Pietro Ardizzone
Formazione del regno di Romania: la posizione italiana
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Capitolo II Verso l’unione dei Principati di Moldavia e Valacchia

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Capitolo II

Verso l’unione dei Principati di Moldavia e Valacchia

L’occasione per realizzare l’unità romena non la fornì lo scoppio di una rivoluzione generale in Europa, come auspicato da Mazzini e dai democratici moldavi e valacchi; ma l’annosa rivalità russo-turca, complicata dalle controversie tra cattolici e ortodossi per la custodia dei Luoghi Santi, che portarono alla guerra d’Oriente, scoppiata nel 1853.

Fu coinvolta nella vicenda la Francia, che con il Trattato franco-turco compreso nelle capitolazioni del 1740 aveva voluto garantire ai religiosi cattolici residenti in Gerusalemme ed a Betlem il mantenimento dei loro diritti sui Luoghi Santi e della libertà di esercitarvi il proprio culto; l’art. 33 del Trattato stabiliva difatti che essi sarebbero rimastien possession des lieux de pèlerinage quils ont de la même manière quils les  ont possédés par le passé”.

Inoltre Napoleone III appoggiava le rivendicazioni dei cattolici sia per affermare l’influenza francese in Oriente, sia per gratitudine verso Pio IX e la Chiesa di Roma, essendo stato appoggiato dai cattolici francesi nel plebiscito che l’aveva confermato imperatore; appoggio di cui voleva continuare a godere.

Lo zar da parte sua sosteneva gli ortodossi, mirando soprattutto ad ottenerne la protezione nell’Impero turco, per aumentare la sua influenza politica in Oriente.

Per conseguire tale scopo fu inviato presso la  Porta nel marzo 1853 il principe Alessandro Menscikoff, ammiraglio e ministro della Marina.

Il delegato russo iniziò la sua missione presentando al governo turco una nota minacciosa, in cui asseriva che erano stati offesi i sentimenti religiosi dello zar, sebbene il sultano avesse rilasciato dichiarazioni concilianti nei confronti della Russia.1

La Porta, desiderosa di non inimicarsi nessuna delle due grandi Potenze, mantenne un atteggiamento incerto fra le parti contrapposte, ma era comunque ben decisa a far rispettare la sua sovranità, che ingerenze straniere avrebbero compromesso. La richiesta russa di affidare allo zar la protezione degli ortodossi residenti nell’Impero ottomano ( erano 12 milioni, la quasi totalità degli abitanti delle province europee dell’Impero) sarebbe stata fatale, se accolta, per la sovranità del sultano. Menscikoff da parte sua fece seguire alla prima nota altri messaggi il 19 aprile e il 5 maggio 1853,2 sempre  perentori nel  definire  insufficiente  una

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risposta alle richieste russe affidata ad un  firmano del sultano, per cui si pretendeva un formale Trattato bilaterale, il cosiddettosened”, di cui il principe russo arrivava ad allegare uno schema alla nota del 5 maggio 1853, fissando pure un termine di 5 giorni entro cui doveva pervenire la risposta turca.

Questo termine fu rispettato: la Porta rispose con una nota del 10 maggio, confermando i diritti ed i privilegi già riconosciuti agli ortodossi per il controllo dei Luoghi Santi ed accettando pure la richiesta di costruire a Gerusalemme una nuova chiesa ortodossa ed un ospedale per i pellegrini della stessa fede. Era però respinta perché lesiva della sovranità del Sultano la stipula di un accordo bilaterale che sancisse i diritti degli ortodossi.3

Per rafforzare tale rifiuto ed in segno di protesta contro le pretese russe si dimisero il gran visir Mehemet Alì pascià ed il ministro degli Esteri Rifa pascià ed i nuovi ministri chiesero cinque giorni di tempo per prender conoscenza del problema.4

Menscikoff con nota del 18 maggio 1853 si oppose a tale richiesta, considerandola una manovra dilatoria, e dichiarò finita la sua missione, affermando minaccioso che il governo russo avrebbe cercate “nella propria potenza” le garanzie che non aveva ottenuto dalla Porta.5 Ed il 21 maggio si consumò la rottura con la partenza del delegato russo.6

Il governo zarista seguiva però una duplice politica: a Costantinopoli faceva la faccia feroce e nello stesso tempo il cancelliere Nesselrode rassicurava la Francia e l’Inghilterra, affermando che non c’erano aspirazioni territoriali russe: il che in fondo corrispondeva a verità, poiché la Russia, per il momento almeno, non mirava tanto ad annessioni, quanto a stabilire la sua influenza su tutto il mondo ortodosso, ponendolo sotto il suo manto protettore.

Londra, cedendo alle lusinghe russe, tentò di mediare tra Parigi e San Pietroburgo, tenendo però sempre fermo il principio del rispetto della sovranità turca. Si distinse in tale opera l’ambasciatore britannico presso la Porta, sir Stratford Canning (prese poi il nome di Stratford  de Redcliffe), che ottenne perciò lusinghieri riconoscimenti da parte francese. La”Revue des Deux Mondespubblicò difatti un articolo di Eugène Forcade pieno di elogi per l’ambasciatore, definito abile, energico, ben informato: “c’est un honneur et un bonheur pour l’Angleterre, que sa politique, en un moment critique, ait été représentée à Constantinople par un pareil homme d’état”.7

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Ma di a qualche anno non ci sarebbe più stata traccia di tali elogi e l’ambasciatore in accesa rivalità col suo collega francese Eduard Thouvenel a causa della politica da seguire con i Principati Danubiani, sarebbe divenuto la bestia nera di Napoleone III e del governo francese.

La Russia accelerava i suoi preparativi militari, ritenendo ormai necessario arrivare alla resa dei conti con la Turchia e, continuando sempre il tentativo di rabbonire le Potenze occidentali, assicurava che tali preparativi miravano a proteggere il Montenegro, ribellatosi alla Porta, minacciato dalle truppe di Omar Pascià: questi, asseriva Nesselrode, poteva divenire un pericoloso veicolo di diffusione delle teorie sovversive di Mazzini, contagiando l’Austria ed i territori danubiani!

Ma le vere intenzioni russe apparvero chiare con l’occupazione della Moldavia e della Valacchia, che costituivano le basi necessarie per attaccare la Turchia.

Ancora si cercava di celare i piani d’attacco alla Turchia: il 20 giugno 1853, all’atto della occupazione, l’aiutante di campo russo, il generale Gorciakoff, rivolse un proclama alle popolazioni, assicurando che quell’occupazione non era il preludio all’annessione, ma  soltanto un pegno per ottenere dalla Porta le garanzie in campo religioso che erano state negate allo zar.8

Negli stessi giorni il console russo intimava all’ospodaro di Moldavia, Grigor Alexandru Ghika, ed a quello di Valacchia, Barbu Stirbey, di rompere le relazioni con la Porta e di versare al governo russo il tributo annuo dovuto alla Turchia. I due ospodari, vistisi esautorati e ridotti a semplice strumento degli occupanti Russi, abdicarono e si rifugiarono in Austria.

La situazione suscitò vivo allarme nei governi di Parigi e di Londra, che temevano sarebbero stati compromessi i loro commerci con l’Oriente, se la Russia avesse acquistato il controllo delle vie di comunicazione, sottraendole alla Turchia. Da parte sua l’Austria era interessata alla libertà di navigazione sul Danubio; fu pertanto organizzata a Vienna una Conferenza con Francia ed Inghilterra per trovare un accordo che evitasse lo scontro.

Il 29 gennaio 1854 Napoleone III inviò una lettera personale allo zar Nicola I, lamentando che la Russia aveva turbato la pace in Oriente, arrivando a negare  alla Porta il diritto di discutere la bozza di accordo elaborata nella Conferenza di Vienna, e di apportarvi eventuali modifiche.

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Proponeva un ritiro simultaneo dei Russi dai Principati Danubiani e delle squadre navali francese ed inglese,  entrate nel Mar Nero dopo la distruzione della flotta turca a Sinope da parte di quella russa, al fine di evitare analoghi episodi. Suggeriva ancora l’imperatore francese trattative tra la Russia e la Turchia per trovare un accordo da sottoporre poi ad una Conferenza europea. Se la Russia avesse respinto questo piano, ammoniva Napoleone III, Francia ed Inghilterra  sarebbero intervenute a favore della Turchia.9

Lo zar rispose negativamente il 9 febbraio 1954, lamentando che il sostegno francese ed inglese avesse spinto la Porta a resistere alle richieste russe. La pace si sarebbe ristabilita solo con la integrale accettazione turca della bozza d’accordo, stabilita nella Conferenza di Vienna, senza apportarvi alcuna modifica; la presenza navale anglo-francese nel Mar Nero non poteva preoccupare la Russia, che, se attaccata, si sarebbe difesa vittoriosamente nel 1854, come aveva fatto nel 1812, sconfiggendo il grande Napoleone.10

Ricevuta questa risposta, Francia ed Inghilterra ruppero le relazioni diplomatiche con la Russia, mentre l’Austria manteneva un’ambigua posizione di attesa, dimentica dell’aiuto fornitole dallo zar nel 1849 per soffocare la rivolta ungherese, attirandosi così il rancore russo.

Alla guerra contro la Russia avrebbero voluto partecipare gli esuli democratici della Moldavia e della Valacchia organizzando una legione di volontari. Una loro delegazione, formata da Magheru, Tell, Rosetti, dai fratelli Nicolae, Alexandru e Stefan Golescu, tutti protagonisti della rivoluzione del 1848, si recò a Costantinopoli per offrire l’intervento dei volontari. Rachid pascià li accolse cortesemente; ma la Porta rifiutò l’offerta romena e quella analoga di volontari italiani, polacchi ed ungheresi, essendo intervenuto l’ambasciatore austriaco de Bruck, sostenuto da quello inglese, Stratford de Redclife, per dissuaderla dall’accettare, poiché non volevano fornire ai Moldo-Valacchi argomenti per sostenere in futuro le loro richieste.

Ma i patrioti Romeni non disarmarono e si rivolsero al generale Omer pascià, capo supremo dell’esercito turco. Il generale si disse disposto ad accogliere i volontari Romeni, purché rinunciassero a chiedere la piena indipendenza con la fine della “suzerainetéturca. Questa risposta era stata suggerita da un altro protagonista del 1848 in Valacchia, Heliade Radulescu, radicato nelle sue posizioni filo-turche, sempre deciso nel sostenere l’autonomia della Valacchia sotto il controllo della Porta e la fine del protettorato russo.

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Gli altri patrioti Romeni accusarono Heliade di essersi venduto ai Turchi e di aver tradito la causa romena: ma la posizione di Heliade, pur se discutibile, aveva una sua coerenza, mentre era contraddittoria quella dei suoi accusatori che volevano entrare nell’esercito turco, chiedendo al contempo la fine della “suzeraineté  della Porta sui Principati.11

Omer  pascià poté avere invece la collaborazione di ufficiali Ungheresi passati al servizio della Porta, in odio all’intervento russo che nel 1848 aveva soffocato la rivolta magiara. Altri collaboratori di spicco furono per i Turchi il generale spagnolo Prim ed il polacco Wolski, meglio noto con il nome di colonnello Rustem Effendi, pur non essendosi convertito all’islamismo, come aveva invece fatto lo stesso Omer, rimasto però sempre agli occhi dei suoi avversari un infedele, un “giaurro”. Per questo motivo, nonostante la sua indubbia perizia militare, il generale turco era molto osteggiato, tanto da essergli rifiutate le uniformi per le sue truppe cenciose, cui inoltre gli stipendi arretrati poterono esser corrisposti solo grazie all’intervento diretto del sultano, che sborsò 60 milioni di piastre prelevate dal suo patrimonio personale. Un efficace, ma alla fine controproducente contributo era quello dei reparti irregolari, i “basci buzuk”, provenienti per lo più dalle province asiatiche dell’Impero ottomano, molto temuti per le violenze efferate e per i saccheggi che non risparmiavano neanche le popolazioni musulmane.

Ma non erano da meno gli irregolari che combattevano al fianco dei Russi, i cosiddetticrociati” (“stavrofore”), avventurieri di ogni risma e nazionalità (Greci, Bulgari, Serbi) incaricati di far insorgere contro i Turchi le popolazioni cristiane, divenute invece anch’esse vittime dei saccheggi e delle violenze dei “crociati”, compiuti per soddisfare la loro avidità o per compiere vendette personali.

I “crociati” erano stati reclutati dalle autorità russe e dai boiari moldo-valacchi che li finanziavano assieme agli igumeni dei conventi, ma per gli eccessi, avvenuti specialmente in Bulgaria, furono presto licenziati dagli stessi Russi, come aveva sollecitato il governo austriaco.12

La situazione prese una brutta piega per i Russi, sconfitti ripetutamente nel maggio e nel giugno 1854 presso Silistria, da essi assediata; e lo zar decise il ritiro delle sue forze dalla Moldavia e dalla Valacchia. Tale decisione maturò non solo per la situazione divenuta critica, ma anche perché suggerita dai motivi politici esposti dal principe Paskievic, capo dell’esercito russo, in un memoriale allo zar.

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Il principe faceva presente che l’interesse maggiore della Russia era la neutralità dell’Austria; occorreva quindi calmare le apprensioni del governo di Vienna, fortemente preoccupato per la guerra combattuta nei Principati, al confine del suo Impero.

Paskievic suggeriva quindi una diversa strategia politica e militare: restare sulla difensiva in Europa ed attaccare i Turchi in Asia, dove le popolazioni cristiane avevano accolto con entusiasmo le truppe russe nel 1828 e potevano ancora fornire un appoggio efficace. In Europa si potevano fomentare rivolte antiturche dei cristiani e far insorgere la Grecia. Il generale russo suggeriva infine a Nicola I di farsi interprete delle idee liberali e delle aspirazioni popolari, abbandonando la politica di rigida conservazione fino ad allora seguita. Lo zar non accolse quest’ultimo suggerimento e perseverò nella sua politica reazionaria; ma accettò la proposta di ritirare l’esercito dai Principati.

La tranquillità dell’Austria  fu ulteriormente assicurata dal Trattato austro-turco del 14 giugno 1854, che autorizzava, in caso del ritiro russo,  l’occupazione austriaca dei Principati, dove si creò una strana situazione.

Gli Austriaci chiedevano l’attuazione del Trattato del 14 giugno 1854 e quindi la fine delle offensive militari da parte turca. Ma Omer pascià ignorò tale richiesta e continuò a incalzare i Russi, arrivando ad occupare Bucarest. Il generale turco non seppe però sfruttare sul piano politico i suoi successi militari;  rimase inattivo a Bucarest e lasciò il governo dei Principati in mano agli elementi filo-Russi ed ostili alla Turchia, insediatisi al potere durante l’occupazione russa. Si dimostrò inoltre debole, non riuscendo ad evitare gli atti di prepotenza dell’esercito austriaco, venuto ad occupare Moldavia e Valacchia sotto il comando del barone de Hess, con cui si stabilì una difficile coabitazione.

Gli Austriaci difatti si comportavano con grande arroganza: non solo estorcevano alle popolazioni ingenti risorse per mantenere le loro truppe, ma interferivano nell’operato di Omer pascià.

Il conte Coronini, che aveva sostituito il barone de Hess nel comando, rimproverò il generale turco perché aveva fatto arrestare alcune persone sospettate di spionaggio a favore della Russia, e sostenne che ormai nei Principati la Porta non aveva più alcun potere e che erano solo le autorità austriache a comandare.

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Ancora lo stesso Coronini pretendeva che Omar pascià seguisse un determinato itinerario per raggiungere la frontiera sul fiume Pruth, dove gli Anglo-Francesi, sbarcati a Varna, chiedevano un intervento turco contro i Russi; inoltre al generale turco era richiesto di comunicare in anticipo agli Austriaci ogni suo spostamento. Omer ignorò questa richiesta, avendo ben chiaro che esistevano intese fra Austriaci e Russi, apertamente confermate dalle dichiarazioni dell’internunzio austriaco a Costantinopoli: finché fosse stato lui a rappresentare Vienna presso la Porta, neanche un soldato turco sarebbe arrivato sul Pruth.

L’equivoco condominio austro-turco nei Principati cessò con il Trattato di Vienna del 2 dicembre 1854: le truppe turche si ritirarono e Omer pascià partì per la Crimea, divenuta il teatro della guerra, poiché gli alleati anglo-francesi non potevano disporre come base delle operazioni della Moldavia e della Valacchia occupate dagli Austriaci, né l’offensiva poteva esser condotta dalla Dobrugia malsana e paludosa e pertanto impraticabile.

Dopo il ritiro russo, nei Principati fu inviato un commissario turco, Dervish pascià : questi il 31 agosto rivolse un proclama al consiglio di amministrazione della Valacchia, affermando la necessità, dopo lo sconvolgimento causato dall’occupazione russa, di restaurare il governo legale.13

Il successivo proclama indirizzato il 23 settembre 1854 dal principe Stirbey, tornato dall’Austria, alla popolazione della Valacchia rendeva omaggio “ all’amore paterno” del sultano, che aveva restaurato il governo legale con l’aiuto delle truppe austriache, accolte dalla popolazione come “amiche ed alleate” della Sublime Porta. La loro presenzaassicurava Stirbey – in unione alle vittoriose truppe ottomane era un nuovo pegno di pace e di sicurezza per il paese.14

In realtà l’occupazione austriaca riuscì odiosa alle popolazioni di Moldavia e Valacchia, che arrivarono a rimpiangere i Russi. E le mire del governo austriaco andavano al di di una occupazione temporanea: esso aveva difatti avviato segrete trattative con Londra e Parigi per ottenere l’annessione dei Principati, promettendo in cambio di aderire alla alleanza anti-russa. Vienna si faceva forte di un memoriale segreto inviato nel settembre 1853 dagli ex sovrani di Valacchia, Stirbey e Bibesco,  e dagli ex sovrani di Moldavia, Mihail Sturdza e Gregor Ghika, che si dicevano favorevoli all’annessione dei Principati all’Austria.15 Le trattative non furono concluse, ma continuarono i tentativi francesi ed inglesi per coinvolgere l’Austria nella guerra con la Russia, o, in alternativa, farla partecipe nel fissare le condizioni per la pace.

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A tal fine la Francia, anche a nome dell’Inghilterra, proponeva i seguenti punti al governo asburgico:

    abolizione del protettorato russo su Moldavia e Valacchia e conservazione dei privilegi già loro concessi dalla Porta con una garanzia collettiva delle Potenze da definirsi d’intesa con il governo ottomano. Libera navigazione sul Danubio, come stabilito nel 1815 dal Congresso di Vienna. Rinuncia russa ad un monopolio del protettorato sui sudditi cristiani dell’Impero turco, la cui libertà religiosa sarebbe stata garantita “dalle intenzioni generose di S.M. il Sultano” e dal protettorato congiunto di Austria, Francia, Inghilterra, Prussia e Russia, nel rispetto comunque della sovranità e della dignità del Sultano.

Tali punti, precisava la nota francese, erano modificabili, in caso di necessità derivanti dagli eventi bellici.16

L’Austria accettò tali proposte in linea di principio, ma rimase sempre semplice spettatrice degli eventi, mantenendo le sue truppe nei Principati.17

Non ci fu quindi l’auspicato intervento austriaco, ma si ebbe invece quello del Regno di Sardegna, richiesto da Francia ed Inghilterra, perché le loro truppe incontravano serie difficoltà in Crimea, inchiodate sotto le mura di Sebastopoli dalla strenua resistenza russa.

Inizialmente Londra e Parigi avevano proposto che le truppe sarde intervenissero in qualità di mercenarie: Cavour respinse sdegnosamente questa richiesta e propose invece un’alleanza da lui con lungimiranza ritenuta preziosa per la causa italiana, mentre tanti la avversavano ritenendo estranea agli interessi italiani una guerra combattuta nel lontano Oriente.

Tra gli oppositori all’intervento piemontese era anche Nicolò Tommaseo, che così commentava nel 1855 la posizione di Antonio Rosmini, favorevole invece all’impresa: “…io non so se il Rosmini che nello scorso dicembre appoggiava la guerra di Crimea, non si sarebbe più tardi ravvisto, considerando che la dignità morale e lo scopo di religiosa civiltà messo innanzi conseguivasi  del pari con una alleanza la qual patteggiasse la cooperazione del Piemonte a guerra già prossima: che se i due potentati richiedevano per forza di più, questo Impero pur sottinteso attestando paura toglieva ogni coscienza di dignità…”

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Fra le ragioni della sua contrarietà all’impresa, Tommaseo citava i numerosi lutti che ne sarebbero derivati, il dover combattereconfusi con gente assoldata di tutte le terre e di tutte le fedi”, il fatto che “il doppio comando sotto al quale il fiore dell’esercito italiano mettevasi, poco poteva aggiungere alla freschezza dei suoi tre colori, che l’onore del trionfo sarebbe stato per altri, per gli Italiani  (le guerre del primo Napoleone lo gridano) i pericoli e il dispendio e le inimicizie e la debolezza conseguente e il rammarico (Dio ce ne scampi, che senno umano non può) del finale disinganno”.

Il Rosmini, oltre che nelle discussioni con il Tommaseo, si era dichiarato favorevole all’intervento in una sua lettera all’amico Giuseppe Arconati, ex carbonaro implicato nei moti del 1821 e perciò condannato a morte dall’Austria; costretto quindi a rifugiarsi in Belgio, l’Arconati era rientrato in Italia solo a seguito dell’amnistia del 1838.

Rosmini gli scriveva da Stresa il 6 gennaio 1855, dicendosi d’accordo con lui nel ritenere necessario per il Piemonte partecipare alla guerra, alla luce di queste considerazioni: “non ci può essere pel Piemonte una condizione più pericolosa nel momento presente che quella dell’isolamento: ritengo anch’io per giusta la guerra che si fa alla Russia, la considero come una guerra difensiva, non solo rispetto alle due Potenze occidentali belligeranti, ma rispetto a tutta l’Europa e alla sua civiltà. Ora quelli che vinceranno (ed è facile vedere da qual parte piegare dee la vittoria), è certo, che disporranno delle cose europee da padroni; e allora che sarà dei piccoli Stati che non si saranno messi a tempo con essi? L’Austria stessa, che è potenza di primo ordine, comprese il pericolo, e si alleò contro il suo vecchio alleato per salvare se stessa. Mi sembra dunque che il Piemonte commetterebbe un’imprudenza massima, se si ostinasse nell’isolamento”.

In realtà l’Austria mantenne la sua neutralità. Lo constatava Tommaseo nel 1860, ribadendo comunque la sua contrarietà all’intervento del Piemonte nel suo volume intitolato “Il segreto dei fatti palesi seguiti nel 1859. Indagini di Niccolò Tommaseo. Italiani, Magiari, Slavi”. Non era stato, secondo lo scrittore dalmata, un motivo valido per decidere l’intervento il timore di attirarsi l’inimicizia di Francia ed Inghilterra nel caso fosse stata rifiutata la partecipazione alla guerra come da esse richiesto; né aveva fondamento la speranza di ottenere il sostegno di quelle Potenze partecipando; era una posizione che denotava debolezza: “La forza vera del Piemonte dovevasi attingere dal seno della nazione stessa, non da aiuti di fuori”.

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Inoltre, osservava realisticamente il Tommaseo, in politica non si agisce per gratitudine o ingratitudine. L’Austria non si era schierata con la Russia non per il timore di ritorsioni francesi e britanniche, ma perché considerava contraria ai suoi interessi una sconfitta turca che avrebbe accresciuta enormemente l’influenza zarista in Oriente; né aveva ritenuto conveniente schierarsi a difesa dell’Impero ottomano, alleandosi con Francia, Inghilterra e Piemonte, rompendo così apertamente con la Russia. Vienna preferì quindi una politica di equidistanza rispetto alle due parti, ritenuta “più spediente, risparmiando le proprie forze e risparmiando anco la Russia, quasi una mezza alleata; occupando i Principati, renderle meno grave il peso della guerra; e stare intanto a vedere da qual parte penderà la vittoria”.

Tommaseo assolveva quindi l’Austria dall’accusa di perfidia: muovere tale accusa, data la situazione in cui si trovava l’Impero asburgico, erasemplicità in cui non cadono gli uomini di Stato, né anco quelli che del riservo dell’Austria hanno poco a lodarsi”.18

Ma in realtà poco giovò all’Austria l’ambigua posizione da lei assunta, poiché la sua neutralità scontentava egualmente sia i Russi che gli Anglo-Francesi; per contro l’alleanza voluta da Cavour su di un piede di parità con le grandi Potenze era già per il Regno di Sardegna la prenotazione di un posto al tavolo delle future trattative di pace e gettava le basi di altre intese: era un precedente importante per la futura alleanza franco-piemontese contro l’Austria nel 1859.

A favore dell’intervento piemontese contro la Russia a fianco della Francia e dell’Inghilterra si era schierato Cesare Correnti con un suo articolo su “Il Diritto” del 18 maggio 1854 dal titolo “Dalla guerra di Crimea la salute”, da cui risultava evidente la posizione dell’autore.

Correnti non riteneva credibile un intervento austriaco contro la Russia ed a quanti ricordavano l’ultimatum della Conferenza di Vienna alla Russia imponendo l’alternativa, sgombero dei Principati Danubiani oppure la guerra, replicava: “Chi lo dice? I giornali di Parigi, che guardano le cose dall’atrio della Borsa”; e così concludeva: “In tutto quest’imbroglio politico e strategico è evidente che l’Austria inganna l’una e l’altra parte”.

Correnti spiegava pure di essere favorevole a schierarsi contro la Russia, perché la guerra non eraopera di artificiosità governativa, ma conseguenza matura della fine dell’equilibrio politico europeo stabilito con il Congresso di Vienna del 1815”; occorreva quindi costruire un nuovo equilibrio tra gli Stati d’Europa.

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Il 26 gennaio 1855 Cavour sottoscrisse a Torino con l’ambasciatore francese Guiche e con quello inglese Hudson l’adesione all’alleanza contro la Russia stipulata il 10 aprile 1854 dai governi di Parigi e Londra; il governo sardo si impegnava così ad inviare in Crimea un corpo di spedizione di 15.000 uomini, da mantenere a proprie spese.

La Convenzione stabiliva pure il successivo invio dei rinforzi necessari e l’impegno di Francia ed Inghilterra a difendere il Regno sardo da qualsiasi attacco che potesse essergli mosso nel corso della guerra d’Oriente: era trasparente il riferimento all’Austria, anche se non era espressamente nominata.

Il giorno stesso in cui aveva sottoscritto l’accordo con i due ambasciatori, Cavour presentò alla Camera un progetto di legge di un solo articolo che autorizzava il governo a “dare piena ed intera esecuzione alla Convenzione militare”.

Il dibattito parlamentare si svolse dal 3 al 10 febbraio 1855 con toni molto accesi da parte degli oppositori. Il primo ad intervenire nella seduta del 3 febbraio fu l’onorevole Paolo Farina, definendo l’accordoirreparabile sciagura” ed affermando l’opportunità per il Piemonte di restare neutrale, poiché la guerra si combatteva a grande distanza; né riteneva necessaria la guerra perché il Piemonte fosse poi ammesso a partecipare alle trattative di pace; la pace in Oriente non poteva interessare lo Stato piemontese e, data la sua posizione e la sua importanza, il governo di Torino non poteva essere in nessun caso escluso dalle trattative per la pace generale in Europa; non conveniva quindi affrontare un’impresa rovinosa per l’economia nazionale e rischiare la perdita dell’intero esercito.

Altrettanto duro fu l’intervento del leader della Sinistra radicale, Angelo Brofferio, a cui parere l’alleanza con l’Inghilterra e la Francia sottintendeva quella con il nemico di sempre, l’Austria; Cavour aveva quindi tradito i suoi principi, proponendo di stringere quell’alleanza. Così si esprimeva Brofferio: “Io penso che questo trattato non è né giusto, né nazionale, né utile, né necessario”; e proseguiva chiedendosi “…qual motivo abbiamo noi di muovere guerra alla Russia, che ci fu sempre aiutatrice, mentre stringiamo la mano all’Austria, nemica nostra…?”.

A riprova di tale affermazione Brofferio ricordava come al tempo della campagna austro-russa contro Napoleone condotta in Italia, l’Austria avesse mirato a fare del Piemonte una sua provincia, mentre la Russia aveva sostenuto il ritorno dei Savoia sul trono; la Russia

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indubbiamente era uno stato dispotico, ma non aveva portato “…il servaggio e la devastazione di Italia”. Per contro, la Francia aveva soffocato la repubblica romana nel 1849 e l’Inghilterra nel 1799 aveva favorito la restaurazione borbonica a Napoli, dove Nelson aveva fatto uccidere patrioti come Domenico Cirillo, Mario Pagano, Francesco Caracciolo.

Brofferio poneva sullo stesso piano Russia e Turchia, parimenti arretrate e dispotiche: “…la civiltà di Pietroburgo e di Costantinopoli è posta nella soluzione di questo problema: è più civile il Knout o il palo?”. Né in caso di vittoria, c’era da sperare in qualche vantaggio: “…per avere parte utile nella divisione dei forti, bisogna esser forti..”.

Ironizzava poi  Brofferio sulla possibilità di stabilire intese politiche grazie alla partecipazione alla guerra: “…mi vien risposto che avremo il grande beneficio di esser compresi nel concerto europeo, una rumorosa parola inventata apposta per significare nulla o per significare una delusione”. Pertanto, ribadiva Brofferio conveniva restare neutrali in una questione estranea agli interessi della nazione.

Era invece decisamente per l’alleanza con Francia ed Inghilterra il deputato Giuseppe Torelli, denunciando il comportamento della Russia, atteggiatasi a protettrice dei Principati Danubiani dopo il Trattato di Adrianopoli, “…come essa  esercitasse il protettorato, se a beneficio di quei abitanti, tutti lo sanno…”, era il sarcastico commento.

La Russia aveva poi preteso con arroganza di interferire nelle questioni interne dell’Impero turco, intervenendo a favore della popolazione ortodossa. Le mire espansionistiche russe avrebbero potuto estendersi fino all’Italia; a conferma di tale timore, Torelli citava il commento della “Gazzetta di Augusta” del 14 maggio 1845 relativo alle manifestazioni di simpatia dei romani per lo zar Nicola I in occasione della sua visita: “…nel proprio paese non poteva destare maggiore interesse, come se Roma fosse di già a quest’ora un sobborgo di Pietroburgo”.

Francia ed Inghilterra difendevano quindi la “…causa della civiltà contro la barbarie…”, era il giudizio finale di Torelli.

Analoga l’opinione di Giacomo Durando, futuro ambasciatore a Costantinopoli nel 1856 e poi nel 1862 Ministro degli Esteri: “…la guerra a cui noi siamo chiamati a partecipare, è una guerra d’indipendenza, una guerra di libertà…”.

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Agli interventi della Sinistra radicale contraria all’alleanza antirussa, seguì nella seduta del 5 febbraio l’attacco condotto dalla Destra contro la proposta di Cavour.

Clemente Solaro della Margherita si disse perplesso sulla posizione da assumere, ma era già evidente la sua ostilità ed alla fine votò contro. L’ex presidente del Consiglio infatti si chiedeva perché Francia ed Inghilterra avessero chiesto l’intervento del Regno di Sardegna anziché quello della Danimarca, che aveva le chiavi del Baltico, e non avessero insistito per l’intervento della Svezia, che grazie a quell’alleanza poteva sperare di riavere la Finlandia divenuta russa.

Dopo Solaro della Margherita parlò l’onorevole Giuseppe Biancheri, a quel tempo avversario di Cavour ed in seguito divenuto Presidente della Camera; a suo giudizio la guerra sarebbe giovata a mantenere in vita l’Impero turco, che conveniva invece far crollare;  né il Piemonte avrebbe ricavato qualche vantaggio partecipando alla guerra.

Il 6 febbraio 1855 toccò a Riccardo Sineo, tenace oppositore di Cavour (si opporrà poi alla cessione di Nizza e Savoia alla Francia, necessaria per aver l’appoggio nella guerra del 1859 contro l’Austria), spezzare una lancia a favore della neutralità, dichiarando di non ritenere opportuno intervenire a favore della Turchia, la cui stessa esistenza era “…una continua ingiustizia, una continua prepotenza, la pressione del forte sopra una numerosa popolazione che ha diritto di rivendicare la sua nazionalità…”.

L’opinione pubblicaproseguiva Sineoera contraria ad ogni guerra: “…il paese, appunto per quel gran senno di cui sono dotate le nostre popolazioni, non vuole nessuna utopia, non vuole nessuna folle impresa. Esso vuole il possibile ed il giusto in ogni tempo…”.

A quel punto intervenne Cavour, prospettando il rischio della presenza della Russia nel Mediterraneo, una volta ottenuto il completo controllo del Mar Nero. Il presidente del Consiglio volle poi rassicurare i commercianti genovesi, che avevano presentato all’on. Giovanni Lanza, vice presidente della Camera e relatore sul progetto di legge in discussione, una petizione, letta nella seduta del 5 febbraio, in cui manifestavano i loro timori di rappresaglie russe, dannose per i loro interessi, se il Piemonte fosse entrato in guerra. Già Lanza aveva ritenuti esagerati quei timori poiché nei depositi russi i commercianti avevano poco grano, la principale merce da essi trattata, a causa del divieto di esportarlo disposto già nel 1854 dal governo zarista; né Lanza riteneva possibile una confisca dei beni immobili dei commercianti di Genova, trattandosi di proprietà privata.

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Cavour fece sue le osservazioni di Lanza, ricordando l’impegno del governo russo di rispettare le proprietà private, dettato a suo parere dal timore di pesanti ritorsioni, come il bombardamento di Odessa; inoltre, aggiungeva Cavour destando l’ilarità dell’Assemblea, i commercianti genovesi sembravano aver già dichiarato per proprio conto guerra alla Russia, noleggiando le loro navi ai governi francese ed inglese per il trasporto di truppe e rifornimenti.

Ed ancora,  osservava Cavour, anche se l’Austria avesse alla fine aderito alla alleanza, non per questo il Regno di Sardegna doveva restare spettatore inerte: prender parte alla guerra non significava aver tradito i principi, come aveva accusato Brofferio; avrebbe anzi giovato alla considerazione europea per il governo di Torino, venendo così ad esser dimostrato che esso aveva messo da parte le congiure e le agitazioni rivoluzionarie del passato, con il suo intervento a fianco di governi liberali quali erano quelli di Parigi e Londra.

Era rischiosa una neutralità, asseriva infine Cavour, poiché avrebbe scontentato tutti;  ricordava il precedente  della repubblica veneta rimasta nel 1797 neutrale senza schierarsi né con la Francia, né con l’Austria; il risultato fu il Trattato di Campoformio che mise fine all’esistenza della Serenissima.

La seduta del 7 febbraio vide l’intervento di Luigi Farini, favorevole all’alleanza, perché ritenuta utile per l’equilibrio politico europeo, di cui la questione d’Oriente era parte fondamentale. Occorreva superare la situazione creatasi in Europa con il Trattato di Vienna del 1815, i cui effetti negativi erano stati aver isolato la Turchia e ridotto l’Italia in schiavitù. Replicando a Brofferio, Farini affermò che la Russia aveva sostenuto nel 1798 il ritorno dei Savoia sul trono per fare del Piemonte una base contro la Francia e non per una disinteressata simpatia per l’indipendenza piemontese. Dichiarava poi superata la fase storica delle rivoluzioni; nel 1848 il Piemonte aveva agito in sintonia con le rivoluzioni europee, ma –dichiarava Farini – “…oggi, o signori, la questione e la guerra si trattano da governi regolari per mezzo di eserciti regolari…”.

Pur se si faceva ricorso a metodi diversi, esisteva quindi per Farini una continuità storica con il passato rivoluzionario e patriottico; era poi rovesciato l’argomento degli oppositori per i quali era impossibile partecipare ad un’alleanza cui probabilmente si sarebbe unita l’Austria;

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proprio tale previsione doveva spingere ad aderire prontamente, anticipando l’eventuale partecipazione austriaca, in modo da non lasciare a Vienna la possibilità di aumentare la propria influenza,  grazie all’aiuto prestato a Francia ed Inghilterra. Il peso dell’intervento piemontese, osservavano alcuni, sarebbe stato inferiore a quello austriaco; ma, obiettava Farini,  “…sia pure poca cosa questo peso, sia quello di una piuma, ma volete voi avere il rimorso che nessuno sia che pronunci il nome d’Italia nel concilio in cui si prepareranno i nuovi destini europei?”.

Protagonista del dibattito svoltosi l’8 febbraio 1855 fu Cesare Correnti, che aveva espresso il suo favore all’ingresso in guerra del Piemonte già con l’articolo su “Il Diritto” del 18 maggio 1854.

Il Correnti  contestava l’affermazione che quella d’Oriente fosse una guerra “…di despoti contro despoti, di barbari contro barbari, come se dietro gli interessi non venissero, invisibili solo agli occhi della carne, le idee; come se dietro i governi non istessero, quand’anche curvi e rattrappiti i popoli”. Riconosceva poi come per le sorti dell’Italia avesse pesato negativamente più l’Austria che la Russia: “…la Russia è lontana e le forche austriache ci stanno piantate in su gli occhi”. Ma occorreva superare le reazioni istintive ed irriflesse. L’Inghilterra nel 1815 aveva agito di concerto con la Russia per isolare la Francia; ma c’era stato poi un rovesciamento delle alleanze, per cui l’Inghilterra si era accostata alla Francia per contenere la minacciosa espansione russa: “…codesta gran lega europea, intesa a rompere la massa minacciosa del grande impero nordico, è un guadagno per la civiltà, un guadagno per la libertà del mondo”.

Come già aveva fatto Farini, il Correnti sosteneva la necessità di stabilire in Europa un equilibrio politico, per impedire la pericolosa egemonia di una sola nazione: “…l’Europa contro la Russia, la civiltà contro la barbarie…”: era questa la visione di Correnti, che faceva poi questa ammissione: “E sia anche che Aberdeen valga Nesselrode, o che l’imperatore delle Tuileries valga l’imperatore del Kremlino…”; ma la realtà non era fatta solo dai governi: essa era costituita soprattutto dai popoli: “La civiltà francese ed inglese è civiltà vera appunto perché fiorisce senza il Governo ed a dispetto del Governo. La barbarie russa è barbarie vera perché appunto essa non è nel Governo soltanto, ma nel popolo; non nelle istituzioni soltanto, ma nei costumi…”.

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Correnti concludeva il suo intervento esortando a superare le angustie di un nazionalismo cieco e ricordava con rammarico come nel 1848 non si fosse dato ascolto alle esortazioni dei democratici viennesi per una lotta comune contro i governi dispotici ed a favore della libertà.

Il successivo oratore, Luigi Menabrea, fece  nel suo intervento un’analisi serrata della Convenzione stipulata da Cavour, lamentando che al Piemonte fossero stati addossati compiti e responsabilità sproporzionati rispetto alle sue possibilità economiche e militari ed agli impegni assunti da Francia ed Inghilterra. L’alleanza risultava quindi sbilanciata a danno del Piemonte  ed era simile a quella stabilita con la Francia nel 1797 sotto la pressione dell’occupazione francese. Non voleva comunque dirsi contrario in assoluto all’alleanza, ma ne chiedeva la revisione per ripartire più equamente gli obblighi da assumere; Menabrea si riservava di precisare in seguito la sua posizione.

In un suo breve intervento Raffaele La Marmora, Ministro della Guerra e capo designato della spedizione, fece presente l’impossibilità per il Piemonte di dettare condizioni a due grandi Potenze quali Francia ed Inghilterra.

Il dibattito proseguì il 9 febbraio con l’intervento di Gustavo Cavour, fratello maggiore di Camillo, convinto conservatore, per il quale non c’era da scegliere  tra Russia e Turchia, tra lo Knout ed il palo, come aveva detto Brofferio;  asseriva di non avere un gran timore di nessuna di quelle due Potenze: “Per me la sola barbarie che temo per l’Europa moderna, l’ho già detto altre volte, si è la barbarie del comunismo”.

Il possesso di Costantinopoli non avrebbe reso la Russia padrona del Mediterraneo, poiché i Dardanelli sarebbero stati bloccati dalla flotta francese e da quella inglese; ma il Mar Nero sarebbe divenuto un lago russo con “…un  danno gravissimo alle province che sono innaffiate dal Danubio, il cui commercio sarebbe tutto in mano dei Russi”; ma l’Impero russo, colosso “…avente il corpo di bronzo, ma i piedi d’argilla…” sarebbe presto crollato sotto il peso della impopolarità derivante dal suo despotismo, così come erano crollati rapidamente gli Imperi di Attila e Gensis Kan.

Già si intravedevano segni di disgregazione nel dispotismo zarista; se i soldati arruolati tra i contadini erano ciecamente devoti allo zar, gli ufficiali provenienti dalle classi colte avevano tendenze liberali.

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L’argomento risolutivo addotto da Gustavo Cavour per spiegare la sua opposizione alla guerra era l’esistenza di una leva obbligatoria per cui i soldati del Piemonte sarebbero stati costretti a combattere senza poter fare una propria libera scelta.

Per Urbano Rattazzi, ministro di Grazia e Giustizia e reggente del Ministero degli Interni, non poteva ritenersi l’alleanza sbilanciata a favore di Francia ed Inghilterra in quanto la Convenzione militare sottoscritta da Cavour era parte del Trattato politico Anglo-Francese stipulato il 10 aprile 1854, cui il Piemonte aveva aderito. Il Trattato stabiliva una parità di diritti fra le Potenze contraenti, da intendersi estesa al Piemonte con la sua adesione al Trattato stesso. Menabrea aveva lamentato la mancanza di garanzie per il Piemonte; ma l’articolo 5 del Trattato stabiliva l’obbligo di non condurre trattative separate per la pace e quindi automaticamente il Piemonte sarebbe stato ammesso a condurle assieme ai suoi alleati.

Nell’ultimo giorno del dibattito, il 10  febbraio 1855, Menabrea presentò un ordine del giorno perché fossero stipulati accordi più equi per il Piemonte, ma la proposta fu respinta.

Si ebbe poi una doppia votazione, una pubblica ed una segreta sulla proposta di legge presentata da Cavour. Lo scrutinio della votazione pubblica diede questo risultato: presenti 162, votanti 161, maggioranza 82; diedero voto favorevole 101, contrari 60, astenuto Menabrea. Tra i favorevoli figurava Durando, Farini, La Marmora, Lanza, Rattazzi, Torelli; fra i contrari Asproni, Biancheri, Brofferio, Gustavo Cavour, De Pretis, Sineo, Solaro della Margherita, Valerio.

Quasi simili i risultati della votazione segreta: presenti 160, votanti 159, maggioranza 81, voti favorevoli 95, contrari 64, un astenuto.

Il governo russo ovviamente accolse malissimo l’intervento della Sardegna. Il conte di Nesselrode, ministro per gli Affari Esteri, inviò una circolare agli ambasciatori Russi accreditati nelle varie capitali lamentando che Vittorio Emanuele II “senza un motivo espresso, senza una ragione legittima, senza neppure l’apparenza di una minore lesione degli interessi diretti del suo paese” avesse aderito all’alleanza antirussa. Non c’era neanche stata una formale dichiarazione di guerra, resa nota al governo russo solo attraverso i giornali: l’omissione secondo Nesselrode era dovuta all’ostilità dell’opinione pubblica del Regno sardo all’ingresso in guerra.

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Ironia della sorte, concludeva il ministro russo, le truppe sarde sarebbero partite dal porto di Genova, ottenuto nel 1815 grazie alla Russia. Erano rotte le relazioni diplomatiche, ma i sudditi sardiassicurava Nesselrode – potevano restare in Russia per curare i loro interessi commerciali sotto la protezione delle leggi:19 erano così confermate le previsioni di Lanza e di Cavour espresse nel corso del dibattito parlamentare sulla mancanza di rappresaglie russe contro  i commercianti genovesi.

Non tardò la replica sarda: l’intervento era dovuto all’espansionismo russo che minacciava l’equilibrio politico europeo e la libertà dei popoli, come aveva chiarito “l’ingiusta invasione dei Principati Danubiani”.

Dalla questione d’Oriente dipendevano le sorti dell’Europa e dell’Asia: anche i paesi del Mediterraneo rischiavano di divenire vassalli, di fatto se non di nome, dell’Impero zarista.

Vittorio Emanuele aveva quindi deciso l’intervento a favore di una causa giusta; lo zar aveva lamentato la mancata dichiarazione formale di guerra e rinfacciato la supposta ingratitudine di un attacco condotto dimenticando antiche prove di amicizia russa per la Sardegna; aveva però taciuto sulle sue recenti prove di ostilità per il Regno di Vittorio Emanuele II e per la causa italiana. Il governo sardo auspicava comunque la pace e, ricambiando il fair play russo, assicurava a sua volta il rispetto delle persone e degli averi Russi.20

Il 21 aprile 1855 le truppe sarde partirono per la Crimea; il loro intervento preoccupava la Russia perché temeva che l’Austria, svanito il pericolo di un attacco sardo, si schierasse con la Francia e con l’Inghilterra: ma così non fu e l’Austria perseverò nella sua neutralità.

Neutralità che, tutto sommato, riuscì utile alla Russia, come aveva osservato Tommaseo e secondo l’analisi in cui concordavano sia il romeno Jon Bratianu che l’ungherese Gyorg Klapka.

Il primo osservava che l’occupazione austriaca dei Principati aveva privato Francia ed Inghilterra di una preziosa base per le operazioni contro la Russia.21 L’occupazione favoriva pure l’espansione germanica verso Oriente, avviata con l’emigrazione di contadini sassoni in Transilvania.22

Ed inoltre la presenza austriaca in Moldavia e Valacchia era un ulteriore ostacolo alla partecipazione romena alla guerra, già rifiutata dalla Porta proprio a seguito delle pressioni esercitate dall’Austria, ostile a tale partecipazione perché avrebbe giovato all’affermazione del principio di nazionalità, in cui Vienna vedeva a ragione il tarlo roditore del suo Impero multinazionale.

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Bratianu quindi deplorava vivamente l’esclusione dei volontari romeni dalla guerra: “livrer les Principautés roumaines à l’invasion des Autrichiens et des Turcs pour les opprimer et violer leurs droits au lieu de les admettre dans les rangs des alliés en armant leurs habitants comme  ils le réclament et comme ils le méritent pour leur attitude antimoscovite, n’est ce pas exaspérer ces populations et les rejeter completement dans les bras de la Russie ?”

Per  assicurare la vittoria degli alleati sui Russi a Sebastopoli, - affermava Bratianu – sarebbe stata determinante la cooperazione dei Principati, che erano in grado di schierare 100.000 uomini.23

E poiché la libertà è un bene indivisibile, - continuava il patriota romeno – la liberazione della Moldavia e della Valacchia sarebbe stata nell’interesse di tutti: delle altre nazionalità oppresse dagli Asburgo, sovrani dispotici sotto apparenze liberali;24 delle popolazioni cristiane sottomesse alla Porta; dell’Europa, che in uno stato romeno forte ed indipendente avrebbe trovato un bastione antirusso.25

Ed anche Kossuth, massimo esponente di quel Magiarismo che nel 1848 aveva combattuto contro i Romeni, riconosceva che uno stato romeno indipendente avrebbe contenuto l’espansionismo russo.26

Ma il governo austriaco, anziché dare soddisfazione alle aspirazioni nazionali, manteneva una  rigida  unità  centralizzata, sul  modello  dell’unità  nazionale  della   Francia, che non aveva però al suo interno popolazioni diverse con proprie antiche tradizioni, come quelle appartenenti all’Impero asburgico.27

L’Austria si manteneva neutrale per assicurare la sopravvivenza del suo Impero multinazionale e per ragioni finanziarie: quando si era diffusa la falsa voce che sarebbe intervenuta a fianco della Russia contro Francia ed Inghilterra si era verificato un crollo della sua moneta, ripresasi quando era stata confermata la sua neutralità.28

L’analisi della posizione austriaca fatta da Klapka concordava in molti punti con quella di Bratianu. Il ritiro russo dai Principati rispondeva non solo al’esigenza di poter meglio difendere la Crimea, ma anche  al desiderio di dare soddisfazione all’Austria ed alla Prussia che  l’avevano sollecitato.29

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La successiva occupazione austriaca dei Principati aveva garantito le frontiere russe: era interesse dell’Austria favorire la Russia, l’unica potenza che poteva venirle in aiuto, come era avvenuto nel 1849, in nome dei comuni interessi contrari ai principi di nazionalità. Intervenivano anche fattori geografici, oltre che ideologici:Vienna non poteva contare sull’Inghilterra, troppo lontana, né sulla Franciacapricieuse et ondoyante”. 

Era quindi falsa per Klapka l’idea di un’Austria baluardo contro l’espansionismo russo, che poteva invece essere contenuto da una Polonia unita ed indipendente e da una forte confederazione danubiana, estesa dai Carpazi al Mar Nero ed all’Adriatico, che nel rispetto delle singole individualità nazionali doveva comprendere uno Stato ungherese, uno Stato romeno ed uno degli Slavi del sud.30

Più realistica la posizione del romeno Jon Ghika, esule a Parigi, che al momento dell’occupazione russa dei Principati nel luglio 1853 inviò alle Potenze un memoriale, in cui, messo da parte il sogno mazziniano di una confederazione delle repubbliche nazionali danubiane, giudicava prematura l’idea di uno stato romeno esteso dalla Tisza al Dniester ed al Mar Nero, sotto un principe straniero.

Rinunciava al programma massimo di riunire tutti i territori con popolazione romena, che già nel 1843, al tempo della massima influenza russa in Moldavia, Mihail Kogalniceanu aveva sostenuto in un discorso all’Accademia di Jassy, affermando di considerare sua patria tutti i territori dove si parlava romeno. Ghika si limitava a chiedere il rispetto delle antiche capitolazioni stipulate con la Porta, che avevano assicurato l’esistenza dei Principati autonomi di Moldavia e Valacchia, dalla cui unione sotto un principe elettivo poteva  nascere uno Stato romeno, eliminata ogni ingerenza russa.31

Delineandosi con evidenza sempre maggiore un esito della guerra sfavorevole alla Russia, dalle proposte dei pubblicisti si passò alle iniziative politiche delle Potenze.

Nel marzo 1855 il governo austriaco promosse una Conferenza a Vienna, cui presero parte Francia, Inghilterra e Turchia (fu escluso il Regno di Sardegna per l’opposizione dell’Austria), per definire le condizioni di pace da proporre alla Russia. Già in quell’occasione l’ambasciatore francese a Vienna, Bourqueney, propose l’unione di Moldavia e Valacchia, cui si dichiarò contrario lord Russel, favorevole ad assicurare le prerogative del sultano sui due Principati da mantenere separati.

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Furono però affermate la libertà di navigazione sul Danubio e nel Mar Nero e la garanzia collettiva delle Potenze, e non più soltanto russa, per i Principati, il cui assetto politico doveva essere conforme ai desideri espressi dalle popolazioni, ma subordinato all’assenso della Porta.

Per limitare la presenza russa sulla riva sinistra del Danubio, parte della Bessarabia doveva esser ceduta alla Moldavia. Erano pure previste garanzie per i sudditi del Sultano, eliminando però le ingerenze russe.

Il premier inglese Palmeston  propose che le garanzie fossero estese agli Ebrei, convincendo a pronunciarsi a favore il riluttante ministro francese per gli Affari Esteri, Walewski. Pertanto l’ “hatti-cherifemanato dal Sultano nel febbraio 1856 prevedeva garanzie per i sudditi non musulmani del suo Impero: venivano così ad esser tutelati anche gli Ebrei; seppure non nominati esplicitamente, essi rientravano nella dizione “non musulmani” che non poteva esser riferita esclusivamente ai cristiani delle varie confessioni.32

Per mettere a punto le condizioni di pace, alla Conferenza di Vienna seguì quella di Costantinopoli (dicembre 1855-gennaio 1856), da cui ancora una volta fu escluso il Regno di Sardegna, malgrado le vivaci proteste del suo rappresentante presso la Porta, Tecco. Comunque, sebbene in modo generico, Francia ed Inghilterra assicurarono al governo di Torino che avrebbe partecipato all’ormai imminente Congresso per la pace, in previsione del quale fu stabilita una tregua fino al 31 marzo 1856.

Nel corso dei contatti avuti da Cavour con il governo francese e con il governo inglese prima di tale  Congresso e nel corso dello stesso, riaffiorò l’ipotesi di fare di Moldavia e Valacchia oggetto di scambio per nuove combinazioni territoriali senza tener conto delle loro aspirazioni all’unità ed all’indipendenza.

In un colloquio riservato Napoleone III proponeva di assegnare la Moldavia e la Valacchia al duca di Modena ed alla duchessa di Parma, i cui territori sarebbero andati a Vittorio Emanuele II; proposta accolta da un Cavour gongolante, perché aveva già pensato lui a questa soluzione, ma che furbescamente si guardò bene dal farlo presente all’imperatore francese: “je n’ai eu garde de réclamer la paternité de ce project et je m’extasiai sur la sagacité de S.M.….”. 33

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Agli occhi di Cavour questo piano offriva il vantaggio di evitare che l’Austria acquistasse una enorme  influenza sull’Europa Orientale grazie al controllo di tutto il corso del Danubio che le sarebbe stato assicurato dal possesso dei Principati Danubiani. Eventualità molto temuta da Cavour, che già il primo gennaio 1856 aveva scritto all’ambasciatore sardo a Londra, Vittorio Emanuele d’Azeglio, di mettere in guardia il governo inglese contro tale pericolo e di chiedere assicurazioni a Palmerston. 34

Ed ancora il 5 marzo 1856 Cavour tornava sull’argomento in un memoriale a Napoleone III, 35 suggerendo pure un matrimonio tra la duchessa di Parma ed il principe Carignano; l’idea era gradita pure a Palmerston: “le project Parma-Carignano a été trés gouté”, aveva scritto da Londra a Cavour l’ambasciatore d’Azeglio il 2 marzo 1856.36

Il piano fallì per l’opposizione del principe Carignano, che non ne voleva sapere di queste nozze, e dello stesso Vittorio Emanuele II.37

Ma il principale ostacolo non era costituito tanto dall’avversione del principe al matrimonio, quanto dall’opposizione austriaca ad un Savoia nella zona danubiana e dall’ostilità della Porta a progetti che compromettessero la sua “suzeraineté” su Moldavia e Valacchia. Riprese pertanto vigore l’antica ipotesi di Talleyrand e Balbo, dapprima avversata da Cavour, di assegnare  i Principati all’Austria in cambio della cessione del  Lombardo-Veneto al Piemonte. Soluzione che in quel momento incontrava anche l’approvazione di Londra: Palmerston dichiarava infatti a d’Azeglio che l’equilibrio europeo non sarebbe stato alterato se l’Austria in cambio dei Principati avesse ceduto il Lombardo-Veneto, o almeno la sola Lombardia; il ministro inglese esprimeva però scetticismo sulla disponibilità austriaca ad operare tale scambio.38

Al contempo si veniva però affermando anche il progetto, alla fine vincente, di unificare Moldavia e Valacchia in uno Stato autonomo; progetto che incontrava il favore di Napoleone III, ma cui si mostrava invece ostile lord Clarendon, titolare del Foreign Office, sostenitore dell’integrità territoriale dell’Impero ottomano.

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Si rivolgeva quindi Cavour a d’Azeglio perché convincesse il premier britannico, Palmerston, a non opporsi: “Si on ne les réunit pas, si on ne constitue pas un pouvoir fort et compacte, elles resteront plongées comme par le passé dans la corruption et le désordre…ce serait pour l’Europe une véritable honte que de laisser ces contrées en proie à l’anarchie et aux intrigues de la Russie et de la Turquie.

Cavour ricordava poi che Moldavi e Valacchi si attendevano dal Congresso la loro unità e che non bisognava deluderli: “Pour l’amour du Ciel persuadez à Palmerston que ce serait un crime de lése civilisation s’il soutenait le status quo, et s’opposait aux justes désirs de l’entière population de la Roumanie”.39

Neanche la Russia si mostrava contraria all’unione dei Principati in uno stato autonomo, sperando di ottenere così il favore di quelle popolazioni e di minare l’influenza austriaca.

Il Congresso che doveva decidere il nuovo assetto politico europeo dopo la guerra d’Oriente fu inaugurato a Parigi  il 25 febbraio 1856 sotto la presidenza del ministro degli Esteri francese, il conte Floryan Walewski (era il figlio naturale di Napoleone I e della polacca Maria Walewska); era pure un francese il segretario del Congresso, Vincent Benedetti, direttore generale degli Affari Politici al Ministero Affari Esteri.

Tenace nel proposito di escludere dal Congresso il Regno di Sardegna, all’apertura dei lavori il conte Buol, ministro austriaco per gli Affari Esteri, si appellò alla tradizione stabilita nel 1815 dal Congresso di Vienna, e poi sempre rispettata, per cui solo le grandi Potenze erano ammesse alle Conferenze internazionali. Cavour replicò prontamente che la Sardegna aveva partecipato alla guerra, a differenza dell’Austria, rimasta neutrale, e, con l’appoggio francese ed inglese la spuntò, continuando quindi a rappresentare il governo di Torino al Congresso, assieme al marchese Salvatore Pes di Villamarina, ambasciatore sardo a Parigi.

Fin dalle prime battute si impose all’attenzione del Congresso il problema dei Principati. Come aveva già fatto Borqueney alla Conferenza di Vienna, Walewski propose l’unione dei Principati. Esisteva una maggioranza sufficiente per approvare questa proposta francese, appoggiata da Prussia, Russia e Sardegna, restando invece contrarie Austria, Inghilterra e Turchia.

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Ma la Francia voleva evitare uno scontro con l’Inghilterra e perciò non si avvalse di questa maggioranza. Un acuto osservatore politico francese, Saint Marc Girardin, affermò che il governo di Parigi aveva voluto pesare  i voti, piuttosto che contarli, poiché l’asse della sua politica estera era costituito dall’intesa con Londra; fu così che le tre Potenze contrarie all’unione di Moldavia e Valacchia prevalsero sulle quattro favorevoli.40

In un articolo successivo lo stesso Saint Marc Girardin non criticò tale scelta francese, ma il fatto che la Francia per un malinteso senso di cortesia aveva accettato di rinviare la decisione, che sarebbe stata invece già adottata nella seduta dell’8 marzo 1856, quando Clarendon non aveva ancora deciso l’opposizione inglese all’unione dei Principati ed erano deboli le resistenze turche ed austriache.41 

Occorre pure precisare che erano diverse le motivazioni che animavano le Potenze favorevoli all’unione dei Principati Danubiani. La Russia cercava una rivalsa contro l’Austria, cui non perdonava il mancato intervento al suo fianco nella guerra d’Oriente e di aver proposto che la parte meridionale della Bessarabia fosse unita alla Moldavia. Scriveva Cavour da Parigi al conte de Launay, ambasciatore sardo a  Berlino, che il conte Orloff, uno dei delegati russi al Congresso, si era così espresso: “L’Autriche se ne doute pas de ce que lui coûtera de larmes et de sang le lambeau de territoire quelle nous a arraché en Bessarabie”.

E sempre lo stesso Orloff, passando da Berlino, si era così sfogato contro l’Austria con de Launay: “Tôt ou tard l’Austriche payera les pots cassés”.42

Inoltre la Russia cercava di accattivarsi le simpatie dei Moldavi e dei Valacchi, sostenendo le loro aspirazioni unitarie.

La Prussia dal conto suo, pur mantenendo un atteggiamento cauto, voleva infliggere all’Austria uno scacco nella zona danubiana, per indebolirne la posizione in seno alla confederazione germanica.43

E Cavour riteneva essenziale per la causa dell’unità italiana creare un precedente con l’unità dei Principati Danubiani e minare il prestigio dell’Austria con una pesante sconfitta diplomatica. La Francia, infine, aveva assunto la funzione di capofila dello schieramento favorevole all’unità romena soprattutto per l’impulso personale di Napoleone III, che, seppur divenuto imperatore, conservava  sempre un animo di antico carbonaro, ispirato dall’ideale di nazionalità.

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Dopo Walewski fu Cavour a proporre ancora l’unione dei Principati nella seduta del 23 marzo 1856. Il delegato turco Alì pascià troncò subito la discussione, affermando di non aver istruzioni al riguardo; per allentare la tensione creatasi il delegato austriaco promise il ritiro delle truppe austriache dalla Moldavia e dalla Valacchia, senza però fissare la data.

Per uscire dallo stallo in cui il Congresso rischiava di arenarsi, si decise di rinviare il problema dei Principati ad una speciale Conferenza da tenersi successivamente. In preparazione di tale  Conferenza fu pure deciso, su proposta austriaca, di inviare in Moldavia e Valacchia una Commissione internazionale per accertare quali fossero realmente le aspirazioni di quelle popolazioni.

Ma, pur se fu accantonata la questione dell’unità romena, nel Trattato conclusivo del Congresso, firmato il 30 marzo 1856, si fissavano già questi punti essenziali del nuovo ordinamento politico dei Principati.

La Russia otteneva la restituzione dei suoi territori occupati durante la guerra, ma doveva cedere alla Moldavia il sud della Bessarabia (art. 20 e 21). Moldavia e Valacchia restarono sotto la “suzeraineté” della Porta, conservando i privilegi assicurati dalle capitolazioni stipulate dai loro principi con il governo del sultano. Il mantenimento di tali privilegi (autonomia amministrativa, divieto di residenza nei Principati per i musulmani, diritto di eleggere i principi sottoposti però al gradimento turco) era posto sotto la garanzia collettiva delle Potenze firmatarie del Trattato (art. 22) ed il Sultano si impegnava formalmente a garantire libertà di culto, di   commercio e di legislazione.

Si sarebbe compiuta una revisione legislativa sulla base della indicazioni fornite dalla Commissione internazionale incaricata di accertare quali fossero le aspirazioni dei Moldo-Valacchi (art. 23).

Interlocutori di questa Commissione sarebbero stati i parlamenti locali (dettiDivani ad hoc”), che il sultano doveva convocare con un suo firmano (art. 24).

La Commissione avrebbe tenuto conto dei pareri espressi dai “Divani ad hoc” per compilare una relazione per la futura Conferenza che avrebbe redatto una Convenzione da sottoporre all’approvazione del sultano (art. 25).

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La sicurezza interna e la difesa del territorio da minacce esterne sarebbe stata garantita da forze armate locali a disposizione dei Principati; in caso di insufficienza di tali forze, sarebbe intervenuta la Turchia, ma solo con il consenso delle Potenze (art. 26 e 27).

La navigazione sul Danubio era posta sotto il controllo di due Commissioni: una tecnica formata dagli Stati europei per il dragaggio delle acque e per assicurare la navigabilità, una politica costituita dagli Stati rivieraschi che doveva preparare un Regolamento per la navigazione e curarne l’applicazione, costituendo a tale fine una polizia fluviale.44

Il Trattato fu accolto con vivaci critiche dai liberali europei che avevano sperato in una completa affermazione dell’unione e dell’indipendenza moldo-valacca.

Alla vigilia del Congresso Edgar Quinet si era rivolto ai Romeni affermando con tono ispirato: “Vous n’ètes plus une province inconnue, Vous faites partie de la cité, jallais dire de la patrie chrétienne occidentale. Votre question est devenue une question d’intérêt et d’honneur pour l’Europe.  Il y aura une Roumanie, ou il n’y aura plus ni honneur, ni liberté, ni garantie, ni foi d’aucune sorte en Europe, et dans ce cas encore, votre lot serait égal à celui de tous les autres”.45 E lo storico francese concludeva affermando che la rinascita della Moldavia e della Valacchia sarebbe stata utile per la Turchia, che non aveva alcun interesse a portarsi dietro un peso morto.46

Ben diverso il parere delle Potenze conservatrici. Significativo quanto il rappresentante del Regno delle Due Sicilie a Vienna, Giovanni Gioieni Cavaniglia, principe di Petrulla, scriveva il 24 aprile 1856 a Luigi Carafa dei duchi di Traetto, reggente il ministero degli Esteri con la qualifica di direttore generale: per riorganizzare i Principati “si farà in modo da combinare i diritti e gli obblighi inerenti alla “suzeraineté” della Porta, con una amministrazione nazionale, e con le istituzioni conformi all’indole, ai bisogni, ed agli antichi privilegi di quelle popolazioni. Chi può negare che ciò sarà un lavoro difficilissimo, lo stato morale e politico dei Principati non presentando da molto tempo che uno spettacolo veramente deplorabile?” E proseguiva ricordando che l’Austria, forte di tale argomento, era stata autorizzata dal Congresso a proseguire l’occupazione dei Principati fino alla loro riorganizzazione.47

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Ma nonostante tali difficoltà, forse esagerate ma non inventate dal diplomatico napoletano, permanevano le aspirazioni all’unità ed all’indipendenza in una certa misura recepite pure nel “Regolamento Organico”, elaborato durante l’occupazione russa successiva al Trattato di Adrianopoli del 1829, stipulato dalla Russia con la Turchia. Il governatore russo, il generale Pavel Kisselef, dotato di mentalità illuminista, aveva dato incarico di armonizzare in tale Regolamento il coacervo di leggi esistenti a due Commissioni (una per ciascun Principato), formate ognuna da quattro boiari.

Segretario della Commissione valacca fu Barbu Stirbey, destinato a divenire principe negli anni 1849-1856, mentre segretario della Commissione moldava fu il letterato Giorgio Asaki.

Quasi con le stesse parole l’articolo 371 del Regolamento valacco e l’articolo 425 di quello moldavo affermavano che tra le due regioni esistevano grandi affinità etniche, linguistiche e culturali per cui la loro separazione era da ritenersi frutto di fortuite circostanze storiche;  nello stesso periodo (1839) il poeta Jon Vacarescu rimproverava il fiume Milcov perché segnava il confine tra Moldavia e Valacchia, separando così popoli fratelli.

Oltre a queste teoriche affermazioni di principio e ad espressioni letterarie vi erano pure state iniziative concrete per realizzare l’unità, seppure non coronate da successo. Nel 1841 si prevedeva la decadenza del trono di Valacchia di Alessandro Ghika (avvenuta poi il 7 ottobre 1842) ed il principe Jon Ghika, a nome di un gruppo di boiari progressisti, capeggiati da Jon Campineanu, propose a Michele Sturdza, principe di Moldavia, di assumere pure la corona di Valacchia, realizzando così nella sua persona l’unità dei due Principati.

Il rifiuto di Sturdza fece svanire il disegno unitario, comunque parzialmente realizzato con l’eliminazione delle barriere doganali tra Moldavia e Valacchia, deciso nel 1853 da Giorgio Bibesco, principe di Valacchia.

Nel corso della rivoluzione del 1848 ci furono molte prese di posizione favorevoli all’unità, estesa anche alla Transilvania. La Porta vi si oppose decisamente ed ancora nel 1856 confermò la sua contrarietà all’unione moldo-valacca, considerandola pericolosa per l’integrità dell’Impero. Ci furono tuttavia nel corso della guerra d’Oriente autorevoli voci turche favorevoli al’unione. Il rappresentante francese presso la Porta, Benedetti, scriveva il 20 ottobre 1854 a Edouard Antoine Thouvenel, all’epoca direttore generale degli Affari politici al Quai d’Orsay ed in seguito ambasciatore a Costantinopoli, che il gran visir Rachid

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pascià si era dimostrato molto disponibile all’unione dei Principati. Benedetti giudicava così la posizione del gran visir: “La réunion des deux provinces, l’élection d’un prince étranger, une constitution indépendante de l’autorité suzeraine, la neutralité de ce nouvel état, et la protection collective des grandes puissances sont autant de points résolus d’avance dans son esprit. Il irait peut-étre plus loin s’il n’avait a prendre conseil que des inspirations personnelles. Il ferait le sacrifice du lien qui rattache encore les principautés à la Turquie, si ce sacrifice devait contribuer à fonder quelque chose de fort et de durable”.48

Un patriota romeno non avrebbe potuto dire meglio e di più; ma Rachid pascià rimase isolato davanti all’opinione pubblica turca ed allo stesso governo da lui presieduto. Inoltre, aveva forse esagerato nelle sue affermazioni per compiacere il diplomatico francese suo interlocutore, notoriamente favorevole all’unione. Compiacenza che, finita la guerra d’Oriente, non era più necessaria per ottenere l’aiuto francese, secondo il giudizio di Edouard Thouvenel, e quindi Rachid pascià cambiò radicalmente la sua posizione.

Concordava con il giudizio di Thouvenel Saint Marc Girardin, scrivendo sulla “Revue des Deux Mondes”, che, finita la guerra e con essa il timore della Russia, la Porta non aveva più interesse per il sostegno francese e per la creazione di uno Stato unitario romeno che fosse un baluardo contro la Russia.49 

Fra i delusi dei risultati del Congresso di Parigi vi fu la principessa romena Elena Ghika49bis, da tempo stabilita in Italia, autrice di una serie di articoli pubblicati nell’aprile e nel maggio 1856 con lo pseudonimo di Dora d’Istria su “ Il Diritto”, molto critici verso il Congresso, accusato di avere ignorato le richieste moldave e valacche. Dora d’Istria attaccava pure l’oppressione austriaca ed i reazionari dei Principati, preoccupati solo dei propri personali interessi.

La principessa protestava per l’indifferenza dimostrata per la volontà dei popoli dei Principati (“I Rumeni sarebbero egli torma di persone di cui si può disporre con indifferenza?”) e polemizzava con il Vaticano sempre ostile alla Chiesa ortodossa ed assertore di una supremazia papale, da considerarsi frutto della storia umana e non della volontà divina. Soltanto accordi tra i popoli, e non l’intesa fra i governi dispotici, potevano assicurare la pace:

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il Trattato di Vienna del 1815 non aveva evitato guerre e rivoluzioni. Se non era possibile stabilire un accordo generale, si dovevano realizzare almeno intese tra popoli della stessa famiglia (slavi, germanici, latini): e la principessa giudicava i popoli latini in ritardo rispetto a quelli slavi e germanici per la realizzazione di questo obiettivo.

In un successivo articolo su “Il Diritto” (“La propaganda austro-romana nei Principati Danubiani”, 8 novembre 1856)  Dora d’Istria attaccava ancora la Chiesa di Roma, perché sosteneva, a parer suo, l’Austria cattolica nei suoi tentativi di impadronirsi dei Principati.

La collaborazione della principessa romena a “Il Diritto”, era stata sollecitata da Lorenzo Valerio con una lettera da Torino in data 11 gennaio 1856. A seguito di tale invito Dora d’Istria pubblicò sul giornale di Valerio il suo primo articoloOsservazioni di una rumena sull’organizzazione dei Principati Danubiani” (2 aprile 1856).

Valerio da tempo aveva manifestato interesse e simpatia per la Moldavia e la Valacchia, da lui visitate nel 1835 – 36, come attesta la sua lettera del 20 giugno 1835 da Timişoara alla sorella Marianna, in cui scriveva: “Queste nazioni, che hanno conservato con una tenacia straordinaria la loro lingua, i loro costumi ed il lor abito, non meno che la loro religione, sarebbero una sorgente senza fine di studi storici e linguistici…”. Valerio svolse un’azione favorevole alla causa romena sulle pagine de “Il Diritto”, ma pensò anche di utilizzare la “Società italo-slava” di Torino, sostenitrice della creazione di una grande Romania formata da Moldavia, Valacchia, Transilvania, Bucovina, Banato. La Società, sorta nel 1849, aveva avuto una breve esistenza, ma Valerio nel 1853 l’aveva fatta risorgere, e, conosciuta Dora d’Istria, aveva cercato di sostenere quegli antichi progetti.

Nel luglio 1856 Valerio e Dora d’Istria si erano incontrati  a  Lugano dove la principessa soggiornava ed aveva conosciuto il deputato della Sinistra radicale, Giorgio Asproni, infatuatosi di lei, con il quale avviò un rapporto di collaborazione  per la causa dei Principati, nonostante le posizioni politiche sensibilmente diverse fra loro due: la fede mazziniana del deputato sardo non era difatti condivisa dalla principessa romena, incline a posizioni moderate. Asproni suggerì alla Ghika di far venire a Genova o a Torino un personaggio romeno  di  sua  fiducia  per mettere i democratici  moldo-valacchi in contatto con quelli

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italiani. L’idea, anche se poi non ebbe seguito, piacque alla principessa, che in quell’occasione diede ad Asproni due memorie “Un piano per la Roumenia” e “L’Ungheria e la Roumenia”.

Nella prima memoria era proposta un’azione comune italo-romena diretta contro l’Austria, al fine di realizzare l’indipendenza moldo-valacca ed al tempo stesso liberare il Veneto e le legazioni pontificie in Emilia-Romagna dal dominio dell’Austria e del Vaticano. Nella seconda memoria era sconsigliato ogni appoggio italiano agli Ungheresi, definiti un “popolo aristocratico e feudale”,  oppressori dei Valacchi di Transilvania.

In seguito Dora d’Istria tornò ad occuparsi della Transilvania, scrivendo da Livorno il 9 febbraio 1862 ad uno dei fondatori del giornale fiorentino “La Nazione”, Piero Puccioni, per riaffermare i diritti romeni su quella regione. Forse per suggerimento di Vegezzi Ruscalla la principessa inviò a Puccioni l’opuscolo di Alexandru Papiu IlarianIndependenţia  costitutionaleăa Transilvaniei”, pubblicato in edizione italiana per interessamento dello stesso Vegezzi Ruscalla, autore della prefazione all’opera (Torino 1862).

“La Nazione” non si occupò della questione transilvana, ma il “Giornale di Napoli” del 4 marzo 1862 pubblicò sotto il titoloPrincipati Uniti” un articolo in cui era riportata l’introduzione di Vegezzi Ruscalla.

Asproni sul giornale genovese della Sinistra radicaleItalia e Popolopubblicò anonimo l’11 settembre 1856 un articolo intitolato “La quistione dei Principati Danubiani” in cui riassumeva quello di Dora d’Istria “Un principe straniero nella Moldo-Valacchia”, apparso su “Il Diritto”. Il giornaleItalia e Popolo  si era già occupato a più riprese della questione romena per l’interessamento di Mazzini e in un suo articolo dell’11 aprile 1856 aveva sollecitato lo sgombero dei Principati da parte dell’Austria, affermando che il protrarsi dell’occupazione avrebbe potuto causare seri problemi, “…tanto profondo è il disprezzo e l’esecrazione che nutrono i rumeni contro gli Austriaci”.

Dora d’Istria sostenne decisamente un’azione comune dei popoli latini con l’articolo “De la fraternité des peuples latins  et de leur rôle dans le développement de l’humanité” (“Il Diritto” 13 maggio 1856 – “La fraternità dei popoli latini ed il loro ruolo nel progresso dell’umanità”).

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Pur mantenendo un giudizio nel complesso negativo sui risultati del Congresso di Parigi, Dora d’Istria approvò comunque l’azione svolta in seno al Congresso congiuntamente dalla Francia e dal Piemonte a favore della causa romena, scrivendo: “L’union de deux peuples latins qui portent la plus vaillante épée de leur race, les français et les piemontais, a été le salut des Roumains” (“Il Diritto”, 6 giugno 1856 “L’unione dei due popoli latini che brandiscono la spada più valorosa della loro razza, i francesi ed i piemontesi, è stata la salvezza dei Romeni”).49ter

Le riserve e le critiche di Dora d’Istria ai risultati del Congresso di Parigi non furono le sole a manifestarsi; esse difatti affiorarono anche nel dibattito svoltosi nel Parlamento subalpino nelle sedute del 6 e 7 maggio 1856 originato da una interpellanza dell’on. Domenico Buffa sul Congresso di Parigi e sul Trattato di pace con la Russia, mettendo in evidenza il fatto, impensabile fino a qualche anno prima, che Cavour in seno al Congresso aveva parlato a nome dell’intera Italia e non del solo Piemonte; Buffa chiedeva inoltre quale sarebbe stato l’atteggiamento di Francia ed Inghilterra di fronte al minaccioso riarmo in Italia dell’Austria, culminato nelle fortificazioni costruite a Piacenza.

Cavour nella sua risposta asserì come i delegati sardi al Congresso, oltre a contribuire alla conclusione  del Trattato di pace con la Russia ed al consolidamento dell’Impero ottomano, avessero pure richiamato l’attenzione dell’Europa sulla situazione italiana, malgrado le obiezioni non infondate dei delegati austriaci che avevano eccepito la loro impreparazione ad affrontare l’argomento, non previsto nell’ordine del giorno del Congresso. Erano state così segnalate al Congresso le misure militari prese dall’Austria per rafforzare le sue posizioni in Italia, oggetto dell’interpellanza di Buffa. Era un fatto positivo che la “condizione anomala ed infelice dell’Italiafosse stata presa in esame non da giornalisti, demagoghi o rivoluzionari esaltati, ma da “rappresentanti delle primarie Potenze dell’Europa, da statisti che seggono a capo dei loro Governi, da uomini insigni avvezzi a consultare più la voce della ragione che a seguire gli impulsi del cuore”.

Era stata riconosciuta la necessità di modificare la situazione italiana; restavano difficili i rapporti con l’Austria, concludeva fra gli applausi Cavour, per “…l’intima convinzione essere la politica dei due paesi più lontana che mai dal mettersi d’accordo, essere inconciliabili i principii dall’uno e dall’altro paese propugnati”.

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Buffa ringraziò Cavour per la sua risposta, affermando che “…il più bello, il più nobile premio che il Piemonte potesse conseguire coi sacrifici e colla gloria del suo esercito era quello di acquistare il diritto di parlare davanti all’Europa in nome di tutta Italia”.

Di tutt’altro tono il successivo intervento di Solaro della Margherita; criticava le raccomandazioni del Congresso al governo borbonico perché usasse clemenza verso i patrioti, considerandole una violazione del principio di non ingerenza; era un precedente pericoloso per cui in futuro si sarebbe potuto decidere un intervento europeo nelle questioni interne del Regno di Sardegna. Condannava poi gli attacchi di Cavour ad altri Stati italiani, quale causa di discordia; l’ascolto prestato dalle Potenze europee a Cavour era stato solo un gesto di cortesia personale, privo di concrete conseguenze; difatti, secondo l’oratore, i governi europei “…amavano mille volte più il governo del Papa tal qual è che vedere l’Italia unita prendere sede tra le primarie Potenze”. Inutile quindi sperare in un aiuto francese o inglese, affermava Solaro della Margherita: “…nella guerra avemmo a versare tesori e sangue; nella pace nessun beneficio. I soldati furono egregi in campo, la diplomazia venne meno nei convegni politici”. I delegati sardi infatti avevano abbandonato la causa dell’ordine né erano riusciti a far progredire la “causa della libertà e del trionfo delle idee moderne”.

Un fallimento completo dunque per  Solaro della Margherita, che con tono di irrisione verso Cavour concludeva: “Questi sono i trofei del plenipotenziario a Parigi”.

Altrettanto negativo per il Piemonte secondo Brofferio il bilancio politico del Congresso; si chiedeva infatti: “Dove sono i frutti dei nostri sacrifici? I vantaggi della pace dove sono? Torno ad interrogare il Trattato; e neppure una parola io trovo a favore del Piemonte. Fu allargato il nostro territorio? No . Fu accresciuta la nostra potenza? No. Si provvide a qualche indennità? No.”; né la causa italiana aveva fatto alcun progresso, a parere del leader della Sinistra radicale; questi ebbe nella successiva seduta del 7 maggio uno scontro polemico con Terenzio Mamiani, che aveva difeso l’operato di Cavour a Parigi, ricordando gli interventi a favore della causa italiana nel Parlamento inglese, da ritenersi frutto del’azione svolta dal politico piemontese nel Congresso di Parigi. E  Brofferio aveva bruscamente replicato: “Badi l’onorevole Mamiani che l’alleanza di certi principi e di certi imperatori non ci tolga l’alleanza dei popoli e delle nazioni”.

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A sorpresa la politica di Cavour trovò un difensore in un altro esponente di spicco della Sinistra radicale, Lorenzo Valerio, che il 7 maggio dichiarò di apprezzare molto l’affermazione  del primo ministro sulla inconciliabilità delle posizioni piemontesi con quelle austriache. Cavour sembrava aver accolto la richiesta di un atteggiamento risoluto nei confronti dell’Austria avanzata dai radicali, le cui posizioni per molti altri aspetti restavano differenti; continuava così Valerio il suo intervento: “…ma scorgendo dal Presidente del Consiglio francamente iniziata una politica italiana, io, ben lungi dal’associarmi a quelli che gli muovono censure pel contegno da lui tenuto nel Congresso di Parigi, gliene sono anzi vivamente riconoscente”.

Questo riconoscimento dei meriti di Cavour non impedì comunque a Valerio di criticare a breve distanza di tempo, il 17 maggio 1856, il Presidente del Consiglio per aver trasferito da Costantinopoli a Madrid il rappresentante sardo presso la Porta, Tecco, affermando che il diplomatico avrebbe potuto utilmente collaborare con la Commissione internazionale d’inchiesta nei Principati, tanto più che il Regno di Sardegna non era rappresentato in quella Commissione (solo in seguito ne fece parte un delegato sardo, Raffaele Bensi, che operò efficacemente). Valerio concludeva il suo intervento con l’auspicio che il governo di Torino continuasse ad appoggiare la causa romena, difesa con decisione da Cavour al Congresso di Parigi.

Cavour nella sua risposta diede garanzie in tal senso ed affermò che Tecco era stato trasferito perché la sua presenza non era più necessaria in Oriente, dove i problemi politici erano ormai risolti, mentre era invece necessario seguire da vicino gli avvenimenti spagnoli.

In realtà la situazione politica spagnola era in movimento, dopo che una rivolta militare aveva costretto la regina madre Maria Cristina all’esilio, ma non era esatto affermare che in Oriente non c’erano più problemi da risolvere. Difatti le truppe austriache non avevano ancora sgomberato i Principati, restava da definire la nuova frontiera derivata dalla cessione del sud della Bessarabia alla Moldavia da parte della Russia; non era stata attribuita l’isola danubiana dei Serpenti, ottenuta dalla Russia con il Trattato di Adrianopoli del 1829, che rappresentava una posizione strategica per la navigazione sul Danubio ed era perciò rivendicata dalla Turchia, ed infine era ancora irrisolto il problema più importante: l’assetto politico da dare ai Principati.50

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In realtà Cavour temeva che Tecco potesse creare a Costantinopoli problemi con gli ambasciatori di Francia e d’Inghilterra, come era già avvenuto a causa delle sue proteste per  l’esclusione  della  Sardegna  dalla  Conferenza di  Costantinopoli  del dicembre 1855-gennaio 1856, e l’appoggio di quelle Potenze era essenziale per la causa italiana. Inoltre Cavour non aveva molta stima di Tecco: il 12 marzo 1856, mentre si trovava a Parigi come delegato al Congresso, aveva difatti scritto a Rattazzi che se Tecco non fosse stato un presuntuoso l’avrebbe fatto venire a Parigi per fare da intermediario con il delegato turco Alì pascià, che sembrava averlo in simpatia.51

Fra i problemi irrisolti quello che sembrava minacciare di più la pace era la definizione della parte di Bessarabia che la Russia doveva  cedere alla Moldavia. La questione non era stata risolta dal Congresso di Parigi a causa di una controversia di natura geografica. Il Congresso in base alla carta di cui disponeva aveva fissato il confine a sud della città di Bolgrad, lungo il corso del fiume Yalpuck, emissario dell’omonimo lago posto a nord. Ma il governo russo in seguito aveva esibito una carta geografica, in cui figurava un’altra Bolgrad, sita sulle sponde del lago Yalpuck ed aveva sostenuto che si doveva far riferimento a quest’altra  città per stabilire il confine con la Moldavia. In base a questa interpretazione il territorio della Bessarabia da cedere veniva notevolmente diminuito.

L’Inghilterra si oppose subito a questa tesi, indubbiamente insostenibile sul piano legale, poiché il Congresso aveva fatto riferimento alla Bolgrad indicata sulla carta di cui disponeva e non poteva certamente essersi riferito alla città omonima, posta sulle rive del lago, di cui fino a quel momento non conosceva l’esistenza.

Ma per ragioni politiche la Francia, che non voleva esacerbare il contrasto con la Russia, con cui voleva anzi stabilire un’intesa, si dimostrò disponibile a prendere per buona la tesi russa.

Cavour condivise in un primo momento la posizione francese, urtandosi così con il governo inglese. Scriveva difatti il 27 ottobre 1858 all’ambasciatore sardo a Londra che gli spiaceva di non esser d’accordo con l’Inghilterra su due punti:  la frontiera russo-moldava da stabilire e la relativa estensione della Bessarabia da cedere; e l’unione dei Principati non ammessa dal Foreign Office e che invece Cavour sosteneva per rispetto alla volontà di quelle popolazioni: “nous ne saurions être libéraux en Occident et absolutistes en Orient”, scriveva il conte.52

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Fu immediata la reazione inglese: il 7 novembre d’Azeglio informava Cavour che lord Clarendon, ministro degli Affari Esteri, aveva dichiarato all’ambasciatore russo che PRussia e Sardegna dovevano essere escluse dalla Conferenza da convocarsi per risolvere la questione della Bessarabia. L’ambasciatore si riprometteva di consultare il premier Palmerston, che aveva invece dichiarato al segretario dell’ambasciata sarda, Corti, che era la Francia a voler escludere la Sardegna.53

Affermazione improbabile, questa di Palmerston: non poteva certo esser Parigi a voler escludere la Sardegna, che sosteneva la sua linea politica.

A questo punto Cavour non esitò a spostarsi a fianco dell’Inghilterra e si affrettò a scrivere a d’Azeglio di rassicurare Palmerston e Clarendon sulla posizione della Sardegna, che non avrebbe disconosciuto quanto stabilito dal Congresso di Parigi.

Nel suo dispaccio Cavour aggiungeva un curioso particolare: la posizione francese era opera di Walewski e Napoleone III, messo in difficoltà dall’iniziativa del suo ministro e desideroso di mantenere l’amicizia di Londra, aveva chiesto a Cavour di schierarsi con l’Inghilterra. Per non inimicarsi la Russia, Cavour dava poi istruzione a d’Azeglio di spiegare all’ambasciatore russo che la Sardegna voleva comunque mantenere buoni rapporti con l’Impero zarista ed avrebbe cercato di far assumere dal governo inglese un atteggiamento più conciliante e di far avere alla Russia un qualche compenso.54

Cavour si adoperò realmente in tal senso, divenendo protagonista della Conferenza da cui Clarendon avrebbe voluto escluderlo. Il Trattato del 6 gennaio 1857, conclusivo della Conferenza svoltasi a Parigi, stabilì difatti che la frontiera doveva correre lungo il corso del fiume Yalpuck a sud della Bolgrad indicata dal Congresso di Parigi; ma alla Russia veniva lasciato un territorio posto sull’alto corso di quel fiume; si accrebbe così  il prestigio del Piemonte e quello personale di Cavour.

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Nel frattempo erano rientrati gli ospodari di Moldavia e Valacchia, giunti ormai alla scadenza del loro mandato; ma a causa di una situazione politica tanto fluida si ritenne opportuno non procedere alla nomina di successori a pieno titolo, ma soltanto di reggenti. In   caso   di   vacanza   del   trono, il   Regolamento  organico prevedeva la nomina di una luogotenenza collettiva da affidarsi al presidente dell’assemblea, al ministro dell’Internoed al generale comandante dell’esercito. Ma il Sultano non si attenne a questa norma e nominò reggenti unici (“caimacam”) Alexandru Ghika in Valacchia e Teodor Balsh in Moldavia. Il primo non era decisamente avverso all’unione, mentre invece Balsh, cui il Sultano aveva promesso la successiva investitura come principe di Moldavia con pieni poteri, si schierò subito contro la creazione di uno Stato unitario. Il sultano emise pure il firmano di convocazione dei “Divani ad hoc”, cui l’Austria avrebbe voluto negare la facoltà di pronunciarsi proprio sull’argomento principale, l’unione dei Principati. Le modalità elettorali inoltre erano concepite in modo da assicurare la vittoria degli avversari dell’unione. A seguito delle immediate proteste dei rappresentanti diplomatici di Francia, Russia e Sardegna (Durando aveva sostituito Tecco), il sultano abrogò il firmano ed una Conferenza delle Potenze, conclusasi il 7 gennaio 1857   stabilì norme più eque per la formazione delle liste elettorali, in cui, su proposta dell’ambasciatore francese Edouard Thouvenel, furono inclusi i piccoli proprietari ed i contadini, anche se soggetti a corvée, purché possedessero almeno 10 “fălci” (cioè circa 14 ettari) di terra. Fu respinta la proposta più liberale di Durando di concedere il diritto di voto anche ai contadini che possedevano meno di 10 “fălci  di terra e la proposta austriaca di includere solo i grandi proprietari nelle liste elettorali fu pure bocciata.

Morto Teodor Balsh, il sultano nominò caimacam reggente di Moldavia Nicolae Volgorides, di origine greco-bulgara, che, dopo le promesse iniziali di non intralciare la libertà di voto, si rivelò essere un fedele strumento della Porta, che in dispregio delle norme fissate nel secondo firmano Imperiale manipolò le liste elettorali in modo da favorire gli avversari dell’unione. La Porta alla morte di Balsh aveva respinto la proposta dei partigiani dell’unione di nominare una luogotenenza collegiale perché contava di poter meglio condizionare un “caimacamunico.

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Proprio in Moldavia si giocava la partita decisiva per stabilire l’ordinamento politico dei Principati, poiché era in quella regione che gli antiunionisti trovavano più spazi: difatti in uno Stato unitario avrebbe avuto la prevalenza la Valacchia, più ricca e popolosa, e Bucarest sarebbe divenuta l’unica capitale, a scapito di Jassy, degradata a città di provincia.   

Gli sforzi antiunitari si concentrarono quindi in Moldavia; sarebbe stato sufficiente ottenervi una vittoria elettorale, poiché occorreva per realizzare l’unione il voto favorevole di entrambi i Principati. Per condizionare il risultato delle elezioni Volgorides nominò prefetti contrari all’unione; sostituì il ministro dell’Interno Nicolae Cantacuzeno, restio ad alterare i risultati delle  elezioni, con il più docile Costin Cretargiu; impedì agli unionisti di avere propri organi di stampa, mentre i loro avversari  erano sostenuti dalla governativaGazeta Moldoviei”, vietò manifestazioni pubbliche a favore dell’unione e tentò di screditarne i sostenitori, diffondendo un loro falso programma che prevedeva la distribuzione delle terre dei boiari ai contadini e l’introduzione del cattolicesimo in Moldavia.

Questa attività illegale di Volgorides aveva l’appoggio del console austriaco a Jassy, Goedel de Lannoy, che convinse pure alcuni fautori dell’unione a passare nel campo avverso e che proseguì nella sua opera antiunitaria fino al 1859.

La Commissione internazionale d’inchiesta, giunta a Bucarest nel marzo 1857, appariva incerta di fronte ai brogli di Volgorides, malgrado le sollecitazioni del delegato francese Talleyrand e del sardo Bensi ad intervenire per impedirli.

Anche osservatori certamente non liberali criticavano gli abusi commessi da Volgorides: l’ambasciatore napoletano a Costantinopoli, Targioni, nel suo rapporto al direttore generale reggente il Ministro degli Esteri, Carafa, denunciava le illecite manovre di Volgorides, che agiva in combutta col console d’Austria.55

In un rapporto successivo Targioni definivaoltremodo reprensibili” i sistemi di Volgorides, aggiungendo che mettevano in imbarazzo la stessa Porta, che avrebbe voluto sbarazzarsi di quello scomodo personaggio, ma che non osava farlo per non urtare il governo austriaco che continuava a ritenerlo  uno  strumento  utile  per i  suoi  fini politici. Il diplomatico napoletano

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affermava che la Porta avrebbe voluto che fosse la Francia a chiedere la destituzione di Volgorides; ma l’ambasciatore Thouvenel diceva apertamente che non avrebbe fatto tale richiesta “per lasciare l’Europa giudice de’ tristi andamenti della Porta”. Concludeva Targioni che era ormai impossibile impedire l’unione dei Principati:56 la politica del “tanto peggio, tanto meglio” cui si ispirava Thouvenel appariva dunque pagante.

I brogli di Volgorides destavano infatti grande indignazione: Alexandru Jon Cuza, il futuro  principe, per protesta si dimise da prefetto di Galatz, pur dovendo questa carica e quella di colonnello proprio al caimacam, e il metropolita di Moldavia si astenne dal voto per manifestare il suo dissenso. Meno incline ai machiavellismi  di Thouvenel, ricordati nel rapporto dell’ambasciatore napoletano, il console francese a Jassy, Victor Place, protestò con veemenza contro Volgorides, riscuotendo l’approvazione di Walewski, incline ad attuare una linea dura in Moldavia. La questione dei Principati determinò un rovesciamento delle alleanze per la Francia che stabilì un’intesa con Prussia, Russia e Sardegna contro l’alleata tradizionale, l’Inghilterra;  questa assieme all’Austria ed alla Turchia continuava ad osteggiare l’unione dei Principati.

Non era condivisa tale linea da Thouvenel, che la giudicava negativa per l’influenza francese in Oriente e riteneva contraria alla tradizione un’intesa con la Russia rivolta contro l’Inghilterra. Ma Napoleone III, che restava sempre deciso sostenitore della causa romena, spingeva perché questa si realizzasse. Thouvenel fu quindi costretto ad intervenire e il 28 luglio 1857 inviò alla Porta una dura nota, chiedendo che le elezioni svoltesi in Moldavia il 19 luglio fossero annullate: il loro esito favorevole agli avversari dell’unione era inficiato dalla ridottissima partecipazione causata dai metodi adottati da Volgorides: aveva votato soltanto l’11% degli aventi diritto.57

Thouvenel minacciava la rottura delle relazioni diplomatiche se non fosse stata accolta la richiesta di annullare le elezioni moldave; un passo analogo furono autorizzati a farlo dai rispettivi governi gli ambasciatori di Prussia, Russia e Sardegna.58

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Napoleone III approvò in pieno la condotta di Thouvenel,59 che il 6 agosto 1857  insieme a tutto il personale dell’ambasciata si imbarcò sull’ “Ajaccio”; la nave francese fece una sosta davanti al palazzo del sultano, che, emozionato e dispiaciuto, accolse l’ambasciatore di Francia venuto a salutarlo.

Ma presto la rottura fu sanata, poiché la diplomazia era già all’opera per trovare una soluzione; Napoleone III sosteneva la causa romena, ma, messo da parte il momentaneo accostamento alla Russia, voleva conservare l’amicizia dell’Inghilterra. Intervenne quindi in prima persona per appianare le difficoltà con Londra anche perché il suo ministro degli Esteri, Walewski, era malvisto dal governo inglese. Il premier Palmerston lo definiva “un volgare attore girovago” (a “low-minded strolling player”) e Clarendon aveva giudicato un tradimento i contatti segreti del ministro francese con i Russi avvenuti nell’inverno del 1855, quando era ancora in corso la guerra d’Oriente, affermando che non era un gentleman e che agiva in base ai suoi interessi personali: lo stesso ambasciatore francese a Londra, Persigny, aveva accusato Walewski di aver spinto per la pace con la Russia al fine di favorire le sue speculazioni in Borsa.60

Napoleone III decise quindi di incontrare la regina Vittoria; il colloquio si svolse nell’agosto 1857 ad Osborne, nell’isola di Wight.

Alla vigilia di tale incontro, contemporaneamente alla nota minacciosa rivolta alla Porta il 28 luglio per reclamare nuove elezioni in Moldavia, Thouvenel esprimeva la speranza che l’incontro  dei  due  sovrani portasse  ad  un accordo anglo-francese; in caso contrario, giudicava l’ambasciatore, sarebbe stato preferibile per la Francia non occuparsi più della questione d’Oriente, rompendo l’asse con l’Inghilterra, la cui politica orientale era fortemente condizionata dall’ambasciatore presso la Porta, Stratford de Redcliffe, acceso rivale di Thouvenel e bestia nera di Napoleone III, intenzionato a chiederne il richiamo in occasione dell’incontro con la regina Vittoria.61

A Osborne entrambe le parti avevano ragioni che le spingevano all’accordo. Napoleone III era consapevole che solo un’intesa con l’Inghilterra poteva portare a nuove elezioni in Moldavia, senza dover attendere la Conferenza proposta  dalla Porta  per  risolvere la questione. Lord

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Clarendon temeva che, venuto meno l’asse Parigi-Londra,  divenisse stabile un’intesa franco-russa; inoltre il governo inglese era posto in seria difficoltà dalla rivolta dei cipays in India.

Napoleone III arrivò ad Osborne  il 6 agosto ed ebbe un incontro preliminare con il principe consorte Alberto, cui espose le sue lamentele per l’opposizione dell’Austria e della Turchia all’unione dei Principati.

Alberto replicò che obiettivo della guerra d’Oriente era stato assicurare l’integrità territoriale dell’Impero turco e  l’unione dei Principati l’avrebbe compromessa. L’intesa dell’Inghilterra con l’Austria, aggiunse il principe consorte britannico,  era dovuta all’esigenza di tenere la Russia lontana dal Danubio.

L’imperatore francese fece allora presente che proprio per contenere l’espansionismo russo era necessaria l’unione della Moldavia e della Valacchia, che, se deluse nella loro comune aspirazione all’unità, si sarebbero accostate alla Russia.

Questo primo colloquio giovò a preparare l’accordo, esposto nel memorandum che Palmerston e Clarendon inviarono il 9 agosto 1857 a Londra per informare gli altri ministri e nella lettera personale di Clarendon all’ambasciatore presso la Porta, Stratford, in data 11 agosto, in cui asseriva che Napoleone III era apparso ben deciso nel sostenere la causa moldo-valacca, facendo ricorso, se necessario, ad un ‘alleanza con la Russia ed alla guerra. Sarebbe divenuta definitiva la rottura fra Parigi e Londra, messa in difficoltà dall’opinione pubblica inglese, favorevole al rispetto della volontà dei Moldavi e dei Valacchi.

Una fonte francese è la lettera di Walewski all’ambasciatore a Vienna, Bourqueney, che in parte si discosta dalla ricostruzione del colloquio fatta dai ministri Inglesi.

Gli Inglesi diedero il loro assenso a nuove elezioni in Moldavia, con una revisione delle liste elettorali affidata alla Commissione internazionale d’inchiesta in collaborazione con il caimacam Volgorides; tale revisione doveva effettuarsi entro 15  giorni. Per evitare in futuro nuovi contrasti si volle pure da parte inglese stabilire un accordo di massima sull’ordinamento politico dei Principati. Ma tale accordo non era molto chiaro. Si stabiliva che sulla base del voto  dei  Divani  e  del rapporto della Commissione internazionale d’inchiesta i Principati

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avrebbero conservato gli antichi diritti derivanti dalle capitolazioni. La Porta avrebbe conservato la “suzeraineté” su Moldavia e Valacchia, che avrebbero avuto un’analoga organizzazione politica, conservando però amministrazioni distinte e separate: “while retaining their separate Governments”, si legge nell’accordo.62 Su proposta dell’ambasciatore francese a Londra, Persigny, si rinviò a future intese la definizione dei dettagli, da farsi prima della Conferenza di Parigi che avrebbe dovuto completare il Trattato del 1856.

L’interpretazione inglese di questo accordo era che Napoleone III, in cambio di nuove elezioni in Moldavia, aveva rinunciato all’unione dei Principati, su cui la Porta avrebbe conservato la “suzeraineté”. Ma la “suzeraineté” poteva comportare la rinuncia all’indipendenza, non all’unione. Inoltre, su proposta dell’imperatore francese, l’espressioneseparate Governments” fu adottata al posto di quella originaria, formulata dai ministri Inglesi, “separate Governs and legislatures”, che avrebbe reso più esplicita l’idea della separazione politica dei due Principati: il termine ingleseGovernments” può difatti significareamministrazioni”, oltre che “governi”.

Non può quindi dirsi che Napoleone III avesse definitivamente rinunciato all’unione; si ebbe piuttosto un rinvio del problema a trattative successive.

Walewski nella sua lettera a Bourqueney, prima ricordata, si limitò a sottolineare la volontà dell’imperatore di arrivare ad un accordo, anche rinunciando ad un principe straniero per lo Stato unificato, per evitare la rottura con l’Inghilterra.63

Nonostante tali ambiguità, Napoleone III si disse soddisfatto dell’accordo raggiunto: aveva ottenuto nuove elezioni in Moldavia, riteneva di aver preso soltanto un impegno a future trattative sull’assetto politico dei Principati e confidava nella pressione dell’opinione pubblica inglese che avrebbe costretto il governo di Londra ad accettare l’unione moldo-valacca.

L’accordo di Osborne doveva restare segreto. Ma Clarendon, per non dare l’impressione di essersi piegato alla richiesta francese di nuove elezioni senza aver ottenuto nulla in cambio, lo stesso giorno della firma dell’accordo, il 9 agosto 1857, telegrafò all’ambasciatore inglese a Parigi, Cowley, che Napoleone III, in cambio di nuove elezioni in Moldavia, aveva rinunciato all’unione dei Principati.64

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La convinzione inglese di averla spuntata sulla questione principale, l’ordinamento politico di Moldavia e Valacchia, era poi confermata dalla lettera inviata l’11 agosto da Clarendon  all’ambasciatore a Costantinopoli, con la quale comunicava che Napoleone III  aveva accettato che restassero nei Principati due ospodari.65 Ma nell’accordo di Osborne non si parlava proprio di ospodari e tanto meno se ne precisava il numero.

A torto dunque Clarendon accusò Walewski di mentire quanto affermava che a Osborne non c’era stata una decisione formale e definitiva sull’ordinamento dei due Principati: Napoleone III aveva soltanto accantonato l’idea di un principe straniero.66 Si diffuse comunque a Vienna ed a Costantinopoli l’idea di una esplicita rinuncia all’unione dei Principati da parte dell’imperatore francese.

Il governo di Parigi riteneva  invece  l’accordo di Osborne  un successo per la Francia. Il 14 agosto 1857 Benedetti sottolineava in un dispaccio a Thouvenel che Stratford era stato sconfessato, dopo essersi tenacemente opposto a nuove elezioni in Moldavia; la Francia sarebbe uscita con onore dalla lunga disputa sull’unione moldo-valacca, anche se a Osborne il problema era rimasto nell’ombra; si diceva convinto comunque Benedetti che Napoleone III potesse accontentarsi  di una unione parziale.67

Il 23 agosto la Porta annullò le elezioni svoltesi il 19 luglio in Moldavia e il 24 il Sultano emanò il firmano che ratificava tale decisione, accolta con entusiasmo a Jassy: il console francese in Moldavia, Victor Place, scriveva il 27 agosto a Thouvenel che i Moldavi lo consideravano loro salvatore.

Anche Volgorides sembrava venire a più miti consigli: aveva rivolto agli avversari l’invito ad entrare nel governo, ricevendo però un rifiuto e Place non aveva voluto fare opera di convinzione , come gli aveva chiesto il caimacam.68

In quanto al grande sconfitto di Osborne, l’ambasciatore Stratford de Redcliffe, non ci fu il  suo  richiamo  che  Napoleone III aveva pensato di richiedere al Foreign Office; ma egli stesso capì che ormai la sua posizione era divenuta insostenibile a Costantinopoli, poiché le nuove elezioni in Moldavia erano una esplicita sconfessione del suo operato.  Non potendo

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rassegnarsi a tale scacco, dopo qualche mese chiese un lungo congedo,da tutti interpretato come il preludio ad una definitiva partenza. Ne faceva cenno Walewski nel suo dispaccio del 4 dicembre a Thouvenel, cui raccomandava di non mostrarsi trionfante per la sconfitta del suo tenace avversario.69

Il 5 settembre 1857 Thouvenel riallacciò le relazioni diplomatiche con la Porta e lo stesso fecero gli ambasciatori di Prussia, Russia e Sardegna, che, seguendo l’esempio francese, avevano rotto i rapporti con il governo turco.

La conclusione positiva di questa crisi diplomatica non pose però fine al risentimento inglese verso il governo sardo, che ancora una volta, dopo la precedente controversia per il confine della Bessarabia, non si era adeguato alla politica di Londra, schierandosi con Francia e Russia.

L’ambasciatore sardo a Londra, d’Azeglio, era in procinto di prendere le sue ferie, ma, saputo dell’irritazione di Palmerston, non volle allontanarsi senza prima averlo incontrato, per non dare l’impressione di svignarsela per evitare un confronto chiarificatore.

Ma più che un confronto ci fu uno scontro tra d’Azeglio, Palmerston e Clarendon, descritto nel rapporto inviato a Cavour dall’ambasciatore il 12 agosto 1857, appena qualche giorno dopo Osborne.

L’avvio della conversazione, dedicato ad altri temi, fu tranquillo, ma quando si passò a parlare dell’accordo di Osborne, l’atmosfera si fece rovente. Palmerston chiese sarcasticamente se Cavour si sarebbe recato a Costantinopoli per farvi sventolare di nuovo la bandiera sabauda, riaprendo l’ambasciata. La difesa della politica di Cavour fatta da d’Azeglio non impedì una nuova bordata di accuse Inglesi. Clarendon, facendone quasi una questione personale, si disse amareggiato perché Cavour aveva dimenticato i doveri di gratitudine nei suoi confronti, dal momento che  solo per il suo appoggio la Sardegna era stata ammessa al Congresso di Parigi.

Fu vivace la replica di d’Azeglio: Cavour non l’aveva dimenticato, ma non per questo il governo sardo era disposto ad agire secondo disposizioni ricevute da Londra. Era poi infondata l’accusa che l’ambasciatore a Costantinopoli Durando si fosse appiattito sulle posizioni del francese Thouvenel: secondo d’Azeglio era naturale che i due avessero agito di comune accordo poiché i loro governi seguivano la stessa linea politica.

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E l’atteggiamento amichevole di Londra che secondo Clarendon aveva permesso l’ammissione della Sardegna al Congresso era poi venuto meno – rinfacciava l’ambasciatore – quando si era profilata la possibilità che sulla questione di Bolgrad Cavour non agisse secondo il volere inglese, tanto che si era tentato di escluderlo dalla Conferenza sulla Bessarabia, conclusasi positivamente proprio per l’accorta mediazione del governo di Torino.

Ma non bastava ancora a Clarendon, che lamentò che su due punti, il confine della Bessarabia e le elezioni in Moldavia, la Sardegna si era messa contro l’Inghilterra, sul cui aiutoammoniva il ministro inglese – non avrebbe in futuro potuto contare per risolvere le proprie difficoltà.

Tagliente la risposta di d’Azeglio: a Torino si sarebbe tenuto conto di questo avvertimento,  ma – continuava d’Azeglio con ironia – “en tout cas on n’y avait pas vecu dernièrement dans l’illusion quils s’ôteraient le pain de la bouche” per darlo alla Sardegna.

In un clima affine rasserenato, Clarendon affermava che l’accordo di Osborne era stato un successo per l’Inghilterra, che aveva acconsentito a nuove elezioni in Moldavia purché la Francia rinunciasse all’unione dei Principati Danubiani.

Il rapporto di d’Azeglio si concludeva con l’osservazione che forse la Francia ed i suoi alleati esageravano nel ritenere Osborne un trionfo della loro politica: “mais les Autrichiens sont blêmes de désappointement”, commentava soddisfatto.70

Il disappunto austriaco ricordato da d’Azeglio trovava ragione di conferma nel risultato delle nuove elezioni in Moldavia, svoltesi il 10 settembre 1857, che furono un successo per i sostenitori dell’unione dei Principati; a breve distanza di tempo, il 22 settembre, fu fissata la data per la convocazione del “Divano ad hoc”.

Ma il risultato delle elezioni moldave impensierì oltre agli avversari dell’unione, anche i sostenitori moderati. L’ambasciatore napoletano presso la Porta, Targioni, riferiva al suo  governo che nel “Divano ad hoc” prevalevanopersone di mente esaltata e principi esagerati, le quali presero parte a’ tristi avvenimenti rivoluzionari dell’anno 1848”. C’era pure il rischio, osservava il diplomatico borbonico, che le agitazioni potessero dalla Moldavia estendersi ai sudditi romeni dell’Austria.71

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Era meno tormentata la situazione politica della Valacchia, dove le elezioni si svolsero tranquillamente il 26 settembre 1857, non essendo l’ospodaro Alessandro Ghika, a differenza di Volgorides, un accanito avversario dell’unione dei Principati.

Tra i conservatori spiccavano le personalità politiche degli ex ospodari Giorgio Bibesco e Barbu Stirbey, oltre a quella di Grigor Ghika, tutti e tre apertamente schierati per l’unione.

Stirbey si era manifestato favorevole già nel 1854, inviando alla Conferenza, convocata a Vienna per prendere risoluzioni circa il conflitto russo-turco, una memoria in cui affermava che l’unione era voluta dal popolo e avrebbe assicurato la stabilità politica. Posizione poi ribadita l’11 febbraio 1856 in occasione dell’apertura del Congresso di Parigi, quando Stirbey si pronunciò contro il perdurare della “suzerainetéturca, che avrebbe spinto i Principati verso la Russia, con esiti imprevedibili.

Quasi contemporaneamente, il 28 febbraio, anche Grigor Ghika auspicava l’unione moldo-valacca in uno stato indipendente dalla Turchia. E Giorgio Bibesco non era da meno nell’adoperarsi a favore dell’unione; in polemica con gli esuli del ’48 affermava che il loro fallimento li aveva resi poco affidabili agli occhi di Napoleone III che era stato convinto solo da lui a sostenere la causa romena. Sempre Bibesco, poco tempo dopo la conclusione del Congresso di Parigi, il 5 settembre 1856 aveva consigliato da Baden-Baden a suo genero, il generale Florescu, l’unione moldo-valacca sotto un principe elettivo72. Principio ribadito poi da Bibesco nel suo discorso per l’apertura del Divano di Valacchia, avvenuta il 30 settembre 1857: la stabilità del governo, problema principale del paese, poteva assicurarla soltanto uno Stato unitario con un principe straniero.73

La proposta di un principe straniero appariva una nobile rinuncia di Bibesco ad avanzare una sua candidatura al trono. Ma la Convenzione stabilita dalla Conferenza di Parigi del 1858 escluse la possibilità di un principe straniero ed a quel punto Bibesco e Stirbey si contesero il trono di Valacchia.

Con viva preoccupazione dei conservatori furono eletti nel Divano valacco alcuni rivoluzionari del ’48, quali Jon Bratianu e Nicolae Golescu.

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Queste preoccupazioni non impedirono però un voto plebiscitario di entrambi i Divani a favore dell’unione; Mihail Kogalniceanu presentò subito all’assemblea moldava una mozione articolata in quattro punti:

1.                  autonomia e neutralità dei Principati, secondo le capitolazioni stipulate con la Porta nel 1393,1460,1512;

2.                  formazione dello Stato unitario moldo-valacco con un solo governo;

3.                  capo dello Stato doveva essere un principe straniero con diritto ereditario, appartenente ad una dinastia regnante in Europa;

4.                  governo costituzionale rappresentativo, responsabile di fronte ad una assemblea eletta da una larga base elettorale. A tutela del nuovo Stato romeno doveva esservi una garanzia collettiva delle Potenze firmatarie del Trattato di Parigi.

La mozione di Kogalniceanu fu approvata con una maggioranza schiacciante: 81 voti favorevoli e 2 contrari.

Una mozione analoga presentata da Jon Bratianu al Divano di Valacchia fu approvata addirittura con voto unanime.

Contro queste prese di posizione dei due Divani protestarono l’Austria e la Turchia, che negavano alle rappresentanze parlamentari il diritto di pronunciarsi sull’unione dei Principati.

Ma se c’era unanimità di consensi per l’unità e l’indipendenza moldo-valacca sotto un principe straniero, esistevano invece profonde divisioni ed accaniti contrasti su altri importanti problemi, in particolare su quello agrario.

Anche se i contadini avevano una rappresentanza esigua nei due Divani (in Moldavia avevano 15 deputati su 85, 17 su 100 in Valacchia) essi fecero sentire la loro voce: il deputato dei contadini Constantin Tanǎse denunciò il loro disagio con una mozione presentata al Divano di Moldavia. 74

In Valacchia durante la rivoluzione del 1848 si era avvertita l’importanza della questione e si era pertanto formata una Commissione mista di rappresentanti dei boiari e dei contadini per affrontarla, discutendo la possibilità di una diversa distribuzione della proprietà e dell’attenuazione del peso delle corvées sui contadini, angariati pure da un fiscalismo oppressivo.

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In Moldavia, invece, dove i boiari avevano il controllo della situazione politica, le rivendicazioni avevano mirato solo ad assicurare un ruolo dei grandi proprietari nei confronti del principe e ad ottenere le libertà democratiche, restando ignorate le esigenze sociali dei contadini.

Il diverso andamento della rivoluzione nei due Principati non era sfuggito ad Abdolomine Ubicini, testimone diretto e partecipe di quegli avvenimenti in Valacchia, da lui così commentati:“Qu’est ce que cela faisait au paysan écrasé d’impôts, au Tsigane esclave, au

juif opprimé et maudit, au pauvre prêtre dévoré par le haut clergé, que  les boyards gouvernassent à la place du prince Stourdza? Que leur faisaient même les reformes demandées par les jeunes libéraux de Jassy, comme la liberté de presse, la responsabilité des ministres? Ces mots pour eux n’avaient pas de sens”. Per contro, ricordava Ubicini, in Valacchia si era discusso della proprietà della terra, oltre che della necessità di unire i Principati sotto un principe straniero, di qualsiasi nazionalità fosse, eccetto che russa o austriaca, purché onesto e deciso. Ed Ubicini arrivava a questa conclusione: “Et après cela quon fasse le paysan proprietaire. Nous n’en demandons pas davantage. En lui donnant la terre, vous lui aurez donné la patrie. C’est son droit, est son avenir”.75

Dieci anni dopo la rivoluzione, nel 1858, non erano solo i boiari moldavi a preoccuparsi delle possibili sommosse dei contadini e della eventualità di una riforma agraria votata dal Divano, per cui l’emancipazione dei servi della gleba decisa in Russia poteva divenire un esempio pericoloso. Tali timori contagiavano i conservatori di altri paesi: l’ambasciatore borbonico Targioni scriveva da Costantinopoli a Napoli che le notizie dalla Russia destavano agitazioni nei Principati, “immaginando quella rozza gente che i contadini della Russia abbiamo a divenire proprietari de’ terreni che presentemente coltivano, e che il medesimo vantaggio debba esser ad essi conceduto”.76

Ed un altro diplomatico napoletano, il console generale ad Odessa, Verdinois, in precedenza aveva riferito la falsa notizia che il Divano di Moldavia aveva deciso di affrancare i contadini dal peso delle corvées, concedendo pure loro la proprietà della casa e dell’orto annesso.77

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Ma i contrasti sociali nei Principati non avevano fatto venir meno l’unanime consenso per un principe straniero; ipotesi in precedenza contrastata solo da qualche isolata voce di dissenso, come quella di Elena Ghika, assidua collaboratrice de “Il Diritto”, su cui apparvero alcuni suoi articoli contrari alla scelta di un principe straniero,  firmati come i precedenti con lo pseudonimo  Dora d’Istria (9 e 17 settembre, 9 ottobre 1856). La principessa Ghika affermava che un principe straniero sarebbe rimasto sempre tale, destinato a non essere mai amato dal popolo ed ironizzava così sulla ventilata candidatura del conte di Fiandra: “E si crede che la spada di Michele il Bravo non possa tornare un po’ pesante per le mani di Monsignor il conte di Fiandra?”. Ed inoltre, un principe straniero avrebbe cercato l’appoggio e fatto gli interessi del suo paese d’origine, piuttosto che del popolo romeno.

Ma anche Dora d’Istria si convertì all’idea di un principe straniero, dopo il voto dei Divani  a favore di questa soluzione; era ormai diffusa la convinzione che un principe straniero avrebbe posto fine alle contese e rivalità fra gli aspiranti principi indigeni e si nutriva pure la speranza che la dinastia reale di provenienza del sovrano scelto avrebbe dato il suo appoggio allo Stato moldo-valacco.

Anche un’altra esponente della numerosa famiglia Ghika, la principessa Aurélie, aveva espresso perplessità per un principe straniero, prima che la Convenzione escludesse tale possibilità, scrivendo: “Un souverain qui ne parle point la langue de ses sujets, qui ne prie pas au même autel, n’est un bienfait quà l’avènement de son successeur; jusque-là il constitue un provisoire qui embrasse toute une vie d’homme”.

Non sfuggivano alla principessa le difficoltà che potevano distogliere un eventuale candidato straniero dall’accettare un incarico tanto impegnativo : « Quel sera l’homme juste, dévoué, intègre, que le sort des choses, ou la volonté des puissances donnera  à la Valachie? Qui osera accepter ce grand devoir, cette tâche périlleuse, de refaire une société nouvelle avec les éléments du passé ?”.  Una volta conosciute le decisioni della Conferenza di Parigi, che riconoscevano alla Valacchia, come alla Moldavia, il diritto di eleggere un principe indigeno, anche se con limitazioni che restringevano a pochi la possibilità di essere candidati, la Ghika nelle sue conclusioni sottolineava la stanchezza che  avrebbe  spinto i Valacchi ad accettare una  soluzione, pur  se  insoddisfacente, imposta  dall’esterno, per   evitare  le   responsabilità

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di una decisione: “La Valachie aurait accepté un mauvais prince de la nomination directe, parce que, comme Pilate, elle eût pu s’en laver les mains; mais il ne faut pas quelle se fasse l’éditeur responsable de sa propre ruine”. E, con uno scatto di orgoglio, proseguiva richiamando la Valacchia a decidere coraggiosamente : “Elle doit montrer à l’Europe quelle méritait même mieux que l’intérêt quon lui temoigne”.77bis

I “Divani ad hoc” di Moldavia e Valacchia risposero a tale esortazione con un voto unanime per l’indipendenza sotto un principe straniero.

Al che la Porta reagì con un firmano del Sultano di scioglimento dei Divani, ribadendo che Moldavia e Valacchia erano sempre parte integrante dell’Impero turco.

La Commissione internazionale di inchiesta si manteneva defilata nel dibattito suscitato dai lavori parlamentari e dalle prese di posizione turche contrarie ai voti per l’unità ed il principe straniero. Il francese Talleyrand delegato in seno a tale Commissione ne criticava l’operato, ritenendola, a causa delle sue interne divisioni, incerta nella redazione del rapporto sui Principati da presentare alla Conferenza che doveva pronunciarsi sulla loro sorte. Ma la Commissione non poté comunque tacere nel suo rapporto che i Divani si erano nettamente espressi a favore dell’unione moldo-valacca, anche se sul valore da attribuirsi a quel voto non erano mancate esplicite riserve da parte dei conservatori, oltre che naturalmente da parte del governo turco: “…i Divani di quelle province, come sono composti, non rappresentanoesprimono i veri bisogni dei paese, essendo semplici consigli ubbidienti alla volontà degli ospodari, interessati a mantenere li esistenti abusi, e più di ogni altro quelli relativi al pubblico denaro, il quale viene dilapidato nella maniera più scandalosa”, affermava in un suo rapporto l’ambasciatore napoletano presso la Porta.78

La Commissione internazionale non tenne comunque conto di tali riserve e riportò il voto favorevole dei Divani per l’unione ed il principe straniero nella sua relazione che fu il documento base per le discussioni in seno alla Conferenza sui Principati, che si svolse a Parigi dal 22 maggio al 19 agosto 1858, sotto la presidenza del conte Walewski. Questi fu costretto a gestire una situazione difficile, in quanto, pur se condizionato dagli accordi di Osborne, il governo francese non poteva rinnegare di colpo ed in maniera radicale il suo precedente impegno per l’unione dei Principati, per di più riconfermata dal voto dei Divani.

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Walewski aveva scritto a Edouard Thouvenel il 7 gennaio 1858 che in seno alla Conferenza avrebbe fatto ancora uno sforzo per la completa unione moldo-valacca, rinunciando al principe straniero con successione ereditaria. Si diceva comunque disponibile ad un eventuale compromesso, conservando però sempre “nelle cose” l’unione  dei Principati, secondo l’espressione del gran visir Rachid pascià. Sperava in un appoggio inglese, in quanto l’opinione pubblica ed il Parlamento avrebbero costretto il governo di Londra a schierarsi a favore della causa moldo-valacca.79 Speranza che sembrò confermata dall’intervento di Gladstone ai Comuni il 4 maggio 1858, poco prima dell’apertura della Conferenza, che riconosceva le richieste  dei Moldo-Valacchi per l’unione.

L’ottimistica fiducia di Walewski nell’appoggio inglese era forse eccessiva; ma un accordo anglo-francese era comunque più facile dopo la partenza dell’ambasciatore di
Inghilterra a Costantinopoli, Stratford de Redcliffe, acerrimo avversario dell’unione dei Principati. Inoltre, il 7 gennaio 1858, era morto, forse per eccessi sessuali incompatibili con la sua età avanzata, il gran visir Rachid pascià, che era stato sempre un docile strumento nelle mani di Stratford de Redcliffe contro Thouvenel; al posto di Rachid pascià era stato eletto Alì pascià, gradito all’ambasciatore francese che ne aveva appoggiato la nomina.80

Le difficoltà francesi nell’appoggiare le rivendicazioni moldo-valacche si accrebbero quando, dopo l’incontro con la regina Vittoria ad Osborne, Napoleone III incontrò a Stuttgart verso la fine del settembre 1857  Alessandro II. L’imperatore francese si convinse che lo zar non era disposto a sostenere fino in fondo l’unione politica dei Principati e fu quindi indotto a ripiegare sull’unione amministrativa, per non compromettere i rapporti con la Russia oltre che con l’Inghilterra.81

Altrettanto interessato a mantenere buoni rapporti con la Francia, il governo russo prudentemente non si sbilanciava nel pronunciarsi sulla questione moldo-valacca:  Gorciakoff affermava che la posizione russa si sarebbe manifestata solo nel corso della Conferenza. Al riguardo così si esprimeva l’ambasciatore napoletano a San Pietroburgo, Raffaele Ulisse di Barbolani nel suo rapporto del 15 dicembre 1857: “Il fatto si è che la Russia considera il fondo della questione de’ Principati come cosa del tutto accessoria; lo scopo a cui essa tende è l’indebolimento dell’alleanza anglo-francese. Essa dunque non si dividerà dalla Francia, non solo in questa, ma in qualunque altra quistione che potesse sorgere”.82

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Considerato l’interesse russo a mantenere in ogni caso l’amicizia con la Francia in funzione antibritannica, si può affermare che il governo francese avrebbe potuto sostenere con maggiore decisione le aspirazioni della Moldavia e della Valacchia, senza perciò compromettere i buoni rapporti con San Pietroburgo. Cavour infatti deplorò la condotta di Walewski durante la Conferenza, giudicandola troppo remissiva. In una lettera confidenziale del 22 giugno 1858 inviata al delegato sardo alla Conferenza, Pes di Villamarina, osservava che Walewski anziché fare mezze concessioni, come l’affidare al’ospodaro la nomina del 50% dei componenti il Comitato di coordinamento di Focsani, avrebbe dovuto tenere duro, minacciando non la guerra (nessuno era disposto a farla per i Principati), ma l’interruzione della Conferenza, che avrebbe creato serie difficoltà al governo inglese di fronte all’opinione pubblica interna ed a quella moldo-valacca.83

La proposta di Walewski di unire i Principati, avanzata già all’apertura dei lavori della Conferenza, ebbe invece il carattere di un atto dovuto, compiuto senza troppa convinzione. Alla proposta francese si oppose subito Fuad pascià, delegato turco, affermando che le popolazioni moldo-valacche erano legate alle loro peculiarità tradizionali, sebbene prima di raggiungere Parigi avesse promesso a Thouvenel che sarebbe stato conciliante e disposto ad accettare una soluzione di compromesso (come alla fine fece).84

Il delegato dell’Austria, Hubner, si schierò con Fuad, mettendo ancora in dubbio che i Divani potessero esser considerati autentici interpreti della volontà popolare. Il delegato russo, Kisselef, non ruppe il riserbo che fino ad allora si era imposto il governo zarista e tacque, mentre l’inglese Cowley manifestò una qualche apertura, riconoscendo che i Divani avevano espresso una volontà unitaria, che però poteva esser soddisfatta sul piano amministrativo, nel rispetto della “suzerainetéturca.

Il direttore degli Affari Politici del Quai d’Orsay, Benedetti, sottolineava la difficile posizione di Fuad pascià, che ognuno dei due opposti schieramenti cercava di attirare, dato che il consenso della Porta era indispensabile per arrivare ad un accordo; il diplomatico francese esprimeva pure la sua preoccupazione per il persistere del silenzio russo.85 In un successivo dispaccio a Thouvenel Benedetti metteva in evidenza che Turchia ed Austria facevano un

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gioco di squadra: quando Fuad pascià usciva dall’abituale ambiguità, si schierava subito con Hubner. Benedetti si mostrava comunque fiducioso che il turco, malgrado le resistenze iniziali, si sarebbe alla fine schierato con la Francia.86

La posizione inglese, che mediava tra le richieste moldo-valacche e l’esigenza turca di mantenere la “suzeraineté” sui Principati, aprì le porte al compromesso, che tutti i delegati, compreso Walewski, finirono per accettare.

In tale situazione Cavour non poteva continuare a sostenere isolato l’unione completa dei Principati e dovette adeguarsi ed accettare la soluzione di compromesso che si veniva delineando, come spiegava agli ambasciatori a Londra e Parigi, Durando e Pes di Villamarina. Ma sino alla fine non cessò di adoperarsi per l’unità completa della Moldavia e della Valacchia: nelle sue istruzioni a Pes di Villamarina, delegato alla Conferenza, in data 22 maggio 1858 raccomandava di appoggiare l’unità sotto un principe straniero (posizione ormai abbandonata dalla Francia dopo Osborne), se nel corso della Conferenza si fosse presentata un’occasione favorevole per riaprire la questione.87

Malgrado la sua buona volontà Cavour era comunque costretto dalla circostanze ad agire con prudenza. Nella sua circolare inviata il aprile 1857 ai rappresentanti diplomatici sardi all’estero, pochi giorni dopo l’arrivo a Bucarest della Commissione internazionale d’inchiesta aveva ricordato l’appoggio dato durante il Congresso di Parigi alle aspirazioni dei Principati all’unità sotto un principe straniero; ma al tempo stesso aveva raccomandato in particolare a Bensi, delegato della Sardegna in quella Commissione, di mantenersi neutrale, evitando ogni dichiarazione a favore dell’unità, e di limitarsi ad assicurare libertà di espressione ai Moldo-Valacchi.88

Tanta prudenza da parte di Cavour appare giustificata, se consideriamo la disavventura capitata al diplomatico belga Van Cuelebrock, ministro  residente presso la Porta, che nel 1857 aveva compiuto un viaggio in Moldavia e Valacchia, rilasciando dichiarazioni di aperta simpatia per l’unione dei due Principati. Ciò aveva suscitato il disappunto degli ambasciatori francese ed inglese a Costantinopoli, che fecero un passo comune presso il ministro degli Esteri turco, Ephem pascià, per protestare contro Van Cuelebroeck. Il ministro turco accusò il diplomatico belga di aver fatto “de la propagande en faveur d’un prince contraire à nos intérêts, en flattant l’ambition des uns, en promettant son appui aux autres et en distribuant en avance des faveurs et des emplois”.89

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Il malumore degli ambasciatori francese ed inglese, subito condiviso dal ministro turco, nasceva dal sospetto che le dichiarazioni del diplomatico belga dipendessero dal proposito di portare sul trono dello Stato unito moldo-valacco il conte di Fiandra (la sua candidatura fu in effetti proposta nel 1866 da parte romena, ma sfumò presto per il rifiuto dell’interessato).

Quel sospetto trovava conferma in un articolo dal titolo “La diplomatie belge en Orient”, apparso sul “Courier du Havre” l’8 luglio 1857. Il giornale sembrava adombrare in forma non ufficiale il pensiero del governo francese, scrivendo che i diplomatici belgi andavanosans repos ni cesse furetant dans tous les coins du globe pour tâcher de découvrir un trône vide ils pourraient placer un des leurs princes disponibles”.

Contro questa eventualità insorgeva il governo francese, malgrado il favore accordato all’unione dei Principati sotto un principe straniero; prevalse il timore che il conte di Fiandra sul trono moldo-valacco potesse accrescere nella zona danubiana l’influenza belga a discapito di quella francese.

Il sultano ritirò il suo gradimento per Van Cuelebroeck e ne chiese il richiamo. Si oppose il re del Belgio e si adottò una soluzione di compromesso: il diplomatico belga era accreditato ad Atene oltre che a Costantinopoli e si trasferì nella capitale greca senza far più ritorno nella più importante sede turca.90

La prudenza non impedì però a Cavour di venirsi preparando alacremente, seppure riservatamente, alla Conferenza sui Principati. Diede infatti incarico a Durando, destinato a Costantinopoli al posto di Tecco prima di esser trasferito a Londra, di preparare un progetto di Costituzione  per uno Stato unitario moldo-valacco. Durando nel settembre 1857 inviò a Torino due progetti di Costituzione subito trasmessi al delegato sardo nella Commissione internazionale, Bensi.91

Il primo progetto Durando prevedeva l’unione dei due Principati col nome di Romania (art. 1), sotto un principe indigeno nominato dal sultano (art. 5). La Porta poteva mantenere nel territorio romeno, a non oltre due kilometri dal Danubio, due guarnigioni, ognuna di 1.000 uomini (art. 10). La Romania doveva costruire una fortezza al confine russo ed una al confine austriaco; in caso di attacco ai territori europei dell’Impero turco, il governo romeno era tenuto a fornire alla Porta fino a 6.000 uomini (art. 14). Il sultano conservava la “suzeraineté

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sul delta e sulle isole del Danubio, cedute però alla Romania, che poteva costruirvi una fortezza e stabilirvi una guarnigione di 500 uomini (art. 15). La Romania sarebbe stata rappresentata all’estero dai diplomatici Turchi, ma avrebbe avuto una propria bandiera (art. 17). Bucarest sarebbe stata la capitale in alternanza a Jassy con cadenza quadriennale (art. 9).

Più sfumata l’unione di Moldavia e Valacchia stabilita dal secondo progetto Durando. Si sarebbe formata una federazione dei due Stati, con due distinte assemblee, che avrebbero eletto un Senato federale (art. 1); il presidente del Senato era al contempo capo dello Stato con il titolo di principe e sarebbe durato in carica per il tempo della legislatura (art. 6); poteva trattare direttamente con il gran visir e convocare il Senato federale (art. 8), la cui sede sarebbe stata  stabilita alternativamente ogni 4 anni a Bucarest e ad Jassy (art. 4). Le funzioni di governo erano affidate ad un esecutivo di 5 membri, nominato dal Senato, con sede stabilita in alternativa a Bucarest e ad Jassy, sempre ogni 4 anni (art. 9).

Accanto al presidente del Senato, che esercitava pure le funzioni di principe federale, erano previsti un principe per la Moldavia ed uno per la Valacchia, nominati dalle rispettive assemblee e soggetti a conferma o destituzione della Porta (art. 14).

Bensi sottopose ad una critica radicale i due progetti Durando ed a sua volta ne propose altri due, inviati a Torino con lettera del 24 dicembre 1857.92

Secondo Bensi il primo progetto Durando lasciava troppi poteri alla Porta che avrebbe dovuto avere soltanto il potere di confermare il principe. Inoltre, la capitale doveva esser stabilita soltanto a Bucarest, essendo Jassy troppo vicina alla frontiera russa e con una popolazione composta al 50% da Ebrei.

Il secondo progetto Durando era respinto in blocco da Bensi, che temeva una contrapposizione del principe presidente e del Senato federale da una parte e principi ed assemblee locali dall’altra.

Erano quindi queste le proposte di Bensi: unione dei Principati con un principe indigeno eletto a vita dai cittadini e confermato dal sultano; nessuna guarnigione turca in Romania; Parlamento bicamerale, con una Camera dei Deputati eletta dal popolo per 5 anni ed un Senato sempre di elezione popolare, ma a vita; assoluta neutralità garantita dalle Potenze e pertanto nessun obbligo di assistenza militare alla Porta; propri rappresentati diplomatici e facoltà di stipulare Trattati di commercio; unica bandiera (quella tricolore della Valacchia).

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In subordine Bensi proponeva un altro progetto. Moldavia e Valacchia sarebbero rimaste separate con due distinti sovrani legati però da un’alleanza; se una delle due dinastie si fosse estinta, era prevista l’unione dei due Principati. Fino a questa eventuale unione era previsto un alto consiglio amministrativo, con sede alterna a Bucarest e Jassy, competente ad assicurare alcuni servizi comuni (dogana, posta, telegrafo, sanità).

Questo consiglio doveva inoltre unificare le leggi; assicurare reciprocità di diritti fra Moldavi e Valacchi; uniformare il sistema di pesi e misure a complemento dell’unità monetaria già esistente. Erano previste manovre comuni dei due eserciti e guarnigioni miste nelle fortezze di frontiera.

Il governo di Torino giudicò troppo avanzate le proposte di Bensi perché la Porta e le Potenze potessero accettarle e troppo limitate quelle di Durando; affidò pertanto a Costantino Nigra, astro nascente della diplomazia sabauda, il compito di preparare un altro progetto da presentare alla Conferenza sui Principati.93

Nel suo progetto Nigra proponeva l’unione politica, e non solo amministrativa di Moldavia e Valacchia con il nomeStati Uniti Romeni”, che restavano comunque parte integrante dell’Impero turco.

Era previsto un Parlamento bicamerale, con una Camera dei Deputati ed un Senato, il cui presidente sarebbe stato nominato dalla Porta e avrebbe preso il titolo di principe-presidente e di altezza .

Il Senato, composto da 5 Moldavi e 5 Valacchi, veniva nominato dalla Camera ed esercitava il potere esecutivo; quello legislativo sarebbe stato esercitato dalla Camera, cui doveva esser affiancato un commissario turco. La proposta dei progetti di legge spettava al Senato ed era la Camera a discuterli ed eventualmente ad approvarli. La Porta non poteva mantenere truppe nel territorio romeno durante i periodi di pace, ma in caso di guerra lo Stato romeno doveva prestarle aiuto. Gli “Stati Uniti Romeni” non potevano dichiarare guerrastipulare trattati di pace; era comunque riconosciuto loro il diritto alla difesa, se attaccati.

La Turchia conservava la rappresentanza all’estero dello Stato romeno; i rappresentati diplomatici stranieri erano però accreditati presso il principe-presidente, che avrebbe rilasciato loro l’exequatur. Era  prevista  per lo  Stato  romeno  la  garanzia collettiva delle Potenze

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firmatarie del Trattato di Parigi, che in caso di contrasti fra la Porta e gli Stati Uniti Romeni avrebbero avuto il diritto di intervenire. Il principe presidente avrebbe avuto lo stesso status del viceré d’Egitto e dei reggenti di Tunisi e di Tripoli. Il Senato, la Camera e il principe-presidente restavano in carica per 5 anni, il principe-presidente poteva esser confermato dalla Porta per un altro mandato.

Erano interessanti le misure in campo religioso previste da Nigra: in Romania non potevano costruirsi moschee come previsto dalle antiche capitolazioni dei principi di Moldavia e Valacchia con la Porta; era però tollerato in privato il culto musulmano e la stessa tolleranza era riservata al culto ebraico; piena libertà era assicurata invece per tutte le confessioni cristiane.

Tutte queste proposte appaiono farraginose e di difficile attuazione; ma anche la soluzione escogitata dalla Conferenza era uno strano miscuglio di regole che affermavano al contempo l’unione e la separazione. Per non allarmare l’Austria e la Turchia si precisò chiaramente che solo la Moldavia e la Valacchia, con esclusione quindi di altri territori con popolazione romena, sarebbero entrate a far parte dei “Principati Uniti”.

Secondo la Convenzione stabilita dalla Conferenza e firmata il 19 agosto 1858, Moldavia e Valacchia avrebbero avuto ognuna un principe eletto a vita, ma senza successione ereditaria, su cui la Porta avrebbe espresso il suo gradimento. Ci sarebbero pure state due distinte assemblee, due governi e due eserciti con bandiere diverse, che però in caso di necessità potevano unificarsi in un unico corpo, affidato ad un solo comandante, scelto alternativamente fra un moldavo ed un valacco. Gli eserciti dei due Principati avrebbero mantenuto ognuno la propria bandiera nazionale; non passò la proposta di aggiungervi un comune nastro azzurro per sottolineare la momentanea unità, in caso di manovre militari congiunte. Non passò neanche la proposta austriaca di unire la bandiera turca a quelle  di Moldavia e di Valacchia in caso di unità operativa.

I due Principati avrebbero avuto in comune una legislazione analoga, la Corte dei Conti, la Corte di Cassazione ed una Commissione di coordinamento con sede a Focsani, formata da otto moldavi e otto valacchi, designati per metà dal principe e per metà dall’assemblea.

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Questa Commissione poteva proporre alle due assemblee progetti di legge di interesse comune ai due Principati, ed era suo compito unificare la legislazione e curare le riforme amministrative.

Su di un punto di capitale importanza, quello della libertà religiosa e del godimento dei diritti politici e civili, la Convenzione del 19 agosto 1858 segnò un sostanziale progresso rispetto al Trattato stabilito dal Congresso di Parigi il 30 marzo 1856, che aveva recepito nell’articolo 9 il firmano con cui il Sultano assicurava la parità dei suoi sudditi, senza distinzione di religione

di razza. Ma lo stesso articolo 9 del Trattato precisava che quel firmano attestava la generosità del Sultano verso i cristiani: precisazione che escludeva gli Ebrei dalla parità concessa. Sempre l’articolo 9 stabiliva che le Potenze non potevano interferiresingolarmentecollettivamente nei rapporti fra il sultano ed i suoi sudditi, poiché erano da escludersi ingerenze straniere negli affari dell’Impero turco. Era quindi rimasta inascoltata la sollecitazione britannica ad estendere il diritto di parità agli Ebrei. L’articolo 46 della Convenzione decisa dalla Conferenza stabiliva invece l’eguaglianza di fronte alla legge, la parità dei diritti civili e l’ “habeas corpus” per tutti i Moldavi e tutti i Valacchi, Ebrei compresi. Erano riservati ai cristiani i diritti politici, che leggi successive avrebbero potuto estendere ai seguaci di altri culti, cioè agli Ebrei, non potendo i musulmani risiedere stabilmente nei Principati, secondo quanto stabilito dalle Capitolazioni.

Era un’apertura significativa, destinata però a non essere realmente applicata, per cui la questione israelita rimase aperta e costituì un problema di difficile soluzione, destinato ad avvelenare la situazione interna ed i rapporti internazionali della Romania.

Una discriminazione antiebraica era già implicita in questo articolo 46 della Convenzione, che escludeva dall’elettorato attivo e passivo quanti godessero della “protezione” di una potenza straniera: gran parte degli Ebrei presenti in Romania erano difatti “protetti” dall’Austria o dalla Russia, di cui erano originari. Questa restrizione fu approvata su proposta turca nella dodicesima seduta della Conferenza tenutasi il 23 luglio 1858.94

 Sulla Convenzione esprimeva a caldo un severo giudizio Giuseppe Massari, in base alle prime anticipazioni, quando non era ancora noto il testo completo approvato dalla Conferenza. Scriveva Massari: “E’ un’opera, insomma, che non potrà appagare nessuno, né i

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fautori, né gli avversari dell’unione, i primi perché non hanno conseguito il loro intento, i secondi perché stimano che si è conceduto troppo, e pensano, probabilmente non a torto, che Moldavi e Valacchi si avvarranno delle prerogative ad essi concedute come strumento a raggiungere pienamente la meta dei loro desideri”. E concludeva osservando che della precarietà della Convenzione erano forse convinti gli stessi autori, che prevedevano di dover presto affrontare nuove e maggiori difficoltà.95

Ed un attento osservatore politico romeno, Vasile Boerescu, futuro ministro degli Esteri, in una serie di articoli pubblicati sul giornale “Le National” di Bucarest commentava criticamente la Convenzione.

Boerescu valutava però in modo positivo il richiamo della Convenzione alle capitolazioni moldo-valacche stipulate con la Porta; l’unione, seppure  solo amministrativa, dei Principati, il regime democratico, l’abolizione dei privilegi e l’eguaglianza di fronte alla legge.

A questi aspetti positivi se ne univano però altri negativi: era censurato anzitutto il silenzio nel preambolo della Convenzione sul voto dei “Divani ad hoc” per l’integrale unione politica dei Principati e sulla relazione presentata dalla Commissione internazionale d’inchiesta.  Augurava che la soluzione di compromesso raggiunta dalla Conferenza non fosse definitiva ed affermava, concordando con il giudizio di Massari sugli spazi di manovra che la Convenzione apriva: “C’est à nous, Roumains, à faire le reste”.96 Ci teneva poi Boerescu a precisare che le  capitolazioni non erano state una concessione della Porta: non si trattava di un atto unilateraleoctroyé”, ma di un patto bilaterale con obblighi reciproci, fra cui era fondamentale l’esclusione di ogni ingerenza turca negli affari interni di Moldavia e Valacchia.

Ricordata la divisione e distinzione dei poteri, sollecitava la rapida approvazione di una legge per regolare le nomine e le promozioni dei giudici e stabilire la loro inamovibilità.

Ancora Boerescu trovava inesatto definire un tributo il pagamento annuo fatto dai Principati alla Porta, in quanto un tributo viene imposto alle nazioni sconfitte. Il pagamento era invece stato stabilito liberamente nel quadro di un accordo generale, che prevedeva obblighi pure per la Porta, come quello fondamentale di garantire la sicurezza dei Principati, ed era un arbitrio la decisione della Conferenza di aumentare l’importo del pagamento, senza aver neanche consultato i Principati.

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Inoltre, le capitolazioni riconoscevano a Moldavia e Valacchia il diritto di dichiarare guerra e stipulare la pace, che invece la Convenzione non confermava; ai Principati era data la facoltà di difendersi, in caso di attacco, ma a seguito di un accordo, ancora da stipulare, con la Porta, che avrebbe pure potuto rifiutarlo.

Contraddiceva poi l’autonomia dei Principati,  che escludeva ogni ingerenza straniera, il potere dato alla Turchia di intervenire militarmente in Moldavia e Valacchia per ristabilirvi l’ordine dopo l’autorizzazione delle Potenze. La Convenzione inoltre rendeva obbligatorio l’aiuto militare dei Principati alla Porta, che secondo le capitolazioni doveva essere frutto di una libera scelta.

Boerescu contestava pure che i Trattati sottoscritti dalla Porta con le altre Potenze fossero vincolanti per Moldavia e Valacchia, che in passato avevano stipulato direttamente accordi con altri: nel 1588 Petru VII di Moldavia aveva firmato con Elisabetta d’Inghilterra un accordo commerciale e nel 1822 c’era stato un accordo postale dei Principati con l’Austria.  Rapporti diretti con  le Potenze si erano inoltre avuti nel 1688 con l’invio di una missione diplomatica presso Leopoldo I d’Austria da parte di Stefan Cantacuzeno e nel 1709, quando Constantin  Brancoveanu aveva inviato una delegazione valacca a trattare con Pietro il Grande di Russia. Recentemente, nel 1856, il governo valacco si era congratulato direttamente con Napoleone III e non tramite l’ambasciatore francese presso la Porta per esser l’imperatore scampato ad un attentato. La Convenzione stabiliva invece che i Principati dovevano rivolgersi agli ambasciatori accreditati a Costantinopoli per chiedere l’intervento delle Potenze a tutela dei diritti ad essi riconosciuti, anziché richiederlo direttamente ai governi garanti: procedura che poteva causare un pericoloso ritardo dell’intervento.

Passando poi ad esaminare gli aspetti costituzionali relativi alla situazione interna dei Principati,  Boerescu sottolineava una grave lacuna nel sistema previsto dalla Convenzione: non era infatti detto che fare in caso di un rifiuto del principe a promulgare una legge già approvata dal Parlamento (eventualità effettivamente verificatasi quando il principe Cuza non promulgò la legge agraria approvata dal Parlamento in cui i conservatori avevano la maggioranza; la legge rimase ibernata e fu poi sostituita da quella voluta dal governo Kogalniceanu nel 1864).

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L’autore trovava troppo lunga la durata di 7 anni prevista per una legislatura parlamentare, dato che una assemblea avrebbe potuto fornire una cattiva prova; era comunque un utile correttivo il potere di sciogliere l’assemblea riconosciuto al principe. Pure opportuno era sia l’aver concesso al clero i diritti elettorali, attivi e passivi, sia l’aver stabilito che al metropolita spettava di diritto la presidenza dell’assemblea, in quanto in Romania non c’era mai stato fanatismo religioso: “nos autels n’ont jannais été tachés par le sang d’un hérétique”.97

Auspicava ancora Boerescu che si ponesse fine alla confusione legislativa derivante dal fatto che accanto al codice civile ed al penale sopravviveva l’antico Regolamento organico messo a punto durante l’occupazione russa, che secondo la Convenzione andava rivisto ed aggiornato e che invece a parere dell’autore  doveva  essere  abrogato. Era  invece opportuno aver dato alla Corte di Cassazione il compito di giudicare in ultima istanza, sottraendolo al principe come era in precedenza stabilito; si era così posto fine ad una confusione tra il potere giudiziario e quello esecutivo.

Dissentiva invece per il tetto di 6.000 uomini fissato per ognuno degli eserciti dei due Principati, stabilito dalla Convenzione; inoltre l’art. 42 prescriveva l’accordo con la Porta per un eventuale aumento delle truppe; si autorizzava in tal modo un’ingerenza straniera e si contraddiceva l’art. 43, che prevedeva una semplice comunicazione di tale aumento.

Boerescu sorvolava sull’articolo 46 della Convenzione, che concedeva i diritti civili a tutti, mentre quelli politici erano riservati ai soli cristiani; successive leggi avrebbero però potuto estenderli ai fedeli di altri culti.

Particolare attenzione era dedicata infine da Boerescu al problema sociale di maggiore importanza, la condizione dei contadini, che si riconosceva necessario migliorare, senza però dare loro la proprietà della terra, poiché tale misura sarebbe stata contraria alle leggi vigenti, da rivedere ma non da stravolgere.

Anche il “Crepuscolo” di Carlo Tenca (25 maggio 1856, p. 333) si era interessato delle conseguenze sociali ed economiche della guerra d’Oriente e dei Trattati ad essa successivi. In una corrispondenza da Berlino, datata 18 maggio, era commentata con favore la notizia che un’importante banca tedesca, quella del Principato di Dessau, avrebbe aperto una filiale a

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Jassy: in Moldavia scarseggiavano i capitali ed i crediti erano concessi con tassi d’interesse molto elevati. L’autore della corrispondenza ricordava il precedente negativo del 1845, quando il console prussiano a Galatz aveva proposto la creazione di una compagnia commerciale per lo smercio dei prodotti della Renania in Oriente. Il progetto era rimasto sulla carta, deludendo i Romeni, resi poi diffidenti verso la Prussia che non aveva sostenuto le loro richieste al Congresso di Parigi.

Comunque andava seguita con attenzione l’iniziativa della banca di Dessau, da considerarsi una conseguenza positiva della guerra di Crimea; se i Romeni non ne avevano tratto vantaggi politici, potevano almeno migliorare le loro condizioni sociali ed economiche.

Anche stavolta  però il progetto non fu realizzato e negli anni successivi si guardò con scarsa simpatia e molto sospetto ai tentativi austriaci e tedeschi di penetrazione economica nei Principati.

Le riserve sulla Convenzione del 19 agosto 1858 furono espresse in Francia non soltanto da studiosi che potevano esporre soltanto opinioni personali, ma anche da chi aveva rappresentatività e responsabilità istituzionali, contraddicendo l’ottimismo manifesto da Walewski alla vigilia della conclusione della Conferenza di Parigi.

Il ministro degli Esteri francese aveva difatti scritto a Thouvenel il 14 agosto che l’unione dei Principati, non realizzata per il momento, era comunque assicurata in futuro. Walewski rivendicava l’importanza del sistema politico liberale stabilito dalla Conferenza: il controllo delle assemblee sull’attività dei governi e dei principi avrebbe impedito ogni forma di corruzione. Altrettanto ottimismo era dimostrato riguardo ai rapporti anglo-francesi, rimasti buoni nonostante i recenti contrasti sui Principati: lord Malmesbury, titolare del Foreign Office, aveva proposto di affidare ai rispettivi ambasciatori presso la Porta la soluzione delle eventuali divergenze fra i consoli di Francia e d’Inghilterra nei Principati.98

Ma pochi giorni dopo la firma della Convenzione Thouvenel scriveva a Benedetti che erano un semplice contentino per la Francia la denominazioneDivano centraledata alla Commissione di coordinamento di Focsani (denominazione che sembrava sottolineare un’unione politica) e la  proposta, peraltro  non accolta, di apporre un nastro azzurro alle

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bandiere dei due Principati in caso di manovre militari congiunte, per sottolineare la momentanea unità. Ricordava poi con ironia che il titolo della commedia shakespeariana “Molto rumore per nulla” poteva riferirsi ai risultati della Conferenza e riportava la critica del gran visir Alì pascià, che aveva definito la Convenzione cattiva nell’insieme ed ancora peggiore nei dettagli. Thouvenel riteneva particolarmente fondata la critica rivolta alla legge elettorale allegata alla Convenzione: era difatti difficile accertare il reddito necessario per godere dei diritti elettorali ed era eccessivo quello di 1.000 ducati fissato per i commercianti ed i piccoli proprietari: solo pochi lo raggiungevano.99 Ancora più radicale la critica alla Convenzione fatta dal rappresentante francese nella Commissione internazionale d’inchiesta, Talleyrand, secondo il quale erano delusi e malcontenti i Romeni residenti a Parigi, che pensavano addirittura di rivolgere alle Potenze una petizione perché fosse abrogata la Convenzione e restasse in vigore il Regolamento organico voluto da Kisselef nel 1829. 100

E Talleyrand si mostrava molto scettico sulla durata del farraginoso sistema politico escogitato; scriveva difatti a ThouvenelDieu merci, les bicéphales ne vivent pas long-temps”.101

Altrettanto negativo era il parere sulla Convenzione espresso dal console francese a Jassy, Victor Place, che, scrivendo a Thouvenel, trovava eccessivi i poteri attribuiti al principe e riteneva che la legge elettorale confermasse la supremazia politica dei vecchi boiari, fissando un censo troppo elevato necessario per ottenere i diritti elettorali; riteneva peraltro che il popolo non fosse maturo per il regime politico troppo liberale stabilito dalla Convenzione.102

Giudizio condiviso da Benedetti: “Les principautés ont besoin d’un gouvernement fort, honnête et inflexible”.103

E l’ambasciatore napoletano a Costantinopoli Targioni, le cui posizioni politiche erano agli antipodi di quelle dei diplomatici francesi, aveva scritto nel suo rapporto del dicembre 1858 : « …la base adottata nella Conferenza di Parigi, e sulla quale è fondato il Regolamento per l’elezione dei Divani, è del tutto falsa, attesoché suppone una borghesia che non esiste nei Principati, dividendosi quelle popolazioni in clero, boiari, artigiani e coltivatori”.104

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Malgrado tutte le critiche e le riserve avanzate, la Convenzione aprì comunque una nuova stagione politica per i Principati, la cui reggenza non rimase affidata ai caimacam in carica, Alexandru Ghika in Valacchia ed il tanto chiacchierato Nicolae Volgorides in Moldavia.

La Porta, dietro impulso della Conferenza, applicò le disposizioni del Regolamento organico per cui, in caso di vacanza del trono, si doveva ricorrere ad una luogotenenza collettiva di tre persone. La scelta cadde sui ministri dell’Interno, sui capi dell’esercito e sui presidenti delle assemblee in carica nel 1856, sotto il Principato di Barbu Stirbey in Valacchia e di Gregor Ghika in Moldavia.

La situazione restava difficile, soprattutto in Moldavia.

Thouvenel, in congedo a Parigi, scriveva il 9 dicembre 1858 al primo dragomanno reggente l’ambasciata, Amedeo Outrey, che l’Austria aveva interesse a mantenere l’agitazione sul  Danubio per due scopi: “L’une de ce fins c’est l’espoir que d’autres questions détournent les yeux de l’Italie; la seconde c’est que, si l’Italie craque, il peut y avoir une compensation sur le Danube…”105

La Porta non si rassegnava ad accettare i risultati della Conferenza di Parigi e rifiutava persino la denominazionePrincipati Uniti”, che fu costretta ad accettare solo per la minaccia dell’ambasciata francese di respingere qualsiasi comunicazione priva di tale termine.

Oltre alle difficoltà provenienti dall’estero, ce n’erano in Moldavia altre di natura interna.

Esistevano difatti contrasti all’interno della luogotenenza collettiva, in quanto due dei reggenti, Nastase Panu e Vasile Sturdza, erano seguaci del partito nazionale, sostenitore dell’unione, avversata invece dal terzo componente la reggenza, Stefan Catargi, che si trovava in minoranza, ma deteneva una posizione chiave, il ministero dell’Interno e poteva inoltre contare sull’appoggio del console austriaco a Jassy, Goldel de Lannoy, e di Afif bey, commissario della Porta inviato a controllare la situazione.

Catargi però fu messo da parte e venne sostituito come ministro dell’Interno da Ion Cantacuzeno, malgrado l’opposizione del console austriaco. Gli avversari dell’unione perdevano così una posizione importante per poter influire sul compito più delicato affidato al Divano: la nomina del principe.

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Nel Divano, formato da 64 membri, esisteva un equilibrio di forze fra gli opposti schieramenti: da una parte i boiari, conservatori ed ostili all’unione, potevano contare su 34 deputati; dall’altra parte i nazionali, fautori dell’unione, avevano il controllo dei restanti 30.

Sfumata la possibilità di un principe straniero, si eccitarono gelosie e rivalità tra diversi pretendenti al trono e si crearono divisioni anche all’interno di uno stesso partito.

I 34 deputati conservatori del Divano di Moldavia si dividevano infatti fra 21 sostenitori dell’ex ospodaro Mihail Sturdza e 13 che appoggiavano invece il figlio Gregor Sturdza: nonostante la parentela, i due erano accesi rivali.

I nazionali da parte loro proponevano diversi candidati (Constantin Negri, Lascar Catargi, Petru Maurogheni, il poeta Vasile Alecsandri) ed erano divisi sulla fondamentale questione agraria: Negri sosteneva gli interessi dei contadini, Lascar Catargi quelli dei proprietari.

Un’animata riunione dei deputati nazionali, convocata per scegliere un candidato comune, sembrava destinata a concludersi con una irrimediabile spaccatura tanto che Mihail Kogalniceanu si apprestava già a lasciarla, quando si verificò un inatteso colpo di scena: il deputato Pisoski, piazzatosi di fronte all’uscita ed impugnando una pistola, minacciò il suicidio se non si  fosse decisa una candidatura condivisa da tutti e propose quella del  ministro della Guerra, Alexandru Ion Cuza, già presidente del Tribunale di Galatz nel 1850, poi entrato nell’esercito nel 1857 e nominato colonnello dal caimacam Volgorides, che successivamente lo designò ad esser prefetto di Galatz: carica da cui Cuza si era dimesso in segno di protesta contro i brogli elettorali dello stesso Volgorides.

La proposta fu accettata e Cuza divenne così il candidato di una maggioranza relativa in seno al Divano (i 30 deputati nazionali sul totale di 64), permanendo le divisioni tra i 13 deputati conservatori partigiani di Gregor Sturdza e i 21 che appoggiavano Mihail Sturdza.

Ma presto la maggioranza relativa di Cuza divenne assoluta, essendo passati dalla sua parte i 13 sostenitori di Gregor Sturdza: a questo punto si accodarono alla maggioranza i residui 21 deputati conservatori ed il 17 gennaio 1859 Cuza fu eletto all’unanimità.

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Veniva così scelto un principe indigeno proposto dai deputati nazionali, che in precedenza si erano mostrati decisamente avversi alla candidatura di un elemento locale. Il console francese a Jassy aveva chiesto se esistesse un candidato indigeno degno di salire sul trono a Vasile Alecsandri, che così gli rispondeva da Parigi il 20 ottobre 1857: “Non, non, cent fois non, et cela pour mille et une raisons…”106

L’imprevisto successo di Cuza in Moldavia diventò addirittura un trionfo con la sua ulteriore affermazione in Valacchia. In questo Principato il quadro politico era stato fino ad allora meno agitato che in Moldavia, anche se vi era una contrapposizione per la scelta del principe tra i nazionali ed i conservatori, che nel Divano avevano la maggioranza, potendo contare su circa 40 deputati su 70,  ma erano divisi tra diversi candidati. Vi erano infatti le candidature degli ex ospodari Barbu Stirbey e Gheorge Bibesco, che appariva il favorito. I nazionali proponevano Nicolae Golescu, ma con poca speranza di successo; si trattava di una candidatura di bandiera.

Non ebbe fortuna la candidatura di Ion Alexandru Filipescu, un conservatore moderato che riscuoteva pure qualche simpatia nel campo avverso, proposto dal console austriaco Eder.

Anche in Valacchia si ebbe a sorpresa la candidatura di Cuza, proposta dal moldavo Constantin Negri, di passaggio a Bucarest essendo diretto a Costantinopoli dove era stato nominato rappresentante del governo di Jassy. La proposta fu accolta dai nazionali, che, trovandosi in minoranza nel Parlamento, fecero ricorso alla piazza. Ion Bratianu lanciò un vibrante appello alla popolazione ed i sostenitori del partito nazionale affluirono a Bucarest. Per sfuggire alla pressione popolare  il console austriaco consigliò ai conservatori di trasferire altrove la sede dell’assemblea, ma non fu ascoltato.

Una folla minacciosa il 4 febbraio 1859 circondò il Parlamento: era la vigilia della data fissata per l’elezione del principe. Il governo aveva fatto schierare un cordone di truppe intorno all’edificio, con l’ordine di sparare sulla folla, se questa avesse tentato di invaderlo. Ma tale ordine non fu eseguito, grazie ad un accordo dei nazionali con il colonnello Vladoianu, che non fece rispettare la consegna ricevuta dal governo. La folla quindi penetrò nell’aula parlamentare, ma la seduta continuò, seppure tra un grande tumulto, mentre tra il pubblico i 

- 190 -macellai affilavano con ostentazione i loro coltelli. Proprio in quel momento di tensione drammatica Vasile Boerescu fece suo il suggerimento di Constantin Negri e propose di eleggere  Cuza ospodaro di Valacchia. A quel punto anche i deputati conservatori, intimiditi e sperando che la Porta avrebbe annullato l’elezione, votarono per Cuza, che, come in Moldavia, risultò eletto all’unanimità.

Il console d’Austria, Karl von Eder, manifestò tutto il suo malcontento asserendo che i conservatori erano stati colti di sorpresa: se avessero previsto per tempo il corso degli eventi, si sarebbero ritirati dall’assemblea, facendo mancare il numero legale ed impedendo così l’elezione di Cuza.107

A titolo di curiosità si può ricordare che in Moldavia l’elezione avvenne con il nome di Alexandru Cuza ed in Valacchia con quello di Cuza Alexandru.108

Banale trascuratezza o beffarda volontà di farsi gioco degli avversari della duplice elezione?





p. 125
1 “La questione d’Oriente innanzi l’Europapreceduta da uno sguardo addietro alla questione originaria dei Luoghi Santi” di Abdolimino Ubicini e “La questione d’Oriente risoluta” di Emilio Girardin. Milano, presso l’Ufficio del Cosmorama pittorico, doc. 1. “…in possesso dei  luoghi   di pellegrinaggio che essi hanno allo stesso modo che  li hanno posseduti in passato”.



2 Ibidem, doc. 2 e doc. 4.



p. 126
3 Ibidem, doc. 7.



4 Ibidem, doc. 8.



5 Ibidem, doc. 9.



6 Ibidem, doc. 11.



7 Eugène ForcadeLa question d’Orient. La diplomatie européenne et les causes de la guerre”. Revue des Deux Mondes, marzo 1835, pp. 965-1030.

“…è un onore ed una fortuna per l’Inghilterra che la sua politica, in un momento critico sia stata rappresentata a Costantinopoli da un simile statista”.



p. 127
8 Ubicini, op. cit. doc. 27.



p. 128
9 Ibidem, doc. 72.



10 Ibidem, doc. 75.



p. 129
11 Cfr. Elias RegnaultHistoire politique et sociale des Principautés Danubiennes  - capitolo VI. Paris, Paulin et Le Chevalier Editeurs, 1855. Sull’atteggiamento filo turco di Heliade, cfr. Souvenirs et impressions d’un proscritParis 1850, dello stesso Heliade.



12 Eugène PoujadeOmer pacha et la guerre sur le Danube. Les Russes et les Autrichiens dans les Principautés ». Revue des Deux Mondes, 15 aprile 1856, pp. 802-842.



p. 131
13 Ubicini op. cit. doc. 150.



14 Ibidem doc. 161; sull’occupazione austriaca dei Principati cfr. E. Poujade, op. cit. alla nota 12 di questo capitolo. 



15 Cfr. E. Regnault, op. cit. alla nota 11 di questo capitolo.



p. 132
16 Ubicini, op. cit. doc. 139. nota dell’amb. francese a Vienna, Bourqueney , al conte Buol, ministro degli Esteri austriacoVienna, 8 agosto 1854.



17 Ibidem, doc. 140 – nota del Conte Buol all’amb. BourqueneyVienna, 8 agosto 1854.



p. 134
18 Nicolò Tommaseo: “Antonio Rosmini” in Rivista contemporanea III (1855), pp. 29-32. Ristampato nel carteggio Tommaseo-Rosmini, volume III – Marzorati editore Milano, 1969;  pp. 292-293.

La lettera del Rosmini all’Arconati è riportata  nella nota 4 alle pagine 292-293 del citato volume III del carteggio Tommaseo-Rosmini.

Nicolò Tommaseo “Il segreto dei fatti palesi seguiti nel 1859. Indagini di Nicolò Tommaseo. Italiani, Magiari, Slavi”.  Firenze-Barbera, Bianchi e comp. 1860capitolo IV, “Guerra di Crimea”, pp. 10-12; opera già ricordata alla nota 174 del capitolo I.



p. 142
19 Ubicini, op. cit. doc. 188.



20 Ibidem, doc. 192Manifesto di S. M. il Re di Sardegna, Vittorio Emanuele II, relativo all’accessione della Maestà sarda al Trattato 10 aprile 1854 tra la Francia e l’Inghilterra”. – Torino, 4 marzo 1855.



21 Jon BratianuMémoire sur l’Empire d’Autriche dans la question d’Orient” – Paris, Imprimerie J. Voisnel 1855, p. 22.



22 Ibidem, pp. 12-14.



p. 143
23 Ibidem, pp. 40-41 “…abbandonare i Principati Romeni all’invasione austriaca e turca per opprimerli e violare i loro diritti, invece di accettarli tra gli alleati armando i loro abitanti, come essi reclamano e come essi meritano per il loro atteggiamento contrario a Mosca, non è esasperare queste popolazioni e spingerle completamente in braccio alla Russia?”.



24 Ibidem, pp. 42-43.



25 Ibidem, pp. 44-45.



26 Cfr. DestribesConfidences sur la Turquie” – Paris 1855.



27 Bratianu, op. cit. p. 15



28 Ibidem, pp. 20-22



29 “La guerre d’Orient en 1853 et 1854, jusquà la fin de juillet 1855. Esquisse historique et critique des campagnes sur le Danube, en Asie et en Crimée, avec un coup d’oeil sur les eventualités prochainespar Georges Klapka, ancien général hongrois » - Genève. Librairie étrangère de Lauffer et c., 1855 p. 28.



p. 144
30 Ibidem, pp. 175-179 – “capricciosa e volubile”.



31 Jon GhikaDernère occupation des Principautés Danubiennes par la Russie” – Paris, 1853.



p. 145
32 Cfr. H. TemperlyThe Treats of Paris of 1856 and its execution” – The Journal of Modern history, parte I, volume IV n.3, settembre 1932, pp. 397-414.



33 Cavour e l’Inghilterra” – carteggio con V.E. d’Azeglio, volume I, “Il Congresso di Parigi” – Bologna, Zanichelli 1933, doc. 251 “…mi son guardato bene dal reclamare la paternità di questo progetto e  mi sono estasiato per la sagacia di S.M. …”



p. 146
34 Ibidem, doc. 212Cavour a V. E. d’Azeglio, Torino gennaio 1856.



35 Ibidem, doc. 322.



36 Ibidem, doc. 311 –“….il progetto Parma-Carignano  è stato molto apprezzato…”.



37 Ibidem, doc. 354Luigi Cibrario, ministro Affari Esteri, a CavourTorino, 9 marzo 1856.



38 Ibidem, doc. 337V.E. d’Azeglio a Cavour, 7 marzo 1856Park Lane.



p. 147
39 Ibidem, doc. 334Cavour a V.E. d’AzeglioParigi, 6 marzo 1856.

“Se non li riuniamo, se non costituiamo un potere forte e compatto, essi resteranno immersi nella corruzione e nel disordine come in passato…Sarebbe una vera vergogna per l’Europa lasciare questi paesi in preda all’anarchia ed agli intrighi Russi e Turchi”.

“Per l’amor del cielo convincete Palmerston che sarebbe un delitto di lesa civiltà se egli sostenesse lo status-quo, e si opponesse ai giusti desideri dell’intera popolazione romena”. 



p. 148
40 Saint Marc Girardin “L’empereur Napoléon III  et les Principautés roumaines” – Revue des Deux Mondes, giugno 1858, pp. 341-349



41 Saint Marc GirardinLes  Voyageurs en Orient. IV Les Principautés du Danube” – Revue des Deux Mondes, 15 novembre 1858, pp. 332-351.



42Cavour e l’Inghilterra” – carteggio con V.E. d’Azeglio, volume I “Il Congresso di Parigi”, doc. 335, Cavour a de Launay, Parigi 6 marzo 1856; doc. 342 de Launay a Cibrario, Berlino 17 marzo 1856.

“L’Austria non immagina quante lacrime e sangue le costerà il lembo di terra che ci ha strappato in Bessarabia”.

“Presto o tardi l’Austria pagherà i danni fatti”.



43 Cfr. R. V. Bossy “L’Autriche et les Principautés Unies” – Bucarest 1931, p. 155.



p. 150
44 Per il testo del Trattato cfr. Major Peace Treaties of  modern History (1648-1967), with an introducing essay by Arnold Tonybee” – volume II – New York Chelsea House Publishery 1967 – “Peace Treaty  of Paris, Paris March 1856”, pp. 947-957.



45 Edgard QuinetLes Roumains”- Revue des Deux Mondes, gennaio e marzo 1856. Ristampato in volume con lo stesso titolo nel 1879, Paris librairie Gerner-Bailliére et c.pp. V-VI dell’introduzione.

“Voi non siete più una provincia sconosciuta, Voi fate parte della comunità, stavo per dire della patria cristiana occidentale. Il Vostro problema è divenuto un problema di interesse e di onore per l’Europa. Esisterà una Romania, o non vi sarà più onore, né fiducia di alcun tipo in Europa, ed anche in questa caso la Vostra parte sarebbe quella di tutti gli altri”.



46 Ibidem, p. 126.



47 Pasquale Buonincontro “L’unione dei Principati Danubiani nei documenti diplomatici napoletani (1856-1859)” – Istituto Universitario Orientale, Napoli 1972; doc. 5.



p. 152
48 L. ThouvenelTrois années de la question d’Orient (1856-1859), d’après les papiers inédits de M. Thouvenel”, Paris, Calman-Levy éditeur 1897; nota 1, alle pp. 4-5.

“ L’unione delle due province, l’elezione di un principe straniero, una costituzione indipendente dall’autorità sovrana, la neutralità di questo nuovo stato, e la protezione collettiva delle grandi Potenze sono punti già risolti in anticipo nel suo animo. Si spingerebbe forse oltre se dovesse ispirarsi soltanto ai suoi sentimenti personali. Sacrificherebbe  il  legame che lega ancora i Principati alla Turchia, se questo sacrificio contribuisse a fondare qualcosa di solido e duraturo”.



49 Articolo già citato alla nota 41.



49bis Elena Ghika nacque a Bucarest nel 1828 da Michele Ghika, fratello di Alessandro, divenuto principe di Valacchia nel 1834. La perdita del trono da parte di Alessandro costrinse il fratello Michele Ghika ad andare in esilio con i figli, fra cui Elena. Nonostante la vita errabonda (si venne spostando a Vienna, Berlino, Dresda) la giovane Elena ebbe un’educazione accurata: appena quindicenne iniziò la traduzione dell’Iliade dal greco antico in romeno.

Nel 1849 sposò un ricco principe russo, Alessandro Koltzoff  Massaljk; per alcuni anni visse in Russia; in seguito girò per l’Europa, recandosi in Belgio, Svizzera, Grecia, Italia, dove Firenze e Venezia furono le sue residenze preferite. Visitò anche gli Stati Uniti d’America, occupandosi dei problemi del lavoro; avrebbe voluto recarsi in India, culla dei poemi sacri a lei cari, ma un’epidemia di colera la costrinse a rinunciare al progetto.

Ebbe molteplici interessi; oltre all’attività giornalistica dedicata all’attualità politica, per cui scelse lo pseudonimo Dora d’Istria, si occupò di scienza, letteratura, pittura, musica. Dedicò particolare attenzione ai problemi femminili (“Des femmes par une femme”, 1855; “Les femmes en Orient”, 1871) ed alla letteratura popolare (“La poesie des Ottomans. La nationalité roumaine  d’après les chants populaires”, 1859; “La nationalité serbe d’après les chants populaires”, 1866; “La nationalité albanaise d’après les chants populaires”, 1866). Non si limitò a raccogliere canti popolari per proporli come documenti del folklore, ma ne diede un’interpretazione utile alla conoscenza storica ; ed alla storia dedicò opere come « La nationalité hellenique d’après les historiens », 1880 ; « Il papato ed i Rumeni » ; “Gli eroi della Rumenia”, 1887.

Morì nel 1888. Su di essa cfr. l’ampio e documentato studio di Antonio D’Alessandri “Il pensiero e l’opera di Dora d’Istria fra Oriente europeo e Italia”. Roma, Gangemi editore 2007. Cfr. pure Merita Sauku-BruciElena Ghica a Girolamo De Rada. Lettere di una principessaTirana, Bargini editore 2004.



p. 155
49ter Cfr. A. D’Alessandri, op. cit. alla nota 49 bis, pp. 119-123, 133, 135 – 137, 139-141.



p. 157
50 Cfr. Carlo Santonocito “Il contributo della diplomazia e del governo piemontese alla causa dell’unità romenaConte editore, Napoli 1964.



p. 158
51Cavour e l’Inghilterra”, volume I, già citato alla nota 42 di questo capitolo, doc. 367.



52Cavour e l’Inghilterra”. Carteggio con V.E. d’Azeglio, volume II “I conflitti del 1856-1861”, tomo I, doc. 630Cavour a d’Azeglio, Torino 27 ottobre 1856.

“…noi non potremmo essere liberali in Occidente e dispotici in Oriente”.



p. 159
53 Ibidem, doc. 633 d’Azeglio a Cavour, 7 novembre 1856Park Lane.



54 Ibidem, doc. 637 - Cavour a d’AzeglioTorino 13 novembre 1856.



p. 161
55 P. Buonincontro, op. cit. alla nota 47 di questo capitolo, doc. 40 – Targioni a Carafa, Costantinopoli 21 maggio 1857.



p. 162
56 Ibidem, doc. 43 – Targioni a Carafa, Costantinopoli 11 giugno  1857.



57 Cfr. G. I. BratianuOrigines et formation de l’Unité roumaine”. Bucarest, Institut d’histoire universelle N. Iorga 1943capitolo IV « L’éveil de la nationalité roumaine”, pp. 193-228.



58 L. Thouvenel, op. cit. alla nota 48 di questo capitolo, pp. 134-136.



p. 163
59 Ibidem,  p. 138 nota 1- telegramma del Ministro degli Esteri a E. Thouvenel, Parigi 5 agosto 1857.



60 H. Temperly, op. cit. alla nota 32.



61 L. Thouvenel , op. cit. pp. 134-136; E. Thouvenel al duca di Gramont, ambasciatore di Francia a Torino, Costantinopoli 30 luglio 1857.   



p. 165
62 Per il testo dell’accordo di Osborne e le sue interpretazioni cfr. Alice M.C. CarterNew light on the Pacte of Osborne”. The Cambridge Historical Journal 1936, pp. 222-273.



63 Cfr. H. TemperlyMore light on Pacte of OsborneThe Cambridge Historical Journal 1937, pp.320-321.



64 Ibidem, p. 316.



p. 166
65 Cfr. A. M. C. Carter, articolo citato alla nota 62 di questo capitolo, p. 216.



66 Cfr. A. Oţetea “L’accord d’Osborne (9 août 1857)” – Revue roumaine d’ histoire, anno , fascicolo , 1964, pp. 677-696.



67 L. Thouvenel, op. cit. alla nota 48 di questo capitolo, pp. 147-155.



68 Ibidem, pp. 147-153.



p. 167
69 Ibidem pp. 208-210.



p. 168
70 Carteggio Cavour – d’Azeglio, volume tomo . “I conflitti diplomatici del 1856-1861”, già citato alla nota 52 di questo capitolo, doc. 739, d’Azeglio a Cavour, 12 agosto 1857 – 23 Park Lane.

“…comunque ultimamente  non si era vissuto nell’illusione che essi si sarebbero tolti il pane di bocca..”

“…ma gli Austriaci sono lividi per la delusione”.



71 P. Buonincontro, op. cit. doc. 62 Targioni a Carafa, Costantinopoli 7 ottobre 1857.



p. 169
72 G. BibescoRègne de Bibesco. Correspondances et documents (1843-1856) Roumanie”. Paris librairie Plon 1893, vol. II; pp. 473-477.



73 Ibidem, pp. 506-510.



p. 170
74 Nikita AdǎlinovicFormation de l’état national roumain” – Editions Meridien, Bucarest 1965, p. 45.



p. 171
75 “L’Univers. Histoire et description de tous les peuples. Provinces danubiennes et Roumanie. A. Ubicini Valachie, Moldavie, Bukovine, Transylvanie, Bessarabie ». Paris, Firmin Didot frères, editeurs 1856.

“Cosa importava al contadino schiacciato dalle imposte, allo zingaro schiavo, all’Ebreo oppresso e maledetto, al povero prete divorato dall’alto clero, che i boiari governassero al posto del principe Stourdza? Cosa giovavano loro anche le riforme chieste dai giovani liberali di Jassy, come la libertà di stampa, la responsabilità dei ministri? Queste cose non avevano senso per essi”.

“ E dopo ciò si renda il contadino proprietario. Non chiediamo di più. Dandogli la terra, gli avrete dato la patria. E’ un suo diritto, è il suo futuro”.



76 P. Buonincontro, op. cit. alla nota 47 di questo capitolo, doc.73; Targioni a Carafa, Costantinopoli 14 aprile 1858.



77 Ibidem, doc. 66, Verdinois a Carafa, Odessa 3 novembre 1857.



p. 173
77bis “La Valachie devant l’Europe par la princesse Aurélie Ghika” – Paris. E. Dentu libraireéditeur, 1858.

« Un sovrano che non parla la lingua dei suoi sudditi, che non prega allo stesso altare è un vantaggio solo per l’avvento del suo successore; fino ad allora costituisce un fenomeno transitorio che comprende un’intera vita umana” (p. 19).

“Chi sarà l’uomo giusto, devoto, integro, che il caso o la volontà delle Potenze darà alla Valacchia? Chi oserà accettare questo grande compito, questo incarico pericoloso, di ricostruire una nuova società con gli elementi del passato?” (p. 20).

“La Valacchia avrebbe accettato un cattivo principe nominato direttamente, affinché, come Pilato, essa se ne fosse potuta  lavare le mani; ma occorre che essa non si renda responsabile della sua rovina. Essa deve dimostrare all’Europa di meritare qualcosa di meglio dell’interesse dimostratole” (p. 61).



78 P. Buonincontro op. cit. alla nota 47 di questo capitolo, doc. 6, Targioni a Carafa, Costantinopoli maggio 1856.



p. 174
79 L. Thouvenel op. Cit  alla nota 48 di questo capitolo , pp. 218-220.



80 Ibidem, pp. 225-226; E. Thouvenel al duca di Gramont, ambasciatore a Torino, Costantinopoli gennaio 1858.



81 Ibidem, pp. 175-181; Benedetti, direttore generale Affari Politici a E.Thouvenel, Parigi 15 ottobre 1857.



82 P. Buonincontro, op. cit. alla nota 47 di questo capitolo,  doc. 69 – Raffaele Ulisse di Barbolani a Carafa, San Pietroburgo 15 dicembre 1857.



p. 175
83 ASDE, serie I, busta 94, fascicolo 20, parte II.



84 L. Thouvenel,  op. cit alla nota 48 di questo capitolo,  pp. 266-267.



85 Ibidem, pp.267-269Benedetti a E. Thouvenel, Parigi 4 giugno 1858; E. Thouvenel a Benedetti, Costantinopoli 9 giugno 1858.



p. 176
86 Ibidem pp. 269-270Benedetti a E. Thouvenel.



87 Cfr. N. BianchiStoria della diplomazia europea in Italia dall’anno 1814 all’anno 1861” – volume VII  (anni 1851-1858) – Società l’Unione tipografica editrice, Torino 1871; pp. 426-431.



88 Ibidem, pp. 646-647.



89 Archivio del Ministero Affari Esteri belgaLégationsRoumanieCorrespondances, volume, dispaccio 34 – luglio 1857.

Citazione tratta da Georghe Platon “Le diplomate E.B. Van Cuelobroeck dans les Principautés Roumaines” – Revue Roumaine d’Histoire, volume V, 1975, pp. 44-46.

“…propaganda a favore di un principe contraria ai nostri interessi, lusingando l’ambizione degli uni, promettendo il suo appoggio agli altri e distribuendo in anticipo favori ed impieghi”.



p. 177
90 Articolo di G. Platon citato alla nota 89, pp. 44-46.

“…senza riposososta frugando in tutti i punti del globo per cercare di scoprire un trono vacante dove sistemare uno dei loro principi disponibili”.



91 ASDE serie I, busta 94, fascicolo 20, parte I, doc. n.4.



p. 178
92 Ibidem, documento n. 6.



p. 179
93 Ibidem, documento n. 5.



p. 181
94 Per il testo del Trattato di Parigi del 1856 cfr.Major Peace Treaties of Modern History, 1648-1967”, pp.947-952, già citato alla nota 44 di questo capitolo.

Per il testo della Convenzione di Parigi del 1858 cfr. Nouveau recueil général de traités, conventions et autres transactions remarquables servant à la connaissance des relations étrangères des puissances et états dans leur rapports mutuelsContinuation du grand recueil de G.F. Martens par Charles Samwer” – serie I, tomo XVI, parte II. Gottingue, librairie de Dieterich 1860Krans reprint, NendelLiechtenstein 1975, pp. 50-61.

Sulle iniziative del Regno di Sardegna per l’unione di Moldavia e Valacchia cfr C. Santonocito, op. citata alla nota 50 di questo capitolo.



p. 182
95 Rivista contemporanea, volume XIV; lugliosettembre 1858. Rassegna politica di Giuseppe Massari. Torino, 31 agosto 1858, pp. 450-452.



96 Articoli poi ristampati in traduzione francese nel volumeExamen de la Convention du 19 août relative à l’organisation des Principautés Danubiennes” – Paris, E. Dentu libraire 1858, 6-18 novembre.

Tocca a noi, Romeni, fare il resto”.



p. 184
97 Boerescu, op. cit. alla nota 96 di questo capitolo, “…i nostri altari non sono mai stati macchiati dal sangue di un eretico”.



p. 185
98 L. Thouvenel, op. cit. alla nota 48 di questo capitolo,  pp. 293-294.



p. 186
99 Ibidem, pp. 295-297; E. Thouvenel a Benedetti, Costantinopoli 25 agosto 1858.



100 Ibidem, p. 297; Talleyrand a E. Thouvenel, Parigi 19 agosto 1858.



101 Ibidem, p. 289Grazie a Dio i bicefali non vivono a lungo”.



102 Ibidem, p. 298-301.



103 Ibidem, p. 301Benedetti a E. Thouvenel “I Principati hanno bisogno di un governo forte, onesto ed inflessibile”.



104 P. Buonincontro, op. cit. alla nota 47 di questo capitolo,  doc. 78.



p. 187
105 L. Thouvenel op. cit. alla nota 48 di questo capitolo, pp. 327-328.

“Uno di questi scopi è la speranza che altri problemi distolgano lo sguardo dall’Italia; il secondo è che, se l’Italia si sgretola, possa esserci un compenso sul Danubio”.



p. 189
106 Marcel EmeritTrois lettres inédites de Basile Alecsandri (1857)”. Revue historique du Sud-Est  Européen, n. 4-6, aprile-giugno 1928, pp. 139-144.

“No, no, cento volte no, e ciò per mille ed un motivo”.



p. 190
107 Sugli interventi del console austriaco Karl von Eder cfr. Dan BerindeiEmil Cojocanu “La double élection d’Alexandru Joan Cuza à la lumière de la correspondance diplomatique autrichienne”.

Revue Roumaine d’histoire, tomo V, n. 1, 1966, pp. 13-14.



108 Cfr. A. D. XenopolLes Roumains. Histoire, état materiel et intellectuel ». Paris, librairie Ch. Delagrave 1908, p. 85.



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