Lorenzo Viani
Il cipresso e la vite

GIOVANNI BATTISTA GIORGINI

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GIOVANNI BATTISTA GIORGINI

 

 

 

 

 

Trascorrevano i tempi in cui gli Italiani, nelle settimane elettorali, alzavano i gonfaloni sulle torri comunali a sfida del paese finitimo, quando Pietrasanta elevò il suo su quella rude e quadra di Donato Benti contro Viareggio che faceva garrire l'ancora in fondo bianco di sul vertice della torre della Principessa Matelda. Gli uni si battevano per Giorgio Giorgini Diana, gli altri per Angiolo Giambastiani. I viareggini non erano riusciti a portare nemmeno una sentinella morta oltre Tonfalo: il confine; i pietrasantini, invece, avevano stabilito una rocchetta giorginiana in Viareggio proprio nell'antico albergo «la Vittoria» dove un Giuseppe Giusti scrisse la satira:

Che i più tirano i meno è verità.

I pietrasantini stimarono giovevole alla lor causa di fare un colpo che dovesse confondere i nemici col vanto di un nome congiunto a quello del loro cuore; e riuscirono, chi sa con quale arte, a far scendere dalla Rocca Romana di Montignoso alle deserte sale del «Vittoria» il senatore Giovan Battista Giorgini. E per tutto quel giorno i pietrasantini, dalla veranda dell'albergo, fecero sventolare un bandierone di tre teli: W. Giorgio Giorgini Diana».

G. B. Giorgini «dalla cui bocca scaturirono più che mel dolci d'eloquenza i fiumi – non a lusinga di passioni, non per adulazioni di vanità, non a piaggiar vizii o debolezze d'uomini, sì ad ammonire, persuadere, convincere...», stazionò per breve tempo nell'albergo dal nome fatidico e quello lo impiegò a leggere l'epigrafe murata sotto la finestra della camera che occupò il suo grande amico e a scandir versi di lui:

 

Oh mondo mondo oh gabbia d'armeggioni

di grulli, di sonnambuli, d'avari

i pochi che per te fan dei lunari

son pur minchioni.

 

 

Monte Tignoso che si eleva sulla città di Massa, sprone simile a un promontorio entro il piano che si ricongiunge sopra, col crescer del dorso, con la grand'Alpe del Carchio e con tutto il vasto e impervio paese degli Apuani, fu la residenza preferita del senatore G. B. Giorgini. A Massa, tra il 1907 e il '14 fu provveditore Ugo Brilli. Anche costì egli era consolato da' memorie di poesia; pochi anni prima Giovanni Pascoli vi aveva insegnato greco e latino al Liceo «Pellegrino Rossi»; e a Brilli era nota una villetta situata in mezzo a un vasto giardino pieno di fiori e di nidi ove le sorelle del poeta, Ida e Maria, accoglievano festose gli amici di Giovannino.

Stabilitosi nell'ufficio di Massa, Ugo Brilli rompeva la monotonia delle «pratiche» salendo sovente di Montignoso, ospite del senatore Giorgini. I ricordi di quelle visite e dei dialoghi sono notati in un quaderno di scuola; – «Con mirabile chiarezza ricordo:

a) dualismo nel Carducci: pareva gli si avvivasse al tavolino ciò ch'era in lui più di violento e impetuoso, quasi l'inchiostro lo ubriacasse;

b) il Manzoni era in letteratura assolutista. Il libro era prima di tutto un'azione; bello se buono, brutto se cattivo. Così non faceva nessuna stima del Foscolo e del Leopardi: «Io sono gobbo: dunque Dio non c'è»: ecco definito il Leopardi.

Sei agosto 1907. – Il senatore lodò i versi pseudo-carducciani del Tanganelli: recitandoli a memoria li migliorava nella forma. a) Significò come in certo modo si sentiva solo, premortirgli tutti i coetanei. Il Luzzatti, – andato a trovarlo col D'Ancona, – era giovinetto quando lui si trovava al suo apogeo. b) Volevo persuadere il senatore a pubblicare nella Nuova Antologia la lettera al Martini e la «Pagina di Storia». Voleva rifondere tutto, non farne nulla. Il senatore è, come stilista, incontentabile. «Lo scrittore per volere essere troppo chiaro non deve lasciare «inattivo» il lettore: citò in proposito Livio e Tacito. Il Manzoni ammirava del Giusti la lingua. Non ha pensiero. In La terra dei morti per esempio non c'è un argomento; sequela di immagini. Lo presentò lui al Manzoni, la visita che avrebbe dovuto essere di ventiquattro ore si prolungò a quaranta giorni. Il Manzoni faceva disperare il Giusti a furia di chiedergli i «perchè».

Il senatore non voleva men sentir nominare il Carducci. Il Bonghi gli aveva detto come dicesse male del Manzoni. «Alla fin fine il Manzoni trae la gente in sacrestia». La signora Matilde gli lesse un giorno come di ignoto Sui campi di Marengo. Di cominciò l'ammirazione di lui.

 

Undici settembre 1907. – Gli ho portato i due ultimi poemi latini del Pascoli. La signora Matilde ha letto Il Ciocco e qualche altra cosa dei Canti di Castelvecchio. Egli ha osservato che il poeta non deve cercare l'ignoto come fa il Pascoli, ma scoprire quello che è in noi. La nostra coscienza è come tanti papiri avvolti su cui stanno assembrate le impressioni accumulate nella vita: il poeta ci svolge quei papiri, donde il diletto che proviamo leggendo nell'opera di lui quello che è stampato dentro noi. Ha detto essersi accorto che il Pascoli subisce la reputazione del Carducci.

 

Martedì due ottobre 1907. – Beppe Sforza mi ha condotto dal senatore. Era nervosissimo: ha detto che dalle poesie del Carducci c'è da cavare un volume (scelto) bellissimo scegliendo di qua e di da per tutto. E così del Pascoli. Di questo anzi parve disposto a giudizi severissimi. Cercherò fargli chiarir meglio il concetto. Ricordò come il Carducci, giovinetto selvaggio, avesse frequentato le sue lezioni a Pisa come andasse col Nencioni a raccomandarsi a lui, che lo accolse gentilmente, ma non lo contentò: si adoperasse a farlo nominare a Pistoia, di che il Carducci non fu contento. Si lodò molto del Carducci, che famoso disse bene di lui specie per le versioni latine e di un giudizio sulla questione della lingua. A proposito di che affermò che il Carducci voleva scrivere sul Fanfulla contro la prefazione al «Nuovo Vocabolario», ma ne fu dissuaso dal Martini.

 

Martedì 8. – Mi partecipò, un giudizio del Manzoni. «La vita dare imagine di una gran vasca dentro la quale ci fossero molti uomini in pericolo di affogare. Per salvarsi cerca l'uno di sopraffare l'altro: si salva il più bravo in cotesta lotta disperata».

Mi ha mandato a prendere da Beppe. Aveva ricevuto una lettera della figlia del Digny per un'iscrizione da mettersi sulla tomba del suo amico. Lodando e chiamando ricordi del Digny gli venne fatta chiacchierando questa:

 

«Guglielmo Cambrai Digny – ciò che lo distinse – dagli uomini della sua età – fu la tempra del suo carattere – ma nel tempo stesso incrollabile fermezzacolla quale – sdegnoso delle facili glorificazioni di un'ora che passaricercò quella più durevole fama – che dopo morte va di grado in grado crescendo – e la salvezza del popolo antepose – al suo plauso».

 

Rileggendola la ridusse alle ultime cinque linee.

 

Domenica 13 ottobre. – Ha accennato alla grande ammirazione del Manzoni pel Monti. Come questi non volesse apprezzare il Cinque Maggio. Il Monti vecchio ce l'aveva con l'Imperator d'Austria: «Morto sparatemi, raccogliete quello che avrò nelle budella e mandatelo all'Imperatore in un vaso d'oro». Raccomandò al Manzoni, morendo la sua fama. «Che altro posso, – replicò questi, – che recitare i versi? Così si spiega il «Salve o divino cui largì natura».

Disse alcuni sonetti del Prati improvvisati al Consiglio Superiore contro il Bonghi:

 

Platonico puttin pieno d'ingegno

che rinnovi alla sacra Iside il velo

 

e contro Mamiani:

 

Sillogizzar sull'intime ed eterne

leggi del ver che in ogni tempo fue.

 

e una rivolto a lui

 

Giorgini Giorgin Giorgin mio bello.

 

Fu egli contrario nel Consiglio Superiore all'insegnamento del greco obbligatorio. Nel Consiglio Superiore ai suoi tempi solo il Bonghi sapeva il greco: lo volevano obbligatorio il Villari, il Mamiani, il Brioschi che non lo sapevano. Anche il Manzoni non lo sapeva.

Vi fui solo (14, mercoledì). Gli narrai del successo della Nave (era di buon umore) e dello spettacolo magnifico. Mi disse che le tragedie del Manzoni non erano state rappresentate mai, che vi era troppo pensiero; e il pubblico non poteva tener dietro al poeta. Il Manzoni mandò l'autografo del Cinque Maggio all'Imperatrice Eugenia per consiglio del Giorgini, al quale il Manzoni richiesto disse che in quell'Inno non v'erano che due sentimenti in giuoco: meraviglia e pietà.

 

Venerdì 5 Marzo. – Il senatore pensa a tradurre il Porta. Aveva già tentato, insieme col Giusti, – e col Manzoni dietro le spalle, – a tradurlo, ma avevano dovuto riporre il pensiero. La signora Matilde mi diceva stamanisabato 26 – che suo padre cessò di studiare nel '48 (a trentadue anni) buttandosi alla vita pubblica e di società e riprese a meditare, se non a studiare, a 85 anni (1901). Diventò cieco: «Se fossi diventato cieco prima, avrei potuto lasciar qualcosa».

Del prodigio della sua memoria in questi ultimi anni diceva: «Pare una cloaca dove confluisce ogni rifiuto. L'altro giorno recitò tutto l'Inno alla terra del Carrer. Ieri sera recitò a me dei versi greci di Ero e Leandro, ricordandone la traduzione del Padre Gatteschi». –

 

 

Una lontanissima sera il Giorgini volle esperimentare la prodigiosa memoria in un salotto aristocratico pisano ove il Giusti declamava a una scelta raccolta di signore una lunghissima poesia sua inedita. Quando il poeta ebbe terminato la declamazione tra il plauso dei presenti, il Giorgini si alzò e disse: «Signore, il Giusti stasera è in vena di scherzare perchè la poesia che egli ha declamato è mia e ve ne do la prova manifesta».

Il Giorgini all'istante declamò per filo e per segno la poesia. Tutti stupirono compreso il Giusti che si accigliò anche, ma lo stupore crebbe quando il Giorgini volle dare la controprova risalendo, nella declamazione, dall'ultimo al primo verso.

 

 

Quale arte diabolica avranno esperimentato quelli di Pietrasanta per indurre un tale uomo a scendere dalla Rocca Romana di Montignoso nella rocchetta di Viareggio?

In segno di giubilo per tutta quella notte, sotto la rossa torre di Donato Benti, ci fu baldoria. Uno scalmanato guidò la sciurma d'agitati a folleggiare sotto al monumento di Leopoldo, sulla cui base era stato scritto a scherno dei finitimi: «Abbasso quelli che san di stoppa, di pece.... e di sale!».

Se lo scalmanato avesse saputo che, il 25 aprile del 1839, in Firenze, Giovan Battista Giorgini aveva scritto, per incarico di Cosimo Ridolfi, il manifesto della rivoluzione, forse anche la statua del flemmatico Canapone, in quella notte memorabile, sarebbe stata gettata nel Tonfalo.







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