrezze raccolte, meditato l’istinto del
bello, l’amore della verità ispirato, elegante. Quel
ch’egli nel libro Della Coscienza dice contrapponendo
alla passione e al suo latrato la ragione e il soave suo
canto, lo avverò nella vita, e la natura, non pur modello
ma specchio dell’uomo e simbolo pregno di presentimenti non
solo alla fede e all’affetto ma alla ragione e alla scienza, la
natura volle questo adombrato nella stessa sua morte; che ai gemiti
dell’agonia rispondeva un russignuolo dal vicino giardino, e
restati i gemiti, il canto si tacque. E veramente, com’io fin
dal principio del troppo lungo mio dire accennavo, la vita di
quest’uomo è riuscita un concento in cui la melodia
spontanea soprannuota (mi sia lecito il modo) alla profonda armonia.
Egli che per autorità filosofica citava insieme con frate
Rogero Bacone e con papa Silvestro II Leonardo da Vinci; egli che nel
libro scritto di sedici anni rammentava con memoria pura la nota
storia di Zeusi e raccomandando a sè la purità e
l’ornamento della favella, recava gli esempi di Paolo e di
Girolamo; egli che giovanetto dalla impressione del dramma tragico
era eccitato a orare in teatro a Dio, e maturo affermava che i
romanzi inondanti da più d’un secolo giovarono a far
pullulare la vena dell’affetto inaridito dalla sofistica e
dalla scienza della materia; egli che nella capace anima trovava
luogo al Winkelman insieme ed al Kempis, ai sermoni d’Orazio e
ai sermoni del Grisostomo (accordandosi meco nello stimarlo la voce
più eloquente del genere umano, perchè più
universale il concetto, più piena la verità, lo zelo
più puro da sdegni, più libero da passione l’affetto
nella sua veemenza, meno cercati gli artifizî nel pieno
dell’arte, più copiosa senza ridondanza la vena); egli
doveva portare la sua vocazione e la storia dell’anima sua
scritta quasi in caratteri abbreviati ne’ nomi che sul fonte
del suo battesimo gl’imposero i suoi genitori. Antonio, che
guarda ad Oriente e insieme a Occidente, al medio evo e alle prime
età della Chiesa, cioè al sorgere d’un gran sole
e all’apparire di un’alba novella dopo lunga notte con
fredda tempesta; nome che rammenta la solitudine della contemplazione
e la frequenza della civiltà procellosa, un silenzio eloquente
e un’eloquenza feconda di mutazioni, la poesia della natura e
il mirabile della fede, un primo istitutore di nuova società
religiosa e un primo discepolo d’altra nuova società,
non meno famoso e venerato da’ popoli che il fondatore di
quella. Francesco era l’altro nome imposto al Rosmini, il nome
del fondatore di quest’altra Società, spregiatore umile
delle ricchezze paterne, contemplante cantore, mendicante laborioso,
predicatore cittadino, innamorato delle bellezze della povertà
creatrice e delle bellezze di tutte le creature di Dio, repubblicano
di fatti. Altri due nomi portava, Carlo e Ambrogio, i due padri di
quella Chiesa di Milano nel cui seno l’anima di lui crebbe e
fermò il suo destino; Carlo povero anch’egli nelle
ricchezze, prete semplice sotto la porpora, maestro de’
poveretti, vescovo cittadino, amante dell’arti: ma egli abusò
delle arti belle innalzando in una chiesa un monumento a suo zio
Gian-Giacomo de’ Medici, l’astuto mercante di guerra, il
prode aguzzino di Carlo V, il vituperoso espugnatore di Siena.
Ambrogio, il sacerdote castigatore de’ re, il mansueto animoso,
il censore potente per teneri affetti, il fratello piissimo, lo
scrittore fiorente d’imagini verginali, dal cui ingegno la fede
germina come pianta novella irrorata e raggiata da cieli amici,
l’autore degl’inni e d’un rito patrio, che si
denomina da lui e c’insegna come la bella varietà delle
tradizioni congiungasi a vivace unità. Davide da ultimo aveva
nome il Rosmini che sì addentro vide e sì altamente
esultò nella parola del perseguitato da’ principi e del
principe umiliato; egli che scopriva convenienze segrete ma vere tra
quattro spiriti in apparenza diversi, Davide, Giovanni apostolo,
Agostino e il Petrarca. E anche questo aveva a essere nome antico in
famiglia; giacchè nel Veneto segnatamente, o per le
comunicazioni più continuate coll’Oriente o per la
stessa antichità della stirpe e per la natura del patriziato
tenace nelle tradizioni, i nomi e le memorie della vecchia legge si
sono più osservate; onde Venezia edificò chiese non
solo agli angeli Michele e Raffaello, ma a Zaccaria, a Daniele, ad
Isaia, a Geremia, a Samuele, a Giobbe, a Mosè.
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