II.
Una
singolare consonanza della vita del Rosmini con quella di Dante, e
che aiuta ad intendere come il Manzoni sentisse sotto a quel suolo di
scienza gorgogliare le acque vive della poesia cioè
dell’affetto, si è che il Rosmini provò, come
l’Allighieri, dell’età circa di nov’anni
l’amore, il che gli è giovato a indovinare senza
pericoli e senza dolori certi segreti dell’anima che non si
colgono per mera osservazione priva d’ogni esperienza, giacchè
l’osservazione stessa per condurre ad un termine deve da
qualche esperienza essere illuminata. E così gli anni suoi
giovanili, non che gli anni maturi, gli furono sgombri da quelle
nuvole di passione che, gaiamente colorate qua e là, nondimeno
tolgono della piena distesa serenità della mente. Egli prese
per tempo non solamente ad amare il verso di Dante, ma a penetrare
nelle dottrine di lui, delle quali tanti suoi lodatori d’allora
vissero e morirono digiuni, declamando intorno a quel poema e
inzeppandone i modi in rima e in prosa senza intenderne il vero
significato. Lo intendeva il Rosmini giovinetto, perchè già
erudito nel linguaggio delle antiche scuole e de’ Padri; e non
solo i filosofi e religiosi concetti ne comprendeva, ma i civili
altresì; e scrisse allora ragionamenti ne’ quali
comentare il poema col libro della Monarchia e con gli altri di
Dante; cosa per quel tempo nuova. Ammirava egli il verso di Dante; e
a me, assorto ne’ grandi Latini, ne raccomandava lo studio, non
già con aridi o superbi o importuni consigli, da’ quali
e nelle lettere e nella vita per modestia e per senno s’asteneva;
ma leggendomene qualche tratto con voce che gli usciva dal petto
profondo, quella voce contemperata di forza e di soavità, la
quale egli conservò, come l’anima giovane e vergine, per
infino a’ giorni dell’estrema agonia. E quand’egli,
già rifinito di vita e già col pensiero al di là
della terra stendendo al mio collo le braccia, e interrogandomi della
salute mia più sollecito di me che di se stesso, profferiva
parole d’affetto semplici e non dimenticabili mai; nella voce
del morente io sentivo la voce che trentasette anni fa mi diceva:
Tu
lascerai ogni cosa diletta
Più
caramente; e questo è quello strale
Che
l’arco dell’esilio pria saetta.
Nè
a quel vaticinio pensavo io quando nel 1835 lo rifacevo a me stesso
ne’ versi scritti da me in valle d’Arno:
Fia
mercè d’un pio consiglio,
D’un
gentil ardir fia pena
La
franchigia dell’esilio
O
l’onor della catena.
Forse
un giorno andrai mendico
Senza
ingegno e senza amico
.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Il
Petrarca egli amava; e me ne leggeva non sole le rime di
ravvedimento, e quella parte del Trionfo d’Amore ch’è
dei Trionfi una delle più felici e ne descrive le ambascie e
gl’inganni, ma delle rime d’amore stesse, sciegliendone
le più pure, tra le pure, e tra le artifiziate le più
schiette e più delicate. E, andato in Arquà come a
pellegrinaggio non d’accademico o di viaggiatore, ci scrisse un
sonetto il cui verso ultimo che dice: S’io fossi vissuto
vivente te:
Vien,
detto avresti, ch’io ti stringa al seno;
ritraeva
la famigliarità che collega insieme le anime gentili divise
da’ mari e da’ secoli; e prenunziava la famigliarità
che doveva poi stringerlo al Poeta che con più puro e ispirato
cantico dell’amatore di Laura cantò Maria. E mi ricordo
un giorno quando in Milano, ridicendo io i versi sì nuovi
d’alta semplicità
La
mira Madre in poveri
Panni
il figliuol compose,
E
nell’umil presepio
Soavemente
il pose,
E
l’adorò, beata;
il Rosmini
preso da subito commovimento, per celarlo come le anime forti fanno
degli affetti modesti, mi si tolse d’innanzi e uscì in
altra stanza. E tali impeti di esultazione sacra nel Bello e nel
Vero, gli erano non infrequenti; e anco nel cospetto de’ suoi
più cari se ne conteneva. Più volte messosi a leggere
in quell’età e meditare il Vangelo di Giovanni,
l’Apostolo della carità, del quale cominciò più
tardi il commento rimasto incompiuto, più volte dovette
smettere dalla troppa commozione dell’anima. Non è
maraviglia se, conscio degli estri del cuore, e’ sapesse
indovinarli in altrui, e paresse naturale a lui quel che ad altri
pareva strano, e nella stranezza stessa discernere l’istinto
del vero e del bello. Narravano le gazzette del ventuno le ore ultime
di Napoleone in Sant’Elena, e que’ particolari ci leggeva
un giovane buono al modo che avrebbe letta una lista di promozioni a
gradi di Accademico o di Caporale. Io fremente di quella freddezza,
dato un picchio sul tavolino esco senza far motto; il giovane buono
si volge attonito al Rosmini. Egli sorride e lo lascia seguitare;
egli che sapeva me non adoratore di Napoleone, e non l’adorava
egli stesso; ma intendeva e la mia impazienza e anche la freddezza
del giovane buono.
Fra
i versi che scrisse è un’epistola a me, dov’egli,
tanto incomparabilmente maggiore per tanti rispetti, si raccomandava
quasi all’affezione mia non per altro che guadagnarmi
all’affetto del bene:
Non
somme cose. — Ma se aperto al Bello,
Se
sensitivo all’opre di virtute,
Dell’amabil
virtù, ti basta un cuore;
Credi,
anco a me nel tenue petto il mise
Dio
non mendace;
dove
è meglio che imitato, ricompiuto di verità quel
d’Orazio: Spiritum
Graiæ tenuem Camœenæ Parca non mendax dedit;
senza soggiungervi et
malignum spernere vulgus;
ricopiato e fatto ancor più pagano e incivile in quel di
Labindo Disprezzar
la vile
turba maligna1:
Ancora
in mente il serbo: io ti promisi
O
dell’anima mia diletto e speme
.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
E
’l tempo è già. La Padovana state
Che
quasi piombo mi premeva, ormai
Cangiata
ho co’ più miti ilari giorni
Roveretani,
e colla sciolta villa
La
città che di cure avvinchia. Il core
Qui
si rallarga, e me medesimo chiamo
Più
volte al dì beato, o sia che l’ore
Del
mattin rugiadoso insiem col rozzo
Agricoltore
e col vivace augello,
Desto
dal sonno lievemente, io fuori
Me
n’esca al campo, e libero vagando
Pel
largo verde, senza norma a questo
O
a quell’oggetto di natura io volga,
A
cui pensosa Maraviglia e puro
Piacer
mi chiami: o già commosso e pieno
D’un
sacro ardor, che in me la sparsa in tutta
L’ampia
natura, Sapienza, infuse,
Soletto
io torni, infervorando il Sole,
Pel
più fresco sentiero . . . . . . . .
O
sia che io sieda a dolce mensa, lieta
Non
di pruriginosi estranei cibi,
Ma
di congiunti che d’un cor son tutti
E
di rari non compri amici illustri,
Onde
al colloquio famigliar si mescano
Gravi
parlari e saggi detti, e parco
Tutto
condisca amabilmente il sale:
O
finalmente allor ch’il Sole obliquo
La
costa oriental sol mezza inaura,
Spente
del piano ormai le accese tinte,
Anche
allora il cor mio fine non trova
Di
beato chiamarmi. Ecco mi cinge
Drappel
di fidi amici, e insiem m’adducono
Per
erma parte al vespertin passeggio.
Si
ragiona e contende in sulle lette
Fra
’l dì varie dottrine.
.
. . . . . . . . . . . . . . . . . .
Che
non il vago della conscia luna
Lucente
globo al sommo giunto in Cielo
Già,
pria che sciolto il gruppo amico, ognuno
Alcun
po’ lasso del piacer, non sazio
Delle
dolcezze, in suo quieto albergo
Pur
ricolga . . . . . . . . .
.
. . La vita mia tranquilla scorre
Qual
zeffiretto che sul fior trapassi:
Acre
d’auro pensier non la intristisce,
Nè
il sospetto . . . . . . . . . . . . .
.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Nè
ovunque serïosa l’accompagna
Con
verga in man di disciplina. Or dunque
Chi
vieta a’ moti, irregolari è vero,
Ma
non men saggi, della mente, il varco
In
proni carmi aprir, che scendon facili
Dall’animo
sereno? E’ sembra, amico.
Sappi
però che curïoso ingegno
A
me scherzosa fe’ Natura. A tutto
Pronto
e’ mi s’offre; e poi dov’io l’invito,
Vien
meno, e volge meno ov’io lo sprono,
.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
.
. . . . . Or poi che incauto a caso
Ti
scoversi mia mente e a me detrassi,
Forz’è,
che un po’, ma sol col ver, m’aggiunga.
Tu
non darmi alla mente un cor simile:
La
Natura, se toglie, anco compensa.
Non
somme cose.
.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
E
quando la Canicola già bolle
Amo
ombre e gelid’acque . . .
Del
bruno agricoltor spossato e molle
Vera
compassion mi tocca, cui
La
messe aleggia e ’l colmo Autun vicino,
Mercè
di cui nel verno avaro immemore
Al
domestico foco ei favoleggia
Colla
nutrita famigliuola allegra.
.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Se
dura pelle il cuor mi vesta o viva
Carne
il circondi, e dentro e fuori il tessa
.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Se
poi sostieni che di te guardingo,
Poco
favelli, oh! dubbio il volto e mesti
Alquanto
gli occhi, e taciturno il labbro
No
non terresti ove mirarmi in fondo
Dato
ti fosse e di contra quante ore
Dolci
cancelli a me furtivo il senso
Dell’odiata
lontananza. Or teco
Più
nè rido nè scherzo, e non ragiono
Di
Lei che agli occhi de’ mortai dischiude
Gli
eterni semi delle cose e i primi
Inconcussi
elementi; e te non miro
Immoto,
o che tu m’esca in l’alta mente
Le
idee divine, o sia che alcun de’ molti
Genìi
latini ti discenda in petto.
Oh
quanti il core uman, quanti mai sempre
Nel
più ridente d’esta aerea vita
Nel
contristan quaggiù vermi nascosti!
Ma
allor che ’n Cielo io miro, ivi m’acqueto.
Poichè
gli eventi de’ mortali ignari
Legge
occulta d’amor tempra e corregge;
Non
fu certo per sciocco o rio destino
Che
dalla patria dalmatina spiaggia
Desti
la proda verso Italia, e ’l vento
Affrettò
’l corso dell’antiche antenne.
.
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Qual
forse si prepara al bel paese.
Serie
per te di gravi opre Romane,
O
dell’Italia ormai figlio diletto!
Quai
giorni a me, quali ore! A te quai sorti,
O
vate amico. Questi campi e queste
Docili
selve e questi monti e ’l piano
Sanno
il tuo nome ormai; e l’aere intorno
Mesto
ti chiama, oh quante volte al Sole!
Quante
alla Luna! E la tua musa invoca.
Pur
tu non l’odi, o non l’ascolti? Ah piega
La
rigidezza del tuo core alfine;
Vola
fra noi. Suolo vedrai sassoso,
Ma
a nutrir molli cuori avvezzo; angusto,
Ma
larghe menti a contener capace.
Scritto
parmi nel Ciel, che questo estremo
Lembo
d’Italia, non dissimil forse
All’alpestre
tua terra, ambo ci chiuda.
Certo
scolpito in mezzo al petto il porto.
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