V.
L’amore
delle eleganze italiane al Rosmini era stato ispirato e dalla felice
natura e dalla meditazione sapiente e dagli esempi di parecchi suoi
concittadini, e da’ colloquî del Cesari, che ogni anno da
Verona veniva a passare in Rovereto l’autunno, e conversare fra
gli altri col Pederzani il quale aveva avviato il Cesari stesso negli
studi della lingua, e fornite alla ristampa del Vocabolario assai
giunte. Il Pederzani, studioso di Dante ne interpretava alcuni passi
in modo nuovo e vero; delle quali piccole scoperte il Rosmini giovane
si rallegrava a quel vecchio stizzoso con umile condiscendenza, non
però sì che non sentisse esserci più importanti
scoperte da fare, e troppo il peso dato a quelle minuzie, e che non
gli pesassero i perpetui ragionari sopra la medesima materia, da’
quali or si schermiva destramente e ora li pativa con rassegnazione
virtuosa. Questo fu sempre mirabile in lui, sapere, per la carità
del prossimo, perdere il tempo, non si mostrare avaro di tanto tesoro
anche negli anni che più ne sentiva il pregio, e più lo
incalzava la vita fuggente e la foga delle sue grandi idee, e la
coscienza della propria missione. Non so se il convivere con gente
giovanile per indole e taluni affettatamente giovialoni per
imitazione de’ novellieri e de’ comici del trecento e del
cinquecento, facesse il Rosmini amante della facezia nelle giovanili
sue lettere e ne’ colloqui famigliari; o se piuttosto lo
disponesse a ciò la serenità della mente e la pace
dell’animo, e l’indulgenza pia verso i così
abituati, i quali egli non poteva trasportare di volo nelle altezze
del suo pensiero non respirabili ad essi. A credere questo piuttosto
che l’altro m’induce il vedere che fin negli anni maturi,
fin ne’ dolori della malattia sua mortale, fioriva sulle sua
labbra il sorriso a velare la mestizia, e la celia a ricoprire
qualche verità troppo austera, o fare accessibile qualche
avvertimento tropp’alto. E mi sovviene che, leggendogli io ne’
Promessi Sposi, non ancora usciti alla luce, il colloquio di
D. Abbondio con Federico e la sovrana comparazione del povero prete
spaurito dalla coscienza de’ doveri suoi che il suo Vescovo gli
ricordava, ad uccello ghermito e rapito in insolite altezze; il
Rosmini fece un cenno fra di sorriso e di brivido da dimostrare
com’egli entrasse ad un tempo e nella mente del Vescovo e nella
testa del pievano con senso misto di compiacenza e pietà.
Certo è che neanco nell’età meno esperta gli
uscirono mai di bocca celie sconvenienti, le quali egli in altri
riprendeva col silenzio, per tema che la parola paresse indiscreta o
immodesta. E nondimeno quella ilarità che a quando a quando mi
suonava ironia (chè la virtù e il senso prendono senza
volerlo sembiante d’ironia, appunto perchè si temperano
dagli eccessi, e la stessa temperanza aggiunge loro e finezza e
autorità), quel vederlo abbassarsi a trastulli quasi puerili,
senza intenderne il perchè, dispiaceva, confesso, alla
giovinezza mia più turbata che raccolta, più torba che
mesta.
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