Lorenzo Viani
Le chiavi nel pozzo

OSCARVILDE

Precedente

Successivo

Link alle concordanze:  Normali In evidenza

I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio

OSCARVILDE

 

 

 

Oscarvilde voltàti di non fu altro: fu tutt'altro.

Montare «Incitato», un cavallo che si chiamava come quello di Caligola ruzzolare di sella, rompersi il fil delle reni, e trovarsi a battere sui portoni il ferro diaccio dell'accatto fu un affare di anni, ma a lui parve fosse successo in un momento solo.

Oscarvilde, da possedere cavalli e ruote:

 

e fin che c'è cavalli e ruote

voglio mangiare anch'io che son nepote

 

si trovò a bruschinar brenne e a lavar carrozze sul pietrato del fosso per il solo vitto: un beverone d'orzo simile a quello che davano ai cavalli.

– Ma com'è andata Oscarvilde che tu ti sei ridotto in cotesto stato?

– O figliolo è andata così – e senz'altro dire Oscarvilde palpeggiava il collo tepido della cavalla da tiro a cui aveva lustrato gli zoccoli di nero e accordellato a treccia la coda.

Oscarvilde essendosi rotto il fil delle reni pareva gobbo, ma gobbo legittimo non era perchè prima di quel maledetto ruzzolone egli era dritto come un palo, ergo non portava nemmeno fortuna a toccarlo.

Da tutto l'insieme e da un certo profumo di canfora impastato con quello della crusca e dello strame si capiva che negli stallaggi Oscarvilde era stato qualcosa, lo attestavano le fedine lunghe tre dita sotto il ponte zigomatico e una cravatta bianca, a passante salda con la quale se a uno fosse preso l'estro, ci si sarebbe potuto anche appiccare.

La cavalla, che in quel momento custodiva Oscarvilde, si chiamava Rabicana, alla quale mancava soltanto la favella, chè parlava con gli occhi folgoranti e scandiva i tempi con gli zoccoli ferrati.

Oscarvilde dormiva in una mangiatoia coperto da una coperta di cavallo col viso prossimo ad una lanterna a olio di continuo accesa, perchè egli potesse vigilare durante la notte la bestia che dormiva sulle quattro zampe; i topi ghiotti d'olio girottolavano presso la lanterna, le larghe tele dei ragni si muovevano all'alito caldo della bestia, qualche talpone suonava il tamburo dentro una cassa di crusca.

Oscarvilde s'alzava prima che facesse giorno, il cielo era sempre tutto vellutato di nero e la luna, giallo limone, gli dava il carattere di un gran copertone di prima classe che, certi incappati, stendessero sulla cupola della cattedrale con in cima la croce simile a quella dei carri funebri che trasportano personaggi d'alto lignaggio. Egli sognava i tempi in cui, tutto vestito di nero coi bottoni d'oro e il cilindro e i guanti bianchi come la neve guidava i cavalli copertati di bacucchi neri neri.

– Tutto nero Dio eternodiceva sconsolato Oscarvilde.

Oscarvilde lo chiamavano Oscar Wilde (per un momento bisogna scorporare il nome dal cognome) perchè un giorno, lui, che ritraeva tutta l'effige sconsolata di Giacomo Leopardi, ravvolto in miseri cenci ma con un paio di scarpe d'alona, bianche come le ali di una procellaria, e la suola di sugatto niveo con mostreggiature di bulgaro giallo punteggiate a dentro e fuori, un paio di scarpe di quelle che portano soltanto gli inglesi col portamonete addocciato di sterline, s'avvicinava mortificato ad una tavolata di gobbi che sbevazzavano rumme in compagnia di un Vàgero, questo bel tomo disse: – Gua', ecco Giacomo Leopardi con le scarpe di Oscar Wilde!

– Che Giacomo Leopardi era uno del nostro stato ce lo hai già cantatodisse il gobbo Varese, ora ci devi disvelare al volo chi era Oscarvilde.

Oscarvilde era uno che gli prendeva il malcaduco come al sor Beppino.

– Ho capitodisse beffardo il gobbo Pastrengo.

– Allora – urlarono tutti i gobbi al povero stalliere che si era approssimato al loro tavolo – alla grazia di Oscarvilde.

Oscarvilde, che aveva fatto il baalaro da un inglese che aveva cavalli e ruote, disse agli amici: – Sarebbe la medesima che mi dicesite Buonero.

 

*

*   *

 

– O che lo sai anche te che Oscarvilde soffriva di malcaduco?

Chetati gua' bottino!

– Allora riattacchi col Manzone, disse il gobbo Sady Maria Carnòt al Vàgero il quale leggeva a quella sturma di gobbi le polemiche Carducciane.

– Al caso si deve trattare di Alessandro Manzonidisse il gobbo Severino, con un neo appuntito come una lesina, – O non ci abbiamo anche la piazza medesima?

Precisamenterispose il Vàgero – si tratta proprio di Alessandro Manzoni: a proposito, Sady Maria Carnòt, a che punto siamo rimasti?

dove il Monzone.

Manzoni, ribattè accigliato Severino.

– O me lo lasci chiamare Manzone! Tu sapessi come tratta Leopardi perchè era un povero infelmo e defolme e per spregiale diceva anche: Eh quel gobbetto ha del talento, questo signor Manzone privilegiato del caso, ma almeno sapessi che ghigna ha. E non volle perdonargli mai a Leopardi che s'era innamorato solo andasse a cantare sotto la finestra della sua fiamma gli stornelli:

 

Se tutti ti volessero il mi' bene

Le sante si potrebbero rimpiattare.

 

– E dove sono scritte tutte codeste infamità? – disse Varese.

– Su quel libro.

– Si può vedere dove è scritto per esempio la parola gobbettodisse inviperito il gobbo Uccio con un paio di baffi rossi e appuntiti come il fil di ferro.

– Eccola – e il Vàgero pose il dito sulla parola incriminata, tutti i gobbi, benchè analfabeti, si alzarono e con le dita inseguivano come un pidocchio su una testa rapata la parola gobbetto: infamità mai scritta da che mondo è mondo.

E Carnòt per tutti ci puntò sopra un dito in verticale, come quando si punta nella faccia di uno per cavargli un occhio. Oscarvilde soltanto era rimasto seduto e aveva detto al padrone: –Portami un ponceVarese lo riprese: – Potevi ordinare anche al plurale.

– O che io son gobbo? – disse risentito Oscarvilde.

– Non mi fare il Manzoni anche te! Acquaio.

– E pensare che l'effige di Manzoni l'abbiamo qui a tiro, gua' proprio sopra il capodisse il Vàgero.

– Ah vil da Dio! e tacevi. Scommetto che è quello che pare un cameriere del Papadisse lo scaltrito Sady Maria Carnòt – quello che s'è intromesso tra Giordano Bruno e Raffaello Sanzio da Urbino, il tuo protettore amato.

Nel salone della Camera del lavoro c'era giustamente il Panteom delle celebrità Italiane e Manzoni era proprio collocato tra il frate Nolano e l'Urbinate.

Cos'è questo anatraio di gobbidisse con gli occhi stralunati il padrone detto Ercolino, un omotto biondo albino con gli occhi celesti e i baffi rossicci sì che pareva una vespa ingrandita, e contro i gobbi tirò un torcione fradicio mezzo di rigovernatura.

– O che ti sei messo a fare il Manzoni anche te, aguzzino? – dissero in coro i gobbi.

– Mi meraviglio di lui disse Ercolino rivolto al Vàgero – che non v'ha anche preso a librate nella faccia, troiai.

Guarda che qualcuno di noi non ti molli un'imprecazione a ombrello aperto.

– Il Vàgero con calma parò dentro l'edificio camerale l'anatraio dei gobbi, che salirono dietro lui il ripido scalone soffiando e anzimando. Appena il manipolo squinternato fu nel salone, Carnòt avanzò risoluto verso il ritratto di Alessandro Manzoni, lo afferrò con le lunghe braccia di scimmione e lo voltò con la faccia contro il muro, esclamando come un vecchio boia: – Tu non hai più faccia degna di mostrare.

Dietro al quadro che da una diecina di anni non era rimosso c'era attrappata una tarantola che Carnòt prese e la schiacciò sul quadro esclamando: – Neccio e neccio fa pattona.

Soltanto Oscarvilde non s'era mosso dal tavolo onde Varese scorgendolo gli disse melenzo: – Potevi salire anche te.

– O che io son gobborispose Oscarvilde.

Reale no – ribattè Varese – ma gobbo sei la tu' parte.

 

*

*   *

 

Chi lo avrebbe detto, con quella ruggine che c'era tra di loro, Varese e Oscarvilde dovevano diventare come il pane e il coltello, lo stile e la vanga, il guscio e la noce, il bozzello e la puleggia. O udite!

Una mattina fu veduto Oscarvilde sulla piazza del mercato camminare zoppo come S. Rocco: nella gamba azzoppita, che gli era diventata come un tronco di sughero, non ci aveva nemmeno più la scarpa: l'altra s'era già impolpata di strame.

– È questione di Zifilippadisse ghignando come il diavolo il gobbo Varese.

– Sta bono, Varese, che vedo le stelle, son pieno di fitte, sono stato calciato dalla cavalla, mi sento morire.

– Se ti senti morire fattela tagliare 'oglione, levato il dente passato i' dolore.

– Ma è una gamba, Varesedisse sconsolato Oscarvilde con gli occhi supplichevoli di un San Lazzaro.

Fosse un braccio.... ti voti 'oglioni, ma le gambe si rifanno anche con un bastone di granata.

Il fatto sta che il povero Oscarvilde fu portato da l'Assistenza all'Ospedale e, se non facevano presto a tagliargli la gamba alla coscia, Oscarvilde sarebbe partito per gli eterni riposi. Dopo la convalescenza si rivide Oscarvilde attorno per la piazza con la gamba fatta con un bastone di granata cinghiata di cuoio e quando vide Varese si mise a piangere, ma Varese fu pronto al conforto:

– O che piangi! 'oglione o non ci hai quell'altra?

Oscarvilde s'abbracchì a un calcio di platano ed aveva perso la favella.

– Se vuoi ti do una voce io – disse Varese – mi metterò a fare il saraffo della carità – e con voce arrogante provocante e molesta cominciò una lunga intemerata: – Sarebbe una bella vergogna disabbandonare un povero infelice che non si è levato altro che la voglia del lavorare, o gente buttategli il sollievo della carità, o che v'è diventato il cuore più duro delle ghiaie. Ei dico a voi, ma non vedete che a Oscarvilde gli hanno potato il gambaraccio.

Va' a lavorare, vagabondo d'un gobbo, che dalle malizie del mondo che hai addosso non sei nemmeno cresciuto.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Guarda faccia di sughero svergognato e spiarispondeva spiritato Varese – o che la chiedo per me l'elemosina? Mi sacrifico per lui che è ridotto un cencio su un bastone di granata. Oscare, alza il capo, fatti vedere da questi cuori infistoliti.

Oscarvilde sentiva invece delle fitte a una crescenza che gli era buttata all'anguinaglia dell'altra coscia e piagnucolava.

– O che piangi?

Varese mi sento delle fitte anche a quest'altra gamba.

– E allora piangi 'oglione, fatti tagliare anche quella, tanto le gambe o averle come un polledro o non averle: fossero le braccia. Me lo potesse far segacchiare io questo po' po' di popone che ho sulla schiena, tanto mi ha dato un tormento a caso, e te ti sgomenti per farti tagliare una gamba matta.... Un po' d'elemosina al zoppo Oscarvilde che pregherà per i vostri poveri morti, o che credete che sian già tutti all'ultimo piano, vicini al creaturo celeste? Ce n'è di moltoni nel profondo dell'inferno.

Brutta faccia di dannato e con quelli argomenti chiedi la carità.

– Allora vuol dire che non avete letto nemmeno il Dantediceva spavaldo Vareseleggetelo!

 

*

*   *

 

Il fatto fu che dopo una settimana per questioni di spine ventose, quelle specie di agave maligne che s'intromettono fra la coscia e il corpo, a Oscarvilde gli fu tagliata anche l'altra zampa.

Varese dopo la convalescenza l'andò a rilevare dall'ospedale con un carretto che aveva preso a nolo da una donna, che gli dicevano la zoppa perchè era zoppo il suo marito, ma lei andava dritta come un dragone.

Zoppasberciò Varesedatemi un carretto a nolo, ci ho uno spaccio all'ospedale.

Gobbo malnato o che io sono zoppa! – e la zoppa di nome rebbiò un calcio di fatto sulla schiena di Varese che ruzzolando per la terra gridò: O che io son gobbo! Mentre le zoppa schiantava dalle risa Varese si rialzò dinoccolato dicendo:

– Se mai sono di spalla un po' allegra e posso cantare e biscantare.... ci siamo intesi: portar fortuna e mandare delle maledizioni. Di voi me ne ricorderò nelle mie orazionidisse Varese allontanandosi col carretto.

A forza di discorsi il gobbo giunse col carretto all'ospedale, quando Oscarvilde l'avevano già dimesso sull'erba del cortile: – O che piangi?... ora ti si fa un paio di pantaloni coi fondi di cuoio come quando eri fantino: e invece di montare in sella ti rimetto in sella io su queste ruote e se vuoi puoi anche ricantare:

 

E fin che c'è cavalli e ruote

voglio mangiare anch'io che son nepote.

 

Invece d'un cavallo ci hai un dromedario.

Maledetto a chi te l'ha mesciutodisse Oscarvilde a Varese il quale rispose finto mortificato: – Vai via a pezzi ma la malignità ti rimane incarnita addosso, bada che se tu ricorri un'altra volta alla via criminale ti scarico su un mucchio di concio. Per via di te la zoppa m'ha rebbiato un calcio che pareva la cavalla rabicana: mi sento sempre indolenzita la schiena e te fai il maligno.

Varese portami via da queste contrade e andiamo verso l'abitato, che stasera c'è da appicciare i soldi per la cena.

Ora parli da uomo diritto, da drittonedisse Varese e staccò un trotterello sulla via rotabile.

Appena raggiunsero il primo ceppo di case abitate Varese acculò il carretto e scaricò Oscarvilde sul marciapiede, cominciando a gridare come un uccellaccio di rapina:

– È ritornato Oscare, anche l'altra gamba è andata al canaletto. Arrivati, mano alla borsa quattrini come rena.

Varese era ubriaco fradicio.

 

*

*   *

 

Non passò molto tempo che Oscarvilde sentì una crescenza come un uovo sodo sotto l'ascella del braccio sinistro e con il pianto in gola disse a Varese: sento una fitta qui al braccio sinistro. Varese, ormai scemunito dalla bevita, gli disse: fattelo tagliare: ti voti 'oglioni, fosse il destro.

Dieci giorni dopo al povero Oscarvilde gli avevano tagliato il braccio al ceppo della spalla.

– Se ne va a pezzidiceva la gente terrorizzata gettando soldi alla vista del povero troncone scamozzato: soltanto Varese badava a sberciare insulse preghiere offensive ai passanti, sognando il tempo in cui Oscarvilde fosse diventato come un tagliere per maneggiar lui i soldi accattati.

E si arrivò anche a questo; un giorno Oscarvilde accusò un dolore tremendo all'ascella del braccio destro e disse disperato: Varese ci siamo.

Dove? – disse stralunato Varese.

– Mi duole anche il braccio destro.

– E ti disperi, fattelo tagliare 'oglione, o che intenderesti di far sempre delle firme false.

– O a mangiare non ci pensi... come fo?

– O non l'ho io du' braccia? ce ne osse roba da tirarti giù per il canal della gola.

Di a una settimana Oscarvilde fu ridotto un tagliere, e Varese mostrandolo alla gente sulla piazza del mercato diceva serio: mi raccomando al vostro buon cuore. Io faccio quello che posso, ma capitali non ne ho. Qui è questione di vita o di morte, ora vi provo.

 

*

*   *

 

Un giorno il povero Oscarvilde era come tramutato da un tremendo dolore al capo: proprio sulla calvaria gli c'era buttato un tumore maligno e stravolgeva gli occhi come un epilettico e si ciccava la lingua.

– Ma ti senti male Oscarvilde? – disse premuroso il vile di Varese.

– No – rispose terrorizzato Oscarvildevigliaccaccio.

Sicchè se tu avessi le braccia saresti capace di dammi du' labbratedisse Varese beffardo – allora è meglio che tu non l'abbia.

Oscarvilde stravolgeva gli occhi come quelle teste confitte sugli orologi da sala.

– Ho bello e capitodisse Varese – se tu avessi le gambe saresti capace di pigliarmi a pedate come la zoppa.... allora è meglio che tu non l'abbia. La malignità ti s'è tutta aggrumata nel testone ma ti taglieranno anche quello.

 

*

*   *

 

Anche Varese è sotto le basse arcate vestito di bigio con gli occhi allupati.

Varese ti ricordi dei tempi di Oscarvilde?

– O non son sacrificato qui per lui: una sera che l'avevo troppo a collo detti una sverinata alle stanghe e lo persi. Lui poteva gridare: fermati Varese, ma maligno com'era mi fece proseguire e giunto alla porta del paese, non vedendolo più sul carretto, la testa cominciò a girarmi come una ruota.

Ora dice che fa i soldi a cappellate sotto le mura di Lucca: e pensare che quella gaima non smetteva mai di lamentarsi per quelle maledette gambe e quelle braccia: vai a fa' del bene alla gente e poi vedi come riduci. Gli tiri un par di labbrate e digli: queste te le manda Varese.


Precedente

Successivo

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (VA1) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2009. Content in this page is licensed under a Creative Commons License