Lorenzo Viani
Il cipresso e la vite

TROPP'ACQUA NEL MARE

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TROPP'ACQUA NEL MARE

 

 

 

 

 

A Parigi, prima che mi andassero in scadenza le vestimenta, ebbi agio di conoscere anche persone altolocate, Jean Richepin, Ottave Mirbeau, Guillaume. In quei tempi Richepin abitava nei pressi di Passy una discreta villa simile a quelle che si veggono sovente fuori porta, con giardino e cancello. Senza destar sospetti potei essere introdotto nella sala d'aspetto del poeta della Chanson des gueux. Con la complicità di una di quelle signorine che vanno in cerca di grandi firme, ero riuscito a compilare una lettera in francese col patto che, se Richepin mi avesse degnato di una risposta, questa spettava a lei. Consegnai la lettera al cameriere, insieme con un rotolo di disegni.

Ero rimasto solo nel salone e osai sedermi su certa poltrona bassa imbottita, a molla che mi rimbalzò per aria. Un tavolino laccato era pieno di ninnoli; delle riviste, che sembravano verniciate, erano stivate sopra un altro tavolo; disegni di «gueux», di straccioni, ridotti a buon fine dalle matite colorate di Guillaume e di Veber, spiccavano, entro cornici di lusso su una parete pisello nel cui centro primeggiava la caricatura del poeta fatta da Cappiello; altrove diplomi e medaglie d'oro, mazze di malacca, canini di avorio.

 

 

L'unico oggetto intonato all'opera di M. Jean Richepin ero io. Potei controllarlo entro uno specchio che mi raddoppiava: carduffi di capelli nero inchiostro, viso spolpato, occhi verdi e balenanti come quelli dei gatti, una cravatta nera a fiorami gialli, un cappello celeste misturato, con della caligine, un tabarro largo che mi riduceva come un colossale fico brogiotto quando, verso settembre, crepano e cambiano di colore, un paio di scarpe stringate agli stinchi; in una mano teneva il cappello, nell'altra un bastone tigrato con la punta d'acciaio.

Il cameriere discese le scale a mani vuote con una bugia in bocca.

– Il poeta non è in casa.

Uscito, mi sedetti, nei pressi dell'abitazione del poeta, su una panchina verde come la speranza. La primavera era appena esplosa da un inverno nero inferno; tra pietra e pietra della via lastricata becchettavano degli uccelli; una limatura di cobalto pareva spolverata sul cielo d'acciaio.

Si vuole che Zenone, perdute in un naufragio tutte le sue sostanze, giungesse a rallegrarsene per avergli dato occasione d'attendere allo studio della sapienza. A me le vie di Parigi avevano messo in scadenza la risolatura delle scarpe e io profittavo delle interminabili soste che facevo sulle panchine, verdi come la speranza, per meditare e ricordare.

Davanti alla casa dell poeta della Chanson des gueux passò in quell'istante una giovane tutta discinta, dai lineamenti rotti e stanchi, dai cui occhi schizzava dell'odio che coloriva di jodio tutta la carnagione; un taglio rosso, una bianchissima chiostra di denti tremanti, un fremito di cenci mossi dal vento, e la donna era scomparsa. Lo spettro della poesia, in argot rimato, violenta e dolce, parve essere passato sulla facciata della casa di Richepin.

Poco dopo apparve lui in persona: tutto nero, con lo staio, un gilè verde speranza rinforzata, guanti gialli come le ghette, barba e capelli bianco schietto; un canino color terra, fermo sulle quattro zampette, guardava il padrone e pareva uno di quei canini che son sopra i cancelli di certe villette remote. Il poeta tutto lustro e colorato sembrava uno di quei piccioni di gesso pitturato che danno l'idea che da un momento all'altro debbano spiccare il volo.

Avvicinatomi risolutamente al poeta, gli feci capire, come potei, che io ero il disegnatore di cui aveva certo ricevuto la lettera e il rotolo.

Credo di aver trovato il degno illustratore delle mie Bestemmiedisse; e, misuratomi con una occhiata, da capo a piedi, sparì dalla parte dove era sparita la donna, che sembrava lo spettro della sua poesia.

 

 

Non fu molto difficile intromettermi nella stamperia dove scriveva Guillaume, piccolo magro, dall'aspetto rigido e risoluto di un Robespierre, già segretario della Federazione del Giura, e di Michele Bakunine. Il piccolo Guillaume volgeva le spalle a una scatola di caratteri e la sopraffaceva appena col capo. Il visetto bizzoso e aggressivo vi stava davanti come una scure di ruota; le manine, piccole piccole, grufolavano, nervose entro i taschini del gilè; e con un piedino batteva il tempo. Guillaume, il rivoluzionario, era un assoluto doppione, nel fisico, del prefetto di polizia di Parigi, M. Lépine. Ebbi la non felice idea di manifestargli questa impressione; egli mi rispose con sopportazione: Je ne sais que vous dire.

Di poi mi parlò, con qualche esattezza, dell'Italia e degli Italiani: – Di quale regione voi siete e di qual paese? – mi chiese.

– Di Viareggiorisposi.

Al nome di Viareggio, ch'egli, ripetendolo infuriato, inghiozzò con accento sull'o, balzando sull'impiantito di tavole che gli fece da pedana, saltò un mezzo metro per aria e uscì in una sfuriata di parole. Quietatosi, mi disse chiaramente: – Maledetti i marinari del vostro paese!

In un francese bernesco, – Guillaume era nato in Svizzera, – mi raccontò una lunga storia, condita di acrimonia: Benoit Malon, riformista, timorato della legalità, per rimettersi in salute, s'era portato sulle spiagge solatie della Versilia, a quei tempi frustate dai tamarischi nei giorni di tempesta, e deserte nei giorni di sole. Malon, non molto pratico del nuoto, si era spinto al largo e fu travolto da un fil di corrente da cui sarebbe stato inghiottito se un marinaro non fosse andato risolutamente al suo salvataggio. – Che peccato! che peccato! – diceva desolato Guillaume, aprendo le piccole braccia.

Quando gli narrai l'accaduto di Richepin, diventò come spiritato e, affettando l'aria con le manine aperte, ruggiva e cantava:

 

On boirait donc tous au mêm' verre?

On mang'rait donc tous au mêm' plat?

 

Capii poi trattarsi di alcuni versi, conditi d'argot, che Jean Richepin aveva pubblicati in un libello, Père Peinard, tanti anni prima d'essersi trasferito a Passy e che Guillaume aveva ritenuti a memoria. Fu il piccolo Guillaume che mi aperse la via per andare da Octave Mirbeau.

Boulevard de Boulogne 8 era il domicilio di «Mirbeau la folgore», come ebbe a definirlo Auguste Rodin, ma l'incontro avvenne in un gran salone a vetriate fuligginose, in una via stretta, cupa, abbandonata. I fanali della macchina di Mirbeau lampavano sotto un arco, illuminando una miseranda bottega di anticaglie e dei muri di cortili sventrati. Dalle finestre dello squallido casamento molti occhi incuriositi s'affissavano sulla macchina da cui scese Mirbeau, tutto vestito di nero: l'energico viso, virgolato da due baffi scendenti sotto le labbra marcate, gli occhi folgoranti sotto la rupe della fronte il naso schiacciato e un fil di denti trapelanti gli davano l'aria del can mastino.

 

 

Nel salone c'era il fumo e la peste della nicotina e uno strepito assordante. Dei giovani aggruppati in un canto cantavano canzonette incomprensibili; tra la nebbia si scorgeva nel fondo una mescita di bevande; di bocca in bocca passò il nome di Mirbeau, che parve avere un fascino diabolico: tutti urlavano come se il casamento fosse stato in procinto di bruciare.

Quando Mirbeau ebbe ruggito il suo discorso, schiacciando sotto il diluvio delle sue parole, e delle sue accuse, l'universo mondo, soltanto pochissimi furono introdotti nel saloncino ove egli era andato a rinfrescarsi. Egli pareva discretamente tediato della compagnia; dalla sala venivano canti trasmodati, e dalla via urli d'avvinazzati.

A tratti, su quella fronte poderosa, passavano i tremendi corrucci dell'Abate Giulio, e i sarcasmi del Calvario. Al paese avevo letto, a puntate su di un giornale, il terribile romanzo, suo, Sebastiano Roch, scritto in persona propria: letture che colano dentro l'ossa delle cervella e vi rimangono fino che si campa. Alcuni che parevano di sua confidenza parlavano con il grand'uomo, di cose insulse. Mirbeau plasticava con le mani, come volesse mantrugiare quelle cervella rincotte. A me, in un momento come d'incoscienza, venne sulle labbra una domanda, di cui ho portato il bruciore della vergogna per degli anni: – Ma voi siete proprio il Sebastiano Roch? – Chi conosce quel romanzo può capire come io, subito dopo, domandassi di essere inghiottito dal pavimento. Mirbeau mi fissò stupito, misurandomi da capo a piedi; poi disse, come se non volesse essere udito altro che da me: – Sì.







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