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CACCIARE E CANTARE
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
L'estuoso giugno del 1891 il pittore Ferruccio Pagni se ne stava abbozzando una tavoletta lungo una viottola del Lago quando vide venire verso di sè un carrozzino con due uomini. Gli uomini del carrozzino giunti alla sua altezza si fermarono, osservarono il dipinto, scambiarono sottovoce le loro impressioni e tirarono avanti.
Di lì a poco passò vicino a Ferruccio. Pagni il «sor 'Ugenio» una specie di divinità lagustre (il conte Eugenio Ottolini) il quale disse al pittore:
– Hai visto quei signori col calessino?
– Sì.... e allora?
– Quello più giovane e più grosso sai chi è?
– No.
– È Puccini, l'autore delle Villi, opera che s'andò a sentire al «Verdi» l'inverno passato.
– Toh, se lo conosce, perchè non mi ci presenta?
La conoscenza fu rapida, cordiale e fraterna: – Puccini, questo è il Pagni.
– Bravo; è venuto tra noi? – disse il Pagni al Maestro.
– Ho l'impressione che qui ci starò bene – disse il maestro guardando il Lago, i monti di Lucca e di Pisa.
Da quel giorno Puccini, come egli soleva dire tante diecine d'anni più tardi, «s'intorrelagò».
Da Parigi, Londra e Berlino, scriveva «Amici! non vedo l'ora d'intorrelagarmi; mi ci voglio tuffare come una folaga, voglio infolaghire».
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L'algida e piovorna mattina del 30 novembre del 1926, dopo una sosta a Milano, il Maestro, costretto in una cassetta d'abete, alzata verso il cielo diaccio e plumbeo dai fedelissimi, ritornò, per l'ultima volta, al paesetto lacustre. I boscaioli, dai panni profumati di ragia di pino, i traghettatori del Lago tra cui v'era anche «Caronte», i cacciatori, gli opranti, increduli quasi, osservavano il corteo silenzioso. Dalla stazione alla chiesa c'è un tiro di fucile, e per quel tratto, simbolo per il Maestro che fu cacciatore d'istinto (la caccia andava avanti anche alla musica) gli amici vollero che il Maestro fosse lasciato in compagnia di loro soli.
«Ho l'impressione che qui ci starò bene».
– Durante il tragitto ho pensato che Giacomo dovesse ripetere le parole che disse il primo giorno che l'incontrai sul Lago, in parola d'onore. – Diceva il Pagni agli amici quando la salma del Maestro fu deposta sull'altar maggiore della piccola chiesa.
Un accordo lene di violini, alberi di selva gementi per magia di uomini, diffondeva nel tempio, coi motivi suoi prediletti, l'anima del grande Maestro.
Dopo la benedizione, amici e camerati accompagnarono il Maestro all'estremo riposo prossimo alle sponde del Lago che per tanti anni egli aveva ascoltato mentre rivestiva di note le trame delle sue opere. Una densa caligine era calata sui pioppi, il fiatare dei campi acquitrinosi si accagliava sui rami sfrondati dei pioppi che parevano fioriti di bambagia, il Lago, e i monti s'erano intabarrati di caligo. Sulle facciate delle case coloniche che lineano la via del Lago, oggi intitolata al Maestro, tra festoni d'oro del granturco, c'erano i tappeti arancioni e rosso-sangue che si sogliono esporre soltanto la sera della processione del «Venerdì Santo» quando passa il catafalco con Gesù Crocifisso. In testa al corteo erano i gagliardetti dei Fasci di combattimento aculeati di baionette; una centuria marcava il passo, la Croce era avanti a tutti; simboli di combattimento e di pace garrivano intorno al Maestro. Il corteo funebre aveva della processione e dell'adunata.
Il tempo non dette un minuto di requie; le cateratte del cielo pareva si fossero spalancate su Torre del Lago, il nebbione aveva inghiottito il bosco, il Lago, i monti, le Apuane: pareva che un desiderio di dissolvimento avesse invaso tutto.
– Mio padre – disse pensoso il figlio Antonio – amava queste giornate, le riteneva adatte ai vigorosi raccoglimenti. – Iddio volle consolare il Maestro con una delle sue giornate preferite, nel giorno ch'egli entrava nella eterna luce.
Dal giugno del 1891 al 29 novembre dei 1925 quell'alto e puro spirito, italiano che fu il maestro Giacomo Puccini aleggiò e forse aleggerà per l'eternità su queste solitudini lacustri.
Oggi di quel Torre del Lago che commosse tanto l'animo sensibilissimo del Maestro non esiste più nulla; le lame sono state interrate, i falaschi falciati, le sponde dove si udiva lo sciabordìo e il chiacchierio delle acque sono state arginate, le ondate dei canneti, a cui il vento dava musicalità sibilante, sono state sbarbate a fondo perchè le talle non ributtino nella primavera; lo squallore di maremma su cui s'attrattavano le gru e migravano branchi di corvi, cornacchiando come rochi strumenti di un accordo lene, è sparito, l'anatraio dei germani ha preso il largo, nè s'ode più lo spettegolìo delle gallinelle nelle buche del Giannini dove le prunache selvatiche pareva pescassero alla lenza.
Nè più s'ode il cacciatore selvatico zampognare alle folaghe o flautare ai colombacci. Scomparsi Foraboschi e Forasiepe, Gambe di merlo e Strinetti, Boccia e Strinalampi, tutti quelli che la sera, sotto la gran cappa del camino di Emilio Manfrelli, «il marinaio d'acqua dolce», al roseo lume del vino e alla fiamma del ciocco favellano delle stragi d'uccellame.
– Oggi volevo lasciare sul verde della pineta una pennellata di sangue di lui là. – E il Maestro accennava alla comitiva dei pittori stregati dalle tribolazioni, il suo cane acciocchito tra la cenere calda. – Oggi ha fatto il vigliacco. Non ha levato nemmeno una farfalla ed io avevo la bramosia di sparare.
Se nel frattempo s'udiva uno sparo, tutta quella gente alzava gli orecchi come leprotti.
– Uno.... un altro colpo.... un terzo.
– Ma là, è scoppiata la guerra, e noi si sta i far le fusa come i gatti, nel canto del fuoco.
– Siamo diventati accademici dell'Anca – diceva il Maestro da buon lucchese. (Un manipolo di puristi lucchesi, seduti, un'anca sull'altra, tra libri, libroni e librattoli scardazzavano la parlata lucchese).
Quei cacciatori da bosco e da riviera uscivano all'aperto, varavano i barchini neri impeciati aculeati come lance, caricavano il remo di punta e quello di parecchio, gli schioppi, le cartucce, i retoni, «il diluvio», «le stampe»; certi uccelli di padule modellati col sughero e dipinti al naturale dai pittori della comitiva.
Il Maestro intanto s'intabarrava, calcava sul capo gagliardo la «magnosa», quel cappellaccio di tela incerata conformato sullo scudo della tartaruga, come sogliono portarlo i pescatori brettoni, calzava gli scarponi ferrati e spalmati di sugna, s'armava come un ferroviere, s'attrezzava di tutti i musicali richiami: sampogne, flauti palustri, zirli, e andava con l'andatura di un soldato a raggomitolarsi a pruavia del barchino; le palpitazioni del Lago sollevavano la fragile imbarcazione chiatta che di rimbalzo schiaffeggiava le acque che rotte pareva singhiozzassero.
Ma se il ritorno era vano, che desolazione. Nella disperazione il Maestro puntava lo schioppo sul cane prediletto che scorgendolo abbrividiva e arricciava il pelame, ma lo schioppo era senza cartucce. Per fortuna era l'ora della rasserenante composizione.
Perchè la cosa meno propagata è l'ara in cui il Maestro cominciava a comporre, ed era quella parte della notte che i Romani dicevano «intempesta» perchè il far niente in quell'ora era cosa tempestiva, ossia opportuna e profittevole, e sarebbe proprio il cuor della notte, e cessava quando cantavano i galli. Di solito Ferruccio Pagni, che per la sua alta statura, la sua magrezza, e la sua impassibilità il Maestro aveva ribattezzato «l'idolo cartaginese», vegliava contro le insidie di Morfeo.
– Sparano in Punta grande? – dimandava ansioso il Maestro all'idolo cartaginese.
– Ma guarda dove ti vòti il capo! Lavora ora.
Quando il Maestro seppe che volevo dedicare un mio libro «Alle raganelle della Fossa dell'Abate», che coi loro verdi gargarismi raddoppiavano lo spazio della notte, disse: – Soltanto i lavoratori nottambuli possono penetrare in questa dedica che è veritiera. Il sole manda in isfacelo la poesia.
Giacomo Puccini, musicista mondiale, cacciatore erratico, dalle lame torrelaghesi alle boscaglie del Calambrone, di lì tra i bugnoni di spine della Maremma, nei cavi dei bronchi impolpati d'acque nocenti, tra le ossature articolate di selvatiche ginestre dei monti di tutti gli isolotti dell'Arcipelago toscano, tra i nuraghi della Sardegna, nel mareggiare della Pampa, nel tenebrore dei Matti brasiliani. Cantare, cacciare.
Tutto è sepolto del vecchio Torre del Lago, ma tra la via rotabile «Giacomo Puccini» e il fosso della Burlamacca c'è ancora, vergine, una distesa di pianura fertile dove nel giugno, quasi a rammemorare il mese in cui il Maestro capitò qui, al gran sogno lunar di fruttidoro, d'una chiarezza silenziosa e bionda,
s'apron bocche di rosa umide e il canto
esce gonfiando il sen turgido chiuso
entro gli stracci grigi e cremisini,
a righe d'or dei vecchi bordatini....
Quelli che il Maestro amava e resero non amaro il pianto delle sue eroine.