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LA FINE DEL QUARTIERE LATINO
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
Forse a qualche lettore distratto è sfuggita la notizia che a Parigi è finito il Quartiere latino. La notizia era scarna; pochi i particolari. L'ascesa vertiginosa dei fitti ha fatto snidare dalle mansarde la capelluta tribù dei fabbricatori di ipotesi, che si lambiccano il cervello in ebullizione con i perchè dei perchè; d'inverno martoriata dal freddo, nelle adiacenze della Sorbona, d'estate sciorinata alle frescure del giardino del Lussemburgo e consultante i sunti bisunti. Anche i proprietari dei caffeucci dell'inclito quartiere hanno fatto, sotto l'assillo medesimo, piazza pulita e si sono trasferiti altrove.
La notizia, come antico abitante del quartiere, mi ha riportato di botto a quel mio primo soggiorno parigino.
A quei tempi remoti, benchè ospite di un giovane filosofo Tebano, allampanato rigido e duro come un monaco della Tebaide, non mi occupai, nè lo potevo, di filosofia. Astratto e distratto, prendevo la vita com'era, gli avvenimenti come succedevano, all'avversa fortuna opponendo coraggio e rassegnazione.
Quando il mio ospite, inzavorrato di libri di formule e di sistemi, era stato inghiottito da uno scuro andito della Sorbona, scendevo nei giardini del Lussemburgo, i cui alberi neri erano fioriti di bambagia greggia del colore stesso del cielo grigio. Il verde delle panchine, verniciato dall'umidore, pareva dovesse tingere. Sul colore della speranza si sedevano dei disperati e pareva ci rimanessero impeciati, tipi di Diogeni ravvolti in un mantello di piombo, con la bisaccia a tracolla e il bastone, scalzi, con la pianta dei piedi risuolata da gronde di cappello legate agli stinchi con degli spaghi: fiatavano dalle narici della nebbia, quasi a confermare la sentenza del filosofo: La vita è fumo.
A quell'arie basse, tra quegli alberi che s'imparentavano con quelli dei cimiteri, aspettavo che il mio ospite avesse imbottato nel cranio, pelato dalle caldane, le interminabili lezioni di Bergson. Quando egli, tutto nero, appariva di fondo ad un viale, tristo in viso come uno che avesse bevuto aceto commisto con fiele, mi alzavo ed avevo la illusione di aver alzato anche la panchina. Il giardino, a quell'ora, si popolava di maschere e di spettri. Le maschere capitavano dalla parte di Montparnasse, fantocci simili ad un Velasquez deturpato, coi baffi all'insù, i capelli a zazzera, la barbettaccia a punta; e c'erano altri truccati alla Raffaella, coi capelli anellati dai rigori del ferro caldo, i pomelli e le labbra tinti di rosa; e c'erano dei falsi Rembrandt: gli studenti delle Belle Arti. Gli spettri scendevano dallo scalèo centrale, ombre peripatetiche incappate di nero e d'ombra, con la bianca dentiera in rilievo e gli occhi di maiolica. Le femmine, adeguate dal camice ai maschi, avevano i capelli tirati dal berretto di pelle, e gli uomini mostravano delle lunghe ciocche di capelli lustri. Entrando nel giardino, maschi e femmine, parevano andare nel Limbo dei santi padri; erano gli studenti e le studentesse di filosofia. Lì, mangiando poco pane, pareva si comunicassero, come i primi cristiani.
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Il mio ospite era di questa progenie e faceva digiuni e penitenze per tenere, – diceva lui, – in più rigorosa ubbidienza lo spirito. Un giorno, transitando insieme sul ponte del Louvre, – la Senna era del colore del fango, come il cielo, che vi filtrava per il tramite di un'acquerugiola, stacciata fine fine, – non so qual diavolo m'indusse in tentazione di riflettere ad alta voce: – La vita è un fiume.
– Cosa hai detto? – e l'ospite spalancò gli occhi, e sigillò la bocca e, con un gesto convulso di una mano, sollecitava la mia risposta. Mi convenne ripetere che per me la vita era simile a un fiume.
– L'ho inventato da me. Del resto, – continuai come uno che vuol salvarsi da un pericolo che lo minaccia, – tu dovresti sapere che Federico Nietzsche ha paragonato l'uomo a un ponte: ora vi sono ponti di ferro, di pietra, di legno. Ma non potei portare a fine la tesi, perchè il filosofo Tebano m'interdì di continuare, volendo prendere nota, per filo e per segno, di ogni mia digressione sull'interessante argomento, il che si proponeva di fare la sera a domicilio.
Giù, sotto i muraglioni, accenciati uno sull'altro si scorgevano dei figuri d'uomini, scarniti, umiliati, come quelle ombre dantesche che, per sostener solaio o tetto, «si vede giugner le ginocchia al petto». Quegli esseri, preparati alla rivelazione delle grandi ore della Provvidenza, che suonano quando tutti gli sbocchi della vita sembrano ostruiti, le aspettano lì, prossimi al fiume, che io incautamente avevo paragonato alla vita.
Le campane di Notre Dame, la tozza cattedrale dalle braccia tronche, suonarono come annunziassero che le grandi ore della Provvidenza stavano per rivelarsi, e alcuno di quegli spettri alzò il capo verso il cielo tenebrato, con un lampo d'ultima speranza negli occhi già velati d'ombra. A quei tocchi il filosofo soleva ridursi al suo domicilio.
Per tutto il tempo intercorso dalla mia definizione della vita al suono delle campane di Notre Dame, il filosofo, camminando a capo basso, pareva che ogni tanto dovesse ingollare delle nocciuole col guscio, perchè spalancava gli occhi e si slargava il colletto inamidato. Quando ritransitammo il ponte medesimo ed egli ebbe poggiato il piede sul punto stesso in cui io lo avevo inchiodato con la mia affermazione, si dismagò e con tono inquisitivo, mi disse:
– Qui tu hai dichiarato che la vita è un fiume.
Ci fermammo sul pilone centrale e, appoggiati alla spalletta, si guardava la gran fiumara lutulenta, che pareva con gl'ingorghi voler tirare a risucchio le pietre. Si accesero i lampioni; le sirene dei vaporetti, ravvolti nel caligo, sembravano muggiti di mucche travolte dalla piena. Il filosofo si martirizzava sulla definizione, ed io pensavo che quelle acque vorticose andavano al mare, e sul mare c'erano aperte le vele delle barche del mio paese, e socchiudendo gli occhi vidi una grande luce.
Il ponte pareva che ogni tanto dovesse franare: veicoli pesanti lo terremotavano; una masnada di gente vi strepitava sopra; le antiche vetture, a tendine calate, poichè i cavalli erano occultati dalla folla, sembravano dei confessionali sulla portantina; gli studenti della pittura falsi Velasquez, Raffaelli deturpati, Rembrandt trasmodati, sonando pifferi e saltando conturbavano gli spettri scarniti dalle deduzioni filosofiche, che a quell'ora si ritiravano alla meditazione.
Il filosofo Tebano, dopo una lunga riflessione sul corso vorticoso delle acque, rotolò cupo verso l'opposta riva, ed io andai dopo meditabondo. Silenziosamente raggiungemmo il Quartiere latino che sembrava una fiera. Sull'imbocco di un boulevard, la statua dell'arcangelo Michele, armata del brando serpigno, pareva volesse far respice finem di quella baraonda di forsennati; la grande Ruota pareva precipitata dal cielo per macinare quella gente, quando fosse stata affettata.
– Cos'è tutta questa baraonda, chi sono tutti questi spiritati? – dimandai al mio ospite, ancora ingrugnato.
– Questi sono studenti – rispose il filosofo.
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Quella sera lontana, ridottici al domicilio, il filosofo Tebano spettrale, prendendomi un polso con una sua mano marmata, mi disse: – La vita è un fiume?
– Che, se si divide in molti rami, secca.