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Niccolò Tommaseo
Antonio Rosmini

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  • II.
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II.

 

Una singolare consonanza della vita del Rosmini con quella di Dante, e che aiuta ad intendere come il Manzoni sentisse sotto a quel suolo di scienza gorgogliare le acque vive della poesia cioè dell’affetto, si è che il Rosmini provò, come l’Allighieri, dell’età circa di novanni l’amore, il che gli è giovato a indovinare senza pericoli e senza dolori certi segreti dell’anima che non si colgono per mera osservazione priva d’ogni esperienza, giacchè l’osservazione stessa per condurre ad un termine deve da qualche esperienza essere illuminata. E così gli anni suoi giovanili, non che gli anni maturi, gli furono sgombri da quelle nuvole di passione che, gaiamente colorate qua e , nondimeno tolgono della piena distesa serenità della mente. Egli prese per tempo non solamente ad amare il verso di Dante, ma a penetrare nelle dottrine di lui, delle quali tanti suoi lodatori d’allora vissero e morirono digiuni, declamando intorno a quel poema e inzeppandone i modi in rima e in prosa senza intenderne il vero significato. Lo intendeva il Rosmini giovinetto, perchè già erudito nel linguaggio delle antiche scuole e de’ Padri; e non solo i filosofi e religiosi concetti ne comprendeva, ma i civili altresì; e scrisse allora ragionamenti ne’ quali comentare il poema col libro della Monarchia e con gli altri di Dante; cosa per quel tempo nuova. Ammirava egli il verso di Dante; e a me, assorto ne’ grandi Latini, ne raccomandava lo studio, non già con aridi o superbi o importuni consigli, da’ quali e nelle lettere e nella vita per modestia e per senno s’asteneva; ma leggendomene qualche tratto con voce che gli usciva dal petto profondo, quella voce contemperata di forza e di soavità, la quale egli conservò, come l’anima giovane e vergine, per infino a’ giorni dell’estrema agonia. E quand’egli, già rifinito di vita e già col pensiero al di della terra stendendo al mio collo le braccia, e interrogandomi della salute mia più sollecito di me che di se stesso, profferiva parole d’affetto semplici e non dimenticabili mai; nella voce del morente io sentivo la voce che trentasette anni fa mi diceva:

Tu lascerai ogni cosa diletta

Più caramente; e questo è quello strale

Che l’arco dell’esilio pria saetta.

a quel vaticinio pensavo io quando nel 1835 lo rifacevo a me stesso ne’ versi scritti da me in valle d’Arno:

Fia mercè d’un pio consiglio,

D’un gentil ardir fia pena

La franchigia dell’esilio

O l’onor della catena.

Forse un giorno andrai mendico

Senza ingegno e senza amico

. . . . . . . . . . . . . . . . . . .  . . . .

Il Petrarca egli amava; e me ne leggeva non sole le rime di ravvedimento, e quella parte del Trionfo d’Amore ch’è dei Trionfi una delle più felici e ne descrive le ambascie e gl’inganni, ma delle rime d’amore stesse, sciegliendone le più pure, tra le pure, e tra le artifiziate le più schiette e più delicate. E, andato in Arquà come a pellegrinaggio non d’accademico o di viaggiatore, ci scrisse un sonetto il cui verso ultimo che dice: S’io fossi vissuto vivente te:

 

Vien, detto avresti, ch’io ti stringa al seno;

 

ritraeva la famigliarità che collega insieme le anime gentili divise da’ mari e da’ secoli; e prenunziava la famigliarità che doveva poi stringerlo al Poeta che con più puro e ispirato cantico dell’amatore di Laura cantò Maria. E mi ricordo un giorno quando in Milano, ridicendo io i versinuovi d’alta semplicità

 

La mira Madre in poveri

Panni il figliuol compose,

E nell’umil presepio

Soavemente il pose,

E l’adorò, beata;

 

il Rosmini preso da subito commovimento, per celarlo come le anime forti fanno degli affetti modesti, mi si tolse d’innanzi e uscì in altra stanza. E tali impeti di esultazione sacra nel Bello e nel Vero, gli erano non infrequenti; e anco nel cospetto de’ suoi più cari se ne conteneva. Più volte messosi a leggere in quell’età e meditare il Vangelo di Giovanni, l’Apostolo della carità, del quale cominciò più tardi il commento rimasto incompiuto, più volte dovette smettere dalla troppa commozione dell’anima. Non è maraviglia se, conscio degli estri del cuore, e’ sapesse indovinarli in altrui, e paresse naturale a lui quel che ad altri pareva strano, e nella stranezza stessa discernere l’istinto del vero e del bello. Narravano le gazzette del ventuno le ore ultime di Napoleone in Sant’Elena, e que’ particolari ci leggeva un giovane buono al modo che avrebbe letta una lista di promozioni a gradi di Accademico o di Caporale. Io fremente di quella freddezza, dato un picchio sul tavolino esco senza far motto; il giovane buono si volge attonito al Rosmini. Egli sorride e lo lascia seguitare; egli che sapeva me non adoratore di Napoleone, e non l’adorava egli stesso; ma intendeva e la mia impazienza e anche la freddezza del giovane buono.

Fra i versi che scrisse è un’epistola a me, dov’egli, tanto incomparabilmente maggiore per tanti rispetti, si raccomandava quasi all’affezione mia non per altro che guadagnarmi all’affetto del bene:

 

Non somme cose. — Ma se aperto al Bello,

Se sensitivo all’opre di virtute,

Dell’amabil virtù, ti basta un cuore;

Credi, anco a me nel tenue petto il mise

Dio non mendace;

 

dove è meglio che imitato, ricompiuto di verità quel d’Orazio: Spiritum Graiæ tenuem Camœenæ Parca non mendax dedit; senza soggiungervi et malignum spernere vulgus; ricopiato e fatto ancor più pagano e incivile in quel di Labindo Disprezzar la vile turba maligna1:

 

Ancora in mente il serbo: io ti promisi

O dell’anima mia diletto e speme

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

E ’l tempo è già. La Padovana state

Che quasi piombo mi premeva, ormai

Cangiata ho co’ più miti ilari giorni

Roveretani, e colla sciolta villa

La città che di cure avvinchia. Il core

Qui si rallarga, e me medesimo chiamo

Più volte al beato, o sia che l’ore

Del mattin rugiadoso insiem col rozzo

Agricoltore e col vivace augello,

Desto dal sonno lievemente, io fuori

Me n’esca al campo, e libero vagando

Pel largo verde, senza norma a questo

O a quell’oggetto di natura io volga,

A cui pensosa Maraviglia e puro

Piacer mi chiami: o già commosso e pieno

D’un sacro ardor, che in me la sparsa in tutta

L’ampia natura, Sapienza, infuse,

Soletto io torni, infervorando il Sole,

Pel più fresco sentiero . . . . . . . .

O sia che io sieda a dolce mensa, lieta

Non di pruriginosi estranei cibi,

Ma di congiunti che d’un cor son tutti

E di rari non compri amici illustri,

Onde al colloquio famigliar si mescano

Gravi parlari e saggi detti, e parco

Tutto condisca amabilmente il sale:

O finalmente allor ch’il Sole obliquo

La costa oriental sol mezza inaura,

Spente del piano ormai le accese tinte,

Anche allora il cor mio fine non trova

Di beato chiamarmi. Ecco mi cinge

Drappel di fidi amici, e insiem m’adducono

Per erma parte al vespertin passeggio.

Si ragiona e contende in sulle lette

Fra ’l varie dottrine.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Che non il vago della conscia luna

Lucente globo al sommo giunto in Cielo

Già, pria che sciolto il gruppo amico, ognuno

Alcun po’ lasso del piacer, non sazio

Delle dolcezze, in suo quieto albergo

Pur ricolga . . . . . . . . .

. . . La vita mia tranquilla scorre

Qual zeffiretto che sul fior trapassi:

Acre d’auro pensier non la intristisce,

il sospetto . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

ovunque serïosa l’accompagna

Con verga in man di disciplina. Or dunque

Chi vieta a’ moti, irregolari è vero,

Ma non men saggi, della mente, il varco

In proni carmi aprir, che scendon facili

Dall’animo sereno? E’ sembra, amico.

Sappi però che curïoso ingegno

A me scherzosa fe’ Natura. A tutto

Pronto e’ mi s’offre; e poi dov’io l’invito,

Vien meno, e volge meno ov’io lo sprono,

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

. . . . . . Or poi che incauto a caso

Ti scoversi mia mente e a me detrassi,

Forz’è, che un po’, ma sol col ver, m’aggiunga.

Tu non darmi alla mente un cor simile:

La Natura, se toglie, anco compensa.

Non somme cose.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

E quando la Canicola già bolle

Amo ombre e gelidacque . . .

Del bruno agricoltor spossato e molle

Vera compassion mi tocca, cui

La messe aleggia e ’l colmo Autun vicino,

Mercè di cui nel verno avaro immemore

Al domestico foco ei favoleggia

Colla nutrita famigliuola allegra.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Se dura pelle il cuor mi vesta o viva

Carne il circondi, e dentro e fuori il tessa

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Se poi sostieni che di te guardingo,

Poco favelli, oh! dubbio il volto e mesti

Alquanto gli occhi, e taciturno il labbro

No non terresti ove mirarmi in fondo

Dato ti fosse e di contra quante ore

Dolci cancelli a me furtivo il senso

Dell’odiata lontananza. Or teco

Più rido scherzo, e non ragiono

Di Lei che agli occhi de’ mortai dischiude

Gli eterni semi delle cose e i primi

Inconcussi elementi; e te non miro

Immoto, o che tu m’esca in l’alta mente

Le idee divine, o sia che alcun de’ molti

Genìi latini ti discenda in petto.

Oh quanti il core uman, quanti mai sempre

Nel più ridente d’esta aerea vita

Nel contristan quaggiù vermi nascosti!

Ma allor che ’n Cielo io miro, ivi m’acqueto.

 

Poichè gli eventi de’ mortali ignari

Legge occulta d’amor tempra e corregge;

Non fu certo per sciocco o rio destino

Che dalla patria dalmatina spiaggia

Desti la proda verso Italia, e ’l vento

Affrettò ’l corso dell’antiche antenne.

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

Qual forse si prepara al bel paese.

Serie per te di gravi opre Romane,

O dell’Italia ormai figlio diletto!

Quai giorni a me, quali ore! A te quai sorti,

O vate amico. Questi campi e queste

Docili selve e questi monti e ’l piano

Sanno il tuo nome ormai; e l’aere intorno

Mesto ti chiama, oh quante volte al Sole!

Quante alla Luna! E la tua musa invoca.

Pur tu non l’odi, o non l’ascolti? Ah piega

La rigidezza del tuo core alfine;

Vola fra noi. Suolo vedrai sassoso,

Ma a nutrir molli cuori avvezzo; angusto,

Ma larghe menti a contener capace.

 

Scritto parmi nel Ciel, che questo estremo

Lembo d’Italia, non dissimil forse

All’alpestre tua terra, ambo ci chiuda.

Certo scolpito in mezzo al petto il porto.

 

 






p. -

1 Questi versi, nel 1819 scritti e stampati nel venti, documento dell’ingegno e dell’animo, non mi s’imputi a vanità riferirli, giacchè le lodi qui date a me, non son che speranze, e le speranze consigli, i quali suonano rimprovero a chi non le ha sapute avverare.





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