Lorenzo Viani
Il cipresso e la vite

RITRATTO DI GIOSUČ BORSI

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RITRATTO DI GIOSUÈ BORSI

 

 

 

 

 

Era proprio qui sotto le finestre del mio studio che Giosuè Borsi passava buona parte dell'estate: Fossa dell'Abate; prunaie e canneti screziavano la gran coltre del mare. Sulla via maestra i pastori paravano le greggi su pei greppi, e di greppo in greppo raggiungevano i verdi pascoli del piano di Solaio.

Giosuè, allora giovanissimo, seduto sotto un ciuffo di pini, scriveva gli articoli e pareva uno scolaro che fosse a ripetizione. Alle sue spalle grandeggiava il Gabberi, l'alpe scheggiata, alla cui base nacque Giosuè Carducci, il quale aveva tenuto a battesimo il piccolo Giosuè.

Allora il mio studio non c'era; c'era quello di Plinio Nomellini, rissoso contro il contadiname molesto e i cacciatori di frodo che si ostinavano a sparare nell'abitato, – Nomellini si ostinava a chiamare «abitato» la sua casa a tettoia, sola, tra pineta e mare. Nomellini, lavorando, cantava canzoni popolari in voga che, intonate da lui, diventavano incomprensibili, alternate da strilli come di uccello selvatico: – Gri, gri, gri.... – Nomellini sincopava così il nome della sua signora Griselda.

 

 

La sorella di Giosuè, Laura, posava per lui sotto una ciuffaia di oleandri. La signora Diana, agucchiando al calcio di un pino, narrava storie carducciane di Castagneto e di Bolgheri e lo stupore da cui fu colto il poeta quando Averardo Borsi, con uno stuzzicadenti appuntato, ridette moto all'orologio del poeta che si era, come suol dirsi, incantato.

Più tardi, sotto l'oleandro medesimo, posò Grazia Deledda; sul fondo di smeraldo acceso di fiammelle rosa spiccava il volto olivastro di «Grazia» – tutti le dicevano familiarmente così – con i grandi occhi smaltati e la prima ciocca di capelli bianchi sul capo nerissimo.

Più tardi, ancora, la furente Isadora Duncan danzò presso sul Gombo, allora deserto: due grandi nuvole facevano da sipario allo sterminato palco del mare. Molti anni prima io l'avevo vista, in forme di Ifigenia, sul sipario scarlatto della Gaité a Parigi; ma qui diventava piccola piccola e bianca. Una libellula dalle ali di seta, una di quelle chimere che in quei tempi inseguiva l'impetuoso Ceccardo su questi lidi di sogno:

 

O primavera questa notte ò pianto

ed ora il vento del mattino ascolto.

 

Giosuè Borsi capitava ogni giorno all'Agenzia dei giornali. Io non pensavo a scrivere, Minerva mi aveva ancora punito coi libri, perciò le nostre conversazioni erano serene e pacate: colori a rapporti di colore e basta. Una cosa mi colpì: il tempo spropositato che Giosuè Borsi impiegava per leggere il sommario di un foglio quotidiano. Allora i sommari si appinzavano con delle morsette a uno spago appiccato al muro. Giosuè puntava una mano annodata sul sommario, a braccio teso; reclinava il capo sul braccio e leggeva, tanto che io molte volte ho creduto si fosse addormentato.

Quando si staccava dal muro, Giosuè toglieva, con bel garbo, il monocolo, lo nettava con la pezzuola di tela e lo riponeva nell'arco orbitale come entro un incastro. Un taglio fondo sotto il monocolo dava al suo viso di adolescente un'espressione di sarcasmo artifiziato.

– Ma come mai tu impieghi tanto tempo a leggere un sommario?

Giosuè, molto più giovane di me, mi guardava come un pupillo, ma non rispondeva; anche la guancia senza monocolo s'affondava in una ruga, e i suoi denti bianchi e graniti sorridevano taglienti.

Non oso affermare che Giosuè Borsi sia stato il mio maestro di giornalismo, ma è certo che in casa sua – Firenze, via Faenza, – mi sono iniziato ai misteri, – per me quasi impenetrabili, –delle bozze. Quante ne ho vedute su quei tavoli sfornate fresche fresche di sotto il torchio, esalanti ancora di benzina e petrolio! Giosuè scriveva alla prima e correggeva volando. Scriveva chiaro, spazioso, con sicura determinazione.

La primavera del '13,Giosuè si apprestava ad avallare con tutte le sue energie l'opera di un pittore barghigiano fino nell'ossa, che fu doppiamente caro anche a Giovanni Pascoli, barghigiano tanto, il pittore, che nell'esilio di Parigi, – volontario esilio di penitenza, – egli scrisse su di una «garitta» di Meudon: «Abbasso Parigi. Viva Barga!». Giosuè giurava di aver ritrovato, dopo tanti anni, la garitta e il grido nostalgico.

Tutto era pronto per la mostra del Bargèo; ben disposti i quadri sulle pareti del «Lyceum», diramati gl'inviti, passati i comunicati alla stampa, sollecitata la critica. Giosuè doveva pronunziare il discorso illustrativo. Mezz'ora ci separava dall'avvenimento.

Giosuè? – chiese trepidante il pittore – fammi leggere cosa dirai.

– Io non ho scritto ancora niente; ma aspettate.

E Giosuè si sedette al suo tavolo e scrisse una quindicina di cartelle che rilesse soltanto nel salone affollato, e fu un vigoroso discorso polemico; certo il suo più lucido e più bello.

La sera, sui lungarni, si riparlò dell'avvenimento del giorno e gli manifestai il proposito di scrivere, appena mi fossi ridotto a casa, un articolo:

– Ma non avendo mai scritto bisogna che ci pensi su due volte; e poi lo pubblicherò su di un giornale settimanale, che si chiama il Libeccio.

Dopo una settimana spedii, sotto fascia, a Giosuè il Libeccio con l'articolo, e con mia maggior vergogna, dopo due giorni, l'articolo fu riprodotto nella terza pagina del Nuovo con in testa, come un pennacchio, un corsivo di Giosuè.

Dopo qualche mese, avvenne quello che avvenne: la conversione, l'interventismo, la guerra, I colloqui e la morte.







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