XXVI.
Numerare
le, non so quante ma di molte, accademie che lo ascrissero a sè,
anche parlando d’uomo da meno, sarebbe ozioso. Dopo aver detto
in servizio di chi amasse saperlo, che il Rosmini era dell’Istituto
di Francia e dell’Accademia della Crusca e di quella di Torino,
dirò ch’egli fu anco di quella di Lucca, per soggiungere
che la novella gliene venne data da quel Fornaciari, degno
concittadino e successore del Lucchesini e del Papi, magistrato
onorando, maestro affettuoso, scrittore elegante, credente schietto,
magnanimo cittadino. Di tali segni della stima altrui nè
invaniva il Rosmini, nè li rigettava; accogliendo con
riconoscenza e la visita del re di Sassonia e la congratulazione di
giovane oscuro e il ringraziamento del rustico poveretto. Ma quando
il duca di Montmorency, passando dal lago, volle vederlo come una
singolarità naturale, egli però non iscese dal suo
monte, non vedendo utilità morale dell’essere così
veduto. In Francia ebbe estimatori e traduttori, e chi forse delle
sue dottrine approfittò senza dirlo, ma leggermente ne
approfittò, giacchè quell’Italiano, appunto
perchè chiaro, pare non richiegga studio da’ vicini
nostri d’oltremonte, i quali e per l’agilità della
mente e per la conformità delle due lingue, si credono
d’intendere e quando ci azzeccano e quando raccapezzano a un
bel circa, e anco quando sbagliano, mettendo in vece dell’idea
nuova altrui la vecchia che avevano in capo. Se d’altri uomini
illustri che del Manzoni egli cercasse la conoscenza, non so: ma
parecchi ne conobbe, tra quali Ippolito Pindemonte, di cui gli fu
cara la malinconia affettuosa, la pietà gentile, la dignitosa
modestia. E a prova della modestia d’esso Rosmini, rammenterò
come un giorno passeggiando il Pindemonte le allegre strade
dell’allegra Verona tra Antonio nostro e Carlo suo zio
(letterato alla vecchia ne’ difetti forse più che ne’
pregi), e io col Moschini dietrogli; il Marchese interrompeva il
colloquio con loro due per rivolgersi non senza compiacenza del prete
gentiluomo, a me giovane ignoto e attaccare cortese disputa in favore
degli dei dell’Olimpo, e recitarmi i versi del Parini Già
l’are a Vener sacre, domandando come mai poter dire
poeticamente senza il soccorso della mitologia una cosa così?
Nè il vecchio poeta a’ cui giovanili consigli aveva con
docilità coraggiosa obbedito l’Alfieri, voleva
accorgersi che anima di poeta trova modi, di dire ogni cosa, quanto
più semplici più potenti; e che in quel del Parini la
mitologia come canzonatura ci stava; e che un’altra ironia
oltre alle solite si socchiudeva in que’ versi, cioè del
mostrare il galante viaggiatore devoto daddovero alle deità
che la cristianità non galante ha messe da banda: nè il
vecchio Cristiano, che si faceva sottomano a ogni tratto segni di
croce per mettere in fuga il diavolo, pensava che nel mondo dov’era
per passare tra un anno, lasciando di sè memoria purissima,
avrebbe rincontrato il caduceo di Mercurio e i sorrisi di Venere
Libitina.
Il
Rosmini che e ne’ colloquii e negli scritti si ratteneva dalle
soverchie significazioni anco della stima più profondamente
sentita, è ben da credere che non profondesse le lodi per
accattarsi lode, e che non degnasse adulare nessuna delle passioni e
de’ pregiudizi correnti o per ambizione o per timidità o
per quel riguardo umano che può parere rispetto debito alle
persone e arte di fare accettabile il vero. Era fin da’ primi
anni suo detto, che lo scrittore dee mettersi alla testa del suo
secolo, non alla coda. Vero è che certi pregiudicati
spregiatori di quelli ch’e’ chiamano pregiudizii, prendon
talvolta la coda del secolo per la testa: ma qui non è luogo a
una questione che diventa di fisiologia, anzi di prospettiva. E
quanto al Rosmini e a’ suoi pari, dico che quello, oltre
all’essere prova di virtù e di coraggio, è
eziandio accorgimento, non nell’intenzione loro ma
nell’effetto; e che quanto meno cercata tanto più
obbediente, quanto più tarda tanto più piena e
durevole, segue ad essi la gloria. Certamente la fama inuguale al
merito ma ben alta che venne al Rosmini vivente, non gli fu
guadagnata nè dalla facilità de’ suoi scritti nè
dalla condiscendenza a’ gusti del tempo nè dal servile
chinarsi alle altrui fame, già grandi, con le quali egli,
quando la verità gli paresse richiederlo, s’affrontò.
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