XII.
Siccome
un Vicentino fu che mi fece amare Virgilio in quel collegio di
Spalato ov’era stato scolaro Ugo Foscolo; un altro Vicentino,
amico d’un altro mio congiunto, doveva essermi occasione a
conoscere il Rosmini, il quale viste delle mie cosette latine, mi
venne primo a vedere: al che non m’avrebbe forse fornito
opportunità l’essere io condiscepolo seco di diritto
canonico, alla quale scuola convengono d’obbligo e chierici e
laici; diritto allora insegnato nelle Università dell’impero
austriaco con dottrine molto più audaci di quelle di cui Roma
oggidì si risente. Ma non aveva il Rosmini il bisogno
d’attingere da’ suoi professori la scienza e la
coscienza, e giudicava modestamente ma autorevolmente loro, che per
verità l’onoravano con amore: e vedeva me o mettere in
versi sdruccioli i sacri canoni o leggere l’Arte de’
Giardini, o quale altra cosa non mi rammento. E’ mi
consigliava fare del mio latino qualcosa di grande, I Fasti,
tra le altre, del Cristianesimo, soggetto proposto anche dal
buon Muratori, e che comporterebbe quanta mai ricchezza di poesia può
volersi. Nè egli intendeva che s’avessero a ricalcare le
orme d’Ovidio, giudicato da lui forse troppo severamente dietro
al giudizio del Vannetti; il quale in una sua lettera notava nel
troppo facile verseggiatore difetti di stile e di lingua, come se noi
sapessimo tutta davvero la lingua latina, come si possa sapere
davvero mai lingua morta o altra da quella che fin da’ primi
anni si ode parlare e si parla; come se in quelli stessi che adoriamo
per aurei non si riscontrino modi i quali, a non rammentare di chi
sono, da latinisti più consumati rigetterebbersi come barbari.
Ma il Rosmini intendeva svogliarmi d’Ovidio (ch’egli pure
aveva studiato) per più affezionarmi a Virgilio, anima ben più
compiuta. Se non che la fede ch’egli poneva nell’ingegno
mio, anzichè insuperbire, mi metteva con stupore vergogna:
perch’io avevo gli orgogli del giovane e quelli un po’
del selvaggio, forse la coscienza non ancor bene svolta del
cittadino; le borie del versificatore, e del letterato le vanità
non avevo.
Più
che dell’ingegno, prendeva egli cura paterna, ma senza
affettazione nessuna, dell’animo mio, e fin della salute
gracile; e, tornato ch’io fui nel medesimo albergo, faceva
forza per cedermi la sua stanza più sana e più allegra,
e esso salire in una mesta e angusta: ma io con gratitudine ricusai.
E quando terminati gli studi e rifuggendo dal mestiere d’avvocato,
col cuore già tutto all’Italia e alle lettere, io
abbandonai gli agi della casa paterna, e per cansare fin l’ombra
di querela, non che di raffaccio, dal padre dolente, rifiutai ogni
aiuto proffertomi e riproffertomi, e anche mandato; non mi pesò
d’accettare a cuore aperto e a fronte alta per undici mesi
ricca l’ospitalità del Rosmini: dalla quale poi mi
staccai non per tedio o per insofferenza dell’obbligazione, ma
perchè sentivo il debito che ciaschedun uomo provvegga potendo
a sè stesso, e s’educhi alla povertà come ad arte
bella e a regina delle arti, e si armi alla vita. Ben posso affermare
che in tutto quel tempo il degno uomo non solo adoprò il
proprio affetto ai servigi di scusabile, anzi santo zelo; ma lasciò
piena al mio ingegno e a’ portamenti la libertà, come
s’io il padrone della casa, egli l’ospite, io il più
maturo di senno, egli il men virtuoso. E anche quando i miei studi si
smarrivano in inutilità, quando l’animo mio trascorreva
in isdegni soverchio giovanili; egli tanto veggente, tanto ardente
del bene, tanto in diritto di consigliarlo e richiederlo, si
temperava dall’ammonizione, non che dal rimprovero; contento di
farmi avvertito de’ miei difetti o con silenzio non
imbronciato, o con una vereconda e sapiente parola. De’ quali
difetti e’ m’additava l’origine insieme e il
rimedio, raccomandandomi non più d’una volta e con atto
amorevole, ma tanto più memorando, raccomandandomi pazienza:
con che egli intendeva non solo il contenersi dall’ira ingiusta
e dalla indegnazione ancorchè ne’ sembianti generosa, ma
sostenere il tedio (più tremendo a certe anime del dolore), e
rattenersi dalla precipitazione.
Quand’io
mi risolsi di stare da me, egli se ne dimostrò, non offeso,
accorato; e non volle trovarsi alle dipartenze, e mi lasciò in
quella vece parole scritte, quali il cuore le detta. E sempre poi mi
rivide frequente con volto e animo uguali: tanto poco egli aveva da
mutare nelle mutate condizioni del convivere nostro. Un giorno —
siano concedute queste particolarità alla memoria del cuore —
un giorno io l’accompagnavo in fino alla porta di Casa
Castelbarco, credo suoi lontani congiunti abitata già da
quell’inclita Nice, il cui bel nome commuoveva di
strane smanie il Parini, flagellatore de’ magnanimi lombi:
ma Nice, matrona del resto ragguardevole, era già morta, nè
il Rosmini risicava di rincontrarci il prete mezzo Archiloco e mezzo
Anacreonte. Le anime nostre in quel punto consentivano in concento
più intimo dell’usato, come un bel cielo in certi
momenti ineffabili e rari apparisce quasi rivelato di nuova bellezza,
parte per la disposizione dell’occhio che lo riguarda e del
pensiero che in sè lo riflette, parte per un più vivo
vibrare dell’aria e de’ fluidi che la corrono, e parte
per una meglio conserta e graduata armonia di colori. Le ampie vie di
Milano, in quel modesto dilatarsi delle idee nel colloquio,
m’apparivano più ampie; i palagi più palagi, e la
luce dell’alto versarsi così amena sugli uguali
prospetti della città come nella libera scena d’acclive
e variata campagna. Sentivo che il suo cuore vedeva più
addentro e più lietamente nel mio, e la voce sommessa di lui
mi suonava più efficace che se fosse commossa, e nelle sue
parole era un affetto di confidenza e di uguaglianza spirituale, che
non si rende in parole; come se, entrando la porta del ricco e del
titolato, egli volesse lasciare la miglior parte di sè in
compagnia del giovane oscuro. E queste gioie io le avrei provate ben
più frequenti seco se l’indole altera, e la troppo
gelosa custodia di quella dignità ch’io tenevo come
l’arma del povero, e il ribrezzo d’ogni ombra di
piacenteria, non m’avessero fatto spesse volte aspro a lui, e
sollecito più di nascondergli che di significargli me stesso.
Onde l’indulgenza sua verso me da tutt’altro gli era
persuasa che da dolcezza d’essere lusingato; anzi era esercizio
continuo di virtù, aiutata forse dalla divinazione de’
miei segreti pensieri. Quando poi fummo divisi e di soggiorno e ne’
propositi della vita, egli quantunque non potesse in tutto approvare,
e non dovesse manifestare approvazione di tutte le opinioni mie e
della forma d’esprimerle, non si tenne che non rispondesse alle
mie lettere, fatte per mio riguardo più rare, e non mi si
dimostrasse benigno, salvo sempre le ragioni del suo stato e della
sua coscienza.
Una
prova di quella virtuosa divinazione che ho detto, mi sia lecito qui
recare: e il parlare di me, ognun vede del resto qui non essere
vanagloria. Aveva egli scritto e per mia sollecitazione stampato in
Milano un ragionamento di pensatore già maturo intorno
all’ordine della Provvidenza che regge le cose mondane;
argomento a’ dubbi di molti leggieri e deboli, a meditazioni
splendide e alti conforti di molti intelletti profondi; tra quali
quel sommo Leibnizio al cui fianco e’ doveva essere collocato
nel consesso de’ pochi grandi filosofi dell’intera
umanità. Gli si voltò contro D. Robustiano Gironi, uomo
livido, nella Biblioteca Italiana succeduto a quell’Acerbi
dalla cui venale tutela s’erano tolti ben presto i più
celebrati tra i fondatori di quel giornale che fu per lunghi anni
nemico d’ogni innocente novità e morditore d’Italiani
benemeriti; contro il quale Acerbi scrisse una lettera, che io
stamperò, Giovita Scalvini tiranneggiato da lui, lettera che,
salvo l’acerbità, pare a me delle prose italiane
migliori. Al Gironi io risposi, e con giovanile impazienza per fare
più presto portai alla Censura le due copie, o non mi rammento
se l’unica, dello scritto senza serbarne minuta. La censura che
allora con quel giornale era casa e bottega, non permise la stampa e
si tenne lo scritto: e fu sparsa voce, e rifischiato al Rosmini, che
io intendessi di scrivergli contro. Io non avevo difesa altra che la
sua conoscenza di me, e la mia coscienza: nè degnai di
scolparmi, nè mai poscia rivedendolo sentii necessità
di toccargliene, e nè anco mi venne al pensiero, che,
quand’ero seco, altre cose occupavano. S’egli al primo
udire non dico credesse ma sospettasse, non so; non lo diede però
a divedere: e sarebbe equanimità più mirabile. Non dirò
quanto cotesta atrocità mi ferisse: dirò che un quarto
di secolo dopo raccontandola per confortare chi pareva trovarsi in
caso simile, piansi. Un altro saggio della peggio che selvaggia
civiltà e della crudeltà squisita degli uomini
letterati mi toccò di lì a poco. Che, avend’io
osato un cenno sopra l’intendimento di certa tragedia che
commendava il suicidio com’atto d’eroi, l’autore,
fatto inviolabile e dal nome e dalla ricchezza e da amicizie potenti,
che nulla aveva a temere dalla noticina d’un giovane ignoto e
straniero e solo nel mondo, si querelò che io con essa lo
mettessi a pericolo di perdere una cattedra di cui l’odiatore
della tirannide riscuoteva fedelmente il salario senza averne
necessità e senza avere uditori; e ricorse all’autorità,
e pose in opera le brighe d’amici di Corte, e impetrò da
quella Censura ch’egli fingeva d’abbominare che il libro
fosse interdetto; e la Censura che lo aveva approvato ingiunse che a
tutti gli esemplari facessesi un carticino e la nota ribelle al nuovo
tiranno odiatore de’ tiranni fosse cancellata: ma quella
cancellatura appunto rimane in ben altro libro macchia ad essi
indelebile, macchia e punitrice.
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