XVI.
Il
Rosmini nutre tanta riverenza verso il senso comune e verso la
tradizione e l’autorità, che dall’uno e dall’altra
acquista forza e ne aggiunge; distingue col titolo di volgare appunto
la scienza di coloro che accolgono senza scelta e senza scelta
rigettano, che ad ogni ora gridano contro il pregiudizio, e sono di
pregiudizio inzuppati. All’autorità ed alla fede egli
vuole che la natura e la ragione vengano conciliate, anzi di queste
fa scala a quelle nella storia dell’uomo e di tutta l’umanità.
La scienza umana egli non può separare dalla religiosa, perchè
ne’ tempi più gloriosi alle nazioni e negli uomini delle
nazioni più benemeriti le si trovano naturalmente accoppiate,
e perchè la scienza non può esser civile, cioè
concordemente e stabilmente efficace sulle moltitudini, se religiosa
non sia. Ma la sua religione vuole nel filosofare libertà;
predica la conciliazione delle sentenze diverse; e nel commetterle
insieme in corpo vivente, non già nello sdraiarle l’una
lungo l’altra o nel prenderne alcuni squarci a caso o a
capriccio, fa consistere l’unità.
Con
questo intendimento egli tesse la storia della filosofia quasi la
vita d’un uomo; addita nelle dottrine i germi del vero
presentiti, e o cominciati a svolgere, o soffocati, e poi
ripullulanti, e mortificati da capo: addita i passi altresì
dell’errore, e fin le occasioni e gl’impulsi tenui
remotissimi. Con acuto avvedimento tiene di conto delle obbiezioni
che a dottrina fecero non gli avversari ma i seguaci suoi stessi, di
quelle che fece a sè medesimo l’autore, più o
meno consapevole; delle petizioni di principio e delle
contraddizioni: e la ripetizione è talvolta la maschera della
contraddizione. E quest’è vera storia perchè
ricerca la scienza nell’intimo della coscienza; e ci dà
la morale di questa gran favola, tra dramma e apologo, ch’è
l’umana filosofia. Ponendo, esso, le questioni nette, si aiuta
a riconoscere dove gli altri le abbiano non ben vedute, e perchè
non le abbiano bene sciolte; e va diritto al forte della questione
con quel coraggio ch’è ignoto alle teste superbe, le
quali fanno di tutto per dissimulare a sè stesse le
difficoltà; e per volerle scansare si sviano, per saltarle,
rovinano.
Ridico,
ed importa, che sì nel porre e sì nello sciorre la
questione, e’ si guarda dall’eccesso e dal difetto, che
sì sovente s’alternano nelle umane cose. Egli, critico
sì poderoso, riprende la critica intemperante; egli,
ingegno sì speculativo, riprende l’intemperante amore
della speculazione; egli che deplora la decadenza dell’arte
logica, decadenza inevitabile quando il senso morale comincia mancare
alla scienza; egli che apprezza tanto Aristotele in questo, e che
ragionandone dianzi meco attribuiva a lui l’invenzione
dell’arsenale logico tenendo che l’India da lui lo
togliesse (di che io dubito tuttavia), e assentiva a me che il
diverso fare filosofico dello Stagirita dal fare Italico e Greco
attribuivo alla diversità della razza da’ Greci avuta
per barbara; lo giudica senza ammirazione ligia nell’opera che
scrisse di lui e che aveva a essere un capitolo solo d’altr’opera,
ma poi, come avvenne più d’una volta, gli crebbe in un
volume da sè. Vuole del resto il Rosmini (e non mi pare che
Aristotele mai lo ponga così nettamente), che il metodo
filosofico tenga le vie che tiene in fin dal primo naturalmente la
mente dell’uomo ne’ suoi svolgimenti. E anco qui ricorre
a’ bambini, i quali egli soleva fin da’ giovanili suoi
studi osservare lungamente, quasi libro di minuta scrittura e
abbreviata ma bella; e con l’anima interrogava i menomi atti
sfuggevoli e il profondo dell’anima loro, la indovinava con
divinatrice affezione di madre. Anzi raccontava egli stesso come de’
suoi primi pensamenti infantili, distintamente avvertiti, avesse
coscienza riflessa, e però rimembranza. Dalle prime
impressioni dell’infante inconscio di sè, dalle sue
prime espressioni del sentimento indeterminato, anzi dell’istinto,
al complesso e al viluppo delle idee e passioni dell’uomo
maturo consumato nel bene o nel male; dal grido della bestia al
sillogismo del filosofo; tutto egli voleva osservato, computato. De’
più tenui fatti voleva tenessesi conto; e le statistiche
raccomandava, e ne porgeva, ben meglio che il Gioia, le norme; e
rigettava le ipotesi mere, egli che poteva esserne sì fecondo
per pompa d’ingegno, egli non accetto a que’ positivi
la cui scienza del dubbio e della negazione è tutta una filza
d’ipotesi. La filosofia della quale egli intende far base a
tutte le scienze, s’inchina religiosamente non solo d’innanzi
a Dio ma d’innanzi all’atomo impercettibile nel quale è
un universo d’idee; e ben può dirsi di lei quello che
del poema suo dice Dante, che ci ha posto mano e cielo e terra.
Nel cogliere il bel mezzo della questione il Rosmini ne tocca, quasi
con le ale tese della mente, i due estremi; onde il pericolo che i
leggieri o i passionati staccando una sua proposizione dall’altra,
ci veggano contraddizione: ma le sono di quelle contraddizioni che
fanno apparire sì grande l’ingegno d’Agostino, che
fanno misteriosamente splendido il Cristianesimo, terribilmente
sublime l’umana natura. In questa forza del toccare i termini
del vero senza trascenderli, dell’accostarsi alle due opinioni
contrarie senza rasentarne gli eccessi, un solo ingegno io trovo
comparabile al Rosmini, e forse in ciò maggiore di lui,
l’ingegno d’un italiano, d’un frate (me ne
dispiace, ma io non posso sfratarlo, nè confiscargli la Somma
per aggiudicarne il valore come meglio a me piacerebbe): Tommaso
d’Aquino. Ma se nel frate lodato da Dante, e avvelenato,
dicono, dal re di Napoli perchè non andasse al Concilio, il
disegno della grande opera è con più previdenti
proporzioni ordinato; se in ciascuna particella è condensata
la dottrina per modo che ogni sentenza, ogni parola ha un valore suo
e pur consonante col tutto, egli dona e ne acquista una bellezza
matematica insieme e poetica che spaventa d’ammirazione il
pensiero; non darebbe troppo al Rosmini chi affermasse di lui che più
nuove cose egli aggiunse all’eredità della scienza; che,
trovando interrotto da recenti rovine il cammino di quella, gli si
richiedeva più forza di mente a spiccar voli arditi per
ricongiungerci al passato, e quindi con più foga rincorrere
nell’oscuro avvenire.
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