XI.
L’autorità
del consiglio, e anco dell’ammonizione, gli veniva non solo
dalla virtù e dal senno maturi nell’età
giovanile, ma dalla condizione sua stessa di gentiluomo ricco in
paese piccolo, della quale egli però non ha mai abusato; e
questa direi una delle sue doti più preziose. A lui giovò
grandemente l’educazione tutta domestica a svolgere liberamente
l’ingegno fuor delle pastoie della scuola, fuor delle
corruzioni e de’ chiassi del collegio, fuor delle gelosie e
delle vanità che suscita il paragone fra condiscepoli inuguali
di fortuna e di pregi, fomentate da quella pericolosa emulazione con
che i maestri attizzano improvvidamente l’orgoglio e si fanno
un’arte e un debito di seminare la passione fra i triboli della
grammatica e le erbacce dell’umanità; fuori delle
puerilità che s’attaccano da ragazzo a ragazzo quasi
contagio pruriginoso. E ancora più gli giovò
l’educazione domestica a tenergli l’animo verecondo e
raccolto, a farlo amico de’ suoi maestri, a nutrirlo di quegli
affetti che gli serenarono tutta la vita facendolo capace d’amicizie
candide non meno che ardenti. La potenza dell’affezione era
tanto in lui più feconda quanto più contenuta dalla
virtù, e, quasi direi, meditata, e con gli apparecchi degli
anni primi, non meno del suo sapere, educata. E siccome egli fu dotto
perchè fin dal primo volle essere dotto per bene adempire gli
uffizi della vita; così fu vero amico, perchè fin dal
primo sentì l’amicizia come naturale istinto e come
morale necessità, la coltivò com’arte bella, come
difficile scienza e profonda.
Uscito
agli studi dell’Università di Padova ov’io lo
conobbi, diffuse su’ nuovi conoscenti che a lui ne paressero
non immeritevoli quella ricchezza d’affezioni domestiche, la
quale egli aveva raccolta in sua casa come uomo che risparmia
saviamente per generosamente poi spendere. Tuttochè preso
dall’amore degli studi, e rigido estimatore del prezzo del
tempo, e’ ne donava con gioia a’ colloqui amici, i quali,
massime se versassero in argomenti di filosofia, prolungava nella
notte tarda; e le obbiezioni accettava non solo con sofferenza ma con
diletto sì per lo zelo di comunicare ad altri la verità
posseduta, sì per il merito di pur provarsi di comunicarla
anche a chi gli appariva troppo lontano dal riceverla in sè o
poco idoneo a riceverla mai, sì perchè quelle dispute
vivacissime ma sempre pacifiche e gaie gli addestravano la parola e
la mente, lo raffermavano nei suoi principii o gl’insegnavano
come meglio dichiarare e temperare e ampliare (che talvolta si
temperano ampliando), e gli aprivano a nuovi prospetti d’idee
l’intelletto. Così i suoi diporti stessi e quei
perditempi che richiede la vita corporea e la sociale, erano a lui
meditazione continua; e l’affetto gli si smaltiva in idea.
Ma
questo affetto, quantunque tenesse della tenerezza materna, non era
mai scompagnato da un quasi paterno rigore; nè la tenerezza
gli toglieva mai il sentimento de’ difetti altrui, nè il
rigore lo faceva voglioso dell’importunamente correggerli, o nè
anco del freddamente ammonirne, ma, bastandogli di dar modestamente a
conoscere com’egli li conoscesse e non li approvasse, lasciava
al tacito esempio e al tempo e a Dio e alla creduta bontà
dell’amico l’agio e la libertà d’operare. Nè
io mai vidi in altr’uomo, credente o no, tolleranza più
vera perchè conciliata a benevolenza e a pietà
riverente, perchè conscia de’ danni del male e del
falso, e della bellezza del Vero, perchè fatta più
meritoria dall’ardente amore del buono, e dalla cura incessante
d’acquistarli e di diffonderli massime nelle anime che più
prossimamente egli amava.
I
quali la morte venne via via mietendo, non sì che non gliene
restassero de’ primi, e che altri fidati non gli si
aggiungessero via facendo, più atti forse a stimarlo, ma non
tutti abbracciati con quella pienezza d’affezione che stringe
le amicizie della prima giovinezza. E di quel vuoto fattosi intorno a
lui si doleva il Rosmini, sebbene rassegnato e avente fede nel
consorzio degli spiriti e nella immortalità dell’amore;
e la memoria de’ cari perduti coltivava come pianta ospitale
provvida d’ombre allo stanco viandante e di frutte odorate. Di
Maurizio Moschini, giovane buono che fu suo lettore e attendeva a
studi altri da’ suoi e incomparabilmente minori, conservò
ricordanza religiosa; e in versi lo pianse; e lo fa interlocutore di
suoi Dialoghi filosofici, ponendone, al modo che Agostino fa, il nome
senza il casato, per gentile modestia, e come d’uomo che a
tutti doveva essere noto siccome a lui. Ebbe amico tra gli altri
Giovanni Stefani, amico a me e come fratello, il quale da trent’anni
lontano dall’Italia, conservò e l’amicizia del
Rosmini e l’anima pura e il cuore Italiano, e Italiano il senso
del bello; e si rammaricava, ma non s’irritava, ch’egli,
lo Stefani, non desse frutti quali doveva d’ingegno; tanto
l’amicizia e la virtù lo facevano indulgente a’
difetti da’ quali più la sua natura aborriva. Gli fu
scrittore ed amico D. Paolo Orsi, anima mite e serena: e io credo che
il poter dettare a uomo con cui si consenta, e che del tuo pensiero
che mano mano si venga svolgendo congioisca col cuore insieme e
coll’intelligenza, gli sarà stato non pure alleviamento
di fatica, ma benefica ispirazione. Gli fu maestro ed amico il
fratello dell’altro, l’Ab. Pietro Orsi, acuto ingegno,
pensatore ornato di lettere, cuore schietto; al quale il Rosmini
dovette l’essere iniziato nelle dottrine tedesche con la scorta
del senno Italiano; e nella Introduzione alla Filosofia ne
ragiona con la gratitudine della quale mai le anime ricche non sono
avare. In Milano ebbe amico non così stretto, ma ammiratore
cordiale, tra gli altri, l’Ab. Polidori di Loreto, il cui
fratello fu condiscepolo e amico d’un mio zio in quel collegio,
ove andavano chierici di Dalmazia a educarsi; e io tra fogli di
famiglia ritrovai lettere d’esso mio zio latine davvero per
pensata eleganza, a questo Polidori che credo sia il Cardinale: ma
non me ne sono mai accertato. Così le tradizioni delle nazioni
varie e degli uomini lontani, delle lingue e delle sorti diverse, non
il caso ma una provvida legge le viene conciliando, intessendo: e gli
affetti e gli studi e le opere più differenti rinvengono nel
passato una radice comune, e una ragione di sè.
|