XXX.
Non
senz’alta ragione però diede il peso il Rosmini al gran
tema della coscienza, giacchè tutti i dubbi e le discordie del
pensare e dell’operare, richiamano a quant’ha di
splendidamente misterioso il libero arbitrio e di tremendamente
evidente. La legge morale, ch’è cosa sì semplice,
nelle profondità vorticose del cuore e negli andirivieni
sinuosissimi della vita diventa, come Giobbe dice, molteplice;
e le contese su questo argomento agitate specialmente tra i moderni,
se attestano, secondo che nota il Rosmini, il progresso della
coscienza, comprovano insieme quanto sia difficile cosa il
determinare Quel
che la mente può, quel ch’ella debbe7.
Il Rosmini applicando qui il suo principio del congenito intuito
dell’essere, e misurando co’ gradi dell’essere i
gradi del bene, discerne e concilia quel che nell’anima è
d’umano e quel ch’è divino, addita alla nostra
maraviglia cognati
semina coeli.
L’esame di coscienza che il Cristiano faceva sopra sè
stesso (raccomandatoci del resto da Seneca e da Orazio epicureo, più
stoico di Seneca in fatti), quell’esame, con la ricerca de’
propri difetti e inclinazioni a’ difetti gli è
certamente giovato a sentire i pregi dell’umana natura, a
misurare le pendenze dell’umana libertà e coglierne
l’equilibrio. Il suo delicato sentimento d’artista,
affinato dagli abiti dell’ascetico contemplatore, gli è
certamente giovato a quell’analisi così sottile,
congiunta a sintesi tanto robusta, come grand’albero il cui
tronco abbracciabile appena da molte braccia d’uomini tese,
s’insinua nell’intimo della terra con radici
gracilissime, e s’innalza in vette gentili e tremola in foglie
docili a ogni alito. Dalla delicatezza contemperata al vigore gli
venne l’austerità de’ principi e la liberale
mitezza delle applicazioni; di che gli aveva dato esempio pe’
suoi tempi mirabile il grande d’Aquino. Quel ch’egli
insegna del superare gli scrupoli è non meno sapiente che pio.
E cotesta malattia dello spirito, parte della quale egli appone
talvolta a mala disposizione di corpo, aveva il Rosmini ancor giovane
osservata in un Roveretano a lui caro, l’abate Lorenzi,
elegante scrittore di prosa latina, il quale negli scrupoli,
com’altri ne’ deliri e tutti ne’ sogni, ritraeva
l’indole dell’anima sua. Perchè, uscito un giorno
di casa Rosmini, rifece le scale e dopo ansioso pensiero ritornò
ad avvertire la famiglia come qualmente entro alla zuccheriera
ricoperta fosse rimasta presa una povera mosca.
Ma
la lassezza de’ principi al Rosmini non piace; e dall’autorità
conceduta ai dottori del probabile teologico egli riconosce per una
parte la pusillanimità delle coscienze che tenute
sull’aculeo del dubbio fannosi inette al franco e
civile operare, riconosce dall’altra il fomite di quella
ribellione che ne seguì a ogni autorità di ragione e di
fede dopo il secolo diciassettesimo per la insofferenza di
quell’indebito giogo di meramente umane opinioni. Io
però non amo credere che da questa cagione venissero le liti
mossegli da più avversari, a’ quali e’ rispose
vivacemente, scusatone da Gregorio XVI teologo e frate con queste
parole: Bisognerebbe non aver sangue nelle vene. Se non che
quando il papa impose silenzio ai litiganti, il Rosmini obbedì.
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