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TRISTANO, L'ULTIMO DEI ROCCATAGLIATA
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
«Sai dirmi cosa è successo di Tristano?» domanda inquietante a cui da tempo non sapevo più come rispondere. Ma ora è giunto a casa mia un telegramma di persona a me sconosciuta: «infelice Tristano di Ceccardo Roccatagliata Ceccardi spirato ospedale di San Martino in Genova». Così si è estinta tutta la tragica famiglia del poeta apuano. Egli, morto il tre agosto del 1919, all'ospedale di Pammatone prossimo a quello di San Martino; pochi mesi dopo la moglie, spirata in Lavagna. Il fratello di Ceccardo, Luigi, anch'egli poeta d'aperto intelletto, sospinto dal pungolo del destino per le vie del mondo, dopo essersi assoldato negli Chasseurs d'Afrique, – la cavalleria della Legione straniera di Francia, – vedendo cadere in una monotona vita di guarnigione la sua illusione eroica in una cittaduzza fortificata sul confine del deserto, Sidi-Bel-Abbès, disertò, con armi e cavallo, raggiungendo Tangeri e là s'imbarcò come marinaro su di un brigantino genovese. Si seppe, dopo del tempo, che era morto improvvisamente a Frizzon, un solitario borgo delle Alpi Retiche, ed in quel piccolo cimitero fu sepolto, sul confine austriaco, davanti all'Alpe di Trento. Quando il presidente del Tribunale, a cui i due poeti dovevano rispondere insieme di reato politico, disse: «Per Luigi Roccatagliata estinta l'azione penale, perchè defunto», «Mio, fratello è morto!», esclamò il povero Ceccardo, e, cascò di botto sul pancone, sorretto dagli amici; ma egli, eroico spirito, proruppe subito dopo nell'esclamazione: «Oh, che pie' di straniero non calpesti mai la sua tomba!». Del fratello Luigi scrisse con tanta malinconia affettuosa il Nencioni.
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Tristano, l'ultimo dei Roccatagliata, si è spento, come una candela, in Genova, sotto il pondo della terribile eredità lasciatagli dal padre. Pochi conoscono il testamento di Ceccardo: «Ho amato il bene; ho combattuto per l'ideale. Posso aver anche, per la fralezza della carne, o per la dubbia apparenza delle cose che le danno i sensi, commesso il male; ma senza mia precisa volontà; del resto sul bene e sul male mi compiaccio della sentenza di Agostino. Lascio a mio figlio una terribile eredità di amore e di odio. Egli sa tutto, e sa quale rovina mi travolge. Se mi sopravvive a lungo, mediti, ricordi, e non perdoni. La mia memoria agli amici, ai compagni, agli estimatori; la vendetta ai compagni e ai fratelli. E a mio figlio, che benedico. Mi voglia perdonare. Addio ora e sempre».
La terribile eredità, che Ceccardo lasciò al figlioletto fu, invece della Nemesi dai capelli serpentini e dagli occhi di bracia, una grande malinconia, la magra sorella che accompagnò lui per tutta la vita. Sotto l'aspetto diabolico di Ceccardo, spaventoso nelle collere, c'era questa specie di tarlo invisibile che lo rodeva in eterno. Chi dei fidi apuani non ricorda l'esile Tristano, pallido come un santino di cera, attaccato ad una cocca della palandrana napoleonica del padre, andargli dietro, come i canotti legati a poppavia dei grandi velieri, e partecipare alle sue collere e alle sue bonacce, nelle taverne e nelle vie, negli angiporti e sulle cattedre? Venivano anche le ore del raccoglimento e della severità. Il padre traduceva Tacito, seduto ad un tavolinetto, davanti a cui era un grande specchio, dov'egli controllava come col tempo andasse prendendo il pallore di Napoleone; il figlioletto al tavolone grande travagliava intorno alle prime declinazioni latine: «Tristano, ti lascio una terribile eredità!». Il ragazzo guardava trasecolato il padre. «Il mio nome ti lascio!», e usciva concitato, non prima di aver guardato il compito del figlioletto.
E della madre, cosa ne è successo? Molti se lo dimandano ancora. L'inverno del '18, dispersi nella pianura acquitrinosa del basso Veneto, noi facevamo dei fossati e li orlavamo di ferri spinosi; i ghiaccioli sui rami steccoliti dei gelsi davano l'idea che la primavera ghiacciata consolasse in qualche modo il nostro travaglio. La posta, in quei deserti, era come la manna. Una cartolina di Ceccardo: tristi nuove del certo. Un talloncino di giornale: v'era incollato sopra un avviso funebre: «Ieri quietava il suo lungo strazio mortale in Lavagna Francesca Giovannetti, compagna amorosamente devota del poeta Ceccardo Roccatagliata Ceccardi. Nata da umile gente del Frignano, fu donna di aperto intelletto e di cuore generoso. Oh! possa, rasserenata e memore, rivivere nell'eternità di Dio, a cui ella credeva». Una firma, – Ceccardo, – e basta.
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Dopo la guerra, disperso di bel nuovo nella Val di Nievole, mentre stavo seduto su di una panchina in un viale cipressato, eccoti un giovinetto, esile esile, che mi consegnò un foglietto come una supplica. Lessi: «Caro Lorenzo, Tristano ha tanto sofferto, guardalo in viso». «Ma tu sei Tristano?». «Sì». E pianse. L'avevo lasciato piccolo, quando costringeva un cavallo di legno a finzion di galoppo coll'impeto di Giovacchino Murat, re e cavaliere, – era una visione ossessiva del padre, – e già coi maggiori correva, lanciando al segno, per queste alpestri vie d'Appennino, entro l'aperto passo tra le nevi spalate, il veloce disco di legno, e lo trovavo giovinetto alto e tribolato. La mamma era morta da pochi mesi e la dolente vita delle taverne e degli alberghi infimi era ripresa più intensamente; il figlioletto, come un piccolo scudiero, portava la «cravache» paterna e s'addestrava a colpire; il padre teneva in una mano un simbolico ramoscello di alloro: «Tristano, ci arriverò alla gloria?».
Dopo aver preso un modico viatico, il giovinetto Tristano si ridusse qui da una zia materna, per ritemprarsi nella solitudine e nel silenzio di questo borgo di leopardiana desolazione. Nella casa più squallida, dirimpetto al piccolo cimitero, al tremolìo dei pioppi che ricordano i cipressi, tra il canto discreto dei grilli, dimenticato da tutti, suo padre compose quei carmi e quelle elegie, conchiusi in versi, i quali, quando gli Italiani sapranno leggere per lor conto e diletto, arderanno inconfondibili nel sole. Di lì sono partiti i proclami per l'intervento e gli appelli disperati, alcuni dei quali, nell'originale, figureranno alla Mostra della Rivoluzione fascista in Roma.
Ceccardo era rimasto solo in Genova, a consumarsi l'anima per una passione nata troppo tardi. In forme allucinatorie vedeva riapprodare, alle sponde della sua anima esagitata, lo spettro della moglie: «È passata dal mio studio, tra i miei libri, accanto a me. Io non l'ho avvertita, il gatto sì, e il verdone nella gabbia ha sbattuto le ali angosciosamente; il gatto si è acquattato, dopo una corsa, pazza per la stanza. Dei libri sono caduti, dei fogli sono volati in aria. Era lei che passava. I morti ritornano». E via disperato lungo la Riviera, in cerca di devoti, a cui aprire il suo cuore: il volume, quello miliare dei Sonetti e Poemi, dedicato al figlioletto Tristano, aperto in una mano, e con l'altra, a colpi di «cravache», scandiva le sillabe alate:
O figlio mio, ti ridi? Autunno azzurro si specchia
con lusinga pensosa nei tuoi occhi sereni
e il tuo prim'anno chiude, offrendoti dolce vendemmia
d'oro, e il discreto eloquio de la paterna musa.
Tu al canto esulti, e cacci le mani nel sen della madre
o sul capo, che schiomi con un tenero grido.
Come gli antichi trovatori andava di osteria in osteria, tra conviti di amici, a cantare i suoi versi, quelli stampati e quelli che aveva fatti nella notte, preferibilmente in quelle da cui si spaziava sul mare. L'ultima cantata la fece a Boccadasse. Quand'ebbe cantato, si toccò il polso: «Centoventi pulsazioni: andrà come andrà».
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Al mattino, le cronache dei giornali genovesi narravano: «Verso mezzogiorno una barella della Pubblica Assistenza ha portato all'ospedale di Pammatone Ceccardo Roccatagliata Ceccardi. Una paralisi cerebrale lo ha colpito nella cameretta della sua solitudine». Gli amici lo chiamarono invano; la sera era spirato. Fu aperto il testamento: «Benchè io sia un Italico di sentimenti e di dottrina, accetto il rito Ario della purificazione del fuoco, Ai compagni, ai fratelli, l'eseguirlo.... Lascio a mio figlio una terribile eredità di amore e di odio». Nel cielo c'era un subisso di stelle; la Via Lattea, che traversano le anime degli eroi, andando al soggiorno della immortalità, pareva terminasse sul tetto dell'ospedale. La fronte di Ceccardo era diventata di cera, gli occhi s'erano, sigillati sereni, e la bocca sorrideva. Giunse un telegramma: «Ponetelo non lontano dal sepolcro di Mazzini, perchè riposi in quell'Ideale, che Egli respirò sino all'estremo anelito». Era di Gabriele d'Annunzio.
«Se l'Ade pria togliesse me, ricorda questo lieve sussurro di api; uscì dal cuor di tuo padre, timido cuore, che cresce e trilla, come in vetta a un pioppo un aereo nido»: Ceccardo, con il fanciullo sulle braccia, ritto sul portico di questa casetta gelida, gli faceva compitare la «Elegia» scritta per il suo compleanno. «Infelice Tristano di Ceccardo Roccatagliata Ceccardi è spirato all'ospedale di San Martino». Quando l'ombra del figlio s'è incamminata sulla via degli astri, avrà scorto lontana lontana quella del padre, detersa dalla malinconia e senza rimpianti, andare al suo destino in compagnia di poeti, di re, di mendicanti. Nel mondo non si soffre inutilmente.