XXVII.
Riprese
sul serio Ugo Foscolo di quel suo declamare intorno alla speranza che
pasce d’illusioni l’uomo dannato a illudersi sempre: che
se sistema fosse, l’avrebbe creato per celia e a fine di
moralità il buon Gaspare Gozzi, attribuendolo in due versi a
Circe, la trasformatrice nota degli animali noti. Il Foscolo allora
era vivo, e nel vigore tuttavia dell’ingegno, e nel pieno della
fama, fatta più cospicua dalla lontananza e da un quasi
esilio. Poi riprese il Rosmini Melchiorre Gioia del suo raccomandare
il lusso e la moda, il Gioia, stato collega del Foscolo ne’
giornali di libertà sulla fine del secolo, ma più
animoso di lui: e mi raccontava egli stesso come, ricusando Ugo di
sottoscrivere il proprio nome a parole che potevano portare pericolo,
esso, chiamandolo a viso anima di coniglio, ci appose il suo
nome. Io non posso senza un sentimento di gratitudine rammentare
Melchiorre Gioia tuttochè nè adesso nè allora le
mie concordassero con le opinioni di lui; ma debbo pur raccontare
come pregandolo io di raccomandarmi a un qualche giornale, io non
noto a lui se non per un compendio fatto del suo Galateo
(lavoro meschino più d’una volta), egli sì brusco
ne’ modi e sì diligente spenditore del tempo, non si
contentò di promettere, non di darmi una delle lettere solite,
ma appena sentito il mio desiderio, si vestì, prese il
cappello, e mi condusse dal direttore d’un giornale, dicendomi
schietto i patti a’ quali scriveva egli stesso; e perchè
il Direttore, al vedere la mia giovanezza e timidità tra
altera e impacciata, parendogli impossibile ch’io fossi degno
di scrivere nel suo giornale, guardava quasi stupito, il
raccomandatore; egli il Gioia lo veniva rassicurando con
quell’accento d’asseveranza che viene da cuore buono.
Questo io non l’ho dimenticato mai, e mi gode l’animo
che, lodando l’avversario del Gioia, mi sia caduto di dirlo,
per raccomandare a quelli tra’ giovani a’ quali è
promessa l’autorità della fama, che vogliano spenderla
piamente in pro degl’ingegni crescenti; e nella fiducia
abbondino anzichè nella diffidenza, e non temano i disinganni
e le ingratitudini; che ne avranno nel proprio cuore e nell’onore
stesso del nome compenso più desiderabile d’ogni gloria.
Il
Rosmini a combattere il Gioia prese le armi sue stesse, il fare
reciso e arguto, le citazioni frizzanti, facendo prova di rara
pieghevolezza d’ingegno, ma con quelle leggere forme velando
concetti gravi e sensi severi. Se ne adontò il vecchio non uso
a tali obbiezioni, e rispose non assai civilmente per vero, dandogli
dell’ostrogoto, perchè nemico alla moda; e il Rosmini
rispose acremente, e prese a notare altri principî del Gioia
ch’egli vedeva tanto più pericolosi quanto più
que’ libri avevano facile spaccio. Ma sebbene, approvati
com’erano dalla censura la quale non li poteva punire senza
riprovare se stessa, e’ non dovessero portare all’autore
pericolo, combattuti a quel modo; pur nondimeno era da desiderare che
il giovane prete non gl’imputasse addirittura tutte le
conseguenze erronee che ne potevano derivare, ma si contentasse di
far manifesta la falsità della massima risparmiando le
intenzioni segrete dell’autore, che non sempre son ree quanto
pare nè anco negli uomini più sviati.
Poi
si volse, ripeto, il Rosmini contro le dottrine di Gian Domenico
Romagnosi, uomo di povertà dignitosa, di mente acuta e in
certe deduzioni ordinata; ma come possa parere profonda, questa m’è
parsa sempre la maggior profondità delle opere sue; nelle
quali il linguaggio è ricercatamente barbaro; e lo fanno
oscuro le circonlocuzioni che involgono cose chiarissime e note. E
così ne’ colloqui la bontà si vedeva, ma con
qualche affettazione di cattedratica gravità, che nel Gioia
non era punto. Mi rammento che nella prima mia visita), avend’egli
seco un bambino del suo servitore (il qual era consigliere al buon
vecchio e gli faceva l’uomo addosso quand’e’ si
perdesse in lavori che non fruttavano) e’ c’insegnò
come qualmente nell’infanzia dell’uomo studiava
l’infanzia de’ popoli; e nella seconda visita, dopo
additataci l’Atlantide nelle isole voluttuose del mare
Pacifico, accennate da Isaia profeta dicente: Ite Angeli alla
gente lacerata e divulsa, mi fece recitare un suo articolo di
giornale semplicemente per la contentezza del sentirsi leggere,
stando con faccia serena ad ascoltare se stesso. Egli era morto di
poco; non però richiedevasi meno coraggio a raffrontare le ire
di certi suoi seguaci co’ quali il Rosmini discese a pugna non
degna di lui. Quegli stessi che l’amano e ammirano, appunto
perciò confessano ch’egli non sempre in tali prove serbò
carità nè pacatezza di mente; e lo diceva egli stesso.
Io non ho diritto di farmene giudice. Quando agitavansi le miserabili
zuffe per i quindici canti del Grossi io stavo per uscire con una
risposta che m’avrebbe procacciati disgusti assai; ma il
Rosmini me ne rattenne quasi supplichevole, affermando per tutta
ragione che ne l’avrei poi ringraziato: e obbedii, e stracciai
le bozze di stampa. Poi quando seppi ch’egli si preparava a
rispondere al Sr Mamiani, esule allora e malato degli
occhi gravemente e che trattò lui con rispetto, io che
dall’esilio avevo smesso di scrivergli, scrissi pregando che si
temperasse. Non so se la mia lettera tra le difficoltà di quel
tempo gli sia capitata; e credo che no: ma egli fu soverchiamente
severo al cortese riprenditore; e questo non per odio o disprezzo
della persona, non per cocciutaggine o boria, nè per l’ebrietà
della fama acquistata; ma per un troppo zelante amore del vero, per
una persuasione fermissima della importanza delle verità da
lui propugnate, forse per la non ancor matura esperienza de’
mali effetti che può portare una parola anco detta a buon
fine, per non conoscere di persona l’avversario (e il
conoscerlo se talvolta aizza, più sovente mansuefà), e
per il peso stesso ch’e’ dava al detto di lui, ch’era
una indiretta, tuttochè non desiderabile, significazione di
stima. Giacchè le cose del mondo sono congegnate così
che dal biasimo esca lode, dalla lode biasimo; e la nostra parola e
l’opera sortisca talvolta effetto contrario all’intendimento.
Inoltre il Rosmini scrivendo s’infervorava nel dire (nel che
l’uso del dettare accresce il pericolo), e per fare
l’argomentazione più viva e la lettura men grave,
scappava in celie da non ferire mai la persona, ma che, cogliendo le
cose, ferivano forse più intimamente. E qui è da
riconoscere quanto possano in bene o no gli abiti dell’età
giovanile; perchè quell’anima rara che si compiaceva del
vedere i condiscepoli suoi in vena di celia e s’armava
anch’egli d’arguzie innocenti e d’acumi; nel più
serio della vita e delle questioni ritornava talvolta a quell’arte
difficilissima a esercitare con garbo e con pietà. E alla
smania di trattare con vivacità soverchia può forse
essere stimolo anco quel figurarsi, come molti uomini pii e savi
fanno, la difesa del vero come una guerra, e quelle imagini di
vittoria e di vessillo e altre tali, che ne’
libri della legge cristiana sono simboli e non precetti. La vittoria
del credente è come quella di Dio, cantata dal Manzoni e da
Dante E sia divina ai vinti — Il vincitor mercè —
E non già come l’uomo all’uom sobranza, — Ma
vince lui perchè vuole esser vinta, — E vinta, vince con
sua beninanza. Nè nel Vangelo io rammento altra imagine di
battaglia se non là dove il re mansueto, l’Agnello di
Dio, dice d’esser venuto a portare non la pace quaggiù
ma la spada, e intende chiaramente la guerra co’ propri affetti
tiranni, quella guerra che sola può preparare l’armonia
dell’uomo seco stesso e con tutti gli uomini quanti sono.
Ma
l’uomo, ripeto, era migliore de’ suoi libri: sì
poco e’ curava d’imbellettarsi o di mascherarsi.
Conversando soffriva obbiezioni e contraddizioni, non tanto per
ismania d’insegnare quanto per amore d’apprendere;
rispondeva in voce e per lettera dichiarando; e gli era scuola anche
questa, a studiare le indoli e i bisogni delle menti altrui, e meglio
riflettersi nella propria. Accettava e seguiva i consigli, confessava
gli sbagli; riconosceva pregi ne’ suoi avversari più
acri. E quella sua stessa acrimonia, ancorchè paia troppa
talvolta, egli la temperava scrivendo; chè i frizzi, a
lasciarli andare, gli sarebbero scoccati assai più pungenti. E
dalla risposta al Sr Mamiani, per ristamparla, s’era
messo a torre via ogni acerbità, riconciliatosi con sincero
animo già da anni parecchi; e il Sr Mamiani, da
Italiano vero e da degno amico del Bello, usava ragionando di lui
parole di nobile riverenza. A lui toccarono poi guerre ben più
dolorose; e fu chi gli negò fede e probità, scienza e
mente. Ma destino de’ più perfetti è sovente
l’esser più odiati; e i pregi sommi, in chi li sconosca
per debolezza o per passione, irritano più incredibili spregi.
Io sentii un medico scemo stupire della fama acquistatasi dal
Rosmini, e dire: io gli fui condiscepolo; e posso attestarvi che non
c’era niente di raro. Più gli uomini benemeriti fanno, e
più certuni richieggono arrogantemente da loro, come se il
dato già nulla fosse. Mi si racconta che, passeggiando un
giorno il Rosmini, cert’uomo gli si accostò domandando
danaro; e avutone quattro lire, e volendone cinquanta, si mise a
gridargli villania; ma egli seguitò riprendendo il colloquio
interrotto. E così molti fanno, che non sapendo bene usare del
già ricevuto, e pretendendo di più, si rendono a sè
più che al donatore spietati.
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