XXIII.
E
acciocchè questo non paia un panegirico d’imperatore o
un’orazione funebre di duchessa o di letterato, confesserò
ma non senza esitazione e pur per iscrupolo di sincerità che
faccia essere la lode più pura e più piena, confesserò
che difetto pareva a me nel Rosmini giovane il sospettare d’altrui
qualche rara volta, come sogliono i fortunati del mondo: del qual
moto primo che non era giudizio ma imitazione forse d’esempi
autorevoli, nè mai nuoceva all’esercizio del bene, egli
poi con potenza represse i minimi impulsi; tanto che pochi felici e
infelici, e virtuosi per abito, e per natura indulgenti, credo
offrissero prova di fiducia più veggente insieme e più
affettuosa. E confesserò che una volta nella prima gioventù
vedendo un suo concittadino di belle speranze non corrispondere alle
sue cure, preso da zelo inesperto, gli rammentò con modestia
qualcosa di quanto egli aveva fatto per esso, non per umiliarlo ma
per riscuoterlo, sentendo forse con chi avesse che fare, e
accomodando al temperamento il rimedio. E questo trascorso di zelo
perdonabile ad uomo sì severo in sè stesso, io non ne
so in tutta la vita sua che quest’unico esempio, il quale fa
tanto più notabile la sua temperanza di poi, quando la
cresciuta autorità poteva dargliene pretesto, e la virtù
farsi quasi tentatrice a sè stessa.
Ch’egli
dovesse in ciò temperare l’indole propria e la brama del
meglio, e l’amore del Vero chiaramente veduto, ce l’indica
una sua disputa giovanile, alquanto acre intorno alle opinioni di
Gian Domenico Romagnosi, le quali egli del resto non giudicava dietro
a induzioni lontane e a forzate interpretazioni, ma sì
mettendo accanto l’uno all’altro i luoghi che meno
ambiguamente contengono quelle idee, dall’affettata improprietà
e dalla inutile novità del linguaggio fatte a chi più
profonde e a chi più leggiere, a chi più rette e a chi
più torte che forse non fossero nella sua mente. Il Rosmini,
che amava le cose chiare, riducendo le idee altrui a quella chiarezza
che non avevano, pare talvolta a’ passionati o a’
pregiudicanti che voglia a bello studio svisarle facendole
spropositate. Ma egli che da un principio deduceva le conseguenze con
severità inesorabile a sè non meno che ad altri, e così
metteva alla prova le proprie dottrine e le altrui, vedendo in certe
proposizioni il germe d’errori funesti alla vita, dal germe
svolgeva la pianta, e pareva che alle intenzioni dell’autore
imputasse tutte le deduzioni possibili, alle quali se il povero uomo
poneva mente, ne avrebbe inorridito o riso egli stesso. Così
per istinto di rettitudine rigida e della mente e dell’animo,
egli applicava alle dispute filosofiche il principio del
possibile, l’applicava in maniera tremenda. E in gioventù
gli piacevano le esagerazioni, tra di predicatore e di retore, di
quel Rousseau in vesta talare che fu il Lamennais, ancorchè
non ne seguisse l’esempio, egli intelletto e cuore più
forte; e un giorno, dolendomi io di cotesta logica troppo fedele che
accagionava un errore di tutte le conseguenze deducibili da esso come
se fossero dall’autore premeditate, e che con infausto
vaticinio convertiva l’avvenire in presente e in passato, il
Rosmini levando gli occhi e la mano in atto d’additare
un’altura, rispose e’ si colloca lì...;
come dire: di lì vede tutta nella valle la via dell’errore,
e ne mostra i vicini e lontani pericoli. Ma altr’è
mostrare, come l’Italiano voleva, i pericoli d’una
opinione o d’un atto; altr’è accagionarne un sol
uomo come di bestemmie o misfatti consumati, a modo che il Bretone
faceva; punito memorabilmente del suo esagerare in un verso dalle
esagerazioni alle quali nel verso contrario fu poi strascinato, più
debole che pertinace, e nelle stesse mutazioni costante al vezzo e
all’indole propria. Lo conobbe il Rosmini in Italia, e al primo
colloquio presentì i divagamenti di quel prete infelice, e
dalle arti mondane di certuni assai più che dallo zelo austero
di certi altri irritato. Scrisse a lui privatamente, e poi per le
stampe, parole d’ammonizione che, conoscendo meglio e lui e le
cose, avrebbe o taciute o espresse altrimenti.
E
qui sia concessa al mio cuore una memoria di gratitudine e di pietà
riverente. Io conobbi in Firenze il Lamennais l’anno 1832,
quand’egli da’ principi schiettamente cattolici deducendo
le norme del vivere libero, e, contraddetto dai Gallicani, aizzati
per vero da lui con parole più incaute che maligne, per
disfarsi di loro si pensò di prendere il bordone di Pellegrino
e ire a Roma a provocare l’oracolo della S. Sede sopra
questioni che non eran di domma: e, interrogato da me che sperasse,
rispose: nulla; la qual parola mi fu augurio sinistro. Egli sperava
però per lo scrittore dell’Avenir parte almeno
della festosa accoglienza già fatta all’autore
dell’Essai sur l’indifférence: tant’era
nuovo degli uomini e di sè il prete letterato che aveva già
cinquant’anni. Andò, e non ebbe udienza dal Papa che a
patto non s’entrasse punto di quello perchè egli veniva.
Gregorio gli diede non so che cose sante, e lo rimandò pe’
fatti suoi, cioè a scrivere Les Affaires de Rome, e
quel di più che sapete. Quand’io giunsi in Parigi, il
Lamennais si profferse a procacciarmi utili conoscenze e a fornirmi
della sua poca mobilia, egli povero e devoto a sempre più
rigida povertà, una stanza da spendere meno. Non profittai nè
delle conoscenze nè de’ mobili; ma la profferta di
quell’illustre infelice, di quel valido traduttore di Dante, mi
starà nel cuore fin ch’io abbia memoria di me stesso. E
diviso poi d’opinioni, sempre l’amai; e, rivistolo nel
quarantotto, non gli nascosi (nè egli se ne adontò) il
desiderio di vederlo ricomposto nel seno di quella grande società
che gli aveva data già fama e pace.
Ma
il Rosmini era giovane ancora; e la sua virtù non ascesa a
quel punto di dove, nulla concedendo al falso e al male, imparasi non
pertanto a discernerne le occasioni che non lo giustificano ma
l’attenuano, e quindi a compatire senza condiscendenza vile nè
rea connivenza, a curare con mano meno grave le piaghe rinciprignite
già da medici ignoranti e caparbi e spietati. Così
quando egli in quel Frammento d’una storia dell’empietà,
ch’è tra’ suoi primi lavori, numerava tra gli empî
il Constant, pareva che non sapesse assai grado alla Provvidenza del
passo ch’aveva fatto dal Voltaire al Constant la povera scienza
umana, pareva non discernere nell’errore gradi; egli che poi
tanto sapientemente insegnò come gli errori stessi diventino
via a verità.
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