XLV.
Soleva
il Rosmini giovane ripetere l’affettuoso prego d’Ippolito
Pindemonte: che
la tomba dell’un l’altro non vegga.
E a me era serbato vedere la sua. L’augurio che giovane egli
faceva, che un lembo
d’Italia ci
chiudesse ambedue, in altro luogo da quel ch’egli segnava dovrà
forse avverarsi. E adesso io ritorno agli auguri che di lui,
sacerdote novello, facevo, e mi commove di consolazione mestissima il
vederli tanto soprabbondantemente avverati13: «Sunt
nempe quidam a natura ita facti ut necessario nescio quo impetu,
tanquam ignis in altum, ad virtutis gloriae cupiditatem rapiantur.
Vis animi magnitudo vit acque splendor et constantia, et in negotiis
capessendis alacritas, in persequendis prudentia, in perficiundis
decor quidam atque majestas ita familiares atque insitae sunt, ut non
alta atque ardua cogitare, sed humilia et abiecta, unum hoc difficile
illis ac paene incredibile videatur . . . . . . . Virtutes vero tuae
tales sunt ac tantae ut non ad brevem hominum famam sed ad memoriam
saeculorum sempiternam natum te esse arbitrere . . . . . . Triplex
tibi officiorum ordo ob oculos ponitur: Religio defendenda atque
ornanda, philosaphia excolenda, juvenum ingenia hortatu, amore,
quaque es, gratia incitanda. Nil tibi de religione religiosissimo
dicam: de philosophia tamen pauca. Optime quidem asperulis hisce
disciplinis animum quum appelleres, litterarum eas humanitate et
lepore hilaritatas esse voluisti. Inamabilis enim, atque ideo ad
hominum coetus, quibus philosophia potissimum inservire debet,
inutilis, ne dicam etiam (rerum non recte intellectarum abusione)
perniciosa scientia est, nisi humaniorum litterarum spiritu animetur,
ornamentis comatur, mollitudine juvenescat». E finiva; e,
grazie a Dio, s’è avverato anche questo . . . «Meque
non animi dolore, non fortunae casibus, non locorum longinquitate a
tui amore divulsum iri arbitrere».
Nè
ci ha divisi la morte: io l’ho più prossimo, più
assiduo, più intimo a me; che mi dice parole di dolcezza
inesauribile e di severità più attraente d’ogni
umana lusinga. Dopo il 1827 per meno di un’ora lo vidi nel 1831
a Firenze; poco più d’un’ora a Stresa nel marzo,
nel giugno minuti. Che se la memoria, trasvolando tanti anni, me ne
riporta quasi rami fiorenti di regione lontana, tanti ricordi che il
tempo ravviva e ingemma di lagrime; come posso io non desiderare che
i suoi colloquii mi fossero conceduti quando sarei stato un po’
più in grado di riceverne profitto e più attento a
farne tesoro per averne finem animo (lo dirò col
potente verso di Persio, di quei versi che sono una diretta
ispirazione di Dio, e che, illustrati dall’esperienza, non si
ripensano senza uno strazio confortatore):
Finem animo miserisque
viatica canis.
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