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. . . . . . . . . . . . . . . . . . o dotto
Spirto
e gentil, tu sol sovra il cor mio
Che
te ne’ giuochi e te ne’ studi indarno
Cerca
or dolce ora grave, amabil sempre;
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. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
A
te l’arguto suon da questa valle
Porti
sull’ali sue vento cortese,
Chè
al bisbigliar degl’inusati accenti
Forse
l’orecchio v’apporrai gentile;
O
sia che al patrio focolar te trovi
Del
vecchio genitore a udire intento
I
perigli, onde rende esperta e cauta
La
famigliuola, che, raccolta intorno
Di
lui narrante, con socchiusa bocca,
Pende
dal labro; o ch’e’ ti trovi all’ombra
Del
tuo boschetto, ragionando teco
Alcun
d’Atene o Roma antico Saggio,
O
che in silenzio audaci voli imprendi.
Quivi
mi par vederli or sotto un faggio
Della
natura modular gli amori,
Onde
la terra e l’acqua e l’aere e ’l foco
Generan
sempre, di fecondo seme
Unquanco
scarsi, e con mirabil giro
A
nuovi figli fragil vita dànno,
Struggendo
i vecchi testè nati; ed ora
Dell’alta
selva in un recesso opaco,
Sacro,
soave, meditar profondo
Dell’universo
il gran poema, in cui
L’armonie
delle sfere esprimi e canti.
Ai
grand’ingegni grand’imprese: or poi
Quel
fra’ mortai di vero a me par grande,
Che
grande è in picciol’ cure, e non tra gli astri
Mai
sempre affisso, il guardo unqua chinando
Alla
terra ed a sè, nè mai rimembra
Che
carne il veste, e non è al mondo ei solo;
C’ha
i genitori od i fratelli o i figli.
Tu
sai ben d’esser uom; tu non trascuri
Della
virtù, che in faccenduole abbiette
Grande,
sovente di velarsi è vaga,
Minimo
ufficio; e il pueril trastullo
Col
lieve riso serba alacre e pronto
ad opere
canute.