XXII.
Giudicava
se stesso più rettamente che molti tra i privilegiati di
autorità e d’ingegno non sogliono. Non si avvedere del
proprio ingegno e del sapere acquistato e del bene ch’egli
amava e operava non gli era certamente possibile: giacchè la
coscienza di quel che uno è e fa, è condizione di virtù
e di scienza e di non irragionevole vita: ma sentiva insieme, tanto
più vivamente quant’era più buono e più
grande, quello dove il suo ingegno era minore di tale o tal altro,
dove la sua virtù era minore dell’alta idea che ne aveva
egli stesso. Onde la sua stessa altezza lo difendeva dall’alterigia
vana; ed e’ soleva dire parergli impossibile la vanità.
E veramente chi mediti quel ch’è Dio e quel ch’è
l’uomo, quel poco che l’uomo sa e può e quel
moltissimo ch’egli desidera e deve, non può insuperbire
se non in momento di distrazione o di letargo o di spirituale
malattia che gli tolga il vero sentimento di sè. Non intendeva
il Rosmini che uomo non potesse appisolarsi o ammalare; intendeva
ch’e’ non potesse patire di superbia, desto e sano.
Ond’egli, avvertito, confessava l’innavvertenza commessa.
E nel correggere, parlando, l’altrui sbaglio, usava assai volte
delicatezza rara, mostrando di voler meglio dichiarare l’altrui
pensiero non bene significato, e dandone il merito a quello con tutta
sincerità: perchè spesso le cose che paiono
spropositate non sono che trascorsi di lingua o di penna. Esso però
ritrattava francamente le proprie opinioni, vista meglio la verità:
e così circa gli studi del magnetismo, pendeva da ultimo a
stimarli più fruttuosi, ancorchè non debitamente
avviati. La modestia de’ suoi portamenti e delle parole vinceva
quella che appare dagli scritti di lui, dove il senso profondo del
vero lo zelo del persuaderlo, e l’essere lui persuaso che
l’asseveranza del dire aggiunga autorità in quanto
attesta la fede e l’affetto intimo di chi scrive. lo trassero a
maniere talvolta un po’ risolute. Ma quella ch’io dicevo
abituale modestia della sua vita, dove l’affettazione e la
finzione son meno possibili che negli scritti, dimostra che quel
sentimento era indole in esso, e mi conferma nel credere che
negl’Italiani, al contrario d’altre nazioni, l’uomo
è sovente miglior dell’autore, l’animo più
ben fatto del libro. Era l’umiltà all’edifizio del
viver suo base e cima, sostegno e ornamento; e però congiunta
a decoro. Nè egli avrebbe imitate certe ingegnose stranezze di
quel Santo civilissimo e veramente fiorentino, ch’era Filippo
Neri; col quale del resto il Rosmini si conviene nell’amore
degli studi eleganti e nell’ardente e quasi tenero amore di
Dio, e nella piacevolezza de’ modi e nella cura del formare gli
animi giovanili a virtù ilare e disinvolta, e nell’intento
d’accomodare le istituzioni religiose e l’educazione alla
natura de’ tempi.
Egli
sentiva sì naturale il bisogno di quel che scrivendo disse
equilibrio della scienza con la virtù, che, avendogli
ne’ prim’anni un maestro date gran lodi e promessagli
fama, il giovanetto fu scontento che non gli si promettesse piuttosto
facoltà di giovare. Or veggasi se tale uomo potesse mai
mendicare le lodi degli uomini. Vero è che anco i grandi, anco
i buoni, in momenti di dubbio o di afflizione ricevono di buon grado
una parola di lode, come consiglio e conforto, come indizio del buono
effetto che produce in altrui la lor opera e la parola, come stimolo
a fare più e indirizzo a fare meglio, come testimonianza resa
non a loro ma a quel Bene e a quel Vero ch’eglin veggono
splendere sopra se anzi che in sè, come significazione
d’affetto: e però ne sentono gratitudine e verso Dio
autore del merito, e verso l’uomo che li ha giovati togliendoli
da un’incertezza la qual risicava di diventare orgogliosa più
dell’orgoglio stesso, e ritardarli o sviarli. Or la gratitudine
è di per sè cosa modesta; nè il superbo o il
vano la provano, che tengon debito a sè ogni onore e
vantaggio, e non riscuotono mai tanto da altrui, che non si figurino
tuttavia creditori. In questo rispetto il compiacersi della lode è
lecito e debito: ma gli spiriti alti e gentili s’avveggono alla
prima dove la lode pecchi d’eccesso, e se n’adontano più
che altri della lode manca; e quella accolgono come offesa fatta alla
verità, offesa fatta alla coscienza loro propria e alla
coscienza del lodatore mal capitato, il quale si mostra o credulo
giudice egli medesimo, o, ch’è peggio, perfidamente
credulo alla credulità del lodato, e par voglia tendergli
insidie puerili. Anco nella lode meritata, anco nella minore del
merito, può essere eccesso quando il lodatore non n’abbia
coscienza, quando non sappia trovare le parole appropriate, o le
smentisca con quegli atti della persona che la simulazione o la
dissimulazione non può nè comporre nè ascondere,
e che agl’intelligenti parlano assai più della stessa
parola. Non dico delle lodi triviali, delle goffe, delle sbadate,
delle superbamente dispensate come largizione o come elemosina, delle
fredde, delle affettate; di quelle che intendono esaltare l’uomo
per il difetto ch’egli ha appunto voluto evitare, e queste
ultime sono di quelle che mortificano più, perchè o
turbano il giudizio, o dimostrano che il giudizio altrui è
miseramente falsato, e imperfetta del bene, non che l’operazione,
l’idea. Lodi tali, se l’uomo buono le conosce insidiose,
le accoglie come lo spassionato e l’esperto osserva i vezzi di
donna galante che tenda a incalappiarlo, e si creda averlo inebbriato
delle sue moine, e non vede chi è il gabbato de’ due: se
poi in lodi tali il buono non ci conosce altro che inscienza del
conveniente e che grossa semplicità, le patisce con
rassegnazione tra cortese e distratta, e s’ingegna di pensare
ad altro, e non le interrompe per non le prolungare, aspettandone
finalmente la fine. Questo anche al Rosmini accadeva talvolta; ed era
sofferenza quello che a’ vani poteva parere vanità. Egli
soffriva anco i men sinceri, sebbene leggesse loro nel cuore; e
indovinava i non buoni, uso a studiare così l’animo come
l’ingegno ne’ lineamenti e nelle attitudini, pronto ad
accogliere il bene d’onde che gli venisse, e a discernerlo,
fatto accorto dalla propria esperienza; ma pronto altresì a
ripararsi dal male ch’egli conosceva e per l’istinto
provvido che i buoni n’hanno, e per lo studio fatto su i
movimenti delle azioni umane e sulle coscienze, e per l’esame
de’ suoi stessi difetti, de’ quali nessun uomo va senza,
e che sono i germi del vizio e del misfatto, siccome Socrate
confessava e il Cristianesimo divinamente chiarì.
I
motti frizzanti di ch’altri si sarebbe adontato, non
l’arricciavano punto. Quando in Rovereto il cugino suo Carlo,
lo storico, fu colto da un tocco che gli prenunziò la sua fine
di men che due anni dopo (giacchè le morti subite non sono
improvvise se non a chi tali le voglia), riavutosi lui un po’,
ma tuttavia con viso di morto, un tale o per pietà o per
cortesia o per adulazione o per sbadataggine o per tutte insieme
queste cose, si rallegrava della sua buona cera; ma lo Zamboni,
temendo che quel complimento mettesse il letterato in più
apprensione e non amando canzonature in momento così serio,
soggiunse di botto: chi dice il contrario? Del qual modo d’accordare
insieme la verità e la pietà si compiacque il Rosmini,
che pur poteva prenderlo come un atto d’irriverenza contro i
cugini nobili in genere, schizzinosi non meno de’ nobili Zii.
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