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Niccolò Tommaseo
Antonio Rosmini

IntraText CT - Lettura del testo

  • XXV.
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XXV.

 

La riverenza di lui verso il popolo aveva dunque più ragioni, le une dalle altre corroborate e nobilitate; il riconoscere nella lingua, della quale il popolo è il più fido custode, il germe di tutte le verità, il vestigio di tutte le buone tradizioni; il sentire nell’uso che il popolo fa d’essa lingua quell’istinto di convenienza ch’è prima condizione alla proprietà filosofica e alla letteraria bellezza, l’ammirare nelle moltitudini non depravate dalle dicerie de’ saputi e dall’esempio de’ ricchi quella rettitudine di ragionamento e d’affetto ch’è guida sicura alla vita; il compatire a’ dolori e alle ignoranze della plebe misera, l’amare in essa gli amati da Dio e da Gesù. E si doleva che ne’ riti del culto il popolo fosse con l’intelligenza diviso dal prete; le preci voleva veramente comuni, perchè dal consentire nella chiesa non può che non segua il consentimento e nella piazza e per ogni dove. Al catechismo dava quel peso che si dee, senza farne pesante l’insegnamento per la materialità delle forme; ch’anzi l’offriva secondo l’ordine delle idee: e un ammaestramento speciale destinava, come il Neri, al popolo i di festa. E le Suore della Provvidenza, secondo la regola da lui data aprivano scuole minori ne’ luoghi ov’altre mancassero, sì in Isvizzera e sì in Piemonte: e in Inghilterra i suoi dànno cura segnatamente all’educazione de’ poveri. Fin da giovane egli aveva tradotto il libro d’Agostino, Del catechizzare gl’indotti; giacchè a’ più de’ grandi pensatori e scrittori il tradurre è stato esercizio più che di stile: e nel proemio raccomandava che la religione insegnassesi per via della storia; con che l’intelletto è aiutato dalla memoria e dalla immaginazione, e nelle idee s’ispira l’affetto, e i fatti narrati sono dichiarazione insieme e conferma alle massime. Ma sebbene egli apprezzasse il servigio reso da coloro che in forma semplice o di viva voce o ne’ libri fanno accessibile a tutti la verità, e riprendesse coloro che questi umili lavori dispregiano, e si peritasse a rigettare per inutili anco i condotti men bene; non è maraviglia che la natura dell’ingegno suo lo portasse più su; e che fin nel dare Esercizi spirituali egli ascendesse a generali principî rifacendosi dal fine dell’uomo, riducendo a sistema le pratiche cristiane. Ma quanto l’ingegno saliva più alto, tanto la virtù lo riconduceva a ragguagliarsi ai meno perfetti; e le pratiche appunto di cotesti esercizî e’ consiglia contrarle secondo le occupazioni e lo stato delle persone differenti.

Appena affacciatosi alla vita, s’accorse che quella del pensiero la quale era pure in lui sì feconda, non è piena vita; e ne’ versi al De Apollonia scritti dell’età di circa vent’anni, lo dice con quell’asseveranza evidente ch’è il linguaggio della coscienza riflessa sopra di 5.

Non conosceva egli cose lievi o piccoli ministeri; e tutti gli erano dall’idea riingranditi; ma l’idea poi accomodava alla proporzione degli uomini e de’ tempi. La misura una e immutabile, le proporzioni varie. Egli giovane teneva in sua casa conferenze in cui spiegare a’ preti più attempati di lui le dottrine del gigante d’Aquino, e per adattarsi all’intelligenza e all’umore di certuni di loro, usava o lasciava ch’altri usasse similitudini da dover parere a tal mente materialissime e puerili, delle quali lo stesso Aquinate talvolta non si vergogna, per porgere, come dice egli stesso, il latte a’ parvoli, imitatore di Platone e di Cristo. Ma quando trovava uditore più attento, allora godeva di poter congiungere alla chiarezza la profondità. E mi rammento che, interrogandolo io di quel che le Scuole intendessero per la parola forma, me ne porse una dimostrazione insieme e un’imagine da pensatore artista, da maestro oratore; e giovava che lo ascoltassero que’ biasimatori del Dizionario che alla Crusca rinfacciavano con ignaro disprezzo l’aver detto forma l’anima umana secondo il linguaggio del tempo loro e di tanti secoli d’antichità, meritatamente ripresi da G. B. Niccolini.

Dopo il trenta il Rosmini avviava chierici nella sacra eloquenza, della quale stimava essere prima dote la semplicità dell’affetto, e in certi parrochi di campagna la sentiva più efficace che in certi predicatori di corte. E appunto perciò egli il predicare chiamava una carità intellettuale, e impone per norme a’ suoi confratelli della Carità di predicare in tutte le forme. Non già che sprezzasse le diligenze dell’arte, ch’anzi troppo n’era ne’ primi anni vago; e anche poi inaspettatamente invitato a predicare, ciascuna predica meditava, egli sì ricco d’idee, ma appunto perciò più severo nello scegliere e nell’ordinarle, per rispetto del vero e degli uditori e di , per coscienza e di mente e d’anima, per quell’alta necessità che sentono gli spiriti eletti del tendere in ogni cosa alla possibile perfezione, del prendere, anco negli atti più passeggeri, abiti buoni, del vigilare stessi e non ricadere languidi sopra di . Poi uno degli assunti del suo Istituto fu l’educazione de’ chierici, per rinfondere ne’ religiosi quella spiritualità di religione che gli pareva in certuni venuta meno. E sulla Pedagogia in generale e sul Metodo meditava teoricamente; e ne lasciò lavori abbozzati. Ma la pratica di queste cose e’ non voleva serbata per privilegio a’ preti; e affermava che tutti i fedeli, i padri di famiglia specialmente, debbono a certi ministeri del sacerdozio partecipare. E per comprovare la conciliazione perpetua delle due cose, egli parroco nel 1835, occupato in tante cure spirituali e già autore illustre, non isdegnò di rimettere il piede e di leggere un suo ragionamento in quell’Accademia Roveretana, detta degli Agiati, che l’aveva accolto fra’ suoi giovanetto.

 

 






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. . . . . . . . . . . . . . . . . . . o dotto

Spirto e gentil, tu sol sovra il cor mio

Che te ne’ giuochi e te ne’ studi indarno

Cerca or dolce ora grave, amabil sempre;

. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .

A te l’arguto suon da questa valle

Porti sull’ali sue vento cortese,

Chè al bisbigliar degl’inusati accenti

Forse l’orecchio v’apporrai gentile;

O sia che al patrio focolar te trovi

Del vecchio genitore a udire intento

I perigli, onde rende esperta e cauta

La famigliuola, che, raccolta intorno

Di lui narrante, con socchiusa bocca,

Pende dal labro; o ch’e’ ti trovi all’ombra

Del tuo boschetto, ragionando teco

Alcun d’Atene o Roma antico Saggio,

O che in silenzio audaci voli imprendi.

Quivi mi par vederli or sotto un faggio

Della natura modular gli amori,

Onde la terra e l’acqua e l’aere e ’l foco

Generan sempre, di fecondo seme

Unquanco scarsi, e con mirabil giro

A nuovi figli fragil vita dànno,

Struggendo i vecchi testè nati; ed ora

Dell’alta selva in un recesso opaco,

Sacro, soave, meditar profondo

Dell’universo il gran poema, in cui

L’armonie delle sfere esprimi e canti.

Ai grand’ingegni grand’imprese: or poi

Quel fra’ mortai di vero a me par grande,

Che grande è in picciolcure, e non tra gli astri

Mai sempre affisso, il guardo unqua chinando

Alla terra ed a , mai rimembra

Che carne il veste, e non è al mondo ei solo;

C’ha i genitori od i fratelli o i figli.

Tu sai ben d’esser uom; tu non trascuri

Della virtù, che in faccenduole abbiette

Grande, sovente di velarsi è vaga,

Minimo ufficio; e il pueril trastullo

Col lieve riso serba alacre e pronto

ad opere canute.





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