XXXIII.
Fin
dal 1825, raccolto nel suo nido di Rovereto e nuovo delle cose del
mondo e non a giorno di tutte le opere di fresco uscite
sull’argomento, scriveva il Rosmini di cose civili; e delle
notizie che veniva acquistando per via, faceva suo pro siccome di
materia al lavoro, digerendole fin d’allora in sè, e con
la mente propria dominandole: non però sì che a’
fautori degli ordini vecchi egli non inclinasse allora come a
difensori dell’ordine puro in idea. Notabile come i discorsi e
le letture fatte via via gli si venissero a collocare e a commettere
ne’ suoi scritti quasi per prestabilita armonia; nè
questo dovevasi solamente alla forza del suo pensiero, o a quell’arte
delle transizioni scientifiche più difficile che la
somigliante de’ retori, molto meno era caso; ma anco gl’ingegni
minori sperimentano in sè come alle occasioni de’ loro
concetti presegga una provvidenza che fa per essi senz’essi, e
ha il maggior merito de’ loro pregi maggiori; come in questo
rispetto possa più veramente dirsi che i libri hanno il
loro destino. Nè quella propensione agli autori che
tiravano al retrogrado era improvvida cosa; chè meglio è
rifarsi dal meno e via via sempre ascendere, che non, prendendo dalle
mosse una precipitosa rincorsa, cascare a mezza via, come tanti
fecero, trafelati, e nella caduta schiacciarsi quasi da sè, o,
come tanti altri con ancor più dolore e vergogna, retrocedere
pavidi e disperati. E i grandi ingegni, ch’è quanto dire
g’ingegni onesti, amano dal principio apprendere le tradizioni
quali che siano de’ maggiori, e della docilità vanno
alteri com’altri della indocilità, sentendo esser quella
non pure più virtuosa e più cauta, ma più
coraggiosa in certi tempi e più conducevole a’ veri
progressi; e così tendendo l’una mano riverente al
passato, l’altra confidente all’avvenire, nulla di bene
respingono, e congiungono i secoli in amicizia efficace.
Non
è però che de’ primi suoi o studi o sentimenti
ricevuti dagli abiti e dagli esempi, non rimanesse all’egregio
uomo alcuna opinione ch’io oserei dire alquanto pregiudicata:
come laddove egli pone la proprietà degli averi materiali per
condizione ai diritti politici e quasi per guarentigia allo spirito,
il che non mi pare conforme nè alla dottrina cristiana, nè
alla rosminiana de’ gradi dell’essere, nè
all’esperienza, e nè anco alle norme della scienza de’
corpi, la quale, per bruta che voglia farsi, non può mettere
alla pari una lamina d’alluminio e molto meno un pezzo di
gneiss (perdonisi la voce barbara che qui ci cade) con la potenza del
magnetico e della luce. Nè, quanto alla pratica, tutto quel
ch’egli desiderava attuato mi pare accettabile; come quando e’
voleva che un giornale facessesi in cui notare gli spropositi logici
de’ giornali e de’ nuovi libri; che sarebbe certamente
riuscito guerra formidabile, massime se capitanata da lui, e in pochi
colpi decisa ciascuna battaglia, mettendo il nemico alle prese seco
stesso e facendo che da sè si disfaccia. Ma siccome lo
schierare in lunga fila gli umani misfatti o deformità non
renderebbe nè più santa la razza nè più
gentile, così notare gli sbagli di logica che sono effetto e
indizio degli errori morali, aprire una galleria miseranda
d’assurdità, non sarebbe cosa nè lieta agli amici
del bene, nè esemplare agli inesperti, nè fruttuosa
agli erranti, i quali da un esempio di retto ragionare e sentire e
operare sarebbero più che dalla schifosa contemplazione del
contrario ravviati.
E
per discendere a cosa più prossimamente pratica, io non so se
il Rosmini che nello scorso dicembre approvava la spedizione di
Crimea, non si sarebbe più tardi ravvisto, considerando che la
dignità morale e lo scopo di religiosa civiltà messo
innanzi conseguivasi del pari con un’alleanza la qual
patteggiasse la cooperazione del Piemonte a guerra più
prossima; che se i due potentati richiedevano per forza di più,
questo impero pur sottinteso attestando paura toglieva ogni coscienza
di dignità; considerando che i debiti contratti con esteri
fanno lo stato dipendente e da esterne e da interne vicende, sì
ch’egli mal può guarentire a sè non che ad altri
indipendenza; che guerra in paesi ignoti fin qui pur di nome per
causa al popolo ignota, incerta a coloro stessi che hanno più
ingegno e voglia di giustificarla, non potendo ispirare zelo nè
religioso nè patrio ai combattenti, non potendo confortare i
timori e i dolori di tante sorelle e di tante madri, risicava esser
fomite a mali umori fatti più pericolosi dalle inevitabili
sopraccrescenti gravezze; considerando che le speranze al Piemonte
veraci gli vengono dal suo sito, dalla gelosia de’ potentati
maggiori, e da’ diritti de’ quali egli intenda in verità
farsi vindice, non già dal mandare i suoi prodi a perire
lontano di morte inerte e muta nel tedio e nello sgomento non già
del ferro nemico ma d’una mano invisibile che dalla
imprevidenza degli uomini è fatta alleata al nemico; che dal
combattere confusi con genti assoldate di tutte le terre e di tutte
le fedi, e che pur penano ad accozzarsi sotto un ambiguo vessillo,
non può venire nè gloria nè grandezza, nè
agio di sedere al banchetto de’ forti, giacchè i
Cavalieri de’ santi Maurizio e Lazzaro pur troppo sanno quel
che frutta il trattare lealmente le armi per imperatore infedele, e
quel che possono i poveri attendere dalla mensa del ricco Epulone;
considerando da ultimo che il doppio comando sotto al quale il fiore
dell’esercito italiano mettevasi, poco poteva aggiungere alla
freschezza de’ suoi tre colori, che l’onore del trionfo
sarebbe stato per altri, per gl’Italiani (le guerre del primo
Napoleone lo gridano) i pericoli e il dispendio e le inimicizie e la
debolezza conseguente e il rammarico (Dio ce ne scampi, che senno
umano non può) del finale disinganno.
|