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IL CAVALIERE GROTTA
I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio
Il cavaliere Grotta era il cavaliere per antonomasia. Quando uno spiritato urlava sulla piazza della chiesa, subito dopo la messa di mezzogiorno affoltita di cavalieri: – Cavaliere! – l'unico che si voltasse era il Cavaliere Grotta. Chi lo aveva chiamato si nascondeva tra la folla e il Cavalier Grotta rimaneva conturbato volgendo lo sguardo a diritta e a manca.
La piazza si sfollava in un baleno, i cavalieri, invece che a cavallo ai calzoni, parevano in sella a dei polledri tanto filavan via lasciando sole le impettite e rimpettite signore, dimentichi del detto che non bisogna mai addormentarsi prima delle mogli, non destarsi dopo e costringerle in casa prima dei cavalieri. Fu mai veduto un cane mordace libero del guinzaglio in mezzo di una via? E i cacciatori amano i cani e le cagne, e gli accalappia cani chiudono un occhio.
Quel pomeriggio domenicale il Cavaliere Grotta «non ne avevan uno»; sulla piazza di San Michele dalle basse arcate erano rimasti Francesco Burlamacchi, Matteo Civitali, l'allievo prediletto di Donatello e il Cavalier Grotta; Burlamacchi di pietra, il Civitali di bronzo, san Michele dall'alto della cattedrale con lo sciabolone sbisciante pareva volesse affettare li mondo e tirarne un pezzo al Cavalier Grotta.
Quel giorno era indomenicato anche il Cavaliere Grotta: cappello sodo color pancia di topo, viso sbarbificato, rase le sopracciglie e i baffi, il lungo naso a timone campeggiava sul viso di cacio frescone, due golettoni di celluloide gli inghiottivano il collo lardato, una cravattina color pancina d'angelo volante gli solleticava l'enorme naso a petonciana e il mento ciccioso. Il Cavaliere sorrideva a delle chimere lontane lontane. Il Cavaliere alto uno e novanta aveva il fracche e i pantaloni a righe, un brillocche all'anulare, che gli dettero in una serata d'onore i suoi ammiratori, e le scarpe di chevrau che sbadigliavano come la bocca di lui, voragine profonda e interminata.
Il Cavaliere Grotta faceva giuochi di destrezza, giostrava coi bussolotti, ed era illusionista, ed aveva il tatto magico, ed era zuppo marcio di delirio ambizioso, ma avrebbe dilupato un bue quando era affamato. Quel giorno «non ne aveva uno» e la fame lo tramutava da una cantonata all'altra; quando a quell'ora bruciata, passò di sulla piazza una ragazza traccagnotta del contado, nè precoce nè procace, con un viso che pareva fatto di polenta di granturco, una servetta devota di Santa Zita, la verginella protettrice delle serve.
Il Cavaliere andò verso la ragazza dinoccolato come una marionetta, col cappello equilibrato sul temporale sinistro, con le lunghe braccia svitate che sciabolavano l'aria come quelle di Rogantino, e le gambe dilogate come la cerchiala (quell'ordigno con cui i contadini battono la canapa sull'aia).
– Ella saprà, gentilissima signorina, che le note musicali sono sette – disse il Cavaliere.
La ragazza a quella levata, levò il fugone e andò cadere nelle braccia di una guardia in alta uniforme, e tutta tremante disse che quel signore laggiù, alto, col mateo (così chiamavano le ragazze di campagna il cappello sodo) gli aveva detto.... o cosa mi ha detto?
– Che le note musicali sono sette? – disse la guardia.
– Precisamente! Così!
La guardia fe' cenno al Cavaliere Grotta di avvicinarsi, e alla ragazza di allontanarsi dopo averle preso nome, cognome e indirizzo.
Il Cavaliere Grotta avvicinatosi alla guardia gli fe' compita riverenza e:
– Dunque lei con la sua chiara intelligenza....
– Grazie, tutta bontà sua – disse il Cavaliere Grotta dimezzandosi.
– Dunque con tutta la sua intelligenza non vuole smettere l'antifona delle sette note musicali.... O le lasci alla «Guido Monaco» (il concerto paesano) e lei faccia il suo dei mestieri – disse sconcertata la guardia.
– Gratissimo dei suoi consigli. Obbligatissimo!
Senza tante riverenze il Cavaliere Grotta fu messo in cella di rigore e gli fu data per misericordia una scafagna di brennosa con stracciatella di cavoli neri e torzoli rincruditi che ci sarebbe stata ritta una vanga. Il Cavaliere la diluviò tutta, e ci bevve sopra una pinta d'acqua.
Dalla lontana corsia delle donne veniva il ferino della iena con gli urli: (la prigione tramanda le notizie senza fili).
– Cavaliere Grotta inòonaci quella delle sette note musicali....
– È soddisfatto, Cavalier Grotta, di questo successo presso le donne più scellerate della lucchesia e paesi limitrofi?
– Mortificatissimo, brigadiere.
– Ma è lei che ha architettato questa oscena irriverenza all'anima intemerata di Guido Monaco.
– Tante croci farò con la mia lingua sacrilega sul lurido ammattonato di questa oscura cella.
La canea delle donne, con le voci rose dai gargarismi intonavano dei do di stomaco, e dei rerererere che pareva recessero delle raganelle, specialmente per le parole che il Cavaliere Grotta vi aveva intromesso.
Siccome il reato non aveva avuta la sua completa consumazione, essendo la ragazzuola fuggita alle parole interrogative rivoltele dal Cavaliere: «Ella saprà signorina che le note musicali sono sette», il giudice istruttore, non trovandovi gli estremi ordinò senz'altro la scarcerazione del Cavaliere Grotta, il quale dopo essere stato sottoposto ad un ben copioso «Santo Antonio» uscì all'aperto, scosse la pelliccia come i cani quando hanno mangiato la carne e sono rimasti in trappola, e maledisse le sette note musicali e Guido Monaco.
Quando il Cavaliere Grotta passava, dopo la funzione ricevuta, davanti a uno stallaggio ove era esposta l'effige del Santo Antonio, si voltava dall'altra parte, colto da ribrezzo e paura. E se nominava, anche mentalmente, le sette note musicali, sentiva, sette volte e sette, trafitto il costato e la cuticagna.
Il Cavaliere Grotta essendo anche un destrofisico, si buttò alla campagna. Tutte le domeniche, e le feste comandate, si vedeva il Cavaliere Grotta con certo suo scudiero detto «Mangiazzuppe», un otre con degli zampucci di porco, le manine come le ali di un anatroccolo, e il viso di un suonatore di bombardino, il quale portava sul capo la cassetta del Cavaliere, la quale conteneva, oltre le palle che dovevano uscire dal cervello degli spettatori, i pennacchi di stoppa che il Cavaliere inghiottiva incendiati, i dadi, i bussolotti, e la bacchetta magica e alcune cartine contro la nevralgia e il mal caduco.
È cosa notoria che il nostro contadino, ai tempi del Cavalier Grotta, diffidente verso la scienza preferiva il Cavalocchio all'avvocato e più spesso il semplicista al medico e al chirurgo. Erano d'attualità l'omino d'Antraccoli, che con due parole turchine rimetteva insieme le ossa macerate, e la «Strega» di Vicopelago che levava il diavolo di corpo.
Il Cavaliere Grotta con l'occhio maliardo, il sorriso incantatore, il naso di stregone, l'ambiguità del negromante, la sfrontatezza di un vàgero, aveva saputo ingraziosirsi i gobbi e le gobbe che come ognun sa, sono le colonne su cui posa la credulità del contadiname, avendogli promesso che studiava una mandragora per raddrizzare le spine dorsali.
Il Cavaliere Grotta era addottrinato in negromanzia, ed in astrologia, la scienza dei Caldei: dalla contemplazione degli astri arguiva il destino degli uomini, addottrinato nelle favole di Orfeo, sapeva anche come si legava l'ombellico agli Dei, e il perchè i corvi da bianchi che erano diventarono neri. Sapeva quindi del mito di Esculapio, tratto dall'utero di Corinide uccisa da Apollo e di poi incendiata e sventrata, che Apollo volle perpetuare se stesso sottraendo alle fiamme il figlio. Il Cavaliere Grotta passava giornate intere sul sedile di un vàgero venditore di libri antichi all'aperto, sotto le grondaie trecentesche di un casone lucchese. Di poi strusciando i muri della città, tamponato il viso con un libro antiquario, finiva sotto il fanale di un lurido bordello. Torzoli di cavolo, batufoli d'ovatta, teste di gatto, orinali vedovi del manico, bigongioli di saponata, che gli gettavano dalle finestre, prese come dallo scorbuto, non lo distraevano dalla meditazione.
Una sera lo incontrai conciato in quel modo e gli dissi:
– Cavaliere Grotta t'andrebbe dato una medaglia.
– Le medaglie le portano i deputati e i cani!
Il Cavaliere Grotta indugiava in una osteria che per buttar giù quella bobbia bisognava avere la trachea come un tubo di chiavica. Mangiazzuppe era sempre là ad attendere il suo principale, dal quale era trattato come i buffoni alle corti, poi c'era «Pinella», un rivenditore di giornali: al tempo i giornali costavano «due citti marci» a Pinella, un mascalzone, che s'è mai saputo chi fosse, gli aveva cavato un occhio con una ditata e da quel foro gli si vedeva il lavorio che è dentro il capo di un uomo. Poi c'era «Merendone» che aveva un taccio con la padrona per digrumare tutti gli avanzi di quella corte bandita, Buzzoverde, un pianigiano che sembrava un enorme ranocchio ingrandito, un mezzano di bestie detto Boddino, che in un ravoglio gli avevano mangiato il naso, ed aveva avuto il bando dai contrasti e dai contratti, e la moglie, dopo averlo caricato di tante corna, che non l'avrebbe portate nemmeno una tartana di cinquecento tonnellate, l'aveva messo fuori dell'uscio a pedate; veniva il «Sinistro» uno sciagurato che con una labbrata gli avevano travolto il capo alla via destra, e capitava Troncaceri e Biasciabodde con «Pesta madonne» il quale con «Cuma di Pontetto», ch'ebbe il barbaro coraggio di tirar un sasso alla croce, formavano il trio degli Eresiarchi.
Lì su quelle luride tavole il Cavaliere Grotta preparava i discorsi per il contadiname, e la mandragora per incantare i gobbi e le gobbe.
Lì, tra quei trascurati, il Cavaliere Grotta provò anche un pezzo d'esordio: «Il moscone». Egli sapeva imitare a perfezione il volo del moscone a ritroso dell'aria, quando il grande insetto sembra aver sulla cervice l'ale di un areoplano e il motore. A un tratto il Cavaliere salì sulla panca gridando:
E cominciò a labbra semi chiuse, ad imitarne il bifonchio ed accorrere per la taverna con le mani protese facendo le finte di prendere il pericoloso insetto che poi gli rifuggiva:
I clienti misero il capo sotto la giubba chè la bestiaccia non avesse ad infettarli di carbonchio.
Per i contadini aveva inventato un misterioso ricettario, chiuso in una scatoletta le cui complicazioni non aveva svelato nemmeno a Mangiazzuppe: il quale soffriva di «Mal caduco» (che in lingua di gergo vorrebbe dire che alle prime minaccie di un gendarme era preso da un tremito e rivelava tutto). Sulla scatoletta di cartone aveva scritto di suo pugno: «Medicina miracolosa contro i calci dei muli e dei cavalli». Sopra un pergamena introgolata e incartocciata il Cavaliere aveva scritto: «Metodo per raddrizzare i gobbi e le gobbe». Dopo aver riposto una cinquantina di scatolette nelle tasche e legata la pergamena ad un bottone del fracche, cenò e si bevve anche le cervella.
All'albeggiare, quando i piccioni che nidificano sui cornicioni del San Michele prendono largo nel cielo intenerito, come frammenti di basalto staccatisi dai colonnati rattorti, e la cima della spada dell'Arcangelo sembra dorata su tutto il celeste freddo della cattedrale, l'aiutante Mangiazzuppe che aveva dormito sulle gradole del monumento a Francesco Burlamacchi poggiando il capo sulle ginocchia del Cavaliere Grotta e il Cavaliere poggiando il capo sulle spalle di Mangiazzuppe, questi disse al Cavaliere:
– È giunta l'ora, alzatevi in piè.
Il Cavaliere si alzò digordito come un cavaliere della ronda notturna, e con Mangiazzuppe andarono a inzavorrarsi di zozza, un tramescolo di liquidi filtrati in un sottobanco di argentone.
Passati i baluardi, a passo deciso, in un attimo, il Cavaliere e lo scudiere furono in aperta campagna.
Tutti i gobbi e le gobbe della Controneria, delle Pizzorne, di Castelnuovo della Garfagnana, dell'Alpe di Gorfino (nido di aquile), dei Monti di Villa, di Montegatesi, di Fornoli, del Barghigiano, delle Macendore, del Rimortaglio, del Massarosese, il Viaregginume, i Pietrasantini e le locche del Lago e quelli di S. Rocco protettore della peste, con tutti i veicoli più strani dalle timonelle al baghere, alle bagatelle, con diligenze e londrine, a cavallo e a piedi s'eran tutti radunati sulle «prese del Serchio» in una specie di anfiteatro che fa il fiume del popolo prima di gettarsi con ingordigia sulla pianura sitibonda.
Su tutto l'argine del Serchio c'era una tale fungaia di gobbi e di gobbe che avrebbe spaventato Napoleone I. Ma il Cavaliere Grotta col C maiuscolo, con gesto imperativo, fe' portare da tre badilanti tre pietre di un quintale l'una, di quelle riquadrate dagli scalpellini, le fe' soprammettere l'una sull'altra, poi vi salì e parve essersi fatto il monumento. Appena vi su sopra, col gesto di un generale dell'Esercito della salute, dal petto di tutti i gobbi e di tutte le gobbe uscì un grido formidabile! – Evviva il nostro salvatore! A qualche gobbo parve di poter rialzare la spalla che aveva abbassata, e tal altro ebbe la sensazione di poter abbassare la spalla che aveva un tantino rialzata, e gobbi e gobbe con tutti quei gesti parevano pigiassero l'uva nella bigoncia.
– Tra me e vo', appena siam dritti ci abbiamo a dar la mano. Sull'argine si combinavano già i pataracchi, le gobbe dall'allegria ballavano la tarantella e i gobbi la manferina. Era tutto un: Balla te che ballo anch'io.
Il cavaliere Grotta fece a meno dell'antifona del moscone: certe mosche cavalline pinzavano e facevano scianguinare, i gobbi parevano impazziti tra il moscaio e il tanfo caprino delle gobbe, quello che fa starnutire come il tabacco pizzichino.
– Datemi una delle vostre grazie!
– O se non ne ho niuna.
– O se ne siete ripiena.
Sul fiume si cominciò anche a trafficar di amore.
– Falla tre libbre col sacco e tutto – disse spaurito Mangiazzuppe al cavaliere.
Il cavaliere attaccò in maggiore:
– Socleo avendo promesso di raddrizzare il gobbo Diodoro (– Mi pare che esca già dal seminato – disse un gobbo ad una gobba) gli mise tre pietre come queste che ho sotto i piedi, sulla gibbosità della spina dorsale. Diodoro schiacciato sotto quel peso morì, ma era diventato dritto come un'aringa.
Gli occhi dei gobbi eran diventati come quelli di Caino, e quelli delle gobbe eran truci come quelli della Versiera. Agghiozzati dalla bile, gobbi e gobbe fecero le corna al cavaliere Grotta.
– Allora lor signori tengono più alla gobba che alla vita?
Uno scaglione di gobbi tentò il guado del fiume con gli stiletti in bocca, le gobbe presero il ponte della ferrovia per accerchiare il cavalier Grotta rimasto solo perchè Mangiazzuppe era passato al nemico facendosi una gobba con un guancialetto di una diligenza, al cavaliere Grotta non rimaneva altro che rinnovare il gesto di Orazio Coclite, ma come segare quelle lungarine alte un palmo? Fu mestieri ch'egli desse il: – Si salvi chi può!
– Forza vetturin che l'ora è tarda – diceva una diligenzata di gobbi che avevan guadato il Serchio. Là, in mezzo ai campi fecondati dal lavoro, si vedevano le spighe aprirsi e richiudersi, come quando ci transita la volpe; era il cavaliere Grotta che, alla vista delle mura di Lucca, aveva, come i crociati, ali al cuor ed ali ai piedi. Il caso volle che la diligenza si capovolgesse e una diecina di gobbi, in fretta e furia, furon portati alla strega d'Antraccoli che saldava l'ossa con il suo sputo viperino.
L'inseguimento accanito dei gobbi e delle gobbe produsse un gran colpo di sangue alla via del capo del cavaliere Grotta. Ogni gobbo che scorgeva gli pareva armato di stiletto, e ogni gobba gli pareva avesse sotto le gonnelle un pentolo di vetriolo per bruciargli la faccia; i mosconi che artefaceva col fischio diventarono come veri e uno sciame bofonchiante gli ronzava intorno al capo: disensato dall'acquavite il Cavalier stava sempre a discacciare insetti e a temere l'avvicinarsi dei gobbi e delle gobbe. Il Cavaliere si ridusse lurido e col capo vuoto nei più abbietti carugli della città. Fatti i fogli lo istradarono, legato con una fune, verso il manicomio.
Oggi l'ho riveduto dopo più di trent'anni: il cavaliere Grotta è nel mondo di là, un mondo, per lui tutta luce e baratri azzurri, trasumanato del tutto. Il destrofisico, l'uomo dal tatto magico, il demone della divinazione del pensiero è colato giù giù per l'ossatura, pare lo abbia inghiottito la terra: del Cavaliere c'è rimasta la intelaiatura delle ossa su cui si erge come un pentolo sullo stollo di un pagliaio, il teschio con un gran naso mencio e ciccioso, le orecchie equine sono trasparenti come la cera, le vene sono come corde di controbasso.
Lo scheletro si alza cerimonioso, ascolta devoto ed ossequiente.
– Ti ricordi la trattoria della Sciacquaintrugli?
Non ode, oserei dire non vede, i suoi occhi sono di cielo chiaro e profondo. Si svita in un canto col capo al cielo.
Di repente lo scheletro scatta, si irrigidisce. Alza le scarnite mani al cielo e poi si accatricchia per la terra, inzeppa il capo in un pertugio, e tremando si tampona gli orecchi e sviscera gli occhi svergazzati dalla pazzia e dallo spavento.
Un areoplano passa sul cortile bofonchiando come un enorme moscone che con un pinzotto potrebbe trafiggere e ingoiare il Cavaliere. Gli occhi di mostro marino vagolano sul ghiaino, le labbra marce di bava introgolano delle parole. Il padre Paoli, il psichiatra cristiano, che tutti i giorni, da trent'anni, tiene i contatti col mondo di là prendendo amorevolmente le mani diaccie di questi dissepolti per soffiargli sul viso una parola d'amore traduce i verbi stragozzati: – Oh maledetto moscone!
Ovattato nel cielo, bianco nubiloso, l'ultimo rantolo del motore, si spenge, il Cavaliere Grotta riprecipita nel mondo di là, e gli occhi agitati sono ritornati di cielo.