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CON FERDINANDO MARTINI
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
Quando la Valdinievole celebrò in Montecatini l'ottantesimo anno di Ferdinando Martini, Luigi Luzzatti, invitato a collaborare a un «Numero unico» d'occasione, scrisse: «Ferdinando Martini attesta anche lui che non basta avere onorato la Patria con lunghi e nobili servigi per farseli perdonare, che l'ingratitudine è anche in Italia un fiore nazionale; il suo esilio dal Parlamento gli torna a onore, perchè non solo i suoi amici, ma anche gli avversari continuamente lo ricordano con questa domanda: Perchè Ferdinando Martini è fuori del Parlamento»? La risposta sarebbe stata semplice: Perchè Ferdinando Martini volle la guerra fino alle conseguenze estreme e difese la vittoria dal delirio.... La sera calava a grandi veli sopra il disordine di un comizio elettorale: la sua statura dominava la folla, la voce egli aveva crepuscolare, l'intonazione elegiaca: – Mi hanno accusato di aver voluto la guerra. È vero. Sento prossimo il tramonto della mia vita. Nell'ora del trapasso chiamo vicino a me le ombre dei 500.000 morti perchè questo sia più sereno....
A dire il vero, Ferdinando Martini parve fiero dell'ostracismo. Dal culmine della saggezza sorrise ai frombolieri che gli frantumarono i vetri di casa e ai ministri che lo escludevano dal Governo della cosa pubblica. Le onoranze, volute dai giovani della Valdinievole, da combattenti non immemori e dai primi manipoli fascisti coincidevano col tempo in cui Montecatini traboccava di forestieri: 31 luglio 1921.
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L'ingratitudine è anche in Italia un fiore nazionale? Guardate però che se gli Italiani, stirpe collerica, ma a fondo gioviale, decidono, in un momento di resipiscenza, di onorarvi e da vivo, lo fanno compiutamente. Le onoranze a Ferdinando Martini, iniziatesi alle nove antimeridiane in Monsummano, terminarono al teatro Kursaal di Montecatini nelle prime ore del giorno successivo. Una compagnia recitò tutte le opere del festeggiato e l'autore le ascoltò fino all'ultima battuta.
Un corteo imponente sfilò al mattino nel viale Verdi davanti all'unico ragguardevole edificio: il Municipio; ma Ferdinando Martini, dicono per ira di parte, non potè salutare dalla balconata la folla plaudente; lo fece molto compostamente ritto sopra un'automobile e vi ste' in piedi per circa un'ora. La massima parte del corteo era composta di gente sana, abbronzata nei campi, quelli a cui l'antica saggezza insegnava: «Lavorando bene, amici miei, voi vi arricchirete e arricchendovi voi servirete il paese e lo Stato. Restate nella vostra condizione di contadini; guardatevi per i vostri figli dal falso prestigio di una scienza inutile, propria, tutt'al più, a fare degli ambiziosi e dei malcontenti. Un buon agricoltore deve saper leggere e firmare i suoi contratti; un sapere maggiore non può che condurlo al male». Ma è proprio questa gente bonaria che rimane attonita di fronte all'uomo sapiente.
Ferdinando Martini era inconfondibile: alto, proporzionato, ben sagomato. La testa possente, olivastra tra il candore dei capelli e dei baffi, il colletto, la cravatta e lo sparato, che sembravano di marmo statuario, staccavano nettamente sopra la frappa di un querciolo stilizzato dalla roncola e dalle cesoie. Questa testa di patriarca bonario sorrise a tutti, non l'ombra del corruccio balenò su quella fronte torreggiante, il vigoroso pensiero saettava dagli occhi socchiusi, le labbra palpitavano per l'emozione. Più tardi, nel teatro stipato di folla, Sem Benelli fece un esame esegetico dell'opera del maestro. La sera, sul palcoscenico medesimo, come s'è detto, una Compagnia recitò tutto il «Teatro» di Ferdinando Martini. Egli ascoltò tutto con la espressione del villico che vede repentinamente cader la pioggia sopra una proda che Egli ha per lungo tempo pazientemente annaffiata.
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In quei tempi abitavo non molto distante dalla Villa Renatico, la sua residenza in quel di Monsummano, e stavo scrivendo, per istigazione di un amico, il Ceccardo. Confesso che quando per le vie incontravo il maestro «emporium di sapienza», come un ortolano definì il Martini, ero preso da peritanza come il ladracchiolo quando incontra il gendarme. Conoscevo qualche suo scritto e sapevo che aveva dato delle lecche a parecchia gente. Durante l'inverno avevo aperto, nel Circolo; dei Nobili in Lucca, una mia Mostra personale. Una mattina trovai sopra il tavolo dei cataloghi una carta da visita: Ferdinando Martini, e sotto scritto: «L'aspetto all'Universo». Feci una rapida inquisizione alla ragazza: – Dove s'è fermato? Quali quadri ha notato? Era solo? –Sì!
Rapidamente fui nel salone dell'Hôtel Universo. Martini mi venne incontro paternamente dicendo assai bene dei dipinti, ma io col Ceccardo, che mi frullava per il capo, rimasi un po' intontito. Anche nei quadri e nei disegni vi sono le sgrammaticature iperboliche, le concezioni esorbitanti, i periodi ammaccati, ma questi sono disvelati soltanto dai critici fioriti sulle muraglie del «900».
– Venga al Renatico, – disse, – parleremo con più agio.
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Quel pomeriggio in cui io presi la risoluzione di salire al Renatico non mi assillava più la concezione del libro: il Ceccardo era ormai nelle vetrine. Per prudenza non lo avevo inviato al maestro. Il Renatico è una magnifica villa situata nel mezzo a un giardino recinto di un muretto: vi si accede per un cancellino coperto di verdura. Un servo fedelissimo che mi fece sovvenire Tommaso Gogo comasco, il vecchio servitore dei Martini, così vivo in Confessioni e ricordi, accertatosi chi fossi aprì il cancellino. Tutto pareva sorridesse di me, anche gli alberi che sotto il vento fresco percuotevano insieme le foglie; il ghiaino sgranato dai passi pareva sghignazzasse. La Valdinievole, veduta dalla gradinata della villa, dopo una quinta di olivi argentei e grigi, sembrava il mare e barche invelate, le case sparpagliate nell'azzurro. Attesi nell'ingresso vastissimo dei dipinti dei più noti «macchiaioli» erano inquadrati nei cassettoni del soffitto dove aprivano sfondi di belle campagne e mettevano il sole nell'ombra. A un tratto udii la sua voce sonora:
– L'ho letto. – Il cuore mi dette una martellata forte sul petto e sentii schizzarmi il sangue al capo. – Mi piace.
Il maestro era apparso nel telaio che inquadra la porta dello studio. Io, impappinato e svergognato, balbettai: – Ma lei ha conosciuto Ceccardo?
Martini, che era già seduto allo scrittoio, alzò le braccia, aprì le mani e fece l'atto di chi vuole salvarsi il capo da una sassaiola.
– L'ha conosciuto, – pensai tra me.
– Mi piace anche il puzzo del suo libro, anzi, le dirò che lo preferisco dove c'è del tanfo.
Poi mi domandò così naturalmente: – Ma dica un po', Viani, di quei due «sagrati» non se ne poteva proprio fare a meno?
–– No, perchè, veda, Eccellenza, sono come due capitelli sopra un arco di spinta. – Il maestro sorrise dicendo ambiguo:
Poi, a bruciapelo, mi chiese: – O Ceccardo, quando mangiava?
L'osservazione era acuta perchè nel libro è accennata soltanto due volte l'ora del mangiare; ma io prontamente risposi: – Quando beveva!
Il maestro mi battè una mano sulla spalla e ripetè parecchie volte: – Ho capito, ho capito.
Così di scorcio io accennai alla giornata delle onoranze, al corteo, al discorso, alla rappresentazione in teatro. Egli fece un gesto come a dire: Al tempo al tempo. Mi mostrò il ritratto giovanile di Gabriele d'Annunzio, la maschera del Giusti e i libri, quanti, misericordia di Dio!, e riuscimmo nel salone: – Sicchè, lei ha conosciuto Ceccardo? – Il maestro questa volta sollevò le braccia e parve una di quelle figure che si veggono fuggenti sulle stampe del Diluvio universale.
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Dopo Ubriachi, si discusse molto di vocaboli; le parole: lembrugio, mammura, martuffagno, godigia, luneddiana ecc., che corrisponderebbero a ghiotto, fame, l'epoca delle sette vacche grasse, divertimento, festa dei calzolai, non gli riquadravano. Il loro significato enigmatico lo stancava e lo sviava. Il maestro chiese un giorno a un mio amico: – Ma quel continuo dialetto non vi annoia?
– Che importa; le parole si saltano.
– Si rientra nello sport, la cosa non mi riguarda, – rispose Martini, e accennò certi dolori agli arti inferiori....
Ferdinando Martini da giovinetto, – ricordate? – seguendo gli audaci consigli del Muzi, il quale meditava una riforma dell'ortografia, scrisse in un componimento cuore col «q». Il prete Chiti, suo maestro, quando trovò nel compito la parola quore saltò su come invasato. Lo scolaro provò a citare l'autorità del Muzi, ma nulla valse.
– Ma che Muzi e non Muzi! Cuore si è scritto sempre col c, e perchè si avvezzi a non scriverlo col q farà grazia di copiare le prime quaranta ottave della Gerusalemme.
– S'io fossi suo scolaro, cosa farebbe copiare a me? – Martini alzò la mano e la fece oscillare tra il mio capo e una varata di libri.
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Due anni dopo ci trovammo radunati nella sala maggiore del Palazzo Comunale di Montecatini, in sede di Commissione giudicatrice del concorso per il Monumento ai Caduti, Ferdinando Martini, Emilio Gallori, Adolfo Coppedè, Rizzoli di Bologna e io, inzeppato lì dal voto degli artisti concorrenti. Selezion facendo, ogni tanto ci si affacciava al balcone dal quale a fil di logica il giorno delle onoranze doveva troneggiare Martini. Per associazione di pensieri gli dissi: – Ella il giorno delle onoranze era là sotto quel querciolo.
– Andiamo, andiamo a concludere qualcosa di buono, – disse egli con l'ansia di chi non ha tempo da perdere. Dopo qualche ora l'opera fu prescelta tra le prudentissime eterne domande del Gallori (passate garbatamente alla storia da Ugo Ojetti in Cose viste):
– Ma quest'artista è sempre vivo?
– Se ha concorso parmi, – rispondevo io.
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Quando il bozzetto vincitore fu tradotto nel bronzo e collocato sopra un basamento di travertino nel parco pubblico, la giurìa fu invitata alla inaugurazione. Martini non era stato vulnerato dal tempo: dritto, elastico, vivace, schioppettante assistè a tutte le cerimonie in piedi. Alla inaugurazione intervenne un Principe di Casa Reale. Tutte le autorità furono convitate la sera a un banchetto di gala nel Municipio: cravatta bianca, vestito nero. Quelli in giacca e cravatta svolazzante furono ospitati in un hôtel e lì poterono fare, tra una conveniente baldoria, le ore alte della notte. All'uscita chi si sparpagliò di qui e chi di là. Io rimasi solo sopra il vialone di querce: la notte era serena, la luna matematica, l'orologio di piazza, stava immobile sul cielo vibrante. Avanti a me un signore alto, vestito di nero, contemplava il cielo. Non dovei stentar molto a riconoscere Ferdinando Martini.
– Maestro!
– Viani.
Aspettava inquieto un'auto che doveva condurlo al Renatico.
– Ricorda maestro l'imponenza di questo viale il giorno delle onoranze
– Spero che lei non pensi di farne una novella di queste famose onoranze, perchè si starebbe freschi.
L'auto strisciò l'asfalto, frenò: salitovi sopra il maestro, disparve rombando.
– Senza novella!
– Senza!