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BATTERIA NERA SUL CARSO
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
I quattro pezzi furono battezzati «batteria nera» perchè tra le centinaia allineate nel parco di Piacenza, erano gli unici dipinti in nero. Un fabbricante di casse da morto, che fischiettando faceva gl'incastri a coda di rondine, allogato in uno squallido fondato confinante col nostro accantonamento, fornì un pezzetto di rovere, sul quale fu incisa la sigla e la dicitura: Batteria nera. Dirimpetto all'accantonamento c'era il palazzo quadrato, su cui è scritto: «Forse che sì forse che no». La xilografia della batteria nera fu l'ultimo saluto alle sgorbie, fatte con una stecca d'ombrello e manicate con una manopola della bicicletta di batteria.
Ogni mattina, dal portone del palazzo enigmatico transitavano signorine con i capelli accordellati, intonacate in cappe grige. Da certe cassette, che avevano una forte rassomiglianza con quelle dei rivenditori di coralli, capii trattarsi di studentesse di pittura. Subito dopo loro, lento e pensoso, passava un vecchio dalla lunga barba bianca mosaica, con una papalina nera: il maestro.
Non fu difficile introdursi nella scuola: il vecchio maestro, seduto su di una poltrona, teneva uno scialle sulle ginocchia, e le ragazze dilettanti parevano agganciate ai cavalletti colore terra d'ombra, tanto stavano col viso vicino al foglio.
Sopra il capo del maestro, giallo e velato di tedio, c'era quel celebre quadro ottocentesco: Pulsazioni e palpiti. Un adolescente all'estremo della vita, a cui il medico conta le pulsazioni, e dietro il medico, due vecchi, il padre e la madre, che palpitano per la vita del figlio. Anche i miei polsi batterono accelerati e il mio cuore ebbe dei palpiti: quel quadro era il primo quadro che io avevo copiato a tocco di penna nell'adolescenza lontana lontana, e allora l'autore di Pulsazioni e palpiti passava nella mia fantasia febbricitante con la statura di Michelangelo, di Raffaello e di Giotto, e invece era quel vecchio dalla lunga barba di Mosè, che si attediava sulla poltrona imbottita.
– Saprebbe dirmi chi è l'autore di quel quadro? – chiesi al vegliardo.
– Io – rispose egli, tra l'urlo e lo sbadiglio.
Salutai il vecchio, e quello fu l'ultimo saluto alla pittura dell'Ottocento e del Novecento.
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La batteria nera, occultata da copertoni incerati, su di una lunga tradotta, il giorno dopo, filava verso il fronte, tra canapaie mareggianti. Ogni stazione dispersa nel canapile suscitava un vocìo nella tradotta. Il capostazione andava dalla macchina al vagone di coda come un deportato; il facchino bisunto, piantata l'asta della bandiera verde tra le connettiture delle pietre, pareva di sentinella; la famiglia del capo, tutta affacciata a una finestra, guardava la tradotta e le bocche da fuoco, nero inferno.
Per tutto quel giorno e la notte stellata e senza vento, la tradotta dinoccolò l'ossame sulle rotaie. I canti s'erano spenti e i vagoni trasportavano dei dormienti. Nell'umidore del primo mattino, a oriente, sul cielo turchino, si videro esplodere vividi bagliori elettrici e s'udirono degli strani tuoni, come se il cielo fosse stato un grande coltrone battuto. I draghi, come colossali chiocciole, parevano brucare le ultime stelle. Gli aeroplani nemici sembravano insetti su di un drappo di seta.
La batteria nera fu prestamente discesa e infrascata con rami di gelso e i soldati s'inoltrarono nelle erbe altissime. Come fu dolce il riposo; i soldati con le daghe recidevano l'erbe, – i palei commisti all'erba santa alla cedrina alle crocette ai trifogli, – per farne il capezzale. La primavera aveva steso ad asciuttare grandi nuvole bianche; il vento agitandole gli dava il turchinetto. La batteria nera fu messa sulle rotaie a cingoli, embricate, dinoccolate come le vertebre di un rettile favoloso. I quattro carriaggi pesanti, agganciati alla trattrice, si mossero su di una via maestra tutta festoni di rami di gelso, come se ci dovesser passare le Rogazioni: i mentastri delle fosse spandevano il profumo dell'erba Santa Maria, quella che le donne sparpagliano sulle vie, il mattino della processione. Quando si alzò il sole, lontane lontane si scorsero le pietraie del Carso che, di quando in quando, andavano in isfacelo tra una fumacea esplosiva.
Al vespero, i soldati della batteria nera, marciavano a rilento. L'ossa eran diventate pesanti come le schegge della bombarda; lo zaino aveva raddoppiato il peso, le cinghie risegolavano le ascelle, i piedi sbollentati avevano perso il tatto e il contatto della terra. L'effluvio, che alita sui campi ai venti della primavera, aveva preso di strinato. Il Carso era lì, visibile: case schiantate mostravano l'ossa rosse dei mattoni e il camino sgozzato; selve scerpate dalle schegge, cumuli di pietre focaie, tombe di sassi macinati. Un nome circolò sommesso: Calvario. I cristiani si fecero il segno della croce.
Dei soldati, come sfornati da una mattonaia, scendevano con l'andatura stanca dei bifolchi, che ritornano dalla mietitura: invece della falce fienaia, tenevano sulle spalle il fucile con la canna in avanti.
– Dal Calvario.
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Nei campi di Bestrigna, la batteria nera ebbe il primo morto; un contadino del pian di Pisa massiccio come la pietra verrucana.
Quelli di campagna, seduti sul pancone di coda del primo pezzo, parlavano tra loro: – Gli anni asciutti sono poco abbondanti.
– Il grano stenta a germinare.
– Le piogge impolpano la terra e le fontane s'abbeverano per tutta l'annata.
Improvvisamente parve che fosse esploso il sole; gli uomini si gettarono in terra, come le guardie del Sepolcro dopo la Resurrezione. Un soldato rimase come una statua sull'erba. Il moro, su di una barella fatta di rami d'ontano, fu portato a ridosso della chiesetta di Bestringa e interrato, – tra una buttata di acacie esili, fruscianti medagline verdi, – insieme ad altri suoi fratelli in Cristo. Sopra un tumulo v'era un giglio alto e una epigrafe: Clementina Scoben, di quindici anni. Le tombe dei soldati s'eran coperte di roselline rosse.
La batteria nera s'inoltrò sul Carso, dove tutto era rosso mattone; le quote, l'erbe, l'acque, i ferri a pungiglione. Anche i proiettili sembravano di terra cotta, come i soldati. I quattro pezzi furono piazzati sul rovescio del Debeli, tra il lago di Doberdò e lo stagno di Pietra rossa, davanti alla Centoquarantaquattro, smottata dalle granate.
Sotto il Debeli c'era, tra poggi e falaschi, il cimitero della Brigata Arezzo disegnato dall'architetto Sant'Elia, il giorno, avanti ch'egli cadesse sulle quote dirimpetto. Sant'Elia era sepolto lì; ma come ritrovarlo tra le tombe che erano una tocca l'altra, sul terreno tribolato dalle granate? C'era stata l'azione di giugno e intorno alle mura del cimitero della Brigata Arezzo v'era lo sconvolgimento della morte. Tutti gli effluvi, la salvestrella, la menta, le rombici, che il vento folava dal piano sterminato, non rivincevano il bruciaticcio asfissiante.
Il cielo, su altissimo, coi cirri rosa su fondo turchino, in cui s'avvitavano aeroplani arcobalenati dal tricolore, a preda dei draghi gialli e verdi, pareva una delle sue costruzioni architettoniche basata sulla pietra del Carso. Nell'ultimo assalto Sant'Elia fumava una sigaretta e, sbuffando il fumo al cielo, gridava ai soldati: – Architettura fine. – L'ultimo istante della vita, egli si estasiava a veder le spirali celestine vanire nel nulla. Il cielo, per consolare il suo spirito, nei giorni sereni, pareva comporre sul suo sepolcro grandi castelli ed isole dell'aria, che i cannoni mandavano in isfacelo.