XXXI.
Aveva
egli già, per scansare scandali, interrotta la stampa d’un
discorso sullo scadimento degli studi ecclesiastici, scadimento
confessato fin da papa Pio VIII. Non diede in luce una lunga e dotta
risposta a chi riprese il suo libro delle Piaghe
della Chiesa,
ma domandò all’autorità dove stesse l’errore
per poter ritrattarlo; e non avendo risposta altra che generica, si
sottomise puramente
e semplicemente.
I timorati intanto, al timore di condanne, sbigottivano e
s’astenevano dal leggere anco que’ libri del Rosmini che
tutti debbono confessare essere di pro’ e onore alla Chiesa, e,
non leggendo, condannavano più comodamente e con più
sicurezza. Venne da ultimo il Dimittantur
ad acquetarli; e il
dimittantur
dopo tanta guerra, dopo un
severo esame d’uomini dotti e taluni mal disposti innanzi
d’esaminare, è trionfo. Ma il Rosmini che intendeva di
voler appartenere, egli e i suoi, alla Chiesa
discente non
alla insegnante,
sottomettendosi acquistò tanto più merito quanto più
meditate erano le sue parole e con grande amore educate, quanto più
pure egli sentiva le proprie intenzioni, e passionate e deboli le
obbiezioni mossegli. Doveva il Rosmini sottomettersi non solo per non
si aggregare a que’ preti, che, scuotendo il giogo
volontariamente impostosi, se lo trovano però sempre sul
collo, se non colpevoli, infelici e impotenti e sospetti ad ambe le
parti; doveva non solo perchè dalla sorte sua dipendeva la
sorte di una società diletta al suo cuore, la quale altrimenti
si sarebbe spersa e divisa in sè medesima, e data rea gioia ai
falsi zelanti, e vile disperazione ai timidi d’ogni bene;
doveva non solo per non contraddire alla professione altamente fatta
d’intera docilità; ma doveva per dare un esempio di
quella fortezza di mansuetudine ch’è più
difficile di ogni forza di resistenza, e da ultimo più
efficace; doveva per confermare co’ fatti la sua fede nel vero,
e nel tempo che del vero è ministro. Illustrabit,
mihi crede, tuam amplitudinem, hominum iniuria8.
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