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IL BARONE ĞDRESDDEğ
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
Il Barone Dresdde era giunto al paese, in cui doveva tanto tribolare, di nottetempo. Il paese salutava il mare aperto con le braccia protese di pietrame, e la sera, quando s'accendevano i lumi, quello rosso che indicava il braccio di levante, e quello verde che indicava il braccio di ponente, pareva che il paese offrisse due fioretti al mare.
La mattina, dopo l'arrivo del Barone Dresdde al paesetto marinaresco, fu veduto, dai vecchi navarchi, che stanno sempre a torzo sul pietrato, un signore decaduto dal viso del germanese, con gli occhi scaltri e celesti che camminava impalato con le mani annodate dietro la schiena, che stringevano un bastone e un balaimme nero, e il signore pareva avesse la coda di legno. Era il Barone Dresdde in carne e in ossa. Dietro lui veniva una signora che pareva (tanto lo somigliava) il barone Dresdde vestito da donna. Quella signora si seppe poi essere la madre del Barone Dresdde.
La madre del Barone Dresdde tribolata nel viso e suppliziata nei piedi, in un linguaggio incomprensibile, pareva supplicasse il figlio di attenderla, ma il barone Dresdde dal viso rinceppato d'alterigia andava oltre impettito e indispettito. E la vecchia proverbiava:
– Bada che finirai più giù che in terra.
– Chi sarà? – si chiesero stupiti i vecchi marinai dopo aver fissato il Barone nel bianco degli occhi.
– Un superbioso del certo – commentò uno che aveva girato il mondo.
– Non vedete che si pitizza con quella vecchia?
Infatti il Barone Dresdde e la madre appena giunti sulla cima del molo si liticarono a più non posso.
Quando ritornarono verso il paese mantenevano la distanza medesima di quando erano passati, lui ammusato e la madre lacrimante.
– Chi sarà?
Si seppe che il Barone Dresdde e sua madre avevano preso alloggio nella casa del Segretario Comunale, e che tutte le guardie municipali, e i grascini, riverivano il barone Dresdde e gli dicevano sottomessi:
– Ai suoi comandi!
Con le guardie municipali, ed i grascini dalla sua, il Barone Dresdde mise sù una muffa che pareva stato un anno in cantina, invece il popolo al suo cospetto diventò umile come un cagnolino.
Il Barone Dresdde si vedeva sovente parlottare col capo delle guardie ed indicare or questo or quello.
– Che si sia messo a soffiare nella minestra? (Che in lingua di gergo vorrebbe dire: Che si sia messo a far la spia?).
– Cent'anni il ladro e mai la spia – diceva terrorizzato un Vàgero.
– A Livorno l'avrebbero già buttato in «Venezia» (popoloso quartiere della città intersecato di canali).
Il Barone Dresdde al buon giorno dei popolani, rispondeva con un ruggito.
– Ha il diavolo in corpo – dicevano mortificati i popolani.
– Eppure dal giorno che l'abbiamo dato a balia lo rivediamo ora.
Qualche marinaro asseriva di aver visto, non visto, sulle dune di levante, verso i bugnoni delle prunache, il Barone Dresdde che si tapinava per la terra come un derelitto e che invocava, a mani giunte, la morte e che si strappava i capelli e si faceva intoppo alla bocca con delle manate di sabbia.
– Sicchè è ridotto al pan bianco (alla ostia consacrata) – diceva qualche vecchio marinaro.
Si seppe dipoi che il Segretario Comunale gli aveva dato la disdetta e che le guardie e i grascini salutavano a malapena il Barone Dresdde.
– O della madre, cosa n'è stato?
– È pane per le formiche da una ventina di giorni.
Ma si seppe una cosa che fece rimanere di sasso i vecchi navarchi e spiegò tante stravaganze del Barone Dresdde: si seppe nientemeno che il Barone Dresdde era gobbo.
– Pitta m'ingolli se ci credo. Era dritto come un palo di telegrafo.
– Dovete sapere che il Barone Dresdde occultava la gobba sotto la cappa dal balaimme nero, ed empiva il vuoto del costato con le mani annodate sulla schiena e gli dava la leva col bastone, ora è là sulla piazza, nelle mani dei ragazzi. Il balaimme era tanto unto e liso che faceva ribrezzo alle pietre e il Barone si è messo un taittino a coda di rondine che gli fa aggettare una gobba simile ed una zucca frataia.
– Quando c'è carestia di sedani rialzano i gobbi – gli urla un ragazzo.
Il Barone gli sventola una legnata che, andando a vuoto, lo fa ruzzolare per la terra.
– Gobbo levati son le sei –– gli urla un altro ragazzo.
– Sor Barone, è giallotto, si alzi.
– Andiamo spalla allegra, la si rigiri.
Lui ha una lingua che taglia e cuce, così inviperito batte a dritta e a manca; ai ragazzi gli urla:
– Macrò.
I vecchi che avevano navigato la Francia capirono l'antifona. Le guardie guardano la scena e sogghignano.
*
* *
Di lì a pochi momenti si vide apparire di fondo alla Dogana il Barone Dresdde tutto stravolto nel viso paonazzo, con gli occhi celesti che gli schizzavano fuori del capo, e una bavarella bianca alla bocca come i cani idrofobi, e giostrava con un coltellaccio castragatti, e dava coltellate all'aria. I vecchi girarono alla via di ponente.
– Di questo infame paese ne faccio tonnina – gridò furibondo il barone Dresdde passando davanti ai vecchi marinari.
Quando i vecchi marinari si voltarono, il Barone Dresdde era già alla prima bilancia, il taittino, non tagliato a suo dosso, e non avendo il cavo della gobba, rialzandosi pareva avesse allungato d'un paio di palmi le gambe del Barone, e la gobba pareva piantata sulla cima di due seste spropositate, e la testa del Barone Dresdde pareva uno zucchino rimesso su di una zucca.
– Sulla cima del molo c'è un gobbo che piange – disse un marinaro che ritornava di là – pare un delfino quando s'informa: del bene non ne porta di sicuro, speriamo che non porti del male.
– Quel gobbo ha il nero in corpo come le seppie.
– Ha giurato respice fine del nostro paese.
– E perchè?
– Perchè stamani è stato sbeffato in piazza.
Le sbeffeggiature avevano ridotto il Barone Dresdde alla croce dei missionari, sul piazzaletto del convento dei frati francescani: lì, seduto sulle gradole della croce, col capo tra le mani annodate, non era scorto da nessuno e poteva condolersi con qualche altro derelitto che, come lui, aspettava in santa pace la zuppa dei frati.
– Pensare come son ridotto! Il Barone Dresdde, col B maiuscolo, ridotto a battere il ferro diaccio dell'accatto alla porta di un convento.
– Dimmi chi sei e non mi dir chi eri – commentò l'accattarotto che gli era vicino.
– Lo so, ma non sarei più io se non mi medicassi col pelo di chi mi ha ridotto all'uscio dei francescani.
*
* *
Il Barone Dresdde dormiva in una stalla:
– Gesù c'è nato, ed io ci morirò – soleva dire ogni sera prima di gettarsi dentro una mangiatoia.
L'alito dei cavalli e delle giumente riscaldavano lo squallido androne e l'odore dei fieni nelle rastrigliere facevano sognare il Barone Dresdde d'essere sdraiato in un campo di fieni in una notte di luna estiva e gli pareva anche d'essere diventato dritto come lo stollo d'un pagliaio. La mattina sentendosi quel gobbo dietro la schiena malediva i suoi genitori.
Rasentando i muri come un paralitico, si portava verso la piazza del mercato dove c'era la Camera del Lavoro, ma non essendo un organizzato non riceveva nessun beneficio dai camerali. Gli altri accattarotti lo beneficiavano d'insulti e lo facevano bevere alla tazza del veleno.
– Vai al paese che ti ha biasciato quando spendevi a destra e a manca. Ricordati di quando risoffiavi tutto alla questura.
– Quando ti facevi vento coi fogli da mille pareva che noi si puzzasse tutti come avelli scoperchiati. Ti si faceva schifo!
– Ora che non ti raccatta più nemmeno il barroccio del comune, che ruscola anche lo sterco, ti sei buttato verso i camerali.
– Ti spedirei alla Sardigna, dove si fa morca da barocci con le carogne pari tuo. Non ti accorgi che non ha più faccia da mostrare.
– O ludro, o furo, o malaisso.
Il Barone Dresdde faceva compassione anche alle pietre, ma gli accattarotti lo avrebbero volentieri inforcato per fargli vedere di lassù il suo paese nativo.
Nelle nottate di sinibbio, quando il vento gelato marmava anche le panchine di legno, il Barone Dresdde, a cui erano come insugherite le gambe, rimaneva lì sotto il cartellone della Camera del Lavoro dove c'erano dipinti dei trascurati come lui.
Il pittore, che aveva dipinto quei disgraziati, quando passava di lì, verso la mezzanotte, apriva al Barone Dresdde il portone camerale, e lo faceva giacere sopra una panca dopo avergli pagato un castagnaccio caldo che gli abbracciava lo stomaco.
– Vi siete messi la serpe in seno – gridavano al mattino gli accattarotti vedendo uscire il Barone Dresdde dal salone camerale.
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I camerali trovarono un'occupazione anche al Barone Dresdde. Un impresario di cinematografo cercava un gobbo per poterlo vestire alla goldoniana e metterlo fuori al suo teatro come richiamo. Aveva sentito prima un calzolaio gobbo, ma poco mancò che non lo prendesse a trincettate appena sentì la proposta, anzi il calzolaio gobbo, di nottetempo, fece una radunata di tutti i gobbi del paese, i quali giurarono che il primo gobbo che avesse messo i gobbi alla berlina lo avrebbero preso a trincettate.
E così fu. Appena il Barone Dresdde apparve su di un palchetto col tricorno in capo e la livrea rossa orlata di giglietti bianchi, con il lungo bastone col pomo d'avorio, e le calze con gli scarpini con la fibbia d'argento fu preso a traito da un gobbo, che aveva le braccia lunghe come un quadrumano, e gettato per la terra dove altri cinque o sei gobbi inviperiti lo battezzarono di pedate sul viso, ed avevano già messo le mani agli stiletti per trucidarlo, ma l'allarme dato, con la sirena ai gendarmi, li mise in fuga, ed il Barone Dresdde fu ridotto un ecceomo.
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Il calzolaio gobbo interloquì nella seduta segreta della Commissione esecutiva camerale dicendo che c'era dei gobbi morali che volevano porgere aiuto al Barone Dresdde (gobbo e spia approvata dal governo), ma avvertiva che se lo avesse ritrovato, un'altra volta, nei locali camerali l'avrebbe preso a stilettate.
Il gobbo Dresdde beveva la tazza del veleno sulla panca di fuori del caffè notturno, e la mattina era ridotto come un gelato. Nelle sofferenze gli s'ingrossava il fegato, e gli s'empiva di bile, anzi la bile l'aveva fatto diventare giallo come lo zafferano. Le gambe del tutto insugherite gl'interdicevano di stracinarsi al convento dei frati francescani per trangugiare la ciotola della zuppa e doveva cibarsi coi fondigli dei caffè.
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Una notte tutto il paese fu messo in subbuglio: schioppettate sul porto, schioppettate alla caserma dei carabinieri, schioppettate presso i locali camerali.
Una rivolta era scoppiata nel paese, i camerali avevano preso man forte sui gendarmi, bombe a refe nere scoppiavano da per tutto, i timorati della legalità correvano a rifugiarsi nelle chiaviche e nelle cantine, i «locali» calarono le saracinesche e parve che delle mitragliatrici sparassero ovunque. La forza si era barricata nella caserma, aspettando man forte dai soldati di fuori. I Ponti levatoi furono aperti dai rivoltosi e gli altri minati.
Il Barone Dresdde s'intanò come un gatto in una rimessa di barrocci, s'occultò sotto un copertone, e di lì speculò quello che accadeva. Avendo egli fatto i collegi segnò, a modo e verso, i nomi e i connotati di tutti gli scalmanati che si davano da fare e quando fu il momento buono, cioè quando i rivoltosi cedettero, ai primi colpi dei «fucili borghesi», le armi, egli rifischiò tutto alla polizia e volle essere segnato tra i primi testimoni d'accusa.
E come Rigoletto cantò a voce piena:
– È giunta alfin la tua vendetta o duolo.
Il calzolaio gobbo era fra gli indiziati e una quarantina di scapigliati erano in trappola. Nessuno nel paese aveva veduto nulla. Ma c'era il Barone Dresdde che aveva veduto tutto.
– T'andrebbe messo i piedi dove hai la testa – gli urlavano inferocite le donne degli arrestati.
– È più maligno d'Aristarco. Bada che il fosso beve!
Quando il macellaio di Pelleria tagliava il capo ad un vitello, se in quel momento transitava il Barone Dresdde, urlava:
– Lo saprei a chi tagliare il collo.
Quando il calzolaio del Bastardo insetava le suole al fiosso con uno spago a sei fila, e vedeva il Barone Dresdde, urlava:
– Lo saprei io chi trafiggere come un San Sebastiano.
Se il concino di via Pinciana scardazzava un'acciata di lana e vedeva passare il Barone Dresdde gridava:
– Lo saprei io chi scardazzare sotto i ferri.
Se il Barone Dresdde andava per le darsene e lo scorgevano i calafati, i quali trafficavano intorno alle caldaie di pece bollente, gli urlavano:
– Bisognerebbe digrumarlo nella pegola.
Gli spaccasassi seduti sui cumuli di breccia, se scorgevano il Barone Dresdde, gridavano:
– Andrebbe sbrecciato in mille picini il gobbo nefando.
Il Barone Dresdde lo volevano scardazzare, trafiggere, impegolare, decapitare, bollire, affogare, incatricchiare, ma lui fermo nella sua deposizione orale e scritta non vedeva il momento di poterla scodellare alla Corte a viva voce:
– È giunta alfin la tua vendetta o duolo!
– Ricordati la fine, gobbo nefando.
Sia l'onda a lui sepolcro, un sacco il suo lenzuolo. Pensa che il mare è lì davanti spietato.
*
* *
Finalmente venne il dì della vendetta o duolo. Nel gabbione della Corte d'Assise c'erano tutti i capi banda, il tavolone della difesa era zeppo d'avvocati, le famiglie degli imputati gremivano l'aula. Quando l'usciere urlò come un galletto «La Corte!» tutti s'alzarono umiliati. Le facce fiscali dei giudici guardarono basse. L'usciere fece l'appello dei testimoni a difesa, una litania che non finiva mai, quando fece l'appello di quelli d'accusa, chiamò soltanto: «Barone Dresdde. Si faccia avanti il signor Barone Dresdde».
I testimoni di difesa si divisero come se fosse passato Lazzaro risorto. Il Barone Dresdde salì la pedana e s'ebbe le riverenze del pubblico ministero e quelle della parte civile.
Dopo gli avvertimenti di rito i testi furono fatti ritirare. Il Barone Dresdde fu messo in uno stanzino appartato.
I censiti negarono tutte le imputazioni.
Gli agenti confermarono tutti i verbali.
Il pubblico Ministero fece le sue riserve.
In tutti petti batteva il cuore per la deposizione del Barone Dresdde.
– Presente.
– Sedetevi e dite con me: «Giuro di dire tutta la verità, nient'altro che la verità».
– Sedetevi e rispondete a tutte le domande che vi saranno rivolte, con chiarezza.
– Rivolgetevi verso quei signori. Li riconoscete come autori dei tumulti, delle sparatorie, dei saccheggi, degli incendi, avvenuti nella disgraziata primavera al vostro paese?
– Signor sì.
– Badate alla gravità delle vostre affermazioni, di cui dovrete rispondere davanti al tribunale di Dio. Nessun dubbio è nella vostra coscienza?
– Signor no.
– Ma nessuno di loro vi lascia perplesso?
– Signor no.
Il principe della difesa voleva insinuare nell'animo sanguinante del barone Dresdde un filo, soltanto un filo di pietà per i suoi raccomandati, ma il Barone alla insidiosa domanda:
– Ma un dubbio, uno solo. È proprio certo il Barone Dresdde che tutti gl'imputati fossero presenti?
– Signor sì.
– Ah, gobbo iniquo, – urlò una donna, e si svenne.
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* *
Dopo la condanna una lunga catena di futuri ergastolani salivano sui carrettoni cellulari, e una lunga fila di donne piangenti si avviava alla stazione.
La mattina, alla prima alba, le lattaie presso le Assisi sentirono una voce bianca di gobbo venir dalla chiudenda di una chiavica dell'acquedotto che gemeva: «Aiuto!». Sulle prime credettero che si trattasse di un'anima in pena, ma poi ascoltato meglio si accertarono che si trattava di un uomo!
Alzata la chiovina fu veduto il Barone Dresdde tutto imbrattato di lordura e mezzo asfissiato.
– Ieri sera sono stato sacrificato così da due mascalzoni che non so chi siano. È proprio vero il proverbio che dice: Chi va per far del bene riceve del male. Di già mia madre me lo aveva predetto.
– «Ricordati che finirai più giù che in terra».
*
* *
Come un fascione d'automobile embricato e forato e limato, il Barone è abboddito sul pietrato in un groviglio endouterino, dinoccolato, disarticolato, muove il capo come la serpe rotta in due:
– Rosso, rosso, rosso – gli urlano.
– Cocomeroooo.
– Mondo.
– Insalata, insalata, insalata.
– Verde.
– Frittata.
– Vomitare.