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Capitolo III
Ascesa e caduta del principe Cuza (1859-1869)
Sotto l’aspetto formale la doppia elezione di Cuza non era contraria alla Convenzione del 19 agosto 1858, che non contemplava e quindi non vietava espressamente l’elezione di una stessa persona ai due troni di Moldavia e Valacchia; ma, se non violava la lettera, sicuramente offendeva lo spirito della Convenzione stessa, poiché veniva a stabilirsi l’unione personale dei due Principati.
Ne era consapevole lo stesso principe neo eletto, il quale ammetteva scrivendo a Cavour nel maggio 1859: “I due Principati hanno più che mai bisogno dell’unione completa, definitiva. Non c’è dunque da farsi illusioni. Non ignoro che l’unione completa, quale il Paese la vuole, non è in tutto conforme alla Convenzione del 19 agosto 1858”.
Cuza distingueva poi tra due aspetti della Convenzione, il primo di carattere ideologico ispirato ad irrinunciabili principi liberali, l’altro di natura politica relativo all’opportunità di realizzare quegli ideali in quel momento storico particolarmente difficile per un popolo la cui coscienza civica era in corso di formazione: “ma in tale Convenzione vi sono due parti ben distinte: l’una che racchiude i principi liberali destinati ad essere la base della nostra riorganizzazione e che non vorremmo più abbandonare a nessun costo perché sono in tutto conformi alle idee della civiltà moderna; l’altra parte, piuttosto politica, non è forse ancora applicabile a un popolo che va trasformandosi e che ha soprattutto bisogno d’ordine e di calma nei momenti così difficili di una transizione”.
I Romeni sembravano aver realizzato la profezia di Massari (“…Moldavia e Valacchia si avvaleranno delle prerogative ad essi concedute come d’istrumento a raggiungere pienamente la meta dei loro desideri”),1 attenendosi all’esortazione di Vasile Boerescu (“c’est à nous, Roumains, à faire le reste”). 2
Immediate e veementi furono quindi le reazioni a questo che veniva giudicato un colpo di mano romeno da parte degli avversari all’unione dei Principati.
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Fra questi avversari c’era in prima fila l’Austria, che si trovava già in serie difficoltà in Italia, dove appariva imminente l’offensiva congiunta sardo-francese; Vienna non poteva quindi sostenere da sola un intervento militare nella zona danubiana e doveva limitare la sua azione a proteste diplomatiche, cercando alleanze; incontrava però difficoltà: il ministro degli Esteri russo Gorciakoff opponeva un netto rifiuto alla richiesta austriaca, come telegrafava a Cavour il marchese Oldoini, rappresentante sardo a San Pietroburgo. 3
Neanche la Porta, che pure era la più diretta interessata alle vicende dei Principati su cui continuava a mantenere la sua “suzeraineté” , cedette alle pressioni austriache che la spingevano ed intervenire con la forza; era comunque notevole il malumore del governo turco, che protestò in tutte le sedi.
L’ambasciatore britannico a Torino, sir James Hudson, era divertito per le smanie del suo omologo turco, Rustem bey, che gli sembrava “une âme en peine” ; faceto il commento di Cavour con Giuseppe Massari: “io non so chi sia il Cuza, ma veggo che il Turco è dolente di questa unione: suppongo che l’Austria lo sia del pari e quindi io sono contento”.4 Ma Cavour ovviamente non si limitava a fare ironiche battute sulle difficoltà politiche dell’Austria; sempre al fido Massari il conte dichiarava: “credo che l’Inghilterra vorrà pensarci bene prima di risolversi a recitare la parte di sbirro della Turchia” 5 e soggiungeva: “pare che sulla questione di Cuza l’Inghilterra non ammetta la legalità, ma si rassegna al fatto compiuto. A noi ci basta. Lord Malmesbury ha detto al marchese Emanuele d’Azeglio: “priez M. de Cavour de ne pas s’acharner sur la question de legalitè. Di certo appagherò questo voto”.6
Malgrado questa dichiarazione del ministro inglese all’ambasciatore sardo, Cavour, pur disinteressandosi degli aspetti formali della questione per andare diritto alla sostanza, affidò all’ufficio del contenzioso diplomatico il compito di valutare la legalità della duplice elezione di Cuza. Il parere dell’ufficio fu favorevole a Cuza e Massari si affrettò a darne copia al capo dell’opposizione di Sua Maestà britannica, Gladstone, di passaggio a Torino, 7 che aveva criticato Palmerston, capo del governo perché si ostinava a sostenere una Turchia decrepita, illudendosi che potesse ringiovanire.8
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L’atteggiamento favorevole del governo sardo verso la doppia elezione di Cuza non nasceva solo da uno slancio di simpatia per la causa romena, ma dipendeva anche dalla speranza di trarne giovamento per quella italiana, come Massari annotava nel suo diario; “Spero che a proposito del Cuza la nazione inglese non vorrà osteggiare i voti dei Rumeni. Sarà un precedente utile anche per noi, e l’opinione inglese migliorata in quella questione diventerà più favorevole a riguardo di quella italiana”. Osservava ancora il Massari che il comitato del contenzioso diplomatico aveva dichiarato legale la doppia elezione di Cuza esprimendosi all’unanimità, compreso il conte Sclopis, che non aveva certo fama di essere ultra liberale.9
Cavour, che veniva preparando la guerra contro l’Impero degli Asburgo, aveva guardato ai Romeni come a potenziali alleati contro l’Austria, comune nemico, ancor prima dell’elezione di Cuza.
Aveva difatti scritto il 17 dicembre 1858 a Costantino Nigra, che si trovava a Parigi: “J’ai longuement causé sur ce sujet avec Mr. Bratianu qui a traversé hier Turin en se rendant à Paris. Il m’a assuré que les Principautés sont prêtes à se lever en masse pour tendre la main aux Roumains du Banat, de la Bucovine et de la Transylvanie ». La sollecitazione romena avrebbe garantito alle spalle gli Ungheresi, consentendo loro di sferrare un attacco al cuore dell’Impero austriaco; e Cavour sperava addirittura in un effetto domino, per cui anche i serbi e forse i croati si sarebbero rivoltati contro Vienna.
Concludeva Cavour chiedendo a Nigra di parlare di questi piani con il principe Napoleone, cugino dell’imperatore francese, e di mettersi in contatto con Bratianu. 10
Altrettanto decisa era la posizione sarda nei confronti della Turchia. Il gran visir Fuad Pascià aveva telegrafato a Rustem bey di intervenire presso il governo di Torino perché si associasse alla protesta contro l’elezione di Cuza, giudicata una violazione della Convenzione. Fu poco incoraggiante la reazione di Cavour, come risulta dall’annotazione di Massari: “Il governo prima di rispondere piglia gli opportuni concerti con Parigi e frattanto ha dato istruzione al generale Durando di avversare l’intervento ottomano nei Principati”.11
Massari era però preoccupato per la possibilità di un’eccessiva intraprendenza di Cuza e del serbo Milosch contro la Turchia. Secondo le confidenze fattegli da un uomo politico romeno, Balatchanu, i due non chiedevano di meglio che attaccare i Turchi, Massari commentava così: “Dal linguaggio di Balatchanu rilevo che anche in Oriente si manipolano pasticci. Anche da questo lato è d’uopo dire: Iddio ci aiuti”.12
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L’ostilità austriaca verso Cuza si era manifestata subito dopo la sua elezione: con calcolata scortesia ed incurante di ogni norma protocollare, il console austriaco a Jassy, Oskar von Gödel Lannoy, non si congratulò con lui ed anzi lo accusò di aver violato la Convenzione del 19 agosto 1858. lo stesso console in precedenza aveva insistito per il rinvio dell’elezione, paventandone l’esito. Analoga richiesta per un rinvio di tre settimane aveva avanzato l’incaricato d’affari turco a San Pietroburgo, Hayder Effendi; ma Gorciakoff, che voleva mantenere saldo l’accordo con Parigi, rifiutò. Né ebbe sorte migliore la richiesta turca di rinvio presentata a Londra con l’appoggio austriaco, respinta da lord Malmesbury per il timore che il protrarsi dell’attesa avrebbe causato incertezze e disordini. Il capo del Foreign Office si mostrò comunque conciliante con l’ambasciatore austriaco, Apponyi, cui dichiarò che, in caso di una rivolta romena, andava sostenuto il governo turco.
Anche il rappresentante austriaco presso la Porta, l’internunzio Prokesh von Osten, contestò l’elezione di Cuza, scrivendo nel suo rapporto al ministro degli Esteri, conte Buol, il 7-19 gennaio 1859 che al principe mancavano i requisiti stabiliti dalla Convenzione: almeno 10 anni di servizio nell’amministrazione pubblica ed una rendita annua di 3000 ducati.
Nell’appoggiare la protesta turca l’Austria fu però attenta a non esporsi troppo. All’indomani dell’elezione di Cuza il gran visir aveva proposto all’internunzio di organizzare a Londra una Conferenza internazionale per risolvere il problema. Ma il conte Buol, convinto che la Conferenza sarebbe stata un fiasco diplomatico per l’Austria e la Turchia, sconsigliò alla Porta questa iniziativa e Prokesh von Osten fece presente al gran visir che era preferibile per la Turchia accettare spontaneamente il fatto compiuto, anziché farselo imporre dalle Potenze. Nel suo rapporto del 2 febbraio 1859 l’internunzio informava Buol del passo da lui compiuto e riferiva scandalizzato che Cuza aveva adottato per la sua elezione la formula “per grazia di Dio e volontà della nazione”, considerata dalla Porta segno di “insolente emancipazione” e di “infrazione al Trattato”.13
Le difficoltà per la Turchia provenivano soprattutto dal deciso appoggio dato a Cuza dalla Francia, con cui il principe ebbe sempre un rapporto privilegiato: aveva studiato a Parigi, come molti giovani romeni e, una volta eletto, affidò ad ufficiali francesi l’organizzazione dell’esercito e scelse come suo segretario un francese, Beligot de Beyne.14
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Cuza fu però molto legato anche all’Italia; era nato difatti da madre italiana, una Gozzadini di origine genovese, proveniente dalla comunità italiana di Costantinopoli ed in Italia aveva frequentato le università di Pavia e Bologna dopo aver studiato nella scuola militare di Parigi.
Si spiega quindi agevolmente il tono entusiasta, quasi un trionfale squillo di tromba con cui Victor Place, console francese a Jassy, annunziava all’ambasciatore presso la Porta, Thouvenel, l’avvenuta elezione di Cuza, il 25 gennaio 1859: “Sa nomination est un véritable coup de foudre pour les Autrichiens et pour les Turcs . C’est le triomphe le plus éclatant de la politique française”. Ma a tale successo avevano pure contribuito le missioni nelle capitali europee affidate ad abili rappresentanti Romeni: Vasile Alecsandri a Parigi, Londra, Torino; Ludovico Steege a Vienna e Berlino, Costache Negri a Costantinopoli.15
E Thouvenel, da Parigi dove momentaneamente si trovava, il 18 febbraio 1859 scriveva al reggente l’ambasciata di Costantinopoli, che Walewski riteneva ormai irreversibile la doppia elezione di Cuza, aggiungendo da parte sua che Moldavia e Valacchia “seront un embarras pour tout le monde, jusqu’au jour où l’on se décidera à les organiser sur la base sérieuse de l’union avec un prince étranger”.16
Un principe straniero : era questa la riserva che poteva offuscare l’affermazione di Cuza ; il giorno stesso della sua elezione l’assemblea moldava aveva approvato una mozione di Mihail Kogahiceanu (destinato a divenire il più fedele collaboratore del principe in qualità di primo ministro), che stabiliva per Cuza l’obbligo di abdicare quando sarebbe stato possibile scegliere un principe straniero: condizione che lo stesso Cuza si affrettò ad accettare.17
Sotto l’apparenza di un’elezione unanime si nascondeva inoltre la sorda opposizione dei boiardi a Cuza, ritenuto un “parvenu” nemico degli interessi della nobiltà: ostilità destinata a durare fino alla caduta del principe nel 1866; ma in quel momento queste erano solo ombre, che non potevano impedire l’accoglienza entusiasta riservata in Francia all’elezione di Cuza: già il 7 febbraio 1859 il “Moniteur” e il “Pays” notavano soddisfatti come la volontà dei Romeni fosse prevalsa sugli intrighi di alcune grandi Potenze; e sempre lo stesso giorno la “Patrie” affermava che il successo di Cuza era una conferma della politica francese nei paesi Danubiani.
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Inoltre, l’anonimo autore di un opuscolo intitolato “L’Autriche et le Prince Roumain” attaccava l’Austria, perché aveva sabotato la Convenzione anziché attuarla, tentando di manipolare le elezioni per il “divano ad hoc” di Moldavia. A questa manovra Napoleone III aveva reagito ed aveva dichiarato all’ambasciatore austriaco, in occasione del tradizionale ricevimento diplomatico in occasione del capodanno 1859, il proprio rincrescimento perché le relazioni austro-francesi non erano più così buone come una volta: parole che nel misurato linguaggio diplomatico suonavano quasi come una dichiarazione di guerra. La Francia, commentava l’autore dell’opuscolo, si era mostrata conciliante ed aveva accettato il compromesso di Osborne con l’Inghilterra, per cui aveva rinunciato alla completa unione moldo-valacca sotto un principe straniero: l’Austria, a torto, aveva scambiato per debolezza quella prova di responsabile moderazione. Ed il commento proseguiva con l’esaltazione del patriottismo dei Romeni, forse troppo idealizzati, poiché avevano messo da parte le rivalità eleggendo Cuza con un voto unanime. Il principe era definito un uomo liberale e moderato, messosi in luce con la sua protesta contro i brogli di Volgorides, consentendo così l’annullamento delle elezioni: a lui andava la fiducia del suo popolo e delle Potenze.
Era poi giudicata legale la doppia elezione: l’articolo 13 della Convenzione non la escludeva, in quanto stabiliva soltanto che il principe eletto fosse di nazionalità moldava o valacca (l’autore taceva con disinvoltura che doveva pure avere altri requisiti di cui Cuza era sfornito: almeno dieci anni di servizio nell’amministrazione pubblica ed una rendita annua non inferiore a 3000 ducati).
Inoltre, l’articolo 18 del Regolamento elettorale allegato alla Convenzione prescriveva che un deputato eletto in due collegi doveva optare per uno dei due, ma non prevedeva l’obbligo dell’opzione per il principe.
Non era quindi stata violata la Convenzione: Moldavia e Valacchia restavano divise e costituivano due diverse entità statali con due assemblee, due governi e due eserciti: erano quindi salvi sia lo spirito che la lettera della Convenzione. Ne derivava che la Porta doveva riconoscere l’elezione di Cuza; considerato anche che l’articolo 8 della Convenzione confermava gli antichi trattati in base ai quali era esclusa ogni ingerenza turca nell’elezione dei principi Romeni e l’articolo 12 stabiliva che tale riconoscimento doveva avvenire entro un mese dalla elezione.
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Negare il riconoscimento di Cuza, che aveva portato pace e concordia nel paese, sarebbe stato contrario agli interessi dell’Europa e pertanto era una richiesta avventuristica, oltre che priva di fondamento giuridico, quella di alcune Potenze che chiedevano l’annullamento della elezione: dopo la morte di Cuza si sarebbero potuti eleggere due principi, se i popoli di Moldavia e Valacchia l’avessero giudicato conforme ai loro interessi.
Le critiche dell’autore si allargavano poi all’intera politica orientale dell’Austria, mirante a creare, in caso di smembramento dell’Impero ottomano, province piccole e deboli, per poterle meglio sfruttare; la Francia invece voleva creare Stati nazionali, come era avvenuto in precedenza per la Grecia e per l’Egitto e come aspirava ora avvenisse per i Principati Danubiani. A riprova delle interessate prevaricazioni austriache erano ricordate la pretesa di monopolizzare la navigazione sul Danubio e l’arbitraria estensione della giurisdizione consolare a cittadini moldo-valacchi.
La requisitoria antiaustriaca proseguiva con l’accusa di aver seminato zizzania nei Principati, incitando i contadini contro i proprietari: manovra però fallita per il buon senso dei contadini e per l’illuminato disinteresse dimostrato dai proprietari terrieri (ancora una volta si dipingeva un quadro idilliaco ben lontano dalla realtà).
L’Austria, si ricordava infine, aveva incitato la Turchia ad un intervento armato: era però da presumersi che avrebbe fatto marcia indietro, come era avvenuto per la Serbia. Si trattava comunque di un folle tentativo di spostare sul Danubio la tempesta che stava per scoppiare in Italia: ma spingere alla guerra significava la rovina degli Asburgo.18
I giudizi lusinghieri espressi su Cuza nell’opuscolo erano propri anche del console francese in Moldavia, che a caldo, qualche giorno dopo l’elezione del principe, il 25 gennaio 1859, aveva scritto: “Il a du jugement, de la finesse, de la résolution et ces qualités bien employées peuvent en faire un bon hospodar”.19
Poco entusiasta, qualche tempo dopo, anche se alla fine riconosceva positiva l’elezione di Cuza, appariva invece un altro diplomatico francese, Talleyrand, già rappresentante della Francia nella Commissione internazionale d’inchiesta nei Principati; secondo quanto riferito da Massari nel suo diario, Talleyrand affermava che “Cuza deve la sua fortuna alla sua nullità, ma che fa bene”.20
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Ma, quali che fossero le valutazioni della personalità del neo-eletto principe, il problema di fondo per la Francia come per le altre Potenze era quello di trovare una soluzione all’intricato caso danubiano, evitando il ricorso alle armi, proprio nel momento in cui si approssimava la guerra in Italia. Giovò a tal fine la Conferenza internazionale auspicata dalla Porta per annullare la doppia elezione di Cuza e che invece fu promossa dalla Francia con opposte finalità: legittimare tale elezione trovando in qualche modo un compromesso fra le Potenze.
In vista di tale Conferenza Cavour ribadiva al generale ungherese Klapka ed al principe Napoleone che la doppia elezione di Cuza favoriva enormemente i piani di guerra in Italia contro l’Austria. Il 7 gennaio 1859 scriveva difatti a Klapka: “la double élection du colonel Cuza est un fait de la plus haute importance, elle nous assure l’appui des gouvernements de Moldavie et de Valachie”; e lo stesso giorno si rivolgeva così al principe Napoleone : “L’election du colonel Couza par l’Assemblée Valaque est un immense évènement. C’est le triomphe de la politique de la France et de la Sardaigne en Orient. Si la Turquie ne veut pas le reconnaitre et invoque l’appui de l’Autriche, il pourrait surgir une cause de rupture qui mettrait fin à toutes nos difficultés. J’espère que l’Empereur soutiendra la légitimité de l’élection qui n’est nullement contraire aux stipulation de la Convention de Paris ».21
Prima che l’ultimatum austriaco per il disarmo del Piemonte fornisse il “casus belli”, Cavour sperava di trovarlo nell’ostinazione austriaca a non riconoscere legittima l’elezione di Cuza. Ciò spiega l’insistenza dell’artefice della tela antiaustriaca nel richiedere al principe Napoleone che il governo francese riconoscesse subito legittima la duplice elezione di Cuza, senza neanche ricorrere ad una Conferenza internazionale, dall’esito imprevedibile: “J’ose appeler de nouveau l’attention de V. A. sur la convenance de ne pas laisser porter devant la Conférence de Paris la question des Principautés. Si la diplomatie s’en empare, nous sommes perdus”.22
Cavour cercava poi di guadagnare tempo, rinviando per quanto possibile la data della Conferenza, sperando così di eccitare l’impazienza austriaca; dava infatti queste istruzioni al
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marchese di Villamarina, ambasciatore a Parigi: “Admettre en principe la nécessité de la réunion de la Conférence, tâcher qu’elle ait lieu le plus tard possible; soutenir à outrance la nécessité de ne pas violenter un peuple que l’Europe a pris spontanément sous sa protection”.23
Le ripetute esortazioni di Cavour perché la Francia si affrettasse a riconoscere l’elezione di Cuza sembravano sottintendere una certa sfiducia nella volontà francese di sostenere la causa dei Principati.
Si affrettò quindi il principe Napoleone a rassicurare al riguardo Vittorio Emanuele II, cui scriveva in data 18 febbraio 1859 che Napoleone III era sempre favorevole a Cuza, malgrado le difficoltà fattegli da molti suoi collaboratori, quasi tutti contrari “à sa politique, à ses généreux, intelligents et nobles sentiments”.
Il principale oppositore era il conte Walewski, ministro degli Esteri.24
Sulla questione interveniva Costantino Nigra, delegato della Sardegna alla prossima Conferenza, che così esponeva la linea politica francese: “Pour ce qui concerne l’élection du Prince Couza, Walewski aura pour instruction d’en soutenir la légalité, mais faiblement. En revanche le Plénipotentiaire Français devra insister à toute outrance, par des raisons de haute convenance, d’opportunité, etc”.25
Napoleone III in effetti sembrava ormai conquistato definitivamente alla causa di Cuza; assicurava difatti a Nigra che ne avrebbe sostenuta l’elezione e che gli avrebbe pure inviato armi ed ufficiali istruttori.
Qualche giorno dopo Nigra scriveva a Cavour che sarebbe stata ottima cosa rimuovere Walewski; “ma – aggiungeva – finché rimane, e rimarrà per non so quanto ancora, bisogna aver pazienza e trattare con lui”.
E proseguiva, rassicurando così Cavour: “Le conferenze saranno rimandate quando più tardi si potrà. L’imperatore desidera che Cuza abbia prima agio di organizzare il suo governo. Sarà così più facile che le Potenze accettino il fatto compiuto”.26
Cavour tornava ancora sulle difficoltà causate da Walewski, tanto ostile da rifiutarsi addirittura di parlare con Nigra e Villamarina. S i asteneva però il conte dal sollecitare la
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sostituzione, per non urtare la suscettibilità di Napoleone III con queste ingerenze e consultava poi il fido Nigra sull’opportunità di conformarsi alla strategia francese, senza cioè sostenere ad oltranza in seno alla Conferenza la legalità dell’elezione di Cuza, che andava difesa più che altro per ragioni di opportunità.27
Con uno scatto di orgoglio Nigra replicava che era opportuno proporre la questione della legalità, perché non doveva apparire che la Sardegna fosse troppo appiattita sulle posizioni francesi.
La fierezza di tale dichiarazione era però attenuata dalla successiva affermazione che era legittimo fare proposte diverse da quelle francesi “sempreché, come nel caso presente, non vi sia pericolo di disgustare la nostra migliore alleata”.28
Restava incerta la posizione inglese, su cui circolavano voci contraddittorie. Secondo il poeta ed uomo politico Vasile Alecsandri, ministro degli Esteri moldavo, recatosi a Parigi e Londra per sostenere la causa di Cuza, il governo inglese si mostrava disposto a riconoscerne l’elezione. Secondo il delegato turco alla Conferenza, Mussurus, Londra invece riteneva contraria alla Convenzione del 1858 la doppia elezione e ne avrebbe quindi richiesto l’annullamento.
Nigra non sapeva a chi doversi credere 29, ma Cavour dissipava rapidamente questo dubbio, poiché a suo parere Mussurus mentiva affermando la contrarietà all’elezione di Cuza da parte di lord Malmesbury: questi infatti in due diverse occasioni aveva detto all’ambasciatore sardo a Londra, Vittorio Emanuele d’Azeglio, che avrebbe sostenuto Cuza; ed in tono lapidario Cavour concludeva: “Les anglais sont perfides, mai non menteurs”.30
E difatti la posizione inglese era favorevole a Cuza: contribuì a questo orientamento la missione svolta con abilità a Londra, Parigi a Torino da Alecsandri, che Nigra giudicava l’uomo politico più notevole in Moldavia, secondo solo a Cuza, raccomandando a Cavour di fargli una buona accoglienza a Torino.31
Alecsandri aveva soggiornato a più riprese in Italia; vi era già stato nel 1839 visitando Firenze, dove aveva trovato l’ispirazione per la sua prima opera in prosa “La fioraia di Firenze”; successivamente, nell’autunno del 1846 e nella primavera del 1847 si era recato a Venezia, Napoli e Palermo.
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Il nome di Alecsandri era già noto a Nigra che aveva sposato la figlia di Giovenale Vegezzi Ruscalla, lo studioso appassionato sostenitore della causa romena.
Nigra ed Alecsandri simpatizzarono subito, accomunati non solo dagli stessi interessi politici, ma anche da una analoga passione per la poesia popolare. Il viaggio di Alecsandri in Piemonte iniziava quindi sotto i migliori auspici. Vegezzi Ruscalla gli aveva scritto da Torino il 15 febbraio 1859: “Monsieur le Ministre, veuillez presenter mes félicitations à S.A. le Domnu Alexandru Jean. Je peux vous assurer qu’ici la double nomination a été entendue par les Piémontais avec beaucoup de plaisir et je crois aussi pouvoir Vous dire que le Gouvernement cherchera de la soutenir”. E proseguiva mettendosi a disposizione di Alecsandri per agevolare la sua missione diplomatica a Torino : « Mes relations personnelles me permettent de porter à la connaissance du Ministre directement et subitement toutes les communications que Vous voudrez me faire, tout comme si j’étais revetu d’une qualité officielle d’agent des Principautés ». 32
Dopo gli incontri di Parigi con Walewski e Napoleone III, che gli aveva promesso di appoggiare Cuza sul piano politico e militare, Alecsandri a Torino ebbe pure colloqui al più alto livello: si intese bene con Cavour, che gli promise di fornire le navi necessarie per trasportare a Galatz 10.000 fucili donati da Napoleone III e gli comunicò ufficialmente di aver nominato console ed agente diplomatico nel Principati Annibale Strambio, già presentatogli a Parigi da Villamarina e Nigra.33
La Marmora aveva già conosciuto Alecsandri durante la guerra di Crimea; e fu lieto di presentarlo a Vittorio Emanuele II. Il re manifestò grande simpatia per i Romeni, dicendo pure di essere pronto a riprendere la guerra contro l’Austria, anche per vendicare le sconfitte subite da Carlo Alberto nel 1848-49.
Frutto di questo soggiorno torinese fu la poesia “Il Pilota”, dedicata a Cavour da Alecsandri; tornato in Italia dopo pochi mesi per seguire le vicende della guerra franco-piemontese contro l’Austria, il poeta compose altre opere ispirate da quella guerra (“A Palestro”, “A Magenta”, “A Solferino”, “Il Bersagliere morente”).
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La Conferenza sui Principati, a lungo rinviata ad opera di Napoleone III e di Cavour, alla fine si riunì, quando apparve almeno in parte superata la riluttanza inglese a riconoscere Cuza legittimo sovrano della Moldavia e della Valacchia. La Conferenza ebbe inizio nell’aprile 1859 ed ancora una volta si tenne nella capitale francese. L’ambasciatore Villamarina inviò a Cavour una lettera confidenziale il 9 aprile 1858, per informarlo del buon esito delle trattative francesi con l’Inghilterra e la Russia per cui si era quasi raggiunto un compromesso per impedire nuove infrazioni alla lettera ed allo spirito del Trattato del 1856 e della Convenzione del 1858.34
Si era formata una maggioranza a cinque, con Inghilterra, Francia, Russia, Prussia e Sardegna favorevoli a Cuza, cui si opponeva la Turchia, ormai isolata, poiché l’Austria si era astenuta. Raggiunta l’intesa, la Conferenza fu rinviata a data da stabilirsi 35 e seguì un lungo rinvio, essendo il 26 aprile 1859 scoppiata la guerra condotta in Italia da Francia e Sardegna contro l’Austria, poi interrotta l’11 luglio dello stesso anno dai preliminari di pace firmati a Villafranca.
Accortamente Napoleone III aveva cercato, in vista della guerra contro l’Austria ormai imminente, di assicurarsi ad Oriente l’appoggio o quantomeno la neutralità della Russia; questa nell’autunno del 1858 era ancora incerta sull’atteggiamento da mantenere e l’imperatore francese inviò quindi a Varsavia nel settembre di quell’anno suo cugino, il principe Napoleone, per proporre un’alleanza franco-russa.
Seguì nel novembre 1858 un’altra missione affidata al capitano La Roncière le Noury, latore di due diverse proposte: la prima prevedeva l’impegno per la Russia di mantenersi neutrale e di schierare 150.000 uomini al confine con l’Austria; in cambio Napoleone III avrebbe favorito la revisione del Trattato di Parigi per eliminare le clausole svantaggiose per la Russia. La seconda proposta (da mantenere segreta) chiedeva l’adesione russa agli accordi franco-piemontesi di Plombières e l’indipendenza dell’Ungheria; in questo caso si prometteva alla Russia la Galizia austriaca e l’abolizione delle restrizioni imposte dal Trattato di Parigi alla flotta russa nel Mar Nero.
Lo zar non era però disposto alla formazione di una Ungheria indipendente, temendone le ripercussioni in Polonia, Moldavia e Valacchia; inoltre non era interessato all’acquisto della Galizia, ma solo alla revisione del Trattato di Parigi.
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Non ci fu quindi un’alleanza offensiva franco-russa contro l’Austria; il Trattato del 3 marzo 1859 stabilì la neutralità della Russia, chiaramente favorevole alla Francia e minacciosa per l’Austria; il governo zarista non si sarebbe opposto agli ingrandimenti in Italia per il Regno di Sardegna, come stabilito a Plombières, pur se non condivideva il piano di Cavour per una rivolta generale delle nazionalità contro l’Austria. In previsione di una reazione inglese, la Russia rinunciò ad occupare la Moldavia con le truppe schierate alla frontiera austriaca.
L’Austria venne pertanto a trovarsi in una difficile situazione, stretta nella morsa dei franco-piemontesi ad ovest e della Russia ad est; volendo rompere l’accordo fra la Russia e la Francia, il governo di Vienna inviò un esperto diplomatico, il conte Alojos Karolyi a San Pietroburgo, offrendo in cambio di una diversa posizione russa non solo il sostegno politico per rivedere il Trattato di Parigi, ma anche il consenso per l’occupazione dei Principati Danubiani.
Ma il governo zarista non accettò, preferendo mantenere l’accordo con la Francia; era infatti un dono avvelenato il consenso austriaco all’occupazione russa della Moldavia e della Valacchia, poiché avrebbe suscitato violente reazioni da parte dell’intera Europa.
Con sottile perfidia Gorciakoff rivelò all’ambasciatore francese Montebello le proposte dell’Austria e Napoleone III si affrettò a divulgarle, destando così l’indignazione del governo inglese e di quello turco, i cui interessi sarebbero stati lesi da una presenza russa nei Principati Danubiani, oltretutto ancora soggetti alla Porta, per cui l’Austria scorrettamente prometteva ciò che non era suo.35bis
Finite le ostilità, la Conferenza riprese i suoi lavori per definire la situazione dei Principati ed il 28 agosto 1859 Giuseppe Dabormida, Ministro degli Esteri nel governo La Marmora, successo al Cavour dimessosi perché furente per l’armistizio di Villafranca, informava il marchese di Villamarina del passo effettuato da Rustem bey, incaricato d’affari turco a Torino, per accertare quale fosse la posizione piemontese riguardo al compromesso raggiunto in aprile dalla Conferenza di Parigi sui Principati. Il diplomatico turco chiedeva pure che Villamarina, oltre a consultarsi con Walewski, prendesse pure contatto con l’ambasciatore turco a Parigi e delegato alla Conferenza, Mussurus. Cautamente Dabormida aveva risposto a Rustem bey che il problema non riguardava solo il Regno di Sardegna; occorreva quindi una
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risposta collettiva delle cinque Potenze che avevano raggiunto quell’accordo: era pertanto prematuro discuterne, né poteva inviare a Villamarina istruzioni prima di aver consultato gli altri governi. Ma nel frattempo Villamarina veniva informato che il governo di Torino era sempre favorevole all’accordo di aprile, confermato anche dalle altre Potenze, senza fare altre concessioni alla Turchia.36
Pochi giorni dopo, il 6 settembre 1859, si svolse a Parigi la seduta conclusiva della Conferenza e Cuza fu riconosciuto all’unanimità, “les représentants de l’Autriche et de la Turquie ayant donné leur pleine et entière adhésion an compromis proposé par les autres Plénipotentiaires”, come scriveva Villamarina a Dabormida.37
In base a tale compromesso la Porta riconosceva in via eccezionale e per una sola volta la doppia elezione di uno stesso principe; questo riconoscimento sarebbe stato effettuato con due distinti firmani, per sottolineare che la Moldavia e Valacchia, pur avendo lo stesso sovrano, restavano due Stati separati ed a sé stanti. Dopo Cuza si sarebbero avuti due diversi ospodari, secondo i principi della Convenzione del 19 agosto 1858.
Il viaggio di Cuza a Costantinopoli nell’ottobre 1861 per ricevere l’investitura da parte del sultano confermò questo accordo.
Regolata così la questione dei Principati, Dabormida nominò console ed agente diplomatico a Bucarest Annibale Strambio, nipote del delegato sardo nella Commissione internazionale d’inchiesta, Benzi, già designato da Cavour e che ottenne subito il gradimento romeno.
Dimostrando grande sollecitudine, pochi giorni dopo la proclamazione del Regno d’Italia, avvenuta con la legge del 17 marzo 1861, Cuza inviò a Vittorio Emanuele II una lettera personale per congratularsi.38
Ma i contatti fra il governo di Torino ed i Principati in quegli anni cruciali non avevano avuto l’unico obiettivo di un’azione diplomatica per ottenere il riconoscimento di Cuza. Cavour aveva difatti perseguito tenacemente il disegno di aprire nella regione danubiana un secondo fronte contro l’Austria, oltre a quello in Italia; a tale scopo fin dal settembre 1858 aveva mantenuto continui rapporti con gli esuli ungheresi, alcuni dei quali militavano nell’esercito piemontese (fra questi era Türr, che nel 1860 fu con Garibaldi in Sicilia).
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Il piano di Cavour prevedeva anche il coinvolgimento dei Romeni nel fronte antiaustriaco, per cui il generale ungherese Klapka , uno dei capi degli esuli, fu inviato nel marzo 1859 a Jassy, allo scopo di convincere Cuza a schierarsi contro l’Austria. Napoleone III si mostrava poco convinto da tale piano di Cavour ed era quindi riluttante ad appoggiarlo; tuttavia il console francese a Jassy, Victor Place, si adoperò per raggiungere un accordo, firmato da Klapka e Teleki per la parte ungherese, che prevedeva di stabilire in Moldavia, al confine con la Transilvania, le basi operative necessarie per un attacco all’Austria, fornendo 25.000 fucili agli insorti Ungheresi. Klapka e Teleki promisero in cambio a Cuza di appoggiarlo per ottenere la Bukovina, regione popolata da Romeni, anche se appartenente all’Austria.
Il principe moldavo si fidò poco di tali promesse ed inoltre avrebbe voluto estendere alla Transilvania le sue rivendicazioni. Pertanto l’accordo fallì, secondo quanto scriveva Cuza il 2 maggio 1859 all’ambasciatore sardo presso la Porta, Durando, anche se lo scoppio della guerra in Italia, avvenuto in aprile, avrebbe dovuto favorire l’intesa romeno-magiara contro l’Austria.
Nondimeno le trattative fra Cuza ed i fuorusciti Ungheresi continuarono e il 20 maggio 1859 si arrivò ad un nuovo accordo, pur esso raggiunto grazie alla mediazione del console francese Place: gli Ungheresi assicurarono che la Costituzione da redigere dopo la guerra avrebbe garantito pari diritti a tutti gli abitanti della Transilvania, prevedendo l’autonomia amministrativa su base provinciale, l’uso della lingua serba e di quella romena oltre che dell’ungherese, reparti militari autonomi formati da Serbi e Romeni, l’assoluta libertà in campo scolastico e religioso.
Erano promesse generose, di cui però Cuza poco si fidava; la diffidenza del resto era ricambiata da parte ungherese.
A complicare ancor più i rapporti fra Romeni ed Ungheresi sopravvenne il viaggio di Demetrio Bratianu, ministro degli Esteri della Valacchia e fervente mazziniano, a Torino e Parigi per sostenere la necessità dell’unione della Transilvania ai Principati. La richiesta destò l’ira di Cavour, poiché pregiudicava la possibilità di aprire un fronte danubiano contro l’Austria; il conte arrivò a minacciare il ritiro del suo sostegno alla causa romena se non si fosse stabilito un effettivo accordo fra Cuza e gli esuli ungheresi.
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Il Trattato di Villafranca, sopraggiunto dopo qualche mese, pose fine, almeno per il momento, ai tentativi di un accordo fra Romeni e Magiari contro l’Austria.
Nel ricostruire questi avvenimenti uno storico romeno, W. A. Ureche, ha presentato le richieste romene relative alla Transilvania meno radicali ed ha sostenuto che l’armistizio di Villafranca non pose fine ai tentativi italiani e francesi per un’azione congiunta ungherese e romena contro l’Austria, ancora caldeggiata presso Cuza nel 1861 dal console italiano Strambio, da quello francese Place e da un inviato speciale di Napoleone III, il visconte Olivier de Lalande, arrivato col pretesto ufficiale di compiere ricerche su giacimenti di nafta: copertura credibile in quanto era ingegnere minerario.
La continuazione di questi tentativi antiaustriaci trova conferma nella sfortunata spedizione di armi arrivate da Genova a Galatz nel dicembre 1860 sulle navi “Unione” e “Matilde”.
Il carico fu intercettato e l’Austria protestò con due note presentate al presidente del governo moldo-valacco, Kogalniceanu il 3 e l’8 dicembre 1860; intervenne pure l’ambasciatore inglese presso la Porta, sir Henry Bulwer, e le armi furono rimandate a Genova su navi Inglesi.
Questo mortificante fallimento non impedì a Cavour di adoperarsi fino agli ultimi giorni della sua vita per un’azione di Cuza contro l’Austria. Il 21 febbraio 1861 informava difatti il conte Ottaviano Vimercati, addetto militare presso l’ambasciata a Parigi ed incaricato di missioni speciali presso Napoleone III, che il generale Klapka (definito “le plus raisonnable et le plus distingué des chefs de l’émigration hongroise”) aveva stipulato il 9 gennaio 1861 (poco dopo cioè il sequestro delle armi inviate da Genova con le navi “Unione” e “Matilde”) un accordo per un altro invio di armi italiane, che dovevano però figurare di provenienza francese: occorreva quindi che il governo di Parigi sostenesse questa tesi, anche in mancanza di una sua effettiva partecipazione all’impresa.
Senza questo coinvolgimento della Francia, Cavour non intendeva agire: coinvolgimento però reso difficile dall’atteggiamento ostile del console francese a Bucarest, Tillot, che Klapka avrebbe voluto fosse sostituito dal console a Jassy, Place, favorevole invece all’iniziativa. Lamentava Klapka che proprio per l’ostilità di Tillot Cuza aveva respinto l’accordo con gli Ungheresi, che prevedeva la parità dei diritti per i Romeni della Transilvania, l’appoggio alle aspirazioni ad una piena indipendenza e l’eventuale annessione della Bucovina ai Principati.
Nella sua risposta a Cavour Vimercati comunicava il 21 febbraio 1861 che Napoleone III appariva scettico sull’accordo fra Cuza e Klapka, esitando quindi ad impegnarsi, anche per il timore di un intervento russo.
L’imperatore non si era pronunciato sulla sostituzione a Bucarest del console Tillot con Place, ma non sembrava alieno da tale idea, sostenuta dal ministro degli Esteri, Thouvenel, ben disposto verso gli Ungheresi, ma non verso i Romeni: “il se méfie et déteste cordialement le prince Cuza et tous les moldo-valaques qu’il regarde comme une race abjecte et dégénérée”, scriveva Vimercati nel suo rapporto.
Ma la sostituzione di Tillot non ci fu, l’accordo Klapka-Cuza rimase sulla carta, dato che non solo Napoleone III, ma lo stesso principe romeno dimostrava freddezza al riguardo, poiché l’Austria aveva assunto un atteggiamento più morbido: aveva riconosciuto ormai la duplice elezione di Cuza ed il conte Ludorf, ambasciatore austriaco presso la Porta, si mostrava ben disposto verso i Principati.
Inoltre all’inizio del 1861 circolavano voci, preoccupanti per Cuza, circa la cessione del Veneto all’Italia, compensando l’Austria con i Principati. Si doleva pure Cuza della inattività degli Ungheresi in Transilvania, giudicando che fossero appagati dalle concessioni austriache, anche se Kossuth le riteneva insufficienti. Il principe era inoltre allarmato dal silenzio dei capi dell’emigrazione magiara sulle garanzie per i Romeni in Transilvania, promesse da Klapka. In definitiva gli accordi raggiunti col generale ungherese erano ormai lettera morta, come riconosceva in una sua lettera del 28 marzo 1861 all’inviato speciale di Napoleone III, Ollivier de Lalande, pure uno degli artefici di tali accordi, il console Victor Place.39
Il dato di fatto essenziale per il fallimento dei piani antiaustriaci restava comunque che esso rimase sempre nel limbo delle buone intenzioni, quali che fossero le rispettive responsabilità degli Ungheresi e dei Romeni.
Non furono comunque accantonati definitivamente da parte italiana i tentativi di mobilitare contro l’Austria Ungheresi e Romeni, ripresi dopo qualche tempo.
Ma muovere contro l’Austria non era certo una priorità per Cuza: doveva infatti consolidare la sua posizione, completare l’unione fra Moldavia e Valacchia, appianare le persistenti difficoltà con la Porta; Villamarina, forse con ottimismo eccessivo, aveva asserito che la
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Turchia aveva dato una “pleine et entière adhésion” all’accordo raggiunto dalla Conferenza di Parigi del 1859; ma il governo turco non era disposto a fare ulteriori concessioni ai Principati.
Occorreva quindi mantenere buoni rapporti con la Turchia ed attaccare l’Austria non era certo il mezzo più adatto per conseguire tale obiettivo.
Rappresentò un passo notevole sulla via dell’unione dei Principati la mozione presentata l’ 8 aprile 1861 alla Camera moldava da un gruppo di deputati, che proponevano una riunione congiunta delle assemblee parlamentari di Moldavia e Valacchia per discutere la questione agraria e rivolgevano un appello in tal senso a Cuza. A favore della proposta si schierò Kogalniceanu, mentre si dissero contrari Grigor Balsh e Grigor Sturdza, affermando in una loro mozione che una riunione congiunta delle Camere era contraria alla Convenzione del 1858 ed avrebbe quindi creato difficoltà con le Potenze ed addirittura messo a rischio l’esistenza stessa del Paese. La mozione Balsh fu respinta con 15 voti a favore, 33 contrari, 4 astenuti, mentre passò invece quella favorevole alla riunione congiunta (34 si, 16 no, 2 astensioni).40
La proposta di una riunione comune delle Camere era audace: andava oltre la Convenzione e metteva all’ordine del giorno una questione difficile e controversa come quella agraria.
La risposta di Cuza all’appello rivoltogli fu quindi cauta.41
Strambio seguiva attentamente la situazione, informando con assiduità Torino.
Il 22 aprile 1861 comunicava a Cavour che era imminente alla Camera valacca la discussione sulla proposta moldava per una seduta comune; il console si diceva sicuro dell’approvazione della proposta e prevedeva che dopo il voto Cuza avrebbe comunicato alla Commissione di Focsani la concorde volontà delle due assemblee, la cui seduta comune non era vietata dalla Convenzione.
Secondo le previsioni di Strambio la seduta congiunta delle due Camere non sarebbe stata un fatto occasionale ed episodico; sarebbe stata proclamata “l’unione perpetua e definitiva dei due Principati” e preparata una nuova legge elettorale per un’unica assemblea che avrebbe discusso la legge agraria e gli altri problemi più importanti. Anche le Potenze, secondo Strambio, si muovevano nella stessa direzione e forse, ancor prima dell’approvazione della nuova legge elettorale, si sarebbero messe d’accordo per riformare la Convenzione di Parigi
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del 1858 e riconoscere la completa unione moldo-valacca. In previsione dell’imminenza di tale accordo fra le Potenze, l’ambasciatore francese a Costantinopoli aveva chiesto a Cuza di ritardare di almeno 15 giorni le decisioni parlamentari.42
Ma le decisioni della Camera valacca erano ormai indifferibili: già il 26 aprile 1861 era stata approvata all’unanimità la mozione di 47 deputati favorevoli ad accogliere la proposta della Camera moldava, lasciando però al principe il compito di fissare la data per la seduta congiunta. Restava però aperta la questione se si dovesse arrivare ad una fusione definitiva delle due assemblee.
Il 28 aprile iniziavano le vacanze pasquali: per evitare un’interruzione dei lavori la Camera valacca decise di restare in seduta permanente; Strambio prevedeva che con voto unanime o quasi si sarebbe decisa la creazione di un’unica assemblea. Anche Cuza appariva ottimista, ritenendo che la Porta non avrebbe impedito l’unione moldo-valacca, ed aveva perciò iniziato le consultazioni per la formazione di un unico governo.43
Ma i progetti di Cuza subirono una battuta d’arresto a causa dell’instabilità politica: Manuel Costaci fu costretto a dimettersi dalla presidenza del governo perché incriminato per l’accusa di aver sciolto arbitrariamente la precedente assemblea e Cuza nominò un governo provvisorio formato da tecnici; ritenendolo però poco rappresentativo diede poi l’incarico al conservatore Barbu Catargi.
Questi, entrato in conflitto con Cuza che non condivideva il programma, fu a sua volta costretto a dimettersi; gli subentrò il liberale Stefan Golescu, il cui governo ebbe pure vita breve e stentata, urtandosi con la maggioranza conservatrice dell’assemblea, tanto che presto cominciarono a circolare voci delle sue imminenti dimissioni, smentite da Strambio. Il console manifestava comunque pessimismo sulla governabilità del paese,; se non si fosse realizzata entro breve tempo l’unione, riteneva che Cuza non avrebbe potuto rispettare la legalità e concludeva: “fuori di essa il pericolo ed il danno sarebbero maggiori, perché il Principe non credo abbia quel coraggio e quella virtù che occorrerebbero, con incontrastata autorità morale e larga popolarità, per tentare e far riuscire a buon fine un colpo di stato”.44
Le dimissioni di Golescu, erroneamente comunicate nel maggio 1861 da Strambio, si verificarono realmente nel luglio dello stesso anno, avendo la maggioranza conservatrice del Parlamento dato un voto di sfiducia.
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Dopo le vacanze estive Cuza voleva confermare Golescu e sembrava deciso a proclamare unilateralmente l’unione moldo-valacca se le Potenze non l’avessero fatto prima della ripresa autunnale dei lavori parlamentari;45 Strambio da parte sua sembrava approvare tale proposito, dicendosi convinto che l’unione della Moldavia e della Valacchia doveva realizzarsi entro il corrente anno 1861, con o senza l’assenso delle Potenze.46
Agli agenti diplomatici stranieri il principe confermava questo proposito di proclamare di propria iniziativa l’unità dei Principati, poiché la situazione era ormai insostenibile e tutto il popolo aspirava alla formazione di un unico Stato. Strambio giudicava “ben sincere e ferme” le risoluzioni di Cuza, le condizioni materiali e morali del paese non consentendo “più lunga mora”.
A conferma di tale giudizio il console citava l’opuscolo di un giovane giornalista, Radu Ionescu, scritto per incarico del governo, dal titolo “Le Prince Alexandre Jean 1er et l’union complète des Principautés”, che rivelava l’intenzione del principe di proclamare l’unione dei Principati all’apertura della sessione parlamentare, fissata per il 15 dicembre 1861. La posizione di Cuza era stata rafforzata dal parere favorevole all’unione espresso dalla Commissione di coordinamento tra i due Principati che aveva sede a Focsani: secondo il principe il sentimento unitario era divenuto “la religione politica del paese”. Cuza si diceva pure fiducioso nel buon esito delle trattative tra la Porta e le Potenze garanti, delle cui “simpatie generose” per i Principati si diceva sicuro.
Si era nel frattempo avviata nei fatti l’unione, disponendo la formazione di reparti misti di militari moldavi e valacchi. Cuza si diceva pronto a realizzare l’unità anche senza il consenso delle Potenze, ma realisticamente preferiva ottenerlo, piuttosto che trovarsi isolato ad affrontare uno scontro con l’Europa, disastroso per i Principati.
Per contro il partito democratico mirava ad un fallimento delle trattative diplomatiche in corso in modo che l’unione fosse il frutto esclusivamente di un’iniziativa romena, senza interventi stranieri. Questo sentimento di orgoglio nazionale, osservava Strambio, era condiviso dagli altri partiti: non era manifestato chiaramente perché si era consapevoli dell’esiguità delle forze romene.
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L’ambizioso proposito di fare tutto da sé si manifestava comunque con i rimproveri fatti a Cuza di non aver “saputo o avuto il coraggio di profittare di eccellenti occasioni che ebbe in passato di compiere l’unione senza soverchio timore di militari interventi stranieri”.47
Per Strambio però l’unione dei due Principati non poteva essere un miracoloso toccasana, che ponesse di colpo fine al diffuso malcostume politico; ad ogni modo ci sarebbe stato un miglioramento e si sarebbe consolidato il potere del principe e del governo; ma in definitiva era tinta di scetticismo la conclusione del console: “alla peggio vi sarebbe sempre questo guadagno, che in luogo di due cattivi governi non ve ne sarebbe più che un solo”.48
Nubi minacciose si erano venute addensando sui Principati: il governo inglese aveva messo in guardia Cuza contro il pericolo di un’invasione turca se avesse proclamato l’unione o anche nel caso ci fosse stata una seduta congiunta delle due Camere; analogo avvertimento sembrava aver dato la Francia.
Cuza si trovava chiuso nella morsa di esigenze contrastanti: da una parte la necessità di evitare le ostilità con la Turchia, dall’altra quella di dare soddisfazione alle pressanti richieste di unità provenienti dal Paese.
Il governo valacco aveva minacciato le dimissioni se non si fosse tenuta la riunione comune delle due assemblee; dimissioni scongiurate dall’intervento degli agenti diplomatici di Francia ed Inghilterra, cui si era associato il rappresentante russo, Girs.
Ma il temuto scontro con la Turchia fu evitato grazie al lavorio diplomatico del governo romeno a Berlino e San Pietroburgo e soprattutto a Costantinopoli, dove l’agente di Romania, Costache Negri, agì con abilità incontrando i rappresentanti presso la Porta delle varie Potenze e spinse ad organizzare nella capitale turca una Conferenza conclusosi il 25 settembre 1861 con il riconoscimento della completa unificazione dei Principati, cui seguì in ottobre il viaggio di Cuza a Costantinopoli.48bis
Cuza si era recato a Costantinopoli per definire con la Porta il riconoscimento dell’unione, che però tardava a venire; per far fronte alla difficile situazione prendeva tempo, confortato anche dalla notizia provenuta da Costantinopoli all’agente diplomatico austriaco nei Principati che era imminente l’emanazione del firmano da parte del sultano Abdel Aziz per l’unione di Moldavia e Valacchia. Prudentemente si era quindi deciso di rinunciare per il momento ad una seduta comune delle Camere, convocandole separatamente per la data già fissata del 15 dicembre 1861.
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La difficoltà della situazione era confermata dall’incontrollato proliferare degli aspiranti a succedere a Cuza, di cui si riteneva imminente la caduta: erano ben 15 nella sola Valacchia.49 Per buona sorte, proprio in extremis arrivò il tanto atteso firmano, che il Sultano emanò il 14 dicembre 1861, accogliendo in sostanza le richieste romene, anche se limitatamente al periodo del Regno di Cuza.
Le Potenze garanti avevano contribuito alla formulazione del firmano e l’accettarono quindi senza difficoltà; espressero invece il loro disaccordo sulla nota di accompagnamento della Porta che proponeva in caso di vacanza del trono dei Principati l’invio di un commissario turco per regolare la successione con l’assistenza di delegati delle Potenze.
L’articolo 1 del firmano stabiliva l’esistenza di un solo governo per entrambi i Principati; la fusione delle due assemblee in una sola, presieduta a turno dal metropolita di Valacchia e da quello di Moldavia, era prevista dall’art. 2.
A seguito della formazione di un solo governo e di una sola Camera diveniva inutile la Commissione di coordinamento di Focsani; l’art. 3 stabiliva quindi la sua sospensione, finché regnando Cuza, fosse esistito il nuovo assetto costituzionale unitario, la Commissione sarebbe stata sostituita in seguito da una Camera alta, da chiamarsi Senato o in altro modo.
Restavano immutate le frontiere tra Moldavia e Valacchia (art. 4) ed i problemi particolari di ognuno dei due Principati sarebbero stati di competenza di un’assemblea regionale da costituirsi in ognuno dei due territori (art. 5).
Il limite di tali concessioni stava nel fatto che esse sarebbero state valide soltanto durante il Regno di Cuza; in seguito sarebbe tornata in vigore la Costituzione fissata dalla Convenzione del 19 agosto 1858.50
Come aveva previsto Strambio, le difficoltà non cessarono con l’unione stabilita dal firmano, su cui si stese un equivoco velo di silenzio. Ne vennero a conoscenza solo attraverso la stampa gli stessi ministri e gli agenti diplomatici stranieri, nell’assenza di una comunicazione ufficiale.
“I Rumeni o perché naturalmente indolenti o perché stancati da una lunga aspettazione,o perché rimasti insoddisfatti dell’origine, della forma o di alcune clausole dell’atto che loro
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accorda l’invocata unione, ne accolsero la notizia con freddezza ed indifferenza..”, scriveva Strambio nel suo rapporto del 16 dicembre 1861, aggiungendo che forse in seguito ci sarebbero state dimostrazioni “di fittizio entusiasmo”.51
Cuza proseguiva la sua politica attendista e rinviava la proclamazione dell’unione, destando così il sospetto dell’assemblea valacca, in cui i conservatori detenevano ancora la maggioranza, che l’indugio del principe celasse la volontà di sciogliere le due assemblee e di formare un governo a guida liberale per gestire l’elezione dell’assemblea unica dei due Principati.
Non mancarono neanche timori di un ritorno di fiamma dei separatisti moldavi, contrari alla perdita del ruolo di capitale per Jassy. Timori ritenuti però infondati dal console italiano: i deputati moldavi si erano troppo esposti nel chiedere l’unione e non potevano perciò ora rinnegare la loro posizione; maggior fondamento, secondo Strambio, aveva la possibilità che l’assemblea moldava, in maggioranza ostile a Cuza, gli creasse difficoltà avanzando la richiesta di un principe straniero.52
Inoltre restavano da approvare i bilanci per il 1862, ma le Camere sembravano propense a concedere al governo solo l’esercizio provvisorio, in attesa che fosse proclamata l’unione, e la richiesta di Cuza di approvare invece il bilancio per l’intero anno induceva a sospettare che il principe volesse prendere ancora tempo prima di proclamare l’unione.53
Gli agenti stranieri accreditati a Jassy per spronare Cuza ad agire rapidamente senza indugiare oltre a proclamare l’unione, sì da dissipare malumori ed incertezze, presentarono delle note. L’Italia non aveva un suo rappresentante in Moldavia e fu l’agente francese, Place, a presentare una nota anche a nome del console Strambio. Questi osservava che sarebbe stato opportuno far presente alla Porta il gradimento delle Potenze garanti per il nuovo assetto costituzionale stabilito dal firmano per la Moldavia e la Valacchia.
Se questo assetto avesse dato buona prova, avrebbe dovuto avere un carattere permanente e non essere destinato a finire con il periodo del Regno di Cuza. Questa provvisorietà era causa di un diffuso malcontento; lo avrebbe eliminato la presa di posizione delle Potenze garanti, disposte a rendere definitive le nuove norme costituzionali.54
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Il lungo tergiversare di Cuza ebbe fine quando si decise a proclamare ufficialmente l’unione dei Principati, come Strambio comunicava il 24 dicembre 1861, criticando la lentezza del principe nel prendere questa posizione: “Il Principe poi che in luogo di dirigere la pubblica opinione ad iniziare gli avvenimenti, si lascia il più spesso rimorchiare dall’una e dagli altri, si è ora alfine deciso a proclamare l’Unione”.
Bisogna ricordare che successivamente, in altre occasioni, fu rivolta a Cuza l’accusa opposta di eccessivo decisionismo: e difatti in molte questioni importanti, come vedremo in seguito, non esitò ad imporsi, andando pure contro la volontà del Parlamento. Le accuse di quanti come Strambio accusavano Cuza di timidezza ed indecisione nell’agire non tenevano conto delle necessità di muoversi con cautela per non restare schiacciato dalle reazioni straniere; si scambiava cioè per pavidità quella che era invece una saggia prudenza.
L’assemblea valacca colse al volo l’occasione offerta dalla proclamazione ufficiale dell’unione per dichiarare che era ormai perpetua e che la nazione romena aveva preso posto tra le altre d’Europa.
La seduta congiunta delle due Camere poteva alfine aver luogo e furono quindi convocate a Bucarest per il 5 febbraio 1862, anniversario dell’elezione del principe.
Nel frattempo le due assemblee provvedevano ad approvare separatamente un bilancio provvisorio, necessario per le spese correnti, valido fino alla formazione di un governo unico.55
La decisione di Cuza di pronunciarsi alfine per l’unione gli valse un recupero di popolarità; anche Strambio rivide il suo precedente giudizio negativo, così esprimendosi: “Dal canto suo il principe Cuza pare voglia porsi risolutamente a capo del movimento nazionale, che si ridesta…” Fu ribadita sia dalla Camera valacca che dalla moldava la ferma volontà che l’unione fosse definitiva e Strambio osservava che tutti i messaggi, i proclami, i discorsi ufficiali erano “in opposizione flagrante col recente firmano di Costantinopoli”, che continuava a non esser promulgato.56
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Queste manifestazioni che ignoravano le disposizioni del sultano destavano le preoccupazioni delle Potenze garanti; gli agenti diplomatici ebbero quindi istruzioni per consigliare al principe, ai ministri, “à toutes les personnes de considération” di accettare integralmente il firmano come espressione della volontà non solo della Porta, ma di tutte le parti interessate alla prosperità dei Principati.
Affinché fosse ufficialmente rotto il silenzio sul firmano, tutti gli agenti diplomatici inviarono una nota identica in risposta a quella del Ministro degli Esteri Arsaki, che in data 23 dicembre 1861 aveva comunicato la proclamazione dell’unità da parte di Cuza.
Le note chiedevano la pubblicazione del firmano e “l’exécution de cet acte, qui est un témoignage éclatant de la sollicitude constante des puissances pour le bien être des populations moldo-valaques ».
Strambio attenuò il tono della sua nota, limitandosi ad esprimere le speranze che il firmano fosse accettato come opera comune delle Potenze ; restava sottintesa la richiesta di pubblicarlo ed attuarlo fedelmente.57
Ma permaneva nell’opinione pubblica l’avversione al firmano, che ricadeva anche su Cuza, accusato di essere, nonostante il suo eloquente silenzio sull’editto del sultano, troppo timido rispetto alle aspirazioni popolari all’unione ed all’indipendenza.
Questa ostilità a Cuza trovava un fertile terreno soprattutto nel partito conservatore dei boiari, da sempre contrari a Cuza. Matteo Sturdza, dei principi Michausani, il 5 gennaio 1862 scriveva a Berlino all’amico Vittorio Imbriani, che si trovava a Parigi ed a Berlino era stato suo compagno di studi, di non condividere il suo entusiasmo per Cuza, colpevole ai suoi occhi di aver accettato il firmano, che era un’indebita ingerenza turca nelle vicende interne moldo-valacche. Sturdza concludeva affermando che l’unione si sarebbe dovuta realizzare ad opera soltanto dei Romeni, senza interventi stranieri.58
Quanto difficile fosse la posizione di Cuza, Strambio lo riconosceva nel suo rapporto a Ricasoli del 21 gennaio 1862: al principe si poneva il dilemma di uscire dalla legalità, continuando ad ignorare il firmano, ovvero di mortificare l’orgoglio nazionale, riconoscendo ufficialmente ed attuando il firmano.
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Inoltre il principe era soggetto alle pressioni, a volte discordanti, degli agenti stranieri: l’agente francese e quello inglese insistevano perché il firmano fosse rispettato, mentre quello russo, secondo Strambio, agiva sui boiari perché contrastassero le disposizioni del sultano.59
Ricasoli faceva pervenire al console italiano la sua approvazione per il linguaggio adoperato nel trattare l’unione dei Principati; esprimeva pure l’augurio che fossero accolte le aspirazioni nazionali romene, analoghe a quelle italiane, ma richiamava pure al rispetto dei trattati; questi non impedivano un accordo tra le Potenze per arrivare ad una soluzione soddisfacente: “un provvedimento ordinato e legale” avrebbe anzi reso più facile la realizzazione delle aspirazioni moldo-valacche.60
L’imbarazzo in cui si trovava ispirava a Cuza dichiarazioni ambigue come quella fatta a Strambio: si impegnava a pubblicare il firmano “come importante documento diplomatico storico…contenente alcune disposizioni costitutive accettabili”, ma non era disposto a fare “il gendarme della Turchia” per eseguire disposizioni giudicate dal popolo” evidentemente contrarie ai suoi diritti ed ai suoi interessi”.61
L’assemblea unificata uscita dalle elezioni risultò composta in maggioranza da conservatori; Cuza affidò l’incarico di formare il governo al valacco Barbu Cartagi, cui andò pure il portafoglio degli Interni e ad interim quello dei Lavori Pubblici.
Il governo Catargi durò poco e finì tragicamente: il 20 giugno 1862 il presidente del consiglio fu ucciso a revolverate da un attentatore rimasto sconosciuto; una voce popolare non confermata da prove certe indicò Ion Bratianu fra i mandanti dell’assassinio.
Non è da escludere che tale voce fosse sorta a causa della carcerazione in gioventù subita a Parigi da Bratianu, sospettato di aver preso parte ad un complotto per uccidere Napoleone III; l’episodio si era risolto senza una condanna per l’uomo politico romeno e non impedì che alcuni anni dopo l’imperatore divenisse il principale sostenitore della causa romena.
Strambio nella ricerca di un mandante quanto meno morale, mirò ancora più in alto, tirando in ballo lo stesso Cuza per aver alimentato un clima di odio: “Certo il signor Cuza ha contribuito sì potentemente ad irritare gli odii politici, ed a concitare le lotte di partito, che su di lui deve pesare una gran parte della responsabilità morale di ogni male che conturbi e possa più tristemente funestare questo paese”. Il principe veniva così sprezzantemente spogliato della sua dignità regale e diveniva soltanto “il signor Cuza”.62
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Motivo contingente dell’assassinio può essere considerato il divieto opposto lo stesso giorno dell’attentato dalla maggioranza conservatrice del Parlamento alla richiesta dei radicali di tenere il 23 giugno una manifestazione per celebrare l’anniversario della rivoluzione del 1848. Ma esistevano motivi di fondo, legati alla questione agraria che dividevano i due opposti schieramenti politici.
L’assemblea aveva iniziato a discutere i progetti di legge presentati da entrambi i partiti su quella annosa e fondamentale questione.
Il Regolamento organico voluto da Kisselef, governatore dei Principati durante l’occupazione russa dopo il Trattato di Adrianopoli del 1829, imposto alla Turchia sconfitta, riconosceva ai contadini il diritto di avere dai proprietari la terra necessaria per vivere. Ai proprietari non poteva andare più di un terzo della terra ed i contadini avevano la garanzia di non poter essere espulsi arbitrariamente dai proprietari, ma secondo precise modalità e con il diritto ad essere indennizzati.
Il Regolamento d’altra parte dava ampi poteri ai proprietari, che avevano diritto di imporre ai contadini lavori obbligatori e gratuiti, le cosiddette “corvées”, aumentandone pure la durata a loro piacimento.
Poteri poi ampliati dalla legge del 23 aprile 1851, voluta da Barbu Stirbey, principe di Valacchia. In base a questa legge i contadini erano considerati “locatari” della terra ad essi attribuita; padroni della terra restavano quindi i proprietari ed i contadini non avevano il diritto di trasferirsi e potevano essere licenziati senza il diritto di indennizzo.
Le terre da concedere in “locazione” ai contadini erano scelte dai proprietari, che naturalmente tenevano per loro stessi le più fertili; i contadini avevano l’obbligo di coltivare direttamente gli appezzamenti ricevuti, in media dell’estensione di tre ettari, sebbene esistessero molte terre lasciate incolte dai proprietari.
La legge del 1851 aumentava a 22 le 12 giornate annue di “corvée” stabilite dal Regolamento organico e imponeva pure l’obbligo ai contadini di pagare ai proprietari le giornate di lavoro eventualmente non eseguite perché non necessarie secondo tariffe stabilite dall’Assemblea.
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Ma le giornate di lavoro obbligatorio erano in realtà molto più numerose di quelle prescritte, poiché i lavori imposti ne richiedevano molte di più per la loro esecuzione. Nicola Balcescu nella sua opera “Questions économiques des Principautés danubiennes” (Paris 1850) calcolava che il lavoro fissato per un giorno ne richiedeva in realtà almeno tre.
I contadini inoltre potevano esser chiamati ad eseguire le “corvées” in qualsiasi momento, senza tener conto delle loro esigenze lavorative per coltivare la terra ad essi attribuita.
Il peso fiscale gravante sui contadini era opprimente: dovevano pagare tasse fondiarie al Comune ed allo Stato, tasse sul bestiame, diritti di pedaggio per transitare sui ponti, contributi per la manutenzione delle strade.
Le rigide norme della legge del 1851 rendevano quasi impossibile trasferirsi: alla fine del censimento quinquennale, chi intendeva trasferirsi doveva darne il preavviso di un anno alla amministrazione statale ed al Comune, versare al proprietario quanto dovuto per le “corvées” non eseguite; perdeva inoltre la casa e non aveva diritto ad alcun indennizzo per le eventuali migliorie apportate al fondo.
Per contro il proprietario poteva sfrattare i contadini dando loro il preavviso di un anno; l’unico indennizzo previsto era quello per gli alberi eventualmente piantati dai contadini.
Queste norme, già di per sé sfavorevoli nella loro vaghezza per i contadini, inoltre non erano neanche rispettate e regnava sovrano l’arbitrio dei proprietari.
Non erano mancate le rivolte contadine, subito soffocate nel sangue; Gregorio Ghika, principe di Valacchia, aveva cercato di fissare norme meno gravose per i contadini; motivo questo non ultimo della sua caduta nel 1842, voluta dall’assemblea dei boiardi, cui il principe era pure inviso per non aver impedito che fosse aggiunto al Regolamento organico un articolo in base al quale ogni modifica al Regolamento stesso doveva essere autorizzata dal governo russo oltre che dalla Porta.
Ma il tentativo più incisivo per modificare questo stato di cose avvenne nell’anno delle grandi speranze, il 1848, quando in Valacchia si era costituita una Commissione mista di proprietari e contadini per affrontare la questione agraria: iniziativa esaltata da Ubicini come prova di sensibilità morale e politica.63
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Il problema agrario restava sempre di scottante attualità, tornando alla ribalta con l’opera di Constantin Boeresco pubblicata a Parigi nel 1861, proprio quando maturava l’unione dei Principati.
Animato da spirito patriottico e progressista, l’autore sosteneva la necessità di fare dei contadini uomini liberi che, divenuti cittadini, avrebbero avuto interesse a far prosperare l’agricoltura ed a difendere la patria.
Le migliori condizioni di vita avrebbero comportato un aumento della popolazione, le terre incolte sarebbero sparite, i proprietari sarebbero stati spinti a trovare forme più avanzate di coltivazione, non potendo più contare sul lavoro forzato e gratuito dei contadini.
Grazie alle migliori condizioni economiche sarebbe stato possibile eseguire grandi opere pubbliche (strade, canali navigabili, ferrovie), lo sviluppo dell’industria bellica avrebbe consentito la formazione di un esercito capace di assicurare la difesa ed il rispetto del paese.
L’emancipazione dei contadini sarebbe quindi riuscita utile per tutti, assicurando anche ai proprietari vantaggi che li avrebbero ampiamente compensati per i privilegi perduti.
Realisticamente Boeresco consigliava di procedere per gradi: in una prima fase si sarebbero mantenute le “corvées”, ma la loro durata andava stabilita tenendo conto del tempo effettivamente necessario per eseguire i lavori, in modo da evitare un aumento incontrollato delle giornate di “corvées”, come era avvenuto in passato; i proprietari potevano far ricorso contro eventuali inadempienze dei contadini. Le giornate di lavoro obbligatorio non dovevano esser più stabilite dai proprietari, ma da una apposita Commissione presente in ogni villaggio.
La stessa Commissione avrebbe fissato le tariffe da applicare nel caso i contadini avessero voluto affrancarsi dall’obbligo di “corvées”. Le casse di previdenza dovevano divenire casse di risparmio, che potevano incassare il denaro dei contadini e concedere loro prestiti a modico interesse, eliminando in tal modo l’usura praticata per lo più da Greci ed Ebrei.
Se le proprietà dei privati non fossero state sufficienti a soddisfare le richieste di terra dei contadini, si sarebbero potute assegnare anche terre demaniali, da concedere anche agli emigrati che volevano fare ritorno, incoraggiandoli con l’esenzione fiscale per sei mesi o per un anno: il minore gettito delle imposte sarebbe stato compensato dalle migliorie apportate ai terreni agricoli.
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Boeresco riassumeva infine le sue proposte in uno schema di progetto di legge allegato all’opera, in base al quale si potevano “déterminer les droits et les devoirs réciproques des cultivateurs et des propriétaires de domaines”.
La necessità di migliorare le condizioni di vita dei contadini era sostenuta qualche anno dopo la pubblicazione del saggio di Boeresco anche da Giovenale Vegezzi Ruscalla.
Nella sua prolusione del 1863 al corso di lingua e storia romena tenuto presso l’Università di Torino, lo studioso italiano osservava come lo scarso spirito patriottico rimproverato ai contadini dipendesse dalla loro estrema miseria. I boiardi che li opprimevano erano spesso di origine straniera (greca od albanese), per cui in Moldavia e Valacchia esisteva un antagonismo etnico, oltre che di classe, analogo a quello tra contadini scozzesi e proprietari inglesi, descritto nei romanzi di Walter Scott. Ricordava ancora Vegezzi Ruscalla il precedente positivo della liberazione degli schiavi zingari di proprietà pubblica voluta dal principe Bibesco in Valacchia e poi quella degli schiavi di proprietà privata, ad opera dei rivoluzionari del 1848: ciò era avvenuto senza scatenare una guerra civile analoga alla guerra di secessione scoppiata negli Stati Uniti d’America per la liberazione degli schiavi negri.
Auspicava infine Vegezzi Ruscalla l’attuazione della parità dei diritti per tutti, sancita nel 1848, e commentava con soddisfazione il proposito di Cuza di porre fine alla servitù della gleba, annunciato nel suo discorso del 15 febbraio 1862 per l’apertura della sessione parlamentare.64
Nell’inquieta primavera del 1862 si fronteggiavano due opposti schieramenti parlamentari.
I liberali-democratici sostenevano la piena proprietà per i contadini dei terreni da essi già detenuti come semplice possesso; in cambio essi avrebbero dovuto rinunciare ad ulteriori assegnazioni di terra.
Era una proposta non estremista, in linea con l’articolo 46 della Convenzione del 1858, che stabiliva la fine dei privilegi e la revisione della legge agraria a favore dei contadini.
Si opponevano i conservatori, che, forti della loro maggioranza in Parlamento, avrebbero voluto diminuire l’estensione dei terreni già in possesso dei contadini.
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Presidente del consiglio dei ministri era Barbu Catargi, uomo rispettato se non amato, perché ritenuto onesto, anche se troppo di parte. Catargi presentò a nome del governo un progetto di legge, conforme alle richieste dei conservatori, per cui si attirò l’odio degli avversari, divenendo un simbolo da abbattere, come difatti avvenne nel giugno 1862.
La tensione si accrebbe dopo l’attentato mortale a Catargi, destando le preoccupazioni degli agenti diplomatici, che si riunirono per studiare una linea comune di azione e valutare se il progetto di legge governativo violasse l’articolo 46 della Convenzione. Decisero di non intervenire per il momento, poiché non c’era ancora stata una decisione del Parlamento: vi era solo un progetto e forse Cuza non avrebbe neanche promulgato una legge eventualmente approvata dalla Camera.65
E così difatti avvenne. Dopo il governo di emergenza di Arsaki, si costituì il ministero presieduto da Constantin Kretzulesco, con gli stessi ministri del governo Catargi. Kretzulesco, uomo di tendenze liberali, per accettare l’incarico aveva posto queste condizioni: non doveva essere approvata la legge agraria ispirata dai conservatori; non dovevano esser concessi pieni poteri a Cuza, come era stato suggerito subito dopo l’assassinio di Catargi; doveva esser abolita la censura sulla stampa decisa dal precedente governo. Ottenne queste garanzie, ma la legge agraria fu approvata dal Parlamento, in cui i conservatori restavano la maggioranza. Ma, come previsto dagli agenti diplomatici stranieri, Cuza non promulgò la legge, facendola cadere nel dimenticatoio.
La presa di distanza del principe dai conservatori non fece però venir meno il risentimento dei liberali nei suoi confronti.
Carlo Kretzulesco, agiato possidente fratello del presidente del Consiglio in carica, mosse un duro attacco a Cuza con un suo opuscolo intitolato “Coup d’œil sur l’état actuel de la Roumanie”, inviato da Strambio al ministero degli Esteri.
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Kretzulesco riteneva il principe del tutto inadeguato al suo ruolo, responsabile dell’instabilità politica del Paese, dovuta alla girandola di governi dalla breve esistenza, scelto solo per farla finita con le accese rivalità dei numerosi pretendenti al trono: “un homme sans passé politique, sans poids, sans principe: un soi-disant militaire, colonel fait au bout d’un an de service dans l’antichambre du caimacam Volgorides. En Valachie, tant pour consacrer le principe de l’union que pour concilier les rivalités, à cause desquelles on était à la veille d’une émeute, on a élu le même personnage. Comme on le savait bien, celui-ci n’est pas à la hauteur de sa mission ».
Critiche accese, cui Strambio sembrava prestare un orecchio compiaciuto, poiché definiva il loro autore “un po’ originale, ma onest’uomo ed appartenente a famiglia onorevole”; ed appoggiava la sua richiesta di incontrare il ministro degli Esteri, Durando, in occasione di un suo prossimo viaggio all’estero.66
Cuza nell’estate del 1862, oltre a dover affrontare una difficile situazione interna, era pure alle prese con gravi complicazioni di politica estera, per cui si mostrava propenso, anche a rischio di inimicarsi l’Inghilterra, a favorire le mire russe in Oriente per contrastare quelle dell’Austria.67
Pure il governo italiano si opponeva al’espansione dell’Austria nella zona danubiana e per crearle difficoltà faceva suo il piano per una confederazione dei paesi di quella parte d’Europa in funzione antiaustriaca, elaborato dagli Ungheresi Klapka e Pulski.
Il progetto poteva trovare nei Principati un terreno fertile; Strambio segnalava l’esistenza nel governo romeno di un grande fermento “per sognate imprese di ungheresi e polacchi, per sognate spedizioni di armi, per segrete missioni ed altre simili avventure”.68
Nonostante l’ironia di Strambio per questi piani avventurosi, il governo italiano affidò al veneziano Marco Antonio Canini una missione in Romania e Serbia per diffondere il piano degli Ungheresi, già pubblicato dal giornale di C.A. Rosetti, “Romanul”.
Canini stesso aveva chiesto di compiere tale missione a Vittorio Emanuele II nella primavera del 1862, mostrandosi fiducioso nel consenso del re: “Victor Emmanuel comprend les grandes idées. Lorsqu’on excite en lui certaines fibres, il bondit, du moins il bondissait, comme un généreux cheval de bataille”.69
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Canini, era un mazziniano, con trascorsi neoguelfi nel 1847, quando, contagiato dall’entusiasmo generale per i primi atti politici di Pio IX, aveva dedicato al Pontefice una sua opera, composta in versi ed in prosa, “Pio IX e l’Italia”, in cui progettava per l’Italia una soluzione federativa in via provvisoria, nell’attesa di poter realizzare una completa unità: si proponeva un Regno dell’alta Italia, formato da Piemonte, Lombardia, Veneto ed Istria sotto Carlo Alberto, federato alla Toscana ed allo Stato Pontificio.
Canini aveva incluso in questa visione politica l’Austria, cui consigliava di porsi a capo di una confederazione orientale o slavo-ungherese, formata dall’Ungheria, dalla Polonia, dai Valacchi della Transilvania e dagli Italiani della Dalmazia.
Anche le province polacche della Prussia sarebbero entrate a far parte della Confederazione ed alla Prussia sarebbero tornate in compenso le province austriache della Slesia.
Svanirono presto però gli entusiasmi neoguelfi di Canini, che prese parte alle vicende della repubblica veneta nel 1848, rimanendo fedele comunque all’idea di una confederazione orientale, seppure da costituirsi con ben diversi intenti politici.
In base a questi precedenti poteva esser giudicata opportuna la scelta per quella missione; ma la scelta era invece poco felice a causa di altri episodi, avvenuti durante la permanenza del veneziano Canini nei Principati nel corso del 1859.
Era l’anno della seconda guerra d’indipendenza, conclusasi con il Trattato di Villafranca, voluto da Napoleone III. Indignato perché il suo Veneto restava all’Austria, Canini giudicò l’imperatore francese un traditore e pubblicò contro di lui un violento articolo su di un giornale di Bucarest, dove allora si trovava.
Il console francese chiese pertanto la sua espulsione, prontamente eseguita dalle autorità romene.
Il compito di Canini era ulteriormente complicato dalla ambiguità delle istruzioni relative al suo mandato e dalla gelosia corporativa dei diplomatici di carriera, che lo consideravano un intruso, di cui erano note le intemperanze, che avrebbe potuto creare loro complicazioni, turbando il tranquillo tran-tran quotidiano.
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Il console italiano a Belgrado, Scovasso, allarmato per la notizie dell’imminente arrivo di quello scomodo personaggio, preannunciato da una lettera del capo gabinetto degli Esteri in data 1° maggio 1862, chiese al Ministero quale credito dovesse accordare a Canini. La risposta del ministro Durando fu che a Canini era stata affidata solo una missione culturale per diffondere l’uso della lingua italiana, ma non un incarico politico; il console, se necessario, doveva sconfessare eventuali iniziative politiche del veneziano, ma senza clamori pubblicitari.70
In effetti Canini aveva costituito, assieme a Luigi D’Ancona, docente di diritto nell’Università di Torino e suo amico, una “Società culturale italo-romena”, che contava fra i suoi aderenti personalità illustri come Francesco Crispi, Giuseppe Avezzana, Angelo Brofferio, Terenzio Mamiani, Stefano Türr, Giovenale Vegezzi Ruscalla ed Alessandro Dumas padre.
Alla missione culturale però ben pochi erano disposti a credere ed altrettanto inverosimile appariva poi l’incarico che Canini aveva attribuito a se stesso, quello di ispettore della compagnia di navigazione italo-orientale, venuto a predisporre una rete di agenti della detta compagnia ed a studiare la possibilità di una linea di navigazione sul Danubio.
Fu perciò diffidente l’accoglienza ricevuta a Bucarest da Canini da parte di Strambio, che non riusciva a capacitarsi, visti i precedenti del 1859, come Canini avesse potuto ricevere un incarico politico tanto delicato come quello che gli si attribuiva.71
Oltre tutto, ad aumentare la confusione e le già gravi difficoltà di Canini si aggiungevano le missioni parallele affidate da Vittorio Emanuele II al generale Türr nel maggio 1862, per concertare ancora una volta con Cuza un’azione comune romena-ungherese contro l’Austria; il re inoltre diede un analogo incarico al suo segretario privato Bensa, cui Cuza rifiutò un’udienza, con il compito di recarsi pure in Grecia per accertare le possibilità che Amedeo di Savoia salisse sul trono di quel paese.
Non meno ostile di quella dei diplomatici italiani fu l’accoglienza riservata a Canini dalle autorità romene, che oltre tutto non avevano particolarmente gradito l’appello rivolto da Garibaldi ai Romeni perché seppellissero gli antichi rancori con gli Ungheresi, che continuavano ad esser detestati a causa del problema della Transilvania; oltre tutto, secondo lo stile del generale, l’appello era una generosa, ma generica esortazione, priva di precise indicazioni politiche.72
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L’aggrovigliata situazione derivava anche dal persistente tentativo italiano di fomentare un’azione congiunta di Romeni ed Ungheresi contro l’Austria, malgrado l’insuccesso del 1863, con l’obiettivo di strapparle il Veneto.
Questa linea politica era sostenuta dall’ambasciatore italiano presso la Porta, Cerruti, che per realizzarla manteneva a Bucarest e Galatz agenti Ungheresi e Polacchi oltre a finanziare il giornale “Romanul” affinché appoggiasse questa iniziativa antiaustriaca.73
Diverso era l’orientamento di altri autorevoli diplomatici italiani, come Isacco Artom, ex segretario di Cavour, Costantino Nigra, ambasciatore a Parigi, ed Emilio Visconti Venosta, destinato a divenire per lunghi anni l’autorevole ministro degli Esteri. Costoro sostenevano invece un’azione diplomatica: scartata l’ipotesi di assegnare all’Austria la Bosnia, moneta di scambio per ottenere pacificamente dall’Austria il Veneto dovevano essere i Principati Danubiani.
Per qualche tempo Cavour aveva sostenuto questo piano, che in omaggio alla “Real Politik” sacrificava il principio di nazionalità agli interessi italiani: ancora nel 1863 l’inviato speciale italiano a Londra, Pasolini, proponeva questa soluzione a lord Palmerston.
Finì per prevalere una terza via, voluta nel 1865-66 dal presidente del Consiglio La Marmora, il quale anche al fine di sottrarre l’Italia all’influenza francese, patrocinò l’alleanza con la Prussia, fondamento della terza guerra di indipendenza contro l’Austria nel 1866, che fruttò all’Italia l’acquisto del Veneto, anche se ottenuto grazie alle vittorie prussiane sull’Austria.
Ma nel 1862 tutto ciò era da venire, tutti i giochi erano aperti e Cuza aveva quindi motivo di temere uno scambio Veneto-Principati, sostenuto dall’Italia, ma avversato da Francia ed Inghilterra, nel timore che si riaprisse così la guerra d’Oriente che avrebbe potuto coinvolgere tutta l’Europa.74
Anche per questo motivo il principe ed il governo dei Principati sospettavano di Canini, privo di una chiara copertura politica e preceduto dal ricordo dell’espulsione inflittagli nel 1859.
Non esitarono quindi le autorità romene ad espellerlo ancora una volta, intimandogli di lasciare il paese da Galatz.
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Cuza volle mitigare questa decisione, concedendo a Canini di uscire dalla Valacchia attraverso la frontiera di Turnu Severin, da cui poteva agevolmente passare in Serbia.
Ma il soggiorno a Belgrado non fu più felice di quello a Bucarest e Canini, deluso, fece ritorno in Italia, dove l’attendeva l’ultima amarezza.
Vittorio Emanuele II infatti si rifiutò di riceverlo (l’interesse del re per la missione in Oriente era svanito, una volta accertata l’impossibilità per il principe Amedeo di ottenere il trono di Grecia) e Canini gli inviò il 22 dicembre 1862 un rapporto in cui considerava errato favorire la formazione di una grande Romania che comprendesse Transilvania e Banato, territori con popolazione mista, non formata solo da Romeni.
L’appoggio a questo progetto avrebbe procurato all’Italia l’inimicizia ungherese; poco realizzabile appariva poi il progetto di confederazione sgradito agli Ungheresi animati da un forte spirito nazionalistico, oltre che a Cuza ed ai Romeni tutti, che odiavano i Magiari.
Canini perveniva alla conclusione poco lusinghiera che i Romeni, pur se discendevano dai latini , non possedevano “né una traccia del carattere, né una scintilla del genio italiano”.75
L’iniziativa del governo italiano per la missione di Canini incrinò le simpatie di Cuza per chi gli causava ulteriori difficoltà in aggiunta a quelle interne. Strambio segnalava infatti che Cuza, con grave disappunto dei liberali romeni, aveva manifestato una “gioia indecente” per la sconfitta garibaldina di Aspromonte, “per vedere allontanate quelle eventualità che avrebbero potuto turbare la perfetta quietitudine in cui vive”.76
Ancora altre difficoltà complicavano i rapporti italo-romeni, derivanti dall’interesse del governo di Roma per le condizioni di vita degli Ebrei in Moldavia e Valacchia.
Quella ebraica era nei Principati una questione antica e scabrosa, ma non era l’unica a turbare la vita religiosa.
Esisteva difatti, seppure non sanguinosa, anche una questione cattolica, poiché i rapporti fra la Chiesa di Roma e quella ortodossa non erano certo facili.
“Nos autels n’ont jamais été tachés par le sang d’un hérétique”, aveva affermato orgogliosamente Vasile Boerescu, nel suo commento alla Convenzione di Parigi77, rivendicando la tolleranza dei Romeni ortodossi verso i seguaci di altri culti.
Ma la realtà non era poi così idilliaca: la difesa della Chiesa ortodossa aveva una valenza politica oltre che religiosa ed i Romeni erano pertanto intransigenti ed ostili nei confronti delle altre religioni.
“En Valachie, la religion se mêle à tous les actes politiques, c’est quelle n’est pas seulement la divinisation de l’idée, elle est toute la société. En France, là où il est le drapeau est la patrie. En Valachie, elle est où est la croix”, affermava la principessa Aurelia Ghika.78
Ma neanche l’avere in comune lo stesso simbolo religioso, la Croce, evitava alla Chiesa cattolica di essere oggetto di ostilità e discriminazioni da parte degli ortodossi.
In una serie di articoli apparsi su “Il Diritto”, intitolati “I Romeni ed il Papato” (15,23,31 maggio 1856), Dora d’Istria aveva attaccato la Chiesa di Roma perché negava la discendenza latina dei Moldo-Valacchi, facendoli passare per “slavi ribelli ed empi” e definendoli “scismatici”. Termine decisamente respinto dalla principessa: non si poteva parlare di scisma poiché il vescovo di Roma aveva pari dignità rispetto ai patriarchi di Alessandria e Gerusalemme; la pretesa supremazia papale non derivava da una originaria investitura divina, ma era un portato della storia umana, come affermato anche dalle Chiese protestanti riformate e da eminenti storici, quali l’inglese Macaulay, il tedesco Ranke e da quelli appartenenti ad un paese a maggioranza cattolico, la Francia (Quinet, Michelet).
Le superstizioni rimproverate a Moldavia e Valacchia non erano giustificabili: ma esse erano presenti anche nel mondo cattolico.
Dora d’Istria respingeva inoltre le accuse mosse da Elias Regnault alla Chiesa ortodossa, ritenuta colpevole di aver favorito il regime fanariota e l’influenza russa adottando lo slavo come lingua liturgica.
Una lesione dell’identità e degli interessi nazionali poteva esser rimproverata anche ai cattolici: gli Inglesi fedeli al papa avevano militato nella “Invincibile Armada” spagnola, il clero cattolico francese all’epoca della rivoluzione del 1789 stava dalla parte degli eserciti invasori. In Italia, infine, il clero cattolico, fatte salve alcune rare eccezioni, appoggiava i governi dispotici ed avversava la causa dell’unità e dell’indipendenza.
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Né il Cattolicesimo avrebbe potuto difendere i Principati Danubiani dalla Russia, come era dimostrato dal dominio zarista sulla Polonia cattolica; né le minacce alla pace ed all’integrità territoriale moldo-valacca venivano soltanto dalle Potenze ortodosse. La Russia aveva occupato la Bessarabia, ma l’Austria cattolica non era stata da meno, impadronendosi della Transilvania, del Banato e della Bucovina; anzi, come affermato anche dal “Journal des Débats” del 21 maggio 1856, la minaccia più grave per Moldavia e Valacchia proveniva dall’Austria e non dalla Russia.
Sull’argomento cattolicesimo Dora d’Istria tornava nel successivo articolo “La propaganda austro-romana nei Principati Danubiani”, pubblicato l’8 novembre 1856 sempre su “Il Diritto”, denunciando le pretese austriache su Moldavia e Valacchia, analoghe a quelle nutrite in Italia per Ancona, Bologna e Parma, che Vienna avrebbe voluto occupare con il pretesto di difenderle. Inoltre, l’Austria avversava l’unione di Moldavia e Valacchia, vedendo in uno Stato danubiano unitario una potenziale minaccia simile a quella del Piemonte in Italia.
Per favorire le sue mire espansionistiche, l’Austria, secondo la principessa romena, si avvaleva dell’aiuto della Chiesa cattolica: il Vaticano aveva inviato nei Principati abili missionari che, impadronendosi delle coscienze religiose, avrebbero pure compromesso il patriottismo delle popolazioni, minacciato in egual modo dalle misure liberticide dell’Austria, che durante l’occupazione della Moldavia e della Valacchia aveva soppresso la libertà di stampa concessa dall’ultimo principe di Moldavia, Grigori Ghika, come era già avvenuto a Vienna, Milano, Praga, Budapest.
Pio IX si era attivamente interessato alla situazione degli Uniati in prevalenza Valacchi in Transilvania, affidando al cardinale Viale-Prelà, pronunzio a Vienna ed arcivescovo di Bologna, una missione svoltasi nell’ottobre 1853. Il cardinale prima nel Banato e poi in Transilvania fu accolto con solenni onori dalle autorità religiose e civili; alla processione organizzata a Blaj il 28 ottobre per accompagnare il porporato fino alla cattedrale prese parte anche il governatore della Transilvania.
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Successivamente con la Bolla “Ecclesiam Christi” del 26 novembre 1853 il pontefice istituì la provincia ecclesiastica autonoma di Alba Julia e Făgăraş con sede metropolitana a Blaj staccata dalla giurisdizione del Primate d’Ungheria.
La decisione pontificia ebbe una valenza politica oltre che religiosa, poiché l’indipendenza degli Uniati valacchi di Transilvania dalla gerarchia religiosa ungherese era una premessa per rivendicare l’identità politica nazionale.78bis
Dopo la guerra di Crimea ci fu un risveglio dei cattolici dei Principati, che chiesero un miglioramento delle loro condizioni sociali e religiose, fidando anche sull’appoggio della Commissione europea venuta ad accertare quale fosse la situazione e quali fossero le richieste dei Moldo-Valacchi.
La Commissione era a maggioranza orientata in senso liberale, tanto che il commissario inglese sir Henry Bulwer si mostrava favorevole agli Ebrei, chiedendo per essi nei Principati la stessa tolleranza di cui godevano nell’Impero ottomano.
I rapporti con la Chiesa di Roma furono pertanto oggetto di discussione nel “Divano ad hoc” di Moldavia e di interventi delle gerarchie cattoliche.
Monsignor Antonio De Stefano, vicario apostolico di Moldavia, nel marzo 1857 si rivolgeva alla Commissione europea chiedendo per i cattolici la stessa libertà e gli stessi diritti riconosciuti dal sultano ai suoi sudditi cristiani; il prelato lamentava che in Moldavia esistesse solo una tolleranza e non un riconoscimento della Chiesa cattolica: “Les membres de la Religion Grecque ne considérant les Catholiques Roumains que comme des païens, la position des Catholiques est rendue plus malheureuse, plus difficile”. Le difficoltà erano maggiori nelle campagne, dove i signori locali angariavano i cattolici, profittando della lontananza del governo che avrebbe potuto proteggerli. I cattolici, osservava monsignor De Stefano, avevano gli stessi doveri degli ortodossi e quindi dovevano godere degli stessi diritti; ma il clero greco, nella sua intolleranza, li giudicava pagani e non riconosceva pertanto i matrimoni misti, a meno che il coniuge cattolico non accettasse un nuovo battesimo secondo il rito ortodosso. In conclusione, il vicario apostolico avanzava alla Commissione le seguenti richieste: 1) libertà per il clero cattolico e suo riconoscimento da parte dallo Stato, e non semplice tolleranza; 2) diritti per i religiosi cattolici pari a quelli dati al clero greco; 3) obbligo per lo Stato di riconoscere i matrimoni misti, senza costringere il coniuge cattolico ad un nuovo battesimo; 4) diritti civili e politici eguali per cattolici ed ortodossi.79
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Fra gli uomini politici moldavi il più sensibile alla libertà di religione senza discriminazioni per i non ortodossi era Mihail Kogalniceanu: nel discorso tenuto il 12 novembre 1857 al “Divano ad hoc” egli affermava: “…pour moi, tout enfant du Pays, tout indigène est Roumain. Je ne m’inquiète pas de la manière dont il honore Dieu. Je crois que le jour viendra où la religion ne sera plus en Roumanie un titre d’exclusion pour aucun citoyen”.
Ricordava che il Regolamento organico voluto dai Russi aveva riservato i diritti politici agli ortodossi, negandoli a tutti gli altri ; solo la fine di tale discriminazione poteva creare l’unità nazionale. Si mirava ad abolire questo Regolamento, rimasto per altro in larga misura inapplicato, come avviene per ogni legge contraria al progresso civile. Era nell’interesse della nazione riconoscere i diritti degli Ebrei e dei pochi stranieri di altro rito cristiano dediti al commercio, che avrebbero potuto formare quella classe media inesistente in Moldavia: “Appelons nous, par la naturalisation, ces étrangers qui vivent dèpuis longtemps parmi nous, qui par leurs travaux, leurs intérêts, leur langue, par l’amour qu’ils nourrissent pour notre pays sont devenus réellement indigènes…”. Questa generosa considerazione era fatta da Kogalniceanu anche per i negativi riflessi internazionali che avrebbe avuto una persistente negazione dei diritti degli stranieri e dei non ortodossi: “Quelle triste recommandation offrions-nous à l’Europe catholique et protestante, qui a tout fait pour la Roumanie, si nous votions contre le principe du point 9…?”
Il punto 9 cui Kogalniceanu si riferiva era quello del Trattato di Parigi, che stabiliva libertà di culto per i cristiani sudditi del sultano.80
Nel “Divano ad hoc” di Moldavia facevano eco a queste parole di Kogalniceanu quelle di Costache Negri, durante la stessa seduta del 12 novembre 1857. Negri voleva accordare la parità dei diritti solo ai cristiani di altro rito, escludendo quindi gli Ebrei, anche se ricordava che nel Consiglio imperiale turco accanto al patriarca greco-ortodosso sedeva il gran rabbino, oltre che il vescovo cattolico e quello armeno. Per Negri era il male minore riconoscere i diritti dei cattolici e degli Armeni; bisognava dimostrare che si era fatto il possibile, sperando che le Potenze avrebbero perciò consentito “de rester à une limite que nous ne pouvons dépasser sans tomber dans l’abîme, à mon avis, et qu’elles ne nous forcerons pas à entreprendre d’autres reformes plus grandes, avant d’avoir le temps de les étudier et de les expérimenter et d’user patience pour les essayer peu à peu et non d’une seule fois ».81
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E con molta prudenza si mosse il “Divano ad hoc” : monsignor De Stefano comunicava difatti il 10 gennaio 1858 al cardinal Barnabò, prefetto della Congregazione “Propaganda Fide” che era stato approvato all’unanimità il principio della libertà religiosa, ma con uno scarto di pochi voti era stata al momento respinta la proposta di Kogalniceanu e Negri di concedere i diritti civili e politici ai cristiani di ogni rito, la cui approvazione era rinviata alla futura assemblea (ma tale approvazione poi non ci fu).
Monsignor De Stefano affermava l’opportunità di concedere una decorazione pontificia a Kogalniceanu ed a Negri, oltre che al console austriaco barone Gödel, protettore dei cattolici.82
L’azione delle gerarchie vaticane per migliorare le condizioni di vita dei cattolici nei Principati non si arrestò dopo il voto del Divano ad hoc di Moldavia che negava la parità dei diritti, pur riconoscendo in linea di principio la libertà religiosa.
Il nuovo progetto di Costituzione elaborato dalla Commissione centrale di Focsani doveva ricevere l’approvazione delle Potenze ed il nunzio a Vienna, mons. Antonio Saverio De Luca, si rivolgeva quindi il 4 dicembre 1859 al cardinale Giacomo Antonelli, segretario di Stato, perché intervenisse presso i governi delle Potenze garanti cattoliche, Francia ed Austria (per ovvie ragioni non si faceva parola del Piemonte in perenne rotta di collisione con il Vaticano per la sua politica nazionale che minacciava la sovranità temporale del Pontefice), al fine di migliorare le condizioni previste per i cattolici.
A distanza di poco tempo, il 30 dicembre 1859, la stessa richiesta di intervento a Parigi e Vienna era rivolta dal segretario dell’archivio della “S. Congregazione degli Affari Ecclesiastici Straordinari”, Joseph Berardi, a monsignor Gaetano Bedini, segretario della Congregazione “Propaganda Fide”. 83
Puntuale, dopo qualche giorno, il 2 gennaio 1860 il segretario di Stato dava istruzioni al nunzio a Parigi, monsignor Charles Sauni, ed al nunzio a Vienna, monsignor De Luca, perché compissero passi pressi i governi francese ed austriaco al fine di ottenere miglioramenti per i cattolici nel progetto di Costituzione in corso di approvazione.84
Ma non furono necessarie ulteriori pressioni sui governi di Parigi e Vienna, poiché, come il nunzio a Parigi comunicava al cardinale Antonelli il 24 gennaio 1860, Cuza aveva respinto il progetto di Costituzione proposto dalla Commissione centrale di Focsani.85
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I rapporti non sempre facili fra il governo di Jassy e la Chiesa di Roma non impedivano comunque che da parte moldava si aspirasse a comporre le divergenze stipulando un Concordato.
Importanti ragioni politiche spingevano in tal senso; l’Austria si era arrogata il compito di proteggere i cattolici dei Principati Danubiani ed era interesse del governo di Cuza scalzarne l’autorità stabilendo rapporti diretti con la Santa Sede sì da limitare l’influenza austriaca.
Il 19 giugno 1860 il Ministro degli Esteri moldavo, Mihail Jora, scriveva a Costache Negri, divenuto agente diplomatico dei Principati Uniti presso la Porta, facendo presente l’importanza del ruolo della Chiesa cattolica nei Principati: molti erano cattolici e la Chiesa di Roma, pur non potendo essere considerata dominante al pari di quella ortodossa, era pur sempre una Chiesa nazionale. In omaggio a tale dignità, il governo sussidiava il clero e le scuole cattoliche. Il ministro faceva poi presente che la tendenza della Chiesa cattolica a porsi nei Principati sotto la protezione di Potenze straniere (era trasparente l’allusione all’Austria, anche se non veniva nominata) era causa di malintesi e difficoltà, che potevano risolversi stipulando un Concordato con Roma.
A tal fine sollecitava Negri a prender contatti con l’ambasciatore francese a Costantinopoli; poiché la Santa Sede non aveva un nunzio nella capitale ottomana.86
In vista della stipula di un Concordato anche per la Valacchia, lo stesso Jora chiedeva al ministro dei Culti il 18 luglio quali fossero le condizioni dei cattolici in quel Principato e quante istituzioni cattoliche vi esistessero.87
Negri rispondeva il 17 luglio alla nota del ministro di non ritenere opportuno in quel momento iniziare trattative per un Concordato e di non avere quindi contattato l’ambasciatore francese, come gli era stato suggerito.88
L’attenzione generale era difatti in quel momento rivolta alla grave situazione dell’Impero ottomano ove erano in corso massacri di cristiani in Libano ed in Siria. Si riteneva imminente un intervento militare anglo-francese ed a Damasco i consoli europei si erano rifugiati presso l’emiro algerino Abd el Kader, protagonista della resistenza all’occupazione francese e perciò inviato in esilio, ma cavallerescamente disposto a proteggere i cristiani.
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Cuza riconobbe la validità delle ragioni addotte da Negri per spiegare il suo mancato intervento e lo lasciò libero di scegliere il momento più opportuno per iniziare le trattative per il Concordato: era quanto il ministro Jora comunicava a Negri il 28 luglio, aggiungendo però che, data l’importanza del negoziato con Roma, Negri doveva cogliere al volo la prima occasione favorevole per iniziare le trattative tramite l’ambasciatore francese presso la Porta.89
Ma queste trattative si arenarono a seguito delle dimissioni del governo Kogalniceanu avvenute il 29 gennaio 1861.
L’uomo politico moldavo aveva sempre spinto per un’intesa con Roma, come dimostravano i suoi interventi al “Divano ad hoc” e la sua iniziativa di far celebrare l’elezione di Cuza con un “Te Deum” dei cattolici, oltre che con la tradizionale cerimonia ortodossa. A base di questa sua politica religiosa vi era l’esigenza di contenere l’invadenza austriaca; oltre all’influenza esercitata con la protezione dei cattolici, Vienna mirava ad acquistare un’egemonia economica nei Principati. Proprio in quegli anni, infatti, l’economista tedesco Lorenz Jacob Stein, trasferitosi nel 1855 a Vienna, dove insegnò per 30 anni Scienza delle Finanze nella locale Università, faceva sue le teorie di Friedrich List e in una serie di articoli proponeva che l’Austria si assicurasse il controllo economico dei paesi Danubiani, piuttosto che ricorrere ad una guerra di conquista.
Tornato al potere a distanza di qualche anno, Kogalniceanu riprese i suoi tentativi per un Concordato con il Vaticano. Ma le sue buone intenzioni non si realizzarono a causa del contrasto sorto con il vescovo cattolico di origine olandese Antonio Giuseppe Pluym, arrivato a Bucarest nell’ottobre 1863.
Kogalniceanu mirava alla formazione di un clero cattolico locale e non più proveniente da altri paesi, come era fino ad allora avvenuto, con la presenza dei frati minori conventuali italiani in Moldavia e dei minori osservanti e passionisti austriaci in Valacchia. Nella stessa ottica si collocava la richiesta romena che i vescovi cattolici non assumessero più il titolo di diocesi straniere: il vescovo di Bucarest aveva difatti il titolo di vescovo di Nicopolis in Bulgaria ed il vescovo di Jassy prendeva nome dalla diocesi di Benda.
Kogalniceanu fece quella richiesta a monsignor Pluym in procinto di recarsi a Roma per una visita “ad limina” e vi unì l’altra di fare in Vaticano opera di convinzione per stipulare un Concordato.
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Kogalniceanu per l’occasione ricordò al prelato un loro precedente colloquio, in cui aveva affermato che “…l’ Église catholique a toujours été considerée en Roumanie l’objet d’une chaude protection de la part de nos différents Gouvernements”. 89bis
Ma monsignor Pluym si oppose alle richieste di Kogalniceanu, temendo che potessero compromettere l’indipendenza della Chiesa di Roma nei confronti del governo. In seguito oppose pure un rifiuto al Regolamento proposto nel 1864 dal ministro di Giustizia, della Istruzione e dei Culti, Kretzulesco, per il seminario cattolico che doveva sorgere a Jassy.
Le trattative fra il vescovo Pluym ed il governo romeno si erano svolte senza alcun coinvolgimento del console austriaco, tradizionale protettore dei cattolici dei Principati; tale esclusione destò ovviamente malumore e preoccupazione a Vienna.
Da parte loro i consoli di Russia e Grecia mobilitarono il clero ortodosso perché fosse abbandonato il progetto di sostituire il calendario gregoriano a quello giuliano, che continuava ad essere adottato dagli ortodossi, creando non poche difficoltà per la differenza di data rispetto ai paesi dell’Europa occidentale.
La Russia intervenne con una certa pesantezza contro i tentativi di stipulare un Concordato; il giornale “Le Nord” del 22 febbraio 1864, pubblicato a Bruxelles, ma finanziato dal governo zarista, accusò Cuza di voler subordinare la Chiesa greca alla latina per farsi riconoscere re di Romania dalle Potenze cattoliche. E ci fu pure un intervento ufficiale dell’ambasciatore russo a Costantinopoli, il generale Ignatieff, che tramite l’agente diplomatico nei Principati, barone d’Offenburg, rimproverò Cuza per il suo eccessivo “latinismo”.
Nonostante tale rimbrotto il governo di Cuza non desistette dal suo proposito di stipulare un Concordato con Roma. Dopo il colpo di Stato del maggio 1864, che rafforzava i poteri del principe, continuarono le trattative con il Vaticano, affidate però non al vescovo Pluym (decisione da attribuirsi probabilmente ai contrasti con lui avuti), ma al padre lazzarista Eugenio Borè, superiore della missione cattolica a Costantinopoli.
Borè si rivolse al segretario di “Propaganda Fide”, cardinal Barnabò, chiedendogli, per snellire le trattative, l’invio di una bozza di Concordato.
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Il cardinale non inviò la bozza richiesta, spiegando che ogni paese ha le sue caratteristiche e le sue esigenze (con finezza diplomatica non voleva urtare la controparte mettendola di fronte ad un testo preconfezionato); ma inviò comunque una nota in cui erano fissati i punti fondamentali dell'eventuale Concordato (libertà di culto, di insegnamento, di organizzazione delle parrocchie), auspicato da Cuza.
Il vescovo Pluym frenava sulle trattative, temendo sempre un eccessivo controllo dello Stato sulla Chiesa; i consoli di Francia e d'Italia invece le appoggiavano, proponendo pure che la tutela dei cattolici nei Principati non fosse più compito esclusivo del console d'Austria, ma fosse affidata invece (ricalcando quasi la formula collegiale escogitata dal Congresso di Parigi per una garanzia collettiva offerta ai Principati dalle Potenze partecipanti al Congresso stesso e non più dalla sola Russia) ai consoli delle quattro Potenze cattoliche rappresentate nei Principati (Austria, Belgio, Francia, Italia).
Cuza, sempre deciso a stipulare il Concordato, meditava di recarsi a Roma per trattare direttamente con il Vaticano, incontrando forse anche Pio IX; ed anche Kogalniceanu, pur non essendo più al governo, cui sperava però di poter fare ritorno, continuava ad adoperarsi, cercando l'appoggio italiano e francese per controbilanciare l'ostilità russa ed austriaca.
Ma Kogalniceanu non tornò al potere ed i disordini dell'agosto 1865, cui seguì nel febbraio 1866 la deposizione di Cuza,impedirono al principe di effettuare il progettato viaggio a Roma.
Tramontarono così i progetti per il Concordato, che nelle intenzioni di Cuza e Kogalniceanu doveva comportare il distacco di Moldavia e Valacchia dal mondo slavo ed un'apertura verso l'Occidente intervenendo sull'anomala situazione dell'unico paese latino di fede ortodossa.90
Rimasero infruttuose pure le trattative riprese nel 1881, durante il Regno di Carlo I.
La tenacia di Kogalniceanu e Cuza nel perseguire l'intesa con Roma trovava spiegazione appunto in motivi di politica internazionale, ritenendo prezioso un amichevole rapporto con il Vaticano, che avrebbe comportato l'appoggio delle Potenze cattoliche. E' da tenere presente l'esiguità delle comunità cattoliche: nel 1857 si contavano in Moldavia 47.226 fedeli su 1.500.000 abitanti ed in Valacchia appena 8.234 su 2.500.000 abitanti.
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Nonostante l'atteggiamento amichevole di Kogalniceanu, di Negri e dello stesso Cuza verso il mondo cattolico, permanevano tensioni e diffidenze tra le due Chiese. Il padre Giuseppe Tommasi, visitatore apostolico in Moldavia, riferiva al cardinale Barnabò il 2 febbraio 1860 le parole pronunciate da Cuza il 6 dicembre 1859 nel messaggio per lo scioglimento della Camera: “La liberté de conscience et celle des cultes seront respectées”. Era un'affermazione precisa ed incoraggiante, che non bastava però a vincere lo scetticismo del religioso, che così commentava: “egli è vero, che nulla vi ha di stabile e fermo in un paese la cui politica interna è sempre oscillante ed incerta e dove l'odio verso la religione cattolica vive nel fondo dei cuori...”. Tale sfiducia era espressione di una diffidenza tanto più grave quanto meno appariva in quel momento giustificata dagli eventi. Lo stesso Tommasi concludeva difatti con questa ammissione: “... ma nulla finora vi è di allarmante per noi”.91
Molto allarmante era invece la situazione degli Ebrei, la cui presenza in Moldavia e Valacchia era secolare: Nicolae Iorga ricordava che già nel secolo XV molti medici Ebrei vi esercitavano la professione.
Uno di essi era stato inviato dal Khan dei Tartari di Crimea, Menghi-Guizai92, per curare Stefano il Grande, che si era pure affidato ad un medico inviatogli da Venezia.
La presenza ebraica si accrebbe notevolmente in seguito: agli inizi del ‘700 affluirono numerosi Ebrei dalla Polonia in Moldavia, per esercitarvi il commercio del bestiame e dell'acquavite.
Già allora non ebbero vita facile: contro di essi era mossa l’accusa di sacrifici rituali, compiuti per utilizzare il sangue dei cristiani per riti stregoneschi, evidente grossolana deformazione dei mistero del sangue di Cristo presente nell’Eucarestia. Nel 1710 a Piatra Neamţ si ebbe un caso del genere e cinque Israeliti furono uccisi dalla fola inferocita; fu solo il primo episodio di una lunga serie, poiché accuse analoghe causarono ancora a Piatra Neamţ altre persecuzioni. Ma il caso più grave si ebbe a Bucarest nel 1801, quando ci furono 128 fra morti e feriti, inducendo il console austriaco a prendere le difese degli Ebrei e Costantino Ypsilanti a rivolgersi al metropolita ortodosso perché smentisse le accuse di omicidio rituale..
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Ma non sempre le istituzioni si opposero alle violenze della folla, anzi esse stesse a volte le promossero.
Anton Maria del Chiaro nella sua “Istoria delle moderne rivoluzioni di Valacchia” ci informa della distruzione della sinagoga di Bucarest ad opera del principe Stefano Cantacuzeno; e la Chiesa ortodossa tenne atteggiamenti contraddittori: a Galatz nel 1797 ed a Jassy nel 1807, ad esempio, gli Ebrei trovarono rifugio nelle chiese, ma erano stampate nelle tipografie dei monasteri le pubblicazioni che ripetevano l’accusa di deicidio e di omicidi rituali.
In realtà le violenze antisemite nascevano spesso da un intreccio di motivi economici e di ragioni religiose: i mercanti bulgari e greci, gelosi della concorrenza esercitata dagli Ebrei, eccitavano la folla contro di essi diffondendo quelle false accuse.93
E la tradizionale difesa da parte romena contro le accuse di intolleranza religiosa si basava appunto sull’argomento che l’antisemitismo derivava dalla esasperazione popolare per l’invadenza economica degli Ebrei e per l’usura con cui taglieggiavano contadini e boiari, costretti i primi a farvi ricorso per la loro estrema miseria ed i secondi per la loro smodata passione per il lusso per cui dilapidavano i loro patrimoni.
Per contenere l’invadenza degli Ebrei e limitarne la Potenza economica i governi della Valacchia e Moldavia emanarono periodicamente disposizioni di legge (inefficaci al pari delle grida spagnole ricordate da Manzoni) che negavano agli Ebrei l’acquisto di proprietà agricole ed il commercio di bevande alcoliche gestendo bettole nei comuni rurali.
Divieti già previsti dal principe Callimachi nel suo codice del 1817 e poi confermati dal Regolamento organico, compendio delle leggi amministrative e costituzionali, varato all’inizio degli anni ’30 del secolo XIX, durante l’occupazione russa. Misure riprese dalla legge moldava del 1844, che negava pure la possibilità per gli Ebrei di matrimoni con cristiani.
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Gli Ebrei erano considerati vagabondi stranieri, che rifiutavano di assimilarsi e di contribuire in alcun modo alle necessità della nazione che li ospitava. Ancora agli inizi del secolo XX studiosi Romeni giudicavano gli Ebrei “des étrangers absents aux heures d’épreuves, dont jamais ni le sang ni la sueur n’ont abreuvé le sol roumain”. Quindi essi « doivent se contenter, en Roumaine, de l’hospitalité généreuse qu’ils y trouvent : c’est aux Roumains, seul, qu’il l’appartient de décider jusqu’où cette hospitalité doit aller ». 94
La stessa mancanza di patriottismo era stata rimproverata ai contadini ed era stata rintuzzata da Boerescu e da Vegezzi Ruscalla, che avevano obiettato che solo liberandoli dalla servitù della gleba si poteva renderli attivi partecipi della vita nazionale.
Vagabondi, sfruttatori, antipatriottici ed anche repellenti per la loro sporcizia e per il loro aspetto.: così erano giudicati gli Ebrei. In realtà le loro condizioni igieniche, non solo in Romania, erano quanto mai precarie, certamente non per una loro libera scelta, ma perché costretti a vivere ammassati nei ghetti, in locali del tutto insufficienti.
Non potevano fare a meno di notarlo anche sostenitori della loro emancipazione, come Massimo d'Azeglio, che faceva questa descrizione del ghetto di Roma nel 1848: “un ammasso informe di case e tuguri mal tenuti, peggio riparati e mezzo cadenti”, dove si stipavano 3900 persone, il doppio della possibile capienza degli alloggi. E così proseguiva: “Le strade strette, immonde, la mancanza d'aria, il sudiciume, che è conseguenza inevitabile dell'agglomerazione sforzata di troppa popolazione quasi tutta miserabile, rende quel soggiorno tristo, puzzolente e malsano. Famiglie di quei disgraziati vivono, e più d'una per locale, ammucchiate senza distinzione di sessi, di età, di condizioni, di salute, a ogni piano, nelle soffitte e perfino nelle buche sotterranee, che in più felici abitazioni servono di cantine”.95
Non doveva certo essere migliore la situazione nei ghetti della Moldavia. Che si trattasse di un degrado generalmente diffuso in molta parte dell'Europa lo attestava anche il principe Charles Joseph de Ligne, sicuramente non ispirato da malanimo antiebraico, essendo anzi considerato quasi un precursore del movimento sionista di Theodor Herzl per avere consigliato al governo turco di consentire il ritorno degli Ebrei in una Palestina affidata al loro governo.
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Tracciava il principe questo sgradevole ritratto: “Toujours suant à force de courir les places publiques, les cabarets, pour y vendre; presque tous bossus; une barbe rousse et noire aussi crasseuse; teint livide, brèche-dents, nez long, et de travers, le regard craintif et incertain; tête branlante; cheveux crépus épouvantables; genoux picotés de rouge et découverts, pieds longs et en dedans; les yeux caves, menton long effilé; bas noirs troués et tombant sur leurs jambes desséchées, chapeau jaune à Avignon; manche jaune à Prague; bonnets de grenadiers en Pologne; ailleurs bonnets de poil sous un grand vieux feutre percé et rabattu; ou petit chapeau pointu, la pointe en l'air...Voilà comme sont en Europe dix millions d' Hébreux”.
Per De Ligne l'ostilità per gli Ebrei era ispirata da questo loro aspetto: migliorandolo, sarebbe venuta meno l'ostilità da cui erano circondati: “On croit avoir horreur des juifs à cause de leur religion, et ce n'est qu'à cause de leur tournure...qu'on les décrasse: l'habit oriental ôte la disgrâce et donne de la noblesse”.96
Convinzione forse troppo ottimista, considerati i tenaci pregiudizi sugli Ebrei.
Un quadro più positivo del mondo ebraico era tracciato con evidente simpatia dal principe russo Anatol Demideff, tessendo l'elogio della laboriosità e della disponibilità a rendersi utili, seppur non disinteressata.
Il principe nel suo resoconto di un lungo viaggio compiuto nella Russia meridionale, attraversando l'Ungheria, la Moldavia e la Valacchia nel corso del 1837, affermava che l'animazione di Bucarest era dovuta soprattutto agli Ebrei che l'abitavano: “active, insinuating and never discouraged, they disseminate life and movement about them; for they spare neither trouble nor fatigue, in the hope of obtaining the smallest recompense. Thus, the moment you perceive the broad-brimmed hat and the black rusty gown of a few, you may reckon upon commanding, if you please the services of a clever, intelligent, indefatigable servant...You may, without fear, ask anything of this man: he will answer you in German, in Italian, perhaps in as many as four languages; and for a few piastres – putting aside all other business – his industry, his ingenuity, his silence, his patience, his eloquence, his virtues, his vices, his soul and his body – all are yours”.97
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Occorre però ricordare che le valutazioni di Demidoff si riferivano a Bucarest: ed in Valacchia le condizioni di vita degli Ebrei erano senz'altro migliori che in Moldavia, sia per la loro assimilazione (erano sefarditi venuti da più lungo tempo, dopo una permanenza in Turchia a seguito della loro espulsione dalla Spagna nel 1492), sia per il loro numero molto minore che in Moldavia.
Ha osservato Carol Jancu nella sua storia degli Ebrei di Romania che l'antisemitismo può nascere anche dove non vi è un numero esorbitante di Ebrei; è comunque un dato di fatto che in Moldavia vi era una violenta persecuzione, dovuta per il governo e per la popolazione al loro numero eccessivo.
Il governo moldavo aveva perciò cercato a più riprese di contenere l'immigrazione dalla Galizia austriaca e dalla Russia: solo Mihail Sturdza, sovrano di Moldavia dal 1834 al 1849, aveva favorito il loro afflusso in considerazione dei vantaggi economici derivanti dalla pesante esazione fiscale cui erano soggetti gli Ebrei.
Le statistiche dell'epoca davano presenti in Valacchia nel 1831 829 famiglie di Israeliti, corrispondenti a 3316 persone, di cui 594 famiglie, pari a 2376 individui, concentrate a Bucarest; su di una popolazione totale di 1.650.000 abitanti di Ebrei rappresentavano una trascurabile minoranza. Nel 1838 il loro numero era salito da 829 a 1490 famiglie (cioè da 3316 a 5960 persone), di cui 922 famiglie (3688 persone) a Bucarest.
Nel 1860 infine la popolazione ebraica in Valacchia ammontava a 9234 persone su di una popolazione totale di 2.400.971 abitanti.
Questi i dati riportati da Verax nella sua opera già citata alla nota 94; l'autore indicava poi per la Moldavia queste notizie: 12.000 Ebrei nel 1803, 36.946 nel 1831.79.564 nel 1838 (era il periodo in cui il principe Sturdza favoriva l'emigrazione ebraica), 124.867 nel 1859.
Verax concludeva il quadro statistico con i dati relativi al 1899: sulla popolazione complessiva di 5.912.520 abitanti registrati per tutta la Romania gli Ebrei erano 269.015; per la Moldavia su di una popolazione totale di 1.832.106 abitanti si contavano 195.887 Ebrei, pari al 10,7%.
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Era certo una percentuale significativa, ma ben lontana dai dati sicuramente manipolati ad arte, per spiegare la persecuzione degli Ebrei con il loro eccessivo numero, attribuiti a fonti ufficiali romene dal bollettino della Società geografica italiana del 1872 (p. 185): gli Ebrei di Moldavia e Valacchia da 67.000 nel 1859 erano divenuti addirittura 612.000 nel 1869, con un incremento cioè di oltre il 900% nel corso appena di un decennio!
Lo stesso bollettino qualche anno dopo, nel 1875 pubblicava un articolo di G.G. Cantacuzeno, (pp. 21-30) primo segretario dell'agenzia diplomatica romena a Roma (era anche questa una fonte ufficiale) che affermava essere 274.000 gli Ebrei in tutta la Romania (cifra credibile, venendo quasi a coincidere con i 269.015 Ebrei attestati da Verax per il 1899: si può spiegare il lieve calo di presenze con l'emigrazione ebraica verso l'America, che compensava il naturale incremento demografico).
È possibile seguire la curva demografica della popolazione israelita in Romania attraverso le statistiche del ministero dell'Interno romeno, relative appunto al periodo della pubblicazione dei dati così poco verosimili sul bollettino della Società geografica italiana, qui riportati.
Secondo queste statistiche ministeriali nel 1870 per la popolazione ebraica si registrarono 7625 nascite e 5168 morti, con un saldo attivo di 2457 unità; nel 1871 nati 7874, morti 5034 (saldo attivo 2840 unità); nel 1872 nati 7549, morti 4954 (saldo attivo 2590 unità); nel 1873 nati 7637, morti 5703 (saldo attivo 1934 unità); nel 1874 nati 7719, morti 6955 (saldo attivo 764 unità).98
La popolazione ebraica era stata sempre tenuta in uno stato di soggezione, esclusa dai diritti politici e civili.
Il programma di Islaz del giugno 1848, Magna Charta dei rivoluzionari valacchi, prevedeva l'emancipazione completa degli Ebrei, cui venivano riconosciuti gli stessi diritti politici dei cristiani e fu pertanto eletto nel consiglio municipale di Bucarest il banchiere ebreo Manoach. Ma fu una concessione effimera, destinata a svanire con la sconfitta dei rivoluzionari, alcuni dei quali anzi presero in seguito posizioni antisemite.
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La Conferenza preliminare svoltasi a Costantinopoli nel 1856 per preparare i lavori del Congresso svoltosi poi a Parigi nello stesso anno, aveva affermato il principio della parità civile e politica degli Ebrei di Romania. Ma il “Divano ad hoc” di Valacchia convocato per fornire informazioni ed elementi di giudizio alla Conferenza di Parigi del 1858 da cui scaturì la Convenzione sui Principati Danubiani, ignorò il problema, mentre il Divano moldavo affermò che solo i cristiani avrebbero potuto in futuro ottenere i diritti politici, malgrado l'intervento di Armand Levy, studioso francese di origine ebraica attivo nel sostenere la causa dei suoi confratelli.
La Convenzione del 19 agosto1858 assunse quindi sul problema ebraico una posizione più arretrata rispetto a quella della Conferenza di Costantinopoli nel 1856: l'articolo 46 difatti stabilì che ai non cristiani (il che significava agli Ebrei non essendovi nei Principati altre comunità religiose) andavano riconosciuti per il momento soltanto i diritti civili, quelli politici avrebbero potuto ottenerli in futuro con successive disposizioni di legge.
Questa apertura non ebbe comunque una concreta attuazione ed anzi non impedì nuove violenze antisemite, come quelle verificatesi a Galatz nell'aprile 1859, poco dopo l'elezione di Cuza, essendosi diffusa la voce che il sangue di un bambino cristiano era stato usato dagli Ebrei per compiere i loro riti; la sinagoga fu distrutta, molte case saccheggiate, arrestati 11 Ebrei, liberati dopo molti mesi solo per l'intervento dei consoli stranieri.
Un tentativo per alleggerire questa pesante situazione venne fatto da Kogalniceanu, nella sua qualità di ministro della Giustizia e dei Culti nel governo moldavo.
Egli rivolse difatti una circolare ai rabbini della Moldavia in data 12 maggio 1860, affermando che gli Ebrei perseguitati negli altri paesi avevano sempre trovato ospitalità nei Principati Uniti: “ce pays doit devenir même pour vous une patrie”, era la promessa di una nuova era basata sull'integrazione; gli Ebrei non dovevano pertanto restare stranieri per la lingua, l'abbigliamento, i costumi, gli interessi, arrivando a preferire la giurisdizione dei consoli stranieri a quella dei tribunali moldavi, in base alle capitolazioni stabilite dalla Porta nei secoli precedenti con i principi di Moldavia e Valacchia, per cui gli oriundi erano giudicati dai consoli dei paesi d'origine e non dai magistrati locali.
Ma pochi Ebrei sembravano disposti ad integrarsi e da ciò nascevano le antipatie e le persecuzioni.
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Il governo moldavo mirava secondo Kogalniceanu a “...arriver à une fraternité de toutes les classes sans tenir compte de l'origine et de la religion… ; ...mais tous nos efforts resteront vains si vous même et vos coreligionnaires ne voulez pas nous aider, en prenant la décision de vous considérer et de devenir fils du pays, c'est à dire d'être Roumains”, aggiungeva il ministro agli Israeliti.
Kogalniceanu portava ad esempio gli Ebrei dei paesi occidentali, perfettamente integrati, ed invitava a mantenere l'atteggiamento patriottico assunto dagli Ebrei nel 1848, quando si erano battuti per la causa nazionale.
Assicurava che avrebbero potuto professare liberamente la loro fede, ma era necessaria la loro integrazione, da attuarsi soprattutto nella scuola e nell'esercito: “Nos écoles sont ouvertes pour vous, envoyez les enfants sur leurs bancs. Notre armée a besoin d'augmenter ses effectifs, vos jeunes peuvent y entrer. Rien ne peut annuler les préjugés mieux que l'école et l'armée. L'amitié née sur les bancs de l'école et dans les rangs de l’ armée dure autant que la vie”.
Seguiva infine l'invito ad abbandonare l'abbigliamento tradizionale, ormai usato soltanto in alcune regioni della Polonia: “c'est lui qui vous met en état d'être désagréables à regarder et, en vous isolant de toutes les couches sociales, il vous expose aux bouffonneries et même aux brutalités de la foule”.99
Ma le buone intenzioni di Kogalniceanu rimasero inattuate: al di là delle sue belle parole esisteva una realtà ostile, come la conclusione stessa della circolare lasciava intravedere, là dove erano ricordate le “bouffoneries” e le “brutalités” di cui erano vittime gli Ebrei.
Ma, oltre a dover subire gli attacchi provenienti dall'esterno, le comunità ebraiche in Moldavia e Valacchia erano pure dilaniate da contese al loro Interno. Si fronteggiavano gli Ebrei ortodossi, da tempo presenti nei Principati, e quelli di rito moderno arrivati più di recente, soprattutto dalla Prussia, dalla Russia e dalla Galizia, detti “untertaten” (soggetti), perché posti di sotto la tutela dei consoli dei paesi d'origine; gli “untertaten” finirono per prevalere sugli ortodossi, ancor prima dell'unione moldo-valacca.
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Riportarono difatti un notevole successo, quando Kretzulescu, ministro valacco dei culti, rispose positivamente il 15 marzo 1857 alla loro richiesta di protezione, accordando, oltre al suo patronato, anche il consenso per la costruzione di un tempio “corale”, cosiddetto perché, innovando la tradizione, nelle funzioni era pure usata la musica vocale.100
A queste misure favorevoli ai modernisti reagì subito la comunità ebraica ortodossa di Bucarest: a distanza di poco più di un mese, il 19 aprile 1857, lo starosta Avram Gutman, rivolgeva al governo una protesta, affermando che la raccolta di fondi per costruire il tempio “corale” era una truffa, opera di individui soggetti alla protezione straniera, guidati da un certo Ilic Leib Vainberg, che miravano a costituire illegalmente una nuova comunità. Esistevano di già i templi necessari per il culto ebraico, le pretese novità offendevano la tradizione e degradavano i precetti mosaici. Si concludeva con la previsione di una ribellione in tutto il paese contro gli innovatori.
Ma i modernisti la spuntarono ed il tempio “corale” di Bucarest fu inaugurato l'11 luglio 1857. 101
Seguirono ulteriori controversie tra ortodossi e modernisti per l'imposizione della tassa sulla macellazione, in cui intervenne l'agente diplomatico prussiano, proponendo che la tassa fosse stabilita e riscossa di comune accordo dalle due comunità; accogliendo tale proposta il presidente del consiglio e ministro dell'Interno Jon Ghika stabilì che ci fosse una sola tassa, decisa dalle due comunità, ripartendo fra di esse i proventi, in proporzione al numero dei loro componenti.102
Proseguendo la loro offensiva contro i tradizionalisti, i modernisti, guidati dal dottor Julius Barash, nel dicembre 1860 arrivarono a chiedere al presidente del consiglio dei ministri di riconoscere soltanto la loro comunità ed i loro statuti, sciogliendo la comunità dei loro avversari a Bucarest.103
La richiesta non fu accolta, ma i modernisti ottennero l'espulsione del rabbino Malvin, uno dei principali esponenti degli ortodossi. Barash era un personaggio ragguardevole, primo fra gli Ebrei di Romania a difenderne la causa all'estero, pubblicando a Parigi nel 1860 “L'émancipation israélite en Roumanie”.
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Non fu una voce isolata la sua: difatti le più forti ed affermate comunità ebraiche europee, ed in seguito anche quelle degli Stati Uniti d'America, si interessarono attivamente alla sorte degli Ebrei perseguitati in Romania ed in altri paesi.
In Francia era sorta l'Alleance Israélite Universelle”, di cui fu principale animatore Adolphe Crémieux, organizzazione pilota per la difesa degli Ebrei. In Inghilterra si tennero nel 1867 accesi dibattiti parlamentari sulla situazione in Romania, cui presero parte personalità ebraiche di spicco, come Francis Goldsmith, deputato alla Camera dei Comuni, e sir Moise Montefiore, membro della Camera dei Lords.104
Ci furono interesse e solidarietà per gli Ebrei di Romania anche in Italia, dove, come osservato da Delio Cantimori nella prefazione alla “Storia degli Ebrei italiani sotto il fascismo” di Renzo de Felice, fino alle leggi del 1938 non era esistito un razzismo antiebraico.
Questa tradizione di tolleranza non può dirsi compromessa da qualche episodio, come la mancata nomina dell'ebreo Sansone d'Ancona a ministro delle Finanze nel primo governo Ricasoli nel 1861, cui si era opposto il Senatore Enrico Poggi; e come l'analoga mancata nomina di Isacco Pesaro Maurogonato a ministro delle Finanze nel 1873, dovuta all'opposizione del deputato Francesco Pasqualigo.105
Questa avversione alla nomina di ministri ebrei (cessata peraltro con le nomine successive di Luzzatto e Sonnino) non può difatti cancellare precedenti illustri a favore dell'emancipazione ebraica.
Nel 1835 Giuseppe Mazzini dedicò due articoli al contrasto fra il governo francese ed il cantone svizzero di Bâle Campagne, che aveva vietato l'acquisto di una proprietà agli ebrei Wahl, cittadini francesi, di cui Mazzini sostenne il buon diritto.106
Qualche anno dopo, nel 1837, Carlo Cattaneo combatteva le discriminazioni antiebraiche nel saggio “Delle interdizioni Israelitiche”. Pure favorevole alla parità di diritti degli Ebrei si manifestava Vincenzo Gioberti nel “Primato morale e civile degli Italiani”(1843) e Roberto d'Azeglio perorava con Carlo Alberto la causa degli Ebrei e dei Valdesi nel 1847; nello stesso anno il fratello Massimo pubblicò a Firenze il saggio sulla emancipazione degli Israeliti, già ricordato.
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A queste prese di posizione in campo culturale seguirono presto iniziative politiche. Lo Statutodi Carlo Alberto, promulgato il 4 marzo 1848, non conteneva disposizioni a favore degli Ebrei; ma, a qualche settimana di distanza, il 25 marzo, fu emanata la carta di emancipazione per essi.
Con perfetta sincronia il 29 marzo 1848 un decreto della Repubblica veneta sanciva la parità di diritti degli Ebrei; anima della Repubblica era Daniele Manin, ebreo convertito il cui vero nome era Medina.
Del governo repubblicano di Venezia fecero parte due Ebrei: Isacco Pesaro Maurogonato, ministro delle Finanze, (la sua nomina alla stessa carica nel governo italiano fu contestata nel 1873, come si è visto sopra) e Leone Pincherle, ministro dell'Agricoltura.
Da parte loro gli Ebrei parteciparono ai moti risorgimentali, oltre che a Venezia, a Roma nel 1848-49 con Giacomo Venezian e Ciro Finzi; Isacco Artom si arruolò volontario nell'esercito piemontese nel 1848.
Notevoli finanziamenti furono inoltre concessi al governo piemontese da banchieri ebrei: Vitta di Casale, Todros di Torino, Ottolenghi di Asti ed i famosi Rotschild di Parigi.
Pio IX, invece, dopo l'iniziale periodo liberale, che tante speranze aveva suscitato, fu ostile sia al liberalismo politico che alla tolleranza religiosa: fecero scalpore i rapimenti dei bambini Edgardo Mortara a Bologna e Giuseppe Coen a Roma, per convertirli al cattolicesimo; presso la chiesa della Madonna dei Monti a Roma fu istituita la casa dei catecumeni.
Era stato inoltre già disposto da Leone XII nel 1827 il ripristino delle discriminazioni antiebraiche: obbligo di residenza nel ghetto; esclusione dalle scuole (ammessi solo gli studi di medicina, campo in cui gli Ebrei avevano sempre primeggiato, curando anche i pontefici); divieto di acquistare beni immobili, di costituire società commerciali con i cristiani,di avere domestici cristiani; obbligo di una “licenza viatoria” per chi dovesse viaggiare; ripristinati particolari tributi per gli Ebrei. Una certa mitezza era invece dimostrata nel campo penale nei confronti degli Ebrei, pochi dei quali furono imprigionati per cause politiche.107
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La base ideologica di tale politica può trovarsi nella distinzione fatta dalla “Civiltà Cattolica”tra il principio astratto di tolleranza, che prescinde dalle particolari condizioni storiche, e la concreta realtà legata invece ad una specifica situazione sociale e ad un determinato momento storico. Fatta tale distinzione,l'organo dei gesuiti proseguiva affermando che in una società compattamente cristiana era un vero ed imprescrittibile diritto assicurare la libertà di quel culto, mentre l'assicurarlo ad altri culti, o peggio a tutti, era un “oltraggio solenne alla società stessa”; in una società totalmente cristiana introdurre un culto ad essa contrario, o anche semplicemente diverso, era “illegittimo, e riuscirebbe, oltre a ciò, gravemente pregiudizievole, scomunicando la comunanza, come dicevano i nostri antichi, e rendendo principio di divisione quel fondamento di ogni umana convivenza, il quale, appunto dal “religare”che fa gli animi, fu detto meritatamente “Religione”. 108
Non a caso l'articolo fu pubblicato nel 1864, l'anno del Sillabo.
Nel Granducato di Toscana invece gli Ebrei erano tradizionalmente bene accetti, al punto che dalla loro fiorente comunità di Livorno provenivano i consoli inviati nei paesi del Maghreb, dove essi erano in corrispondenza con i numerosi confratelli là residenti.
Nel Regno delle Due Sicilie, infine, non si poneva il problema degli Ebrei, espulsi durante la dominazione spagnola.
Il Regno d'Italia fece proprie le tradizioni di tolleranza degli Stati preunitari; gli Ebrei ebbero i diritti civili e politici già assicurati dallo Statuto di Carlo Alberto, disposero di propri organi di stampa e poterono accedere anche ad elevati uffici pubblici. In questo contesto venne a collocarsi la questione degli Israeliti di Romania.
Ancor prima che si costituisse una sezione italiana ufficiale dell' Alliance Israélite Universelle sorta nel maggio 1873 con il determinante contributo dell'ebreo francese Armand Levy,109 (fino a quella data esisteva soltanto un comitato provvisorio dell' Alliance), le comunità
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Israelitiche d'Italia seguivano con trepidante attenzione le difficoltà degli Ebrei in Romania, dove con sua circolare del 17 giugno 1861 il ministro dell'Interno,Golescu, (che pure era stato uno dei protagonisti della rivoluzione liberale del 1848 in Valacchia), richiamava in vigore il divieto per gli Ebrei di stabilirsi nei comuni rurali e decretava l'espulsione di quanti già vi soggiornavano.
A seguito dell'emozione destata da tali misure, l' “Educatore Israelita” di Vercelli pubblicò una lettera dei direttori del giornale, Giuseppe Levi e Esdra Pontremoli, che ringraziavano Isacco Artom già segretario particolare di Cavour ed autorevole rappresentante del ministero degli Esteri (nel 1869 ne divenne segretario generale) per la pronta e favorevole risposta data alla loro richiesta di intervenire presso il governo romeno in difesa degli Ebrei.110
L'origine ebraica di Artom certo poté influire sulla sua disponibilità così prontamente manifestata. Ma occorre precisare che tale origine non faceva velo né ad Artom né ad un altro diplomatico di rango pur esso israelita, Giacomo Malvano, nel giudicare eventuali responsabilità degli stessi Ebrei oggetto di persecuzioni.
Scriveva difatti Malvano ad Artom il 30 aprile 1865 che gli Ebrei di Tetuan, dopo l'intervento di sir Moise Montefiore a loro favore presso il sultano del Marocco, erano diventati troppo baldanzosi e si erano rifiutati di pagare il contributo di 15 lire, “da tempo immemorabile” versate per pagare la guardia incaricata di custodire il ghetto ed avevano scacciato questa guardia. Ne era seguito l'arresto di 15 Ebrei, che Malvano in qualche modo giustificava, asserendo non potersi dire esistente in Marocco una campagna antisemita.111
Anche il Comitato provvisorio dell'”Alliance” in Italia si rivolse al governo italiano sollecitando un suo intervento perché fosse revocata la circolare di Golescu112 e Ricasoli il 12 dicembre 1861 chiese al console Strambio se anche l'agente diplomatico francese avesse avuto istruzioni per interessarsi del problema.113
trambio rispose il 26 dicembre minimizzando il caso a suo parere sollevato senza gravi motivi; comunicava inoltre di avere, ancora prima di aver ricevuto il dispaccio del ministero, raccomandato a Cuza ed al governo romeno il rispetto della libertà civile e religiosa. L'agente diplomatico inglese aveva ricevuto disposizione di intervenire, mentre a quello francese invece non erano pervenute istruzioni. A conclusione del suo rapporto, Strambio, prometteva di far pervenire in seguito informazioni più dettagliate.114
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Queste informazioni tardarono però per più di un anno: furono inviate solo il 4 gennaio 1863 da Strambio quando era ministro degli Esteri Giuseppe Pasolini.
Strambio si giustificava di tale ritardo, spiegando che prima di rispondere aveva atteso a lungo ed invano che pervenissero istruzioni all' agente francese per informarne il Ministero, come richiesto da Ricasoli e forniva una descrizione ampia e particolareggiata sugli Ebrei in Romania.
Da molto tempo essi erano presenti in Moldavia e Valacchia. Secondo l'ultimo censimento erano 124.867 in Moldavia con 247 sinagoghe e in Valacchia 17.632 di cui 16.686 vivevano in città.
Secondo il console c'era stata sempre tolleranza civile e religiosa verso gli Ebrei; dopo la Convenzione del 1858 era sparito l'unico divieto esistente, quello di costruire le sinagoghe nelle vicinanze delle chiese. I rabbini avevano la stessa dignità dei sacerdoti cristiani e le loro decisioni relative ai matrimoni erano rispettate dai tribunali civili. Non c'erano persecuzioni antisemite ed esisteva invece ostilità verso i cattolici, detti latini.
Le comunità Israelitiche amministravano autonomamente i loro beni, avevano proprie scuole ed ospedali, eleggendone i responsabili,detti “efori”. Non esistevano disparità di fronte alla legge; era nominale il divieto di risiedere in campagna ed il divieto di gestire alberghi ed osterie veniva aggirato ricorrendo a prestanome cristiani.
Il recente giro di vite disposto da Golescu, insinuava il console, dipendeva dal rifiuto dei banchieri ebraici di concedere un prestito allo Stato.
Il console era intervenuto presso Cuza e Demetrio Ghika, successore di Golescu al ministero degli Interni; questi non aveva revocato la circolare di Golescu, ma aveva disposto il rispetto delle situazioni esistenti, riservandosi di decidere in futuro se vietare che ne sorgessero di nuove. Osservava poi il console che la questione dell'affitto di terre agli Ebrei andava risolta nell'ambito di una generale legge agraria, ancora da farsi.
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Restava in vigore il divieto per gli Ebrei di spostarsi da un Principato all'altro. Se gli Ebrei di Moldavia si fossero civilizzati, sarebbe venuto meno il timore di una loro massiccia immigrazione, come “quella funesta che dalla feccia delle popolazioni israelite della Polonia e della Russia si operò in passato”. Era quindi condannata la decisione del precedente principe di Moldavia, Mihail Sturdza, di consentire l'afflusso di Ebrei perché alimentavano un ricco gettito fiscale.
La totale emancipazione degli Ebrei, affermava Strambio, era ostacolata dal fanatismo di quanti venivano dalla Polonia: erano molto più retrivi di quelli di origine russa e spagnola: questi ultimi erano il più civili, meritevoli di essere emancipati.
Il tentativo di alcuni giovani ebrei di vestirsi all'europea era stato bloccato dall'intervento dei capi delle comunità in Moldavia, rivoltisi a Sturdza perché lo proibisse. L'abbigliamento tradizionale dava agli Ebrei di Jassy un “lurido aspetto”, di cui il console si diceva disgustato. Tale giudizio del console concordava con le osservazioni di Massimo d'Azeglio e del principe de Ligne sulle tragiche condizioni igieniche degli Ebrei, ma era privo della umana comprensione da essi dimostrata.
L'ostinata chiusura degli Ebrei di Moldavia verso la società circostante per Strambio era dimostrata dal fatto che pochi ragazzi di quella comunità frequentavano le scuole romene; e la chiusura persisteva tenacemente, malgrado le esortazioni a superarla fatte dagli Ebrei di Francia e Germania; era quindi pericoloso dare agli Ebrei una piena libertà, di cui avrebbero fatto cattivo uso: conclusione contraddittoria rispetto alle precedenti affermazioni di una presunta parità di cui gli Ebrei avrebbero già goduto.
Dalle critiche di Strambio si salvava soltanto la “Società di progresso israelita”, costituita a Bucarest nel novembre 1862, per favorire il progresso morale e culturale degli Ebrei, attraverso lo studio delle scienze, le attività professionali, lo sviluppo industriale, la formazione patriottica.
Alla Società potevano aderire tutti, anche i seguaci di altre fedi religiose. La realizzazione degli obiettivi cui mirava la Società avrebbe portato ad avanzare verso l'emancipazione, “attuando le liberali intenzioni del governo e quelle tollerantissime delle popolazioni cristiane di questo paese”.
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Era allegato al rapporto il decreto governativo del 3 luglio 1862 che eliminava ogni ingerenza governativa nella gestione delle scuole e degli ospedali ebraici, soggetti comunque alle norme generali di legge, venendo stabilito che “tous les Israélites indigènes ou étrangers soient désormais, en ce qui concerne leurs obligations et leurs devoirs comme habitants de ce pays, soumis aux mêmes règlements que les indigènes ou les étrangers appartenants à d’autres cultes”.115
La fittizia parità affermata dal decreto poteva spiegare il facile ottimismo del console; era comunque importante il riconoscimento contenuto nel decreto dell'esistenza, accanto a quelli stranieri, di Ebrei “indigeni”, le cui richieste per ottenere la cittadinanza avrebbe quindi dovuto a maggior ragione essere accolte.
Questa importante ammissione fu però in seguito sconfessata e tutti gli Ebrei continuarono ad essere sempre considerati stranieri indesiderabili.
Bisogna poi osservare che l'autonomia di gestione delle proprie scuole e dei propri ospedali riconosciuta alle comunità ebraiche celava un aspetto negativo sotto le apparenze positive: le comunità restarono prive di uno status legale e si verificò una confusione amministrativa; sembrò quasi che l'autonomia fosse un dolce avvelenato e che il governo avesse voluto risolvere così le difficoltà derivanti dai rapporti con le comunità, che avrebbero dovuto sbrogliare da sole delle matasse intricate.
Si mantennero o addirittura aumentarono le disparità di condizione tra gli askenazi della Moldavia ed i sefarditi della Valacchia: i primi rimasero ancorati agli usi ed all'abbigliamento tradizionali continuando a concedere prestiti ad usura ed a dedicarsi al commercio degli alcolici; i sefarditi , invece, alla fine del Regno di Cuza nel 1866 erano ormai divenuti artigiani o commercianti di vari articoli, entrando a far parte di una nascente classe media.116
Era quanto auspicava Marco Antonio Canini, favorevole all'integrazione degli Israeliti, in quanto avrebbero potuto contribuire alla formazione di una borghesia fino ad allora inesistente nei Principati; nella sua opera autobiografica già ricordata, “Vingt ans d'exil”, affermava di perdonare ai Romeni le simpatie filo russe, ma non la persecuzione degli Ebrei,
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che avevano i difetti dei popoli a lungo perseguitati, ma a differenza dei Romeni erano laboriosi: “C'est cette forte race juive allemande qui a produit les Mendelsohn, les Meyerbeer, les Heine, les Diefenbach et tant d'autres hommes illustres. Est ce qu'une infusion de ce bon sang juif dans les veines appauvries des Daco-Roumains, ne serait plus salutaire?”.
Affermava poi Canini di sentirsi tenuto a difendere i poveri Ebrei di Roman e di Bacau, né migliori né peggiori della restante umanità: “Ils sont faibles et persécutés; je suis donc leur ami. J'ai toujours laissé à d'autres l'honneur et les avantages d'être les amis des forts. Tout ce qui se passe depuis quelque temps en Roumanie, attriste les amis sincères de ce pays, les amis du progrès”. (pp. 160-161).
Gli interventi italiani sul governo romeno, nella questione ebraica come in altre, erano comunque discreti e non pressanti come lo erano a volte quelli di altre Potenze.
Questa moderazione era dovuta alla tradizionale amicizia tra i due Paesi, che resisteva ai dissapori occasionali ed ad alcune asprezze di linguaggio dei diplomatici italiani (limitate comunque alle comunicazioni riservate tra il ministero degli Esteri e la rappresentanza a Bucarest); ma dipendeva soprattutto dalla prudenza della politica dell'Italia, da poco arrivata all'indipendenza ed in difficoltà nell'assumere il ruolo di grande Potenza.
Il ministro degli Esteri, Melegari, nelle istruzioni impartite il 5 luglio 1862 al rappresentante nominato presso la Porta, Caracciolo di Bella, raccomandava infatti circospezione nell'agire, “sia per le divergenze e le rivalità che corrono fra le Potenze, sia per la poca civiltà in cui sono ancora quei popoli, cosicché riesce più difficile applicare loro in tutto e per tutto le istituzioni europee e trattenerli da improvvise e perniciose combustioni”.
Pertanto, proseguiva Melegari, “quando ella veda che l'idea di nuove concessioni sia divisa dalla Francia, dalla Russia e non troppo apertamente contrastata dall'Inghilterra, vi darà il suo appoggio, ma sarà prudente consiglio si astenga dal pigliare l'iniziativa”.
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Sottolineava ancora Melagari l'importanza della questione orientale per l'Italia: “l'Oriente vuol essere la stella polare”; e, ricordato che erano ancora incerte le future alleanze dell'Italia, ammoniva così l'ambasciatore: “quindi sarebbe inopportuno il pronunciarsi in modo troppo reciso nel nostro linguaggio anche amichevole o di conversazione su queste lontane ed incerte eventualità. Tenersi indissolubilmente uniti colla Francia, guardarsi dal porgere un pretesto qualunque ai malumori ed alle diffidenze dell'Inghilterra, mostrarsi amici e cortesi colla Russia, benevoli coi Turchi, coi Greci e colle altre nazionalità d'Oriente, ma senza stringere impegni con nissuno...”. 117
Oltre alla questione ebraica gravavano sul governo e sul principe altri problemi di cui era urgente occuparsi.
Cuza non aveva promulgato la legge agraria votata dopo la tragica fine di Barbu Catargi dal Parlamento controllato dai conservatori, per cui restavano immutati i privilegi dei grandi proprietari. I rapporti fra il sovrano ed il partito conservatore erano molto tesi, avvelenati da reciproci sospetti: Cuza temeva un complotto inteso a rovesciarlo ed i suoi avversari ritenevano probabile che meditasse un colpo di Stato.
In effetti circolava l'idea di sostituire a Cuza un principe straniero e si facevano i nomi del principe Napoleone Bonaparte, che avrebbe certo avuto l'appoggio francese, e del duca di Leuchtemperg, gradito alla Russia. 118
La difficile situazione dei Principati preoccupava le Potenze garanti, per le possibili ripercussioni internazionali.
Gli ambasciatori accreditati presso la Porta pertanto a fine febbraio1863 raccomandarono agli agenti diplomatici a Bucarest di compiere un intervento comune per scongiurare un colpo di Stato e per salvaguardare le prerogative del Parlamento. Cuza rassicurò i diplomatici smentendo di pensare ad un colpo di Stato e minimizzando la gravità della crisi; dichiarò pure che non era necessario varare un nuovo governo e che prima cura del Parlamento doveva essere l'approvazione del bilancio.
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Queste dichiarazioni non convinsero gli agenti: nel loro rapporto collettivo inviato a Costantinopoli ritenevano inevitabile a conclusione della crisi la sostituzione di un principe straniero a Cuza o un colpo di Stato di quest'ultimo. Erano messe in evidenza le responsabilità del principe: le lamentele dei parlamentari rispecchiavano quelle del paese; nuove elezioni dopo l'eventuale scioglimento dell'assemblea non ne avrebbero mutata la composizione. Ed una nuova legge elettorale avrebbe alterato gli equilibri politici esistenti, favorendo un'affermazione dei rivoluzionari a scapito dei conservatori: ma tale legge avrebbe dovuto approvarla la Camera ostile a Cuza e perché entrasse in vigore occorreva il consenso delle Potenze garanti.
Non era opportuno, secondo gli agenti, esporsi troppo nell'appoggiare Cuza, poiché in tal caso avrebbe trovato conferma l'accusa rivoltagli di regnare solo grazie al sostegno straniero. Volendo mantenersi al di sopra delle parti, gli agenti diplomatici rivolgevano un duplice appello, consigliando al principe di formare un nuovo governo ed all'assemblea di non formulare programmi inaccettabili per Cuza. Concordavano infine nel ritenere che l'urgenza maggiore fosse approvare il bilancio, poiché sarebbe stato contrario alla Convenzione del 1858 amministrare senza l'approvazione del Parlamento.119
Nonostante l'intervento dei diplomatici stranieri continuò il braccio di ferro fra il principe e l'assemblea. La sessione parlamentare difatti si concluse senza che la Camera avesse approvato il bilancio. Lo segnalava il 16 marzo 1863 il reggente il consolato italiano, Brunenghi,120 che nel successivo rapporto del 19 aprile comunicava l'invito a non pagare le tasse rivolto ai cittadini dagli avversari di Cuza. Pochi però aderirono a questo sciopero fiscale e contro di essi le esattorie attuarono procedimenti coattivi.121
In questa atmosfera piena di tensione si diffondevano voci allarmate circa l'intenzione di Cuza di modificare la Costituzione perché il paese fosse governabile. Cuza smentì di nutrire questi propositi, ma in realtà era già pronto il progetto di una nuova Costituzione, pubblicato il 24 novembre 1863 sul giornale parigino “Le Matin” : era stato il governo francese a fornire il documento al giornale, volendo con tale pubblicazione mettere in difficoltà il principe romeno e sventarne le manovre.
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Si moltiplicavano frattanto i motivi di attrito fra Cuza ed i governi stranieri per il riacutizzarsi del problema degli ingenti beni dei monasteri dedicati ai Luoghi Santi.
Sorti in origine solo come luoghi di preghiera e di meditazione, i monasteri in Moldavia e Valacchia avevano però da lungo tempo assolto anche una funzione di supplenza dell'amministrazione pubblica, svolgendo una intensa attività nel campo dell'istruzione e dell'assistenza sociale: istituire scuole, tipografie ed ospedali, elargire sovvenzioni ai bisognosi, offrire ospitalità ai pellegrini erano attività entrate a far parte dei compiti dei monasteri ed erano finalità espressamente indicate negli atti delle cospicue donazioni fatte dai benefattori.
Per assicurare una buona gestione dei loro patrimoni molti monasteri erano “dedicati” ad istituzioni consimili della Palestina o del Monte Athos, che godevano di una grande reputazione.
Nacquero annose ed intricate controversie con i monaci Greci, venuti ad amministrare questi monasteri “dedicati”, sul significato appunto del termine “dedica”, sinonimo di “donazione” per i Greci; per contro i Rumeni sostenevano che la “dedica” attribuiva ai monasteri dei Luoghi Santi solo la direzione, a determinate condizioni, delle attività connesse ai monasteri moldo-valacchi e la gestione del loro patrimonio, sempre più ingente grazie alle continue donazioni che si aggiungevano a quelle iniziali dei fondatori.
Molti documenti smentivano l'interpretazione dei Greci: ad esempio, l'atto di dedica del monastero della Santa Trinità, stilato nel 1613, stabiliva che l'igumeno venuto dall' Athos doveva assicurare una buona amministrazione e che soltanto il residuo attivo del bilancio poteva andare ai monaci della montagna sacra.
Il principe di Valacchia, Şerban Cantacuzeno Bessarab, sempre agli inizi del XVII secolo, disposte nell'atto di fondazione del monastero di Cotroceni che fosse “dedicato” ad un monastero del Monte Athos , cui erano destinate le risorse residue dopo aver soddisfatto tutte le esigenze del monastero “dedicato”.
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Finalità e disposizioni furono però disattese nel corso del tempo, per cui in realtà le rendite dei monasteri “dedicati” finivano quasi per intero a quelli dei Luoghi Santi, trascurandosi le funzioni culturali e benefiche previste in origine.
La Porta aveva lasciato correre, non opponendosi a queste prevaricazioni; ma dopo il tentativo rivoluzionario della eteria compiuto nel 1820 sotto la guida di Alessandro Ypsilanti, volle punire i Greci, sostituendo principi moldavi e valacchi ai fanarioti e liquidando gli igumeni greci dei monasteri “dedicati”.
Si trattò di una breve parentesi: la Russia zarista, protettrice della Chiesa greco ortodossa, sconfisse la Turchia nel 1829 e restaurò il controllo dei monaci greci sui monasteri “dedicati”.
La questione di tali monasteri si propose nel 1857 alla Commissione internazionale di inchiesta inviata nei Principati per studiarne la situazione in vista del nuovo assetto costituzionale da dare a Moldavia e Valacchia.
I delegati di Austria, Francia, Inghilterra, Russia e Sardegna arrivarono alla conclusione, confermata dagli antichi documenti, che le rendite dei monasteri “dedicati” dovevano anzitutto soddisfare le loro necessità ed assicurare l'adempimento dei compiti sociali e culturali previsti dai fondatori e dai successivi donatori.
Restava così confermato che potevano andare ai monasteri dei Luoghi Santi soltanto le rendite dei monasteri “dedicati” eccedenti le spese necessarie per l'attuazione dei loro compiti culturali e sociali.
I monasteri moldo-valacchi possedevano un patrimonio fondiario cospicuo, corrispondente a circa il 15% dell'intera superficie coltivabile. La Commissione internazionale di inchiesta in via preliminare volle verificare la legittimità della “dedica”, avvenuta in molti casi successivamente alla loro fondazione: il principe Matteo Basarab aveva difatti annullato alcuni atti di “dedica” ritenuti irregolari, in quanto non approvati dall'assemblea dei boiari, come prescritto da una legge dello stesso principe.
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Inoltre il termine “metochia” usato negli atti costitutivi sia dei monasteri greci che dei moldo-valacchi significava “dipendenza”, stabilita solo per garantire una buona amministrazione, grazie al controllo dei monasteri stranieri in aggiunta a quello del principe e delle famiglie dei benefattori.
Tale tesi trovava riscontro anche nelle “dediche” compiute nel ‘700 dal principe fanariota Moruzi, di origine greca e quindi non sospettabile di ostilità verso i monasteri dei Luoghi Santi ed era infine confermato dallo stesso patriarca di Costantinopoli, Neofita.
Venuto meno il rispetto della volontà dei benefattori a causa delle usurpazioni compiute, era da ritenersi legittima la revoca della “dedica” ad opera del governo dei Principati, cui la Convenzione del 1858 assicurava l'autonomia amministrativa.
La maggioranza della Commissione d'inchiesta, formata dai 5 paesi prima ricordati, suggerì un accordo amichevole tra il governo moldo-valacco ed il clero greco. Questo, in cambio della rinuncia al patrimonio fondiario dei monasteri “dedicati”, avrebbe ricevuto una sovvenzione annua dal governo dei Principati.
La Russia aveva sempre difeso gli interessi del clero greco e nel 1847 si era urtata col principe di Valacchia, Gheorghe Bibesco, che aveva affermato il diritto dello Stato sui beni dei monasteri ed espulsi due igumeni greci che si erano opposti. Travolto dagli avvenimenti del 1848, Bibesco non poté spingersi oltre nelle sue rivendicazioni.
Successivamente, in occasione della Conferenza di Parigi del 1858, il governo russo, per tutelare i monasteri greci fece includere nel verbale della tredicesima seduta una clausola che stabiliva che l'accordo tra le parti doveva trovarsi entro un anno; se, decorso tale termine, l'accordo non fosse stato raggiunto, si sarebbe fatto ricorso ad un arbitrato.
In caso fosse fallita anche questa procedura, si sarebbe nominato un super arbitro che la Porta avrebbe potuto indicare direttamente se le due parti non avessero provveduto alla nomina.
Passato inutilmente un anno, la Conferenza indetta a Parigi per decidere in merito alla doppia elezione di Cuza, il 14 settembre 1859 decise di prorogare il termine ancora di un anno.
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Nasceva però il problema di definire quali scopi e poteri si erano voluti assegnare all'arbitrato previsto dal verbale della tredicesima seduta della Conferenza di Parigi del 1858. L'eventuale revoca delle “dediche” dei monasteri era un atto Interno dello Stato moldo-valacco: rientrava quindi nella sua autonomia amministrativa e non poteva essere oggetto di un arbitrato. Le limitazioni previste per l'esercizio di questa autonomia non comprendevano il caso dei monasteri dedicati, per cui sarebbe stata illegale l'ingerenza di un arbitro esterno. Questi si sarebbe potuto pronunciare solo sull'assegnazione delle eccedenze di bilancio ai monasteri greci, poiché questo era un problema di diritto privato, estraneo alla competenza dello Stato.
In definitiva, l'accordo amichevole tra le parti appariva preferibile al ricorso all'arbitrato, che avrebbe sollevato tante difficoltà e mantenuta tra il governo dei Principati ed il clero greco una tensione, dannosa per entrambe le parti.122
Ma l'accordo amichevole non ci fu e, scaduta ormai anche la proroga stabilita per raggiungerlo, la Russia fece sentire la sua voce minacciosa. Il ministro degli Esteri Gorciakoff con una sua nota comunicava agli ambasciatori accreditati nelle principali capitali europee di aver fatto un richiamo al governo di Cuza perché fosse affidato ad un arbitro la ricerca di una soluzione del problema. Il ministro inoltre deplorava che il governo romeno avesse organizzato le aste per l'affitto delle terre dei monasteri, “dedicati” e non, escludendo dalle trattative gli igumeni greci che in precedenza avevano invece controllato le operazioni.
A seguito di questa nota russa il governo prussiano diede istruzioni al suo agente nei Principati perché aderisse ad una nota collettiva dei diplomatici accreditati a Bucarest, intesa a sollecitare la nomina dei delegati romeni nella Commissione arbitrale che doveva pronunciarsi sui beni dei monasteri: se non avesse provveduto a tale nomina il governo moldo-valacco, proseguiva il dispaccio di Berlino, le Potenze avrebbero risolto direttamente il problema.
Parole al vento: Cuza non disarmava e fece ricorso ad una norma del diritto canonico per cui un vescovo non poteva controllare chiese e monasteri posti al di fuori della sua diocesi.
Era questo il caso dei vescovi greci, residenti in Palestina o nel monte Athos, che per eludere quella norma avevano costituito in Romania centri amministrativi, incaricati del controllo dei beni dei monasteri, al posto dei monaci locali.123
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Al contempo Cuza tentò di trovare un accordo diretto con la Porta e, scavalcando gli irriducibili monaci greci, con il Patriarca di Costantinopoli.
Fallito anche questo estremo tentativo, il principe sfidò audacemente le Potenze, emanando il 29 settembre 1863 un decreto per espropriare i monasteri “dedicati”, cui era destinato un indennizzo di 81 milioni di piastre, pari a 27 milioni di franchi. La somma era a titolo di “aiuto” e non di “indennizzo”, evitando così di riconoscere un diritto dei monasteri sui beni sottratti. Va ricordato che la somma offerta era di poco superiore al reddito annuo delle proprietà monastiche, calcolato in 25 milioni di franchi, corrispondenti ad un capitale di 500 milioni.
Gli edifici monastici furono trasformati in ospedali o prigioni, ad eccezione di quelli destinati ai monaci romeni. Inoltre, per eliminare l’influenza straniera nella vita religiosa, fu abolito l’uso del greco nella liturgia.
Visconti Venosta, ministro degli Esteri, accolse con dispiacere le “subitanee risoluzioni” di Cuza, pur riconoscendo essere un grave problema l’eccessivo accumulo di ricchezza dei monasteri “dedicati”, gestiti da igumeni stranieri, le cui risorse in gran parte andavano all’estero. Non essendo però una questione di ordine Interno, Cuza, secondo il ministro italiano, avrebbe dovuto affidarne la soluzione alle Potenze garanti.124
Visconti Venosta però cambiò in seguito opinione ed avallò il fatto compiuto da Cuza, dichiarato invece nullo dalla Porta, cui le Potenze concessero solo un blando appoggio: ed Italia e Francia non diedero neanche quello.
Si rallegrava quindi Cuza nell’apprendere da Strambio che con suo telegramma del 9 marzo 1864 Visconti Venosta aveva comunicato l’adesione inglese all’esproprio dei beni monastici in cambio di un’indennità, come stabilito da Cuza, unendosi così a Francia ed Italia che già si erano dichiarate favorevoli: non poteva mancare l’accettazione dell’Italia, memore delle leggi Siccardi del 1850 per l’abolizione della mano morta ecclesiastica e dei recenti provvedimenti per la confisca dei beni della Chiesa cattolica.
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In seguito l’ambasciatore italiano a Londra comunicava a La Marmora, presidente del Consiglio e ministro degli Esteri, che lord Russel gli aveva fatto capire che il governo inglese si sarebbe limitato ad osservare e che non credeva possibile un intervento russo o francese in quella spinosa questione.125
Ma se Cuza poteva sentirsi al sicuro da minacce straniere, restava invece sempre in difficoltà per una situazione interna incandescente.
Il Parlamento continuava a mostrarsi riottoso nei confronti suoi e del governo Kogalniceanu; si continuava a parlare apertamente di una successione al trono, contesa da molti pretendenti. Cuza non celava il proposito di assumere pieni poteri, precisando che “in tal caso non avrebbe fatto spargere sangue, né riempire le prigioni, ma soltanto amministrare militarmente 25 colpi di frusta sulle parti meno nobili dei pretendenti e dei capi di partito e provato ad essi che non li teme ed al Paese e all’Europa che ha energia sufficiente per governare”.126
Quell’insostenibile situazione era destinata a precipitare entro breve tempo. Strambio affermava che nel paese non esisteva soverchia agitazione, mentre perdurava l’ostilità del Parlamento al governo ed al principe. Kogalniceanu aveva cercato di allentare la tensione facendo alcune concessioni, come quella di attribuire alla Camera la designazione dei giudici della Corte di cassazione, prima spettante al principe.
Ma la tregua fu solo momentanea: i partiti restarono uniti contro Kogalniceanu e Cuza in una “mostruosa coalizione”, come la definiva il console italiano.
Cuza riteneva di poter contare sull'appoggio dell'esercito e si destreggiava “seguendo una politica di altalena” (per usare ancora una espressione di Strambio), mettendo un partito contro l'altro; la stessa tattica era adottata dal principe in politica estera, sfruttando le rivalità fra le Potenze.
Strambio riteneva insanabile la situazione “perché tutti gli elementi delle classi sociali”, eccetto le masse “oneste e pazienti”, erano cattivi: alla fin dei conti Cuza era migliore dei suoi compatrioti.
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L'abile Kogalniceanu riusciva comunque a mantenere il paese nella legalità, facendo approvare con celerità numerosi provvedimenti: malgrado l'ostilità del Parlamento, in una sola seduta furono votati il codice penale, il codice di procedura penale e l'ordinamento della pubblica istruzione.
Celerità stupefacente:Kogalniceanu riusciva a controllare un Parlamento ondivago, disposto a scendere in trincea solo quando erano in gioco gli interessi economici dei suoi componenti.
Sul Parlamento influivano anche i maneggi di alcuni agenti diplomatici stranieri; erano attivi in tal senso quello austriaco ed il russo barone d' Offenberg, in passato estimatore ed amico di Kogalniceanu, ma poi divenuto suo avversario dopo l'esproprio dei beni dei monasteri “dedicati” e la concessione dell'asilo politico ai patrioti polacchi protagonisti della rivoluzione antirussa del 1863.
Fu appunto d' Offenberg ad ispirare la mozione di sfiducia a Kogalniceanu, presentata in Parlamento il 25 marzo 1864. La manovra riuscì però controproducente, in quanto la mozione fu respinta ed il governo ne fu pertanto rafforzato.
Forte di tale successo, Kogalniceanu presentò due progetti di legge: uno autorizzava un credito al governo di oltre 8 milioni di piastre, destinate a spese militari; l'altro riguardava la fondamentale questione agraria.
Il 22 aprile 1864 Kogalniceanu proposte di discutere per prima la proposta di legge sul credito chiesto dal governo; si opposero i parlamentari Epureanu e Dimitrie Ghika e la Camera decise a grande maggioranza di dare la precedenza alla discussione sulla legge agraria.
Tale decisione assumeva il significato di un voto di sfiducia, tenuto conto che il progetto governativo era fortemente osteggiato. Già all'inizio della discussione, il 29 aprile, il relatore Boerescu dichiarò il suo dissenso e 24 deputati presentarono una mozione di sfiducia.
Per evitare la sfiducia il governo si mostrò conciliante, dichiarandosi disposto a modificare aspetti particolari della sua proposta, purché restasse salvo il principio dell'abolizione dei privilegi dei boiari e fosse tramutato in piena proprietà il possesso delle terre già detenute dai contadini: ma questo compromesso fu respinto e la mozione di sfiducia fu approvata con 63 voti contro 36.
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Gli oppositori ritenevano che Kogalniceanu avrebbe ceduto ed avrebbe presentato un altro progetto di legge agraria, molto annacquato, simile a quello di Barbu Catargi, già approvato dal Parlamento ma non promulgato da Cuza.
Votando la sfiducia gli avversari del governo avevano voluto evitare una esplicita bocciatura della proposta di legge agraria radicale presentata da Kogalniceanu: essi temevano che ne derivasse loro una pericolosa impopolarità presso le masse contadine, col rischio di una sollevazione.
A questo punto esistevano solo due vie d'uscita dal vicolo cieco in cui governo ed opposizione si erano cacciati: formare un nuovo governo ovvero sciogliere la Camera.
Nel primo caso sarebbero andati al potere di avversari di Kogalniceanu; se invece fosse stata sciolta la Camera, la legge elettorale vigente garantiva la vittoria dei grandi proprietari, che speravano anche in un intervento russo.
E proprio ai filorussi Arsaki ed Epureanu si rivolse Cuza nel tentativo di formare un nuovo governo.
Il tentativo fallì, poiché i filorussi chiedevano che il progetto di legge per la riforma agraria fosse abbandonato, o quanto meno rinviato di tre anni. Su questo fallimento ci furono due diverse versioni: quella di Cuza lo attribuiva appunto all'intransigenza di Arsaki ed Epureanu ; secondo questi ultimi invece era stata determinante l'intromissione dell'agente diplomatico francese.
Qualunque fosse stato il reale svolgimento degli eventi, Kogalniceanu restò in carica e presentò alla Camera il progetto di una nuova legge elettorale: ricalcando la legge già esistente per l'elezione dei consigli comunali, era notevolmente allargato il corpo elettorale, compromettendo così le prospettive di successo per i grandi proprietari.
Il capo del governo lesse pure il messaggio di Cuza che respingeva le dimissioni del governo, asserendo che il voto di sfiducia aveva precorso la discussione della legge agraria ed era quindi da considerarsi il frutto di un'opposizione preconcetta. Nel suo messaggio il principe affermava pure la necessità di una nuova legge elettorale che permettesse l'elezione di un'assemblea rappresentativa degli interessi generali. Per far decantare la situazione i lavori parlamentari furono aggiornati al 14 maggio 1864.
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Con eccessivo ottimismo Visconti Venosta scriveva a Strambio: “La prossima riconvocazione dell'Assemblea dà luogo a credere che la buona armonia fra i Poteri dello Stato non tarderà a ristabilirsi”. Il ministro riteneva opportuno e conforme alla Costituzione il rinvio dei lavori parlamentari ed approvava l'intervento del console per mantenere Cuza” in una giusta via di legalità e di moderazione”, anche se erano necessarie “molta dignità e molta fermezza”.127
A sostegno di Kogalniceanu ci furono manifestazioni popolari, criticate da Strambio e dall’agente francese Tillot, e secondo gli oppositori organizzate dalla polizia, pagando i manifestanti.
Sul fronte opposto ci fu una riunione di una quarantina di deputati dell'opposizione per scegliere una linea d'azione; 33 di questi deputati proposero di far pervenire agli agenti stranieri un atto di accusa contro Cuza: ma si decise poi di ritardarne l'invio. Strambio prudentemente teneva un basso profilo; si limitò a promettere a Tillot di appoggiare Kogalniceanu, ma senza eccedere; non voleva guastare i suoi buoni rapporti con l'agente russo.
L'agente inglese si mostrava timoroso dei possibili problemi politici generali causati dall'eventuale espulsione degli esuli polacchi ed ungheresi ad opera di un governo filo austriaco e filo-russo.
Aggiungeva Strambio che i contadini moldavi avevano accolto in trionfo Cuza, fiduciosi nella sua promessa di difendere i loro interessi anche con il sangue, la promessa aveva indignato l'agente russo, che accusava il principe di rivolgere ai contadini “criminosi incitamenti”.128
Tillot da parte sua dissuadeva Cuza dal ricorrere ad un colpo di Stato.
Strambio riteneva però impossibile un accordo tra governo e Parlamento; Kogalniceanu avrebbe mantenuto il potere e sarebbe divenuto “tribuno del popolo, dittatore forse anche del paese”; il console italiano prevedeva una rivolta dei contadini esasperati, che avrebbe fatto “scempio di quella oligarchia che impedì finora ogni buon governo”. Per Strambio era necessaria una nuova legge elettorale per assicurare la governabilità; ma questa legge,
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anche se approvata da un plebiscito popolare ed accettata dalle Potenze, sarebbe stata un colpo di Stato, in assenza dell'approvazione del Parlamento, prevista dalla Convenzione del 1848. Strambio comunicava l'opinione di Tillot, secondo cui Cuza, cedendo alle pressioni della principessa e dei consiglieri filo austriaci e filo russi, avrebbe alla fine fatte sue le posizioni del “partito retrivo”.129
Era minacciosa l'Austria, concentrando truppe alla frontiera con i Principati; si diffondeva pure la voce, poi dimostratasi falsa, di ordini impartiti al generale russo Kotzebue per invadere la Moldavia dalla Bessarabia.
Il “Monitore Ufficiale” romeno del 4 maggio 1864 smentiva tale voce e l'agente russo minimizzava l'entità delle forze in Bessarabia, ma faceva minacciose allusioni alle colpe di Cuza, parlandone come se fosse prossima la sua caduta.130
Fiduciosa nella tenuta di Cuza e del suo governo si mostrava invece la sede di Bucarest della Banca imperiale di Costantinopoli, concedendo un prestito di 48 milioni di piastre, di cui 38 destinati a risarcire i monasteri “dedicati” per l'esproprio dei loro beni e 10 da usare per l'acquisto di armi.
Ma la direzione generale della banca non ratificò la decisione della sede di Bucarest ed il ministro romeno delle Finanze, Steege, si recò a Parigi per cercare un altro prestito.131
Per uscire dalle difficoltà Cuza pensò di sottoporre ad un plebiscito popolare non solo la nuova legge elettorale, già accettata dal governo francese e dal prussiano, ma addirittura una nuova Costituzione. Progettò pure di recarsi a Costantinopoli per chiedere l'approvazione della Porta e per cercare un'intesa sui beni monastici confiscati, negoziando da posizioni che un esito favorevole del plebiscito avrebbe rafforzato.132
Si veniva avvicinando all'epilogo la lunga contesa tra il governo di Cuza ed il Parlamento.
Il 14 maggio 1864 la Camera riprese i lavori; all'ordine del giorno figuravano la discussione della nuova legge elettorale e l'esercizio provvisorio da accordare al governo, riservando alla nuova Camera l'approvazione definitiva del bilancio. Fu subito scontro: a nome dell'opposizione Vasile Boerescu chiese che fosse anzitutto discussa la posizione del governo, contro il quale si era già votata la sfiducia.
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Si oppose Kogalniceanu, affermando che l'ordine del giorno non prevedeva questa discussione; intervennero per reclamare la verifica della legittimità del governo Epureanu, Costaforu, Dimitrie Ghika ed ancora Boerescu. Quest'ultimo presentò una nuova mozione di sfiducia, che non poté essere posta in votazione a causa della grande confusione creatasi; neanche Kogalniceanu poté prendere la parola per leggere il decreto di Cuza che scioglieva il Parlamento, già preparato in previsione delle elezioni da svolgersi con la nuova legge. A questo punto il capo del governo affidò il decreto al presidente della Camera, abbandonò l'aula e fece intervenire il picchetto dei militari presente nell'edificio.
Si diffuse il panico ed i deputati si ritirarono precipitosamente: Costaforu saltò giù da una finestra.
Ma questi tumulti non scossero la popolazione, come se fosse ignara o indifferente.133
Questa versione dei fatti data da Strambio era sostanzialmente confermata dal resoconto di Constantin A. Rosetti , pubblicato sul giornale da lui diretto “Romanul”.
Nel resoconto erano però accentuate le dichiarazioni di buona volontà attribuite agli oppositori del governo, dichiarandosi pronti a votare non solo la legge elettorale, ma anche quella agraria, da rendere anzi ancora più liberale per soddisfare pienamente le richieste dei contadini: era il classico “salto della quaglia”, utile per spiazzare gli avversari.
Agli interventi degli oppositori ricordati da Strambio, Rosetti aggiungeva quello di Jon Bratianu, che aveva ricordato a Kogalniceanu di essere stato sempre solidale con lui e di avergli dato il suo appoggio. La replica di Kogalniceanu era stata amaramente ironica: l'appoggio di Bratianu era simile a quello della corda per l'impiccato.
L'opinione pubblica francese era informata su tali avvenimenti da un opuscolo stampato a Parigi quasi in tempo reale (l'introduzione aveva infatti la data del 23 maggio 1864), che riportava la mozione di sfiducia di Boerescu e il resoconto di Rosetti.134
Che la disponibilità degli oppositori a votare le proposte del governo fosse soltanto verbale, era confermato dalla loro contemporanea richiesta di votare anzitutto la mozione di sfiducia, il cui esito era scontato poiché l'opposizione poteva contare su di una maggioranza sicura.
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Boerescu nel suo intervento aveva rinfacciato anzitutto al governo di non rappresentare una maggioranza parlamentare; di aver sempre rifiutato il dialogo respingendo le proposte conciliative dell'opposizione; di essere rimasto in carica nonostante fosse già stata votata la sfiducia nei suoi confronti: secondo i principi costituzionali tale voto avrebbe dovuto comportare le dimissioni del governo, o, in alternativa, lo scioglimento del Parlamento.
Anziché dimettersi, continuò Boerescu, Kogalniceanu si era presentato all'assemblea il 27 aprile, disponendo la sospensione dei lavori parlamentari fino al 14 maggio.
La condotta di Kogalniceanu era bollata di incostituzionalità ed era definita una menzogna l'affermazione che nel paese esistesse una maggioranza favorevole al governo.
Nella sua vis polemica Boerescu non aveva risparmiato neanche Cuza: il suo messaggio letto da Kogalniceanu il 27 aprile esprimeva un'accusa infondata al Parlamento, imputandogli il rifiuto di discutere la legge agraria: si era solo chiesto il tempo necessario per esaminare il testo proposto e presentare gli emendamenti necessari perché gli indennizzi ai proprietari espropriati fossero reali e non illusori come quelli previsti dalla proposta di legge del governo, definita da Boerescu una vera rapina.
L'opposizione concordava sulla necessità di una nuova legge elettorale: ma doveva proporla un governo costituzionale e non quello di Kogalniceanu, divenuto illegale dopo il voto di sfiducia già espresso dalla Camera.
Boerescu concludeva formulando due proposte: i lavori parlamentari dovevano proseguire solo nelle Commissioni, restando sospese le sedute plenarie finché non si fosse risolto il conflitto con il governo; una Commissione di 5 deputati, nominata dall'assemblea, avrebbe preparato una risposta al messaggio del principe, rintuzzandone le accuse.
Un altro opuscolo pubblicato anonimo pure a Parigi nello stesso anno 1864, intitolato “Note sur les Principautés Unies de Moldavie et de Valachie” rendeva noto all'estero il perdurare dei contrasti esistenti nei Principati.
L'autore non sollecitava un intervento delle Potenze garanti: i Rumeni dovevano infatti risolvere da soli i loro problemi, “estimant, selon un mot fameux, qu'il faut laver son linge sale en famille” (p.4). Erano comunque denunciate le tendenze autoritarie di Cuza ed era deplorata l'instabilità politica, dovuta alla brevissima durata dei governi fin dall'ascesa al
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trono di Cuza, quando esistevano esecutivi separati in Moldavia e Valacchia; in tre anni dal febbraio 1859 al febbraio 1862 si erano avuti 10 governi in Valacchia e 6 in Moldavia: “c'est ce qui fit dire en pleine Assemblée: nous avons des ministères d'hiver et des ministères d'été” (p. 18), era il sarcastico commento.
A Cuza si rimproverava pure di aver seminato l'odio sociale, aizzando contro i proprietari i contadini, incitati dai prefetti a rifiutare le corvées: “Ainsi aprés avoir essayé de diviser les partis politiques, dans l'esprit de les dominer plus aisément, le prince a eu la pensée coupable de soulever des divisions de classe” (p. 25), concludeva l'autore.
Sciolto il Parlamento, la prova di forza continuò con una raffica di decreti e proclami da parte di Cuza.
Un plebiscito popolare, indetto per il 22 maggio, doveva pronunciarsi sulla nuova legge elettorale e sulla nuova Costituzione (definita “Statuto”, adottando il termine usato da Carlo Alberto) a complemento della Convenzione di Parigi del 1858; tutti i cittadini in possesso dei diritti politici ed aventi già il diritto di votare per i consigli comunali potevano partecipare al plebiscito. La nuova Costituzione introduceva il Senato accanto alla Camera; prevedeva più ampi poteri al principe, secondo il modello francese e fino alla convocazione del nuovo Parlamento i decreti di Cuza avrebbero avuto valore di legge, affidandone l'emanazione al Consiglio dei Ministri e sottoponendoli al parere del Consiglio di Stato, ancora da istituirsi.
Abolita la legge sulla stampa del 1° aprile 1862 si introducevano restrizioni alla sua libertà, ripristinando l'ordinanza del 2 ottobre 1859, che stabiliva la possibilità di sanzioni penali per giornalisti e tipografi. Una circolare di Kogalniceanu invitava i prefetti ad assicurare l'attuazione delle misure disposte dal principe e in pari tempo era rivolto un appello alla popolazione di Bucarest, invitandola a restare calma e ad aver fiducia nel governo. Un ulteriore proclama era rivolto da Cuza all'esercito, affinché garantisse l'ordine pubblico ed il regolare svolgimento del plebiscito.135
Intervennero a questo punto gli agenti stranieri: Strambio, nella sua qualità di decano provvisorio del corpo diplomatico, ne convocò una riunione per decidere il da farsi. Con voto unanime fu approvata una nota collettiva che affermava “qu'une atteinte grave avait été portée à la Convention par le prince Couza et son gouvernement”.136
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Sulla stessa lunghezza d'onda si trovava Visconti Venosta. Con un dispaccio circolare del 3 giugno 1864 il ministro informava tutti i rappresentanti diplomatici italiani, compreso ovviamente Strambio, delle comunicazioni fattegli dall'ambasciatore francese. Il governo di Parigi riteneva necessarie modifiche alla Costituzione dei Principati, ma rifiutava l'idea di una dittatura a Bucarest, lamentando la mancata comunicazione delle modifiche alle Potenze, prima di sottoporle al plebiscito. Si metteva in guardia Cuza dalle possibili conseguenze negative del suo comportamento. Visconti Venosta concordava con il governo francese nel ritenere positive nel merito le proposte costituzionali di Cuza, in particolare la creazione del Senato, definito “corps moderateur entre le Prince et l'Assemblée”, e l'estensione del diritto di voto alle classi medie e ad alcune categorie rurali.
Ma dissentiva sulla procedura seguita da Cuza; la Convenzione del 1858 su cui si basava la Costituzione dei Principati era un atto internazionale e quindi ogni modifica costituzionale doveva essere approvata dalle Potenze prima di entrare in vigore. Il governo italiano si univa a quello francese nel deplorare che ciò non fosse avvenuto; ma, concludeva Visconti Venosta mostrandosi possibilista, visti il favore popolare per la nuova Costituzione e la calma regnante nei Principati, “les Puissances se sentiront engagées à rechercher dans un examen impartial et bienveillant de la situation un moyen facile de conciliation et d'entente”.137
Si felicitò invece con Cuza per la sua azione risoluta e non fece alcuna riserva sul metodo da lui seguito la “Società neolatina” fondata a Torino in quello stesso anno da Giovenale Vegezzi Ruscalla, la cui lettera di solidarietà fu pubblicata sul giornale torinese “La Monarchia italiana” il 4 giugno 1864.
Ma Cuza non demordeva di fronte alle critiche del governo di Parigi e di Visconti Venosta; incassava per contro l'appoggio della Chiesa ortodossa così spiegato da Strambio: “Il Patriarca Nifon, uomo ignorante e debole, è del resto assai male voluto presso il governo per altri più gravi fatti e per la docile sommissione che mostrò in passato alle influenze russe, perché non senta di trovarsi ora in pericolo e non sia disposto a soddisfare, come già fece, ad ogni ordine del governo”. Strambio allegava al suo rapporto vari documenti: la pastorale di Nifon al clero,
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invitato ad appoggiare il governo; la lettera del ministro del Culto al Patriarca, in cui si illustrava la necessità di nuove norme costituzionali, si chiedeva il sostegno del clero e gli si promettevano miglioramenti economici; la preghiera per il principe preparata dal clero paragonava Cuza a Mosè, a Giosuè, addirittura a Cristo.
Il governo Kogalniceanu, affermava Strambio, poteva pure contare sul favore degli impiegati (soltanto in 10 si erano dimessi in segno di protesta), desiderosi di un governo stabile che pagasse regolarmente gli stipendi; anche i militari erano ben disposti verso il governo (si erano avute numerose promozioni fra gli ufficiali). Il console comunicava che il colpo di Stato aveva colto tutti di sorpresa, compresi i dirigenti politici e gli agenti diplomatici; la popolazione restava calma e il governo si riteneva sicuro dell'esito favorevole del plebiscito. Le responsabilità di Cuza erano gravi ed ancor di più lo erano quelle dei partiti, screditati ed incapaci di reagire.
Ma non reagirono neanche gli agenti diplomatici,che continuarono ad incontrare Cuza ed i ministri, ignorando la proposta dell'agente russo di sospendere i contatti col principe e col governo finché non fossero arrivate istruzioni dai rispettivi governi. Cuza si rallegrava per la divisione fra gli agenti stranieri, di cui aveva sempre cercato di limitare l'influenza, e minimizzava la portata della sua iniziativa, affermando che non poteva considerarsi un colpo di Stato: era una semplice consultazione popolare sulla nuova legge elettorale e sulle modifiche costituzionali.
Kogalniceanu per ammorbidire l'opposizione introduceva nella legge agraria indennizzi migliori per gli espropri delle terre da dare ai contadini. Cuza pensava sempre di recarsi a Costantinopoli per conciliarsi con la Porta: e si chiedeva se il sultano fosse ancora favorevole a tale visita, come si era mostrato prima del colpo di Stato.
E la posizione di Cuza si veniva rafforzando, poiché anche i più fieri oppositori cominciavano a cedere: Boerescu appena due giorni dopo la filippica da lui pronunciata contro principe e governo nel corso della seduta parlamentare conclusiva della vita del Parlamento aveva incontrato il sovrano; lo stesso aveva fatto Costaforu e Strambio prevedeva che tutti sarebbero andati a Canossa.138
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Il 31 maggio 1864 Strambio comunicò i risultati del plebiscito: a Bucarest c'erano stati solo 4 voti contrari; nel paese i sì erano stati 691.657 ed i no 53; gli astenuti 52.250. I risultati erano tanto favorevoli da risultare imbarazzanti per il governo,per cui si pensava di conteggiare come voti contrari anche gli astenuti, al fine di rendere più credibile la legalità delle operazioni di voto.
Dopo il plebiscito si ebbe la conferma della visita di Cuza a Costantinopoli: la dichiarazione contraria all'iniziativa di Cuza da parte del governo turco era stata solo una protesta proforma.
La missione di Cuza si compiva con l'appoggio francese e con “l'attitudine benevola della legazione italiana” presso la Porta, mentre continuavano a fioccare sul “Monitore ufficiale” le adesioni di molte personalità.
Faceva spicco quella del metropolita moldavo, che gareggiando in enfasi con il patriarca valacco Nifon, arrivava a scrivere che il clero romeno per primo avrebbe dato “des preuves d'amour et de patriottisme envers l'Elu de la nation roumaine”.139
Si accresceva frattanto il solco fra l'agente diplomatico russo, barone d' Offenberg, e gli altri rappresentanti delle Potenze a Bucarest, che respingevano la sua proposta di una nota collettiva di protesta e smentivano la notizia da lui data di una soppressione della visita di Cuza a Costantinopoli a causa della contrarietà della Porta.140
E Cuza difatti partì il 5 giugno 1864, circondato da pronostici tutti favorevoli al buon esito della sua missione, prevedendosi dall'incontro diretto col sultano ed il gran visir risultati migliori di quelli ottenibili tramite i normali canali diplomatici. Adesioni favorevoli a Cuza, pubblicate sempre sul “Monitore ufficiale”, pervenivano anche da personalità di altri paesi, fra cui era l'italiano Vegezzi Ruscalla.141
Come previsto, Cuza riscosse un notevole successo: la Porta avallò le sue iniziative politiche, riconoscendogli il potere di modificare la Costituzione senza la preventiva approvazione delle Potenze.
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A completare il successo intervenne il nuovo atteggiamento del governo inglese; l'ambasciatore a Costantinopoli, Bulwer, diede all'agente a Bucarest, Green, la disposizione di appoggiare Cuza e attribuiva ai boiari tutta la responsabilità della crisi politica nei Principati; con una punta di umorismo britannico Green affermò che non avrebbe in futuro scritto i suoi rapporti “che su carta color di rosa”.142
Il determinante appoggio inglese si aggiungeva così all'aperto sostegno francese ed alla “benevolenza” italiana: la Conferenza degli ambasciatori presso la Porta, svoltasi il 28 giugno 1864 a Costantinopoli, fece propria la tesi di Cuza sulle necessità politiche che l'avevano spinto a prendere quelle gravi decisioni.
La mira costante del principe romeno restava quella di completare l'unità nazionale strappando all'Austria la Transilvania; per raggiungere tale obiettivo occorreva però una guerra che creasse le necessarie condizioni favorevoli, analoghe a quelle sorte con la guerra di Crimea. Occorreva quindi procurarsi un potente alleato e Cuza chiese a Napoleone III l'11 novembre 1863 di partecipare ad una iniziativa contro l'Austria. Richiesta respinta dall'imperatore francese, perché Vienna si era già rassegnata a fare concessioni in Transilvania per evitare la guerra ancor prima della proposta di Cuza per l'alleanza antiaustriaca.
La Dieta di Sibiu il 10 ottobre 1863, a seguito delle pressioni del governo austriaco, aveva difatti approvato una legge che esaudiva le richieste formulate dai Valacchi di Transilvania già con il “Supplex Libellus Valachorum” del 1791: riconoscimento della nazionalità romena e delle due Chiese romene, l'ortodossa e l'uniate; uguali diritti per tutte le nazionalità; inserimento dello stemma valacco in quello transilvano. Ma l'opposizione magiara impedì l'attuazione di questa legge.
Non solo le aperture austriache alle richieste valacche (aperture peraltro rimaste inapplicate) distolsero Napoleone III dall'accettare l'alleanza con Cuza: egli non aveva più l'iniziativa politica come nel 1853 e difatti nel 1864 non si oppose all'annessione dei Ducati dello Schleswig Holstein da parte della Prussia.
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Il rifiuto francese dell'alleanza contro l'Austria fu una battuta d'arresto per le mire espansionistiche di Cuza, ma non gli impedì di procedere spedito nell'attuazione del suo piano per ristrutturare l'assetto politico dei Principati.
Pochi giorni dopo il rientro del principe da Costantinopoli, il 15 luglio 1864, il “Monitore ufficiale” pubblicò la nuova legge elettorale e lo Statuto con il quale venivano introdotte importanti novità.
Era istituito un Senato di 66 membri, ne facevano parte di diritto i metropoliti di Moldavia e Valacchia, i vescovi diocesani, il generale in servizio più anziano, il primo presidente della Cassazione. Gli altri membri erano designati dal principe, per metà scelti fra i consiglieri distrettuali e per metà tra personaggi di spicco.
Il numero dei deputati aumentava da 130 a 160; si istituivano la Corte dei Conti ed il Consiglio di Stato, cui era assegnato come primo e più importante compito quello di preparare una legge agraria che trasformasse in piena proprietà dei contadini il possesso delle terre loro assegnate, indennizzando adeguatamente i proprietari.143
Senza indugi il principe dispose il 21 luglio 1864 la soppressione di alcuni giornali dell'opposizione, fra cui il più importante, “Romanul” (riprese le pubblicazioni dopo qualche giorno con il nuovo titolo “Libertatea”); il 23 luglio, in base all'articolo 3 dello Statuto, veniva approvato da Cuza e subito pubblicato il bilancio dello Stato per il 1864.144
Erano proibite riunioni pubbliche in vista delle elezioni comunali, cui concorreva a Bucarest una lista collegata al giornale “Bumiomulu”, capeggiata dal generale Barbu Vladijonu, liberale moderato, ex ministro; un'altra lista era quella patrocinata dal giornale “Libertatea”, di cui facevano parte esponenti del partito democratico; notava Strambio che era finita la “mostruosa coalizione” antigovernativa formata da liberali e conservatori.145
Il giornale “Libertatea” ebbe una vita molto breve: nei primi giorni dell'agosto 1864 era soppresso, come già lo era stato il suo predecessore “Romanul”; Strambio commentava di trovare scandaloso che non esistesse più un giornale dell'opposizione, anche se non ne approvava la linea politica.146
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Messi a tacere gli avversari, Cuza effettuò la più importante riforma, quella agraria, con legge promulgata il 26 agosto 1864. Caposaldo della legge erano la piena proprietà attribuita ai contadini per le terre loro assegnate, sottraendo ai boiari fino ai due terzi dell'estensione delle loro proprietà e l'abolizione delle corvées.
Furono assegnati 2 milioni di ettari a 400.000 contadini, tenuti a pagare ai proprietari indennizzi annui per la durata di 15 anni.
I contadini tributarono grandi manifestazioni di riconoscenza a Cuza, salutato come un liberatore nel corso del viaggio in Moldavia fatto nel settembre 1864.
Acido il commento di Strambio: Cuza aveva consolidato il suo potere riducendo alla miseria i boiari e “cercando con falso calcolo appoggio nelle masse brute del paese, mediante soluzione violenta, radicale e senza temperamenti ad una grande questione sociale”.
Cuza aveva dichiarato al momento della sua elezione di essere pronto a cedere, appena possibile, il trono ad un principe straniero, ma, forte dell'appoggio delle “masse brute”, mirava ora a rendere ereditario il trono. Sul giornale “Bumiomulu” apparve il motto “Ereditatea tronului” (“Ereditarietà del trono”) e per preparare la successione il principe adottò un suo figlio naturale, avuto dall'amante, la vedova del principe serbo Obrenovich, presentandolo come un trovatello alla principessa Elena, sua legittima consorte.147
Il disegno riformatore di Cuza fu arricchito dalla promulgazione nello stesso anno 1864 del codice civile, modellato su quello francese, e della legge sull'istruzione pubblica, resa obbligatoria e gratuita a livello elementare; gratuita, ma non obbligatoria nei livelli superiori.
Si ebbe un notevole aumento della scolarità, assegnando borse di studio ai meritevoli, anche per compiere studi all'estero, e fornendo gratis i libri ai poveri; iniziative realizzate dallo Stato con il concorso di enti locali e di istituti di beneficenza. Ma l'istruzione elementare divenne realmente obbligatoria solo nel 1893, restando perciò irrisolto fino a quella data il problema dell'analfabetismo.
Il 1864 fu anche l'anno di importanti innovazioni legislative a favore degli Ebrei.
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In contraddizione con le precedenti misure repressive come la circolare Golescu del 1861, per cui era stato confermato il divieto per gli Ebrei di risiedere in campagna e gestirvi osterie ed alberghi, disponendo l'espulsione di quanti già esercitavano tale attività, l'articolo 26 della legge comunale del 31 maggio 1864 riconosceva l'esistenza di Ebrei indigeni ammessi a votare per i consigli comunali, purché in possesso di determinati requisiti (aver prestato servizio da sottufficiali nell'esercito, aveva studiato in licei ed università romene oppure aver ottenuto all'estero un diploma o una laurea, aver fondato in Romania una fabbrica con almeno 50 operai).
Alla fine dello stesso anno, il 6 dicembre 1864, fu emanato il nuovo codice civile ed in base agli articoli 8,9,16 era prevista alle stesse condizioni la concessione agli Ebrei della parità dei diritti; permaneva però il divieto di acquistare terre per gli Ebrei stranieri.
L'anno 1864 si era iniziato sotto i più lieti auspici per gli Israeliti di Romania; nel ricevere una loro delegazione venuta il 1º gennaio a porgere gli auguri per il nuovo anno, Cuza aveva dichiarato di poter disporre una emancipazione graduale e non totale, come avrebbe voluto.
Questi generosi propositi non trovarono però attuazione: le aperture nei confronti degli Ebrei disposte nel 1864 rimasero lettera morta e gli anni successivi furono punteggiati da numerosi episodi di intolleranza e di violenza antisemita.
Dimostrando sempre grande decisione Cuza affrontò un altro grave problema: quello delle capitolazioni consolari, cioè degli antichi accordi stipulati dalle Potenze europee con la Porta, validi in tutti i territori dell'Impero ottomano e quindi anche in Moldavia e Valacchia.
In base alle capitolazioni i cittadini stranieri erano sottratti ai giudici locali; spettava ai rispettivi consoli regolare le loro vicende giudiziarie. Veniva così ad esser disconosciuta la sovranità dei Principati e Cuza rivendicò allo Stato l'autorità di giudicare anche gli stranieri, affermando che si sarebbero seguiti i principi del diritto delle genti e di equità adottati in Europa.148
Gli ambasciatori accreditati presso la Porta fecero un passo collettivo di protesta, asserendo che l'abolizione delle capitolazioni consolari ledeva i diritti e la libertà personale dei cittadini stranieri.149
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Per l'Italia già nel 1862 Bettino Ricasoli, presidente del Consiglio e ministro degli Esteri, si era opposto alla soppressione del potere giudiziario esercitato dai consoli, ritenendolo necessario nei paesi dove era “molta la corruzione e non sicura l'imparzialità dei giudici”.150
Il console italiano ebbe un incidente diplomatico con il governo di Kogalniceanu, sorto per l'arresto operato dalla polizia romena di un cittadino ungherese, naturalizzato italiano, noto col nome di Frigiany ( ma il vero nome sembrava fosse Sutak). L'italo ungherese era un disertore dell'esercito austriaco, divenuto in Italia fervente seguace di Garibaldi, al cui fianco aveva combattuto ad Aspromonte. Il sedicente Frigiany si era recato per conto del partito d'azione a Jassy, per stabilire intese con il leader democratico C.A. Rosetti al fine di preparare l'invasione di Galizia e Transilvania ad opera di una legione di volontari ungheresi e di un'altra formata da volontari polacchi, che avrebbero avuto in Moldavia la loro base operativa.
Ci fu un concitato colloquio tra Strambio e Kogalniceanu, venuto a protestare per l'ennesima iniziativa italiana presa nei Principati contro l'Austria. Strambio non si oppose all'arresto dell'emissario italiano; si limitò a chiedere di procedere con discrezione, senza creare scandali. Frigiany fu presto scarcerato ed espulso. Anche Rosetti se la cavò a buon mercato, essendo risultato che la sua connivenza era consistita nel far recapitare alcune lettere ed a fornire all'agente italiano un passaporto col falso nome di Fisher.
Il governo di Kogalniceanu considerò lievi tali colpe e non procedette contro l'esponente democratico, forse anche per non avvelenare di più la già difficile situazione politica.151
Fino agli ultimi giorni del suo Regno Cuza si occupò del problema delle capitolazioni consolari. Nel febbraio 1866 Cuza dichiarava a Strambio che in realtà le capitolazioni erano ancora applicate, nonostante le resistenze locali dovute al fatto che erano state stipulate con la Porta per tutelare i cristiani da eventuali persecuzioni musulmane. Eventualità che non potevano verificarsi in uno Stato cristiano quali erano i Principati, il cui governo era pertanto soggetto ad inutili limitazioni della sua sovranità.152
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La questione rimase irrisolta e fu ereditata dal successore di Cuza; ci furono pertanto difficoltà con gli agenti diplomatici, trattati con freddezza dal principe, che interruppe i tradizionali incontri settimanali con essi.
Strambio scriveva al riguardo: “ Così il principe Cuza, che ha ormai distrutto ogni forza che esistesse in paese in qualsiasi campo sociale o partito politico, che dalla sua volontà direttamente non provenisse ed alla medesima il più servilmente non piegasse, non potendo imprendere altrettanto rispetto agli agenti dei Governi forestieri, cerca di collocare questi nel più assoluto isolamento”. Aggiungeva ancora il console: “Intanto è constatato questo fatto, unico più che raro, che il principe Cuza, coi comportamenti suoi, abbia saputo riunire in un fascio ed in una sola volontà a lui avversa gli agenti di tutte le Potenze, malgrado i diversi interessi e le contrarie aspirazioni degli uni e degli altri”.153
Il successo delle liste governative nelle elezioni comunali del settembre 1864 rinsaldò per il momento l'autorità di Cuza. La lista del giornale “Bumiomulu” ottenne a Bucarest 14 seggi su 17; i 3 eletti della lista concorrente, quella del “Libertatea”, C.A. Rosetti, Jon Bratianu, Nicolae Golescu si dimisero subito in segno di protesta per i supposti brogli elettorali.
La legge in base alla quale si svolsero queste elezioni era comunque abbastanza liberale: l'articolo 26 infatti riconosceva il diritto di voto ad alcune categorie di Ebrei, sottufficiali dell'esercito, diplomati e laureati in Romania o all'estero (purché i loro titoli fossero riconosciuti in Romania), quanti avevano creato in Romania una fabbrica con almeno 50 operai, ritenuta utile per il paese. Strambio prevedeva che in futuro sarebbero state introdotte norme ancora più favorevoli per gli Israeliti.154
Previsione presto smentita dai fatti: la legge che consentiva agli stranieri l'acquisto di beni agricoli, limitava tale diritto ai cristiani, escludendo gli Ebrei (i musulmani in base alle antiche capitolazioni non potevano avere residenza nei Principati). La legge stabiliva anche il divieto di colonie agricole straniere, criticato da Strambio.
Il console riteneva che il divieto nascesse dal timore che un massiccio afflusso di stranieri avrebbe alterato l'identità nazionale ed obiettava che l'agricoltura aveva bisogno di braccia; inoltre, sarebbe stato difficile acquistare beni agricoli, poiché le proprietà erano perlopiù di grande estensione e richiedevano quindi la disponibilità di ingenti capitali, posseduti da pochi.
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Gli stranieri potevano invece acquistare edifici urbani per le loro attività commerciali.
Osservava ancora Strambio come il divieto per gli Ebrei, sia stranieri che indigeni, di acquistare proprietà agricole non fosse in realtà molto pesante per essi, in maggioranza “poverissimi, anzi miserabili”; pertanto, anche se non fosse esistito quel divieto, non avrebbero avuto la possibilità di acquistare terre. Inoltre le proprietà agricole non erano molto redditizie: potevano assicurare un reddito dell'8% del capitale investito, mentre l'interesse legale per i prestiti era del 10% (per quelli praticati dagli usurai saliva fino al 20%).
Riconoscere però agli Ebrei il diritto all'acquisto di proprietà terriere, affermava Strambio, avrebbe avuto un valore politico, rappresentando un passo avanti sulla via della loro emancipazione.
Gli agenti diplomatici avevano fatto in passato interventi a favore degli Ebrei, cui si era associato Strambio, benché gli Ebrei di origine italiana fossero soltanto due o tre, più alcuni provenienti dal Veneto e quindi fino al 1866 sudditi austriaci. Il governo e Cuza avevano promesso di accordare agli Ebrei il diritto di avere terre,una volta approvata la legge agraria. Ma la promessa era caduta nel vuoto, dato il turbolento clima politico persistente nel paese; anzi, da qualche tempo il giornale governativo “Bumiomulu”aveva preso ad attaccare gli Ebrei “colle più appassionate e triviali polemiche”, allo scopo, supponeva Strambio, di estorcere loro forti somme. Gli Ebrei non avevano ceduto a questo presunto ricatto e avevano presentato a tutti i consoli una petizione perché cessassero tutte le discriminazioni, firmata da Ebrei francesi, austriaci, prussiani, russi, olandesi, belgi ed anche dai pochi italiani presenti in Romania, allegata al rapporto del console.155
L'onda lunga del successo di Cuza sembrava continuare con l'esito vittorioso ottenuto nelle elezioni per i consigli distrettuali, svoltesi nel novembre 1864. Tutti i candidati governativi furono eletti, pur trattandosi, secondo Strambio, di persone sconosciute o di scarsa importanza, fatte poche eccezioni, poiché “la parte più elevata ed intelligente e, relativamente, onesta della popolazione nella capitale e nei distretti si astenne affatto, lasciando come finora nell'isolamento il Governo che non la forza né il coraggio di combattere”; governo che era, secondo il console, “il più assoluto sotto forme democratiche”.156
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Anche le elezioni politiche del dicembre 1864 furono comunque un successo per il governo, che volle dare un segno di tolleranza religiosa: per la prima volta, alla seduta inaugurale del Parlamento, il 18 dicembre, furono ammessi a partecipare, oltre al metropolita ortodosso, il vescovo di rito armeno, il parroco cattolico (in assenza del vescovo), il ministro luterano: mancava però il rabbino.
Questi rappresentanti religiosi, al pari dei deputati e dei Senatori, giurarono obbedienza alla Costituzione ed alle leggi, fedeltà al principe: “così finì la cerimonia che ebbe apparato, ma riuscì inanimata, la città rimanendovi al solito e più che mai indifferente”, notava Strambio.157
All'apatia delle città faceva riscontro l'entusiasmo dei contadini per Cuza e per la riforma agraria.
Anche l'esercito stava con Cuza; ma se il suo appoggio fosse venuto meno, la situazione del principe sarebbe divenuta critica, tanto più che si veniva ristabilendo quella che Strambio definiva la “mostruosa coalizione”, l'accordo cioè tra democratici e conservatori contro il governo.
Questo asse difatti si ricostituì nel giugno 1865 con l'accordo siglato dai capi democratici Jon Bratianu e C.A. Rosetti con i grandi boiari aspiranti al trono ( Grigor Brancoveanu, George Stirbey, Dimitrie e Jon Ghika, Constantin Brailoi), che rinunciavano alle loro aspirazioni, dichiarandosi favorevoli all'avvento di un principe straniero.
Nell'agosto successivo, profittando anche dell'assenza di Cuza, recatosi ad Ems per le cure termali, scoppiò a Bucarest una sommossa contro il debole governo Kretzulesco, succeduto il 14 giugno 1865 a Kogalniceanu.
I congiurati fidavano nell'appoggio o quanto meno nella benevola neutralità dell'esercito e nell'adesione del Parlamento, che, pur se composto da creature di Cuza, ne avrebbe decretato la decadenza.
Ma l'accordo fra i democratici ed i boiari mostrava già crepe preoccupanti: questi ultimi miravano ad un intervento russo per riacquistare i privilegi perduti con la legge agraria ed in cuor loro non avevano rinunciato alla pretesa che fosse un boiaro a salire sul trono, benché l'ipotesi di un principe straniero godesse di un largo favore negli altri strati della popolazione.
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Esistevano pure divisioni sull'eventuale candidato straniero al trono: i boiari proponevano il russo duca di Leuchtenberg ed i democratici erano invece per il francese principe Napoleone.
Il governo conosceva i piani dei rivoluzionari e si teneva pronto a reagire: il ministro dell'Interno, generale Florescu, informava difatti Strambio della rivolta, ritenuta imminente.158
I contrasti esistenti fra i congiurati avevano suggerito un rinvio della rivolta, ma un fatto imprevisto ebbe un ruolo decisivo per lo svolgimento degli eventi.
La mattina del 15 agosto Strambio fu colto di sorpresa dal rumore degli spari e dal clamore scatenatosi al centro di Bucarest. Un litigio, scoppiato al mercato fra i rivenditori di frutta e gli agenti della polizia municipale, aveva dato fuoco alle polveri, scatenando una rivolta spontanea, “fatta senza armi, senza capi, senza ordine, senza programma, gridandosi soltanto hurrà, abbasso i ladri, abbasso i monopoli”, scriveva nel suo rapporto il console italiano. L'esercito, anziché assecondare i rivoltosi, aveva reagito con durezza: secondo Strambio ci furono più di 100 morti e l'occupazione militare della città stroncò ogni ulteriore sommossa.159
In un rapporto successivo Strambio informava che Cuza aveva ringraziato da Ems l'esercito per il suo intervento; il console prevedeva a breve cambi di ministri e riteneva che lo scoppio improvviso della rivolta, condotta solo con sassi e bastoni, fosse stato provocato ad arte dalla polizia, nella previsione di poterla più facilmente reprimere giocando d'anticipo e facendo uscire allo scoperto i ribelli ancora impreparati.
La brutale repressione spinse gli agenti diplomatici, riunitisi il 24 agosto, a progettare una protesta al governo; ma si decise di rinviarla a dopo il ritorno di Cuza.
Seguirono manifestazioni di lealismo da parte del clero, dei municipi e dei consigli provinciali con messaggi di congratulazioni al governo.
Ma secondo Strambio era stato il governo stesso ad orchestrare queste manifestazioni; l'agente russo aveva difatti accennato ad una circolare del direttore generale delle poste, Librecht, agli uffici locali perché le organizzassero. 160
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Passata la prima fase repressiva (ci furono molti arresti, fra cui quelli di Jon Bratianu, C.A. Rosetti, Nicolae Golescu), Cuza, rientrato in patria, volle mostrarsi generoso concedendo un'amnistia ed i capi rivoluzionari furono scarcerati.
Se ne rallegrò il governo italiano; La Marmora scrisse a Strambio come la solidità del potere di Cuza fosse dimostrata dalla pronta repressione della sommossa; una politica rispettosa della Costituzione e contraria alla corruzione, piuttosto che il ricorso a nuovi atti repressivi, l'avrebbe ulteriormente rafforzato.161
L'atto di clemenza non pose fine però alle trame contro Cuza; molti si erano rifugiati all'estero, soprattutto in Francia, come Jon Bratianu, che pubblicò a Parigi un feroce opuscolo contro il principe accusato di aver fatto carriera grazie alla protezione del caimacam di Moldavia, Volgorides.
Rincarava la dose degli attacchi il giudizio sulla riforma agraria, definita una buffonata; accuse riprese dal giornale parigino “Siècle” sulla prima pagina del numero del 6 febbraio 1866.
Diveniva sempre più difficile la posizione di Cuza: l'opposizione interna non disarmava ed aveva fondato un'associazione che disponeva a Parigi di un suo organo di stampa, “La revue du Danube”; a ciò si aggiungeva l'isolamento all'estero del governo romeno. Era venuto meno il tradizionale aiuto della Francia ed inutilmente Cuza aveva cercato di ingraziarsi Napoleone III assegnando per 12 anni alla ditta francese Godillot la fornitura di armi e colmando di attenzioni la missione militare francese venuta a riorganizzare l'esercito. Il principe, consapevole di queste difficoltà, confidava a Strambio ed agli altri agenti diplomatici il proposito di ritirarsi, ritenendo questa l'unica soluzione possibile per riportare la calma nel paese. Sembra che una missione per preparare il terreno a quella eventualità Cuza l'avesse affidata ad un suo devoto, il consigliere di Cassazione principe Alexandru Cantacuzeno, partito per un lungo viaggio che dopo la Grecia l’avrebbe condotto a Parigi, Londra e Firenze.
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Ufficialmente si trattava di un viaggio privato a scopo turistico, ma, secondo Strambio, Cantacuzeno doveva informare i governi del proposito di Cuza di rinunciare al trono. Sperava Cuza che le Potenze avrebbero preferito la sua permanenza sul trono, concedendogli anche di assumere pieni poteri e i diritti ereditari per il suo successore, nel timore che l'avvento di un nuovo principe determinasse il caos.
A Strambio Cuza aveva pure detto di preferire un principe straniero ad uno locale, senza però precisare quale potesse essere la sua scelta di un successore. In un'occasione aveva dichiarato che anche un principe russo o austriaco avrebbe potuto essere un gran sovrano; in un'altra occasione aveva invece detto di ritenere preferibile un principe dell'Europa occidentale, meglio se di un paese latino, come chiesto dal popolo.162
La gravità della situazione politica era accresciuta dalle difficoltà finanziarie in cui il governo si dibatteva.
All'inizio del febbraio 1866 Strambio riferiva che da novembre non venivano più pagati gli stipendi degli impiegati e si erano perciò verificati episodi paradossali: le nutrici dei brefotrofi avevano minacciato di abbandonare i neonati di fronte al ministero del Culto; il generale comandante dell'artiglieria era stato costretto a vendere polvere da sparo per far fronte alle più urgenti necessità.
Questa tragica situazione era dovuta alla crisi della maggiore risorsa del paese, l'agricoltura, a causa delle inondazioni e di una infezione epizootica che aveva decimato il bestiame.
Inoltre Cuza era circondato da cattivi consiglieri e licenziava chiunque non fosse disposto a rendersi il suo cieco strumento. Aveva costretto a dimettersi il presidente della Camera, Manolachi Costachi (detto Epureanu), benché fosse un suo parente, soltanto perché aveva concesso la parola a deputati dell'opposizione. Il nuovo presidente, designato da Cuza, Nicu Catargi, ex prefetto di Galatz e fedelissimo del principe, aveva precedenti penali, essendo stato processato per illeciti finanziari.
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Cuza era pertanto destinato alla rovina dai suoi stessi collaboratori: non dava ascolto a chi lo metteva in guardia: “il suo ingegno rimarchevole, la viva sua sagacia” erano divenuti ottusi, scriveva Strambio.163
Rassegnato ormai alla sua sorte, Cuza da tempo sembrava preoccupato solo di assicurarsi un futuro onorevole da privato cittadino.
Già nel dicembre 1864, l'ambasciatore italiano a Londra, d'Azeglio, comunicava a La Marmora l'opinione del titolare del Foreign office, Lord Russel, secondo il quale Cuza “sentendosi malsicuro sul suo trono, accetterebbe una ricca posizione indipendente”, da godersi a Parigi.164
Qualche mese dopo, nell'aprile 1865, La Marmora scriveva a Costantino Nigra, ambasciatore a Parigi, che secondo Strambio Cuza pensava soprattutto a garantirsi un futuro agiato, procurandosi “una buona posizione privata nel caso in cui dovesse dismettere il potere, prendendo egli stesso l'iniziativa di sollecitazioni per lo stabilimento in Romania di una dinastia ereditaria forestiera”.165
Il principe pensava di trovare una via d'uscita in un piano politico esposto a Strambio alla immediata vigilia della sua deposizione. Cuza si diceva disposto a cedere il trono ad un principe straniero; ma, se fosse stato costretto a prendere decisioni estreme, avrebbe compiuto atti clamorosi. Secondo Strambio ciò significava la proclamazione dell'indipendenza e l'istituzione di una monarchia ereditaria affidata ad un principe straniero scelto dal popolo o da Cuza stesso e poi confermato da un plebiscito. Fino all'arrivo del successore Cuza avrebbe conservato il potere in qualità di luogotenente. Strambio riteneva però il piano di difficile attuazione, poiché i Romeni non avrebbero seguito Cuza in questi avventurosi progetti. 166
Gli avvenimenti incalzavano; si diffondevano voci di nuovi tentativi rivoluzionari, molti facevano provvista di viveri temendo il peggio, sul palazzo del principe era apparso un ironico cartello “casa da affittare”, affisso il 24 gennaio (5 febbraio secondo il calendario gregoriano) 1866.
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Con un sussulto di orgoglio, in un estremo tentativo di resistenza, Cuza, contraddicendo i suoi propositi di resa, dichiarava a Strambio di essere pronto ad usare rigore massimo e faceva perquisire le case di quattro giornalisti suoi oppositori, due dei quali furono arrestati.
Su Cuza circolavano le voci più fosche; facendo pure ricorso a calcoli scaramantici si ricordava che nessun principe romeno aveva regnato per più di sette anni e Cuza aveva da poco iniziato l'ottavo anno di Regno.
Jon Bratianu a Parigi cercava di influire sul governo francese perché Cuza fosse sostituito da un principe straniero; tentativo che si diceva messo in atto col sostegno dell'ex principe di Valacchia, George Bibesco, e della principessa Alessandrina Ghika, andata sposa al deputato italiano, conte Gioacchino Rasponi.
Ad aumentare lo sconforto dei Romeni contribuì il diffondersi delle antiche voci su di un accordo, patrocinato da Napoleone III, per la cessione dei Principati all'Austria in cambio dell'annessione del Veneto all'Italia; lo stesso Cuza credeva all'esistenza di tale accordo.
I capi dell'opposizione si disponevano ad una nuova azione, cercando intese con alcuni ufficiali, pagandoli se necessario. E Strambio affermava che era forse preferibile una rivoluzione che ponesse fine ad uno stato di cose, destinato altrimenti a cessare per “putrida dissoluzione”. Il console accusava le classi superiori di avere poco coraggio e quelle subalterne di essere preda di una “secolare prostrazione”.
Ma il popolo sembrava non preoccuparsi troppo di questa allarmante situazione: si era nel periodo del carnevale e la gente pensava solo a divertirsi, inducendo Strambio a ritenere appropriato il nome della capitale, che con dubbia etimologia faceva derivare da “Bucuria”, cioè gioia. Il governo aveva pagato un acconto sugli stipendi arretrati e Strambio concludeva: “e così molti buoni Romeni vennero aiutati a finir bene il loro carnevale”.167
I rivoluzionari avevano fatto tesoro dell' insegnamento ricavato dal fallito tentativo dell'agosto 1865: non bastava la piazza per rovesciare il principe, era necessario l'appoggio dei militari.
Nel febbraio 1866 si era pure creata, ultimo tocco al marasma esistente, una crisi politica, conseguenza della caduta del governo Kretzulescu, accusato da 250 industriali rumeni di avere indebitamente favorito la ditta francese Bergman-Mercier, concedendole il monopolio per la fornitura di strumenti necessari dopo l'adozione del sistema metrico decimale di pesi e misure.
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Il presidente designato, il filorusso Moruzi, non era riuscito a formare un nuovo governo e quindi Cuza aveva respinto le dimissioni di Kretzulescu, escludendo però dal governo il generale Florescu, già titolare nel precedente governo del ministero dell'Interno, diretto ora dallo stesso presidente Kretzulescu ; anche il Senatore Manu non fu confermato al Ministero della Guerra, assegnato al colonnello Alexandru Salomon.
Il nuovo governo Kretzulescu durò solo pochi giorni e pertanto Cuza il 22 febbraio 1866 assegnava di nuovo l'incarico a Moruzi.168
Fu questo l'ultimo atto della lunga crisi: la notte stessa del 22 febbraio Cuza fu deposto.
I suoi avversari riuscirono ad eludere l'inchiesta affidata da Cuza al prefetto di Craiova perché facesse luce sulle trame ordite dagli avversari. L'esecuzione del complotto fu eseguita con abilità. Con evidente ammirazione Strambio la descrisse nel suo rapporto; Cuza fu colto totalmente alla sprovvista, dopo essersi ritirato assieme all'amante, Maria Catargi, vedova del principe Obrenovich, nella sua Camera, poco distante dall'appartamento della principessa Elena; dal canto suo, il capo della polizia, Beldman, era intento a spassarsela all'albergo Hugues.
Eseguirono il colpo di mano il colonnello Karambaki, valacco, comandante dell'artiglieria; il colonnello Kretzulescu, pure lui valacco, fratello dell'ex presidente del consiglio, comandante il 7° reggimento fanteria; il maggiore Leka, moldavo, comandante del battaglione cacciatori, cui era stato affidato il presidio del palazzo del principe. Cuza si rifiutò di aprire la porta della sua Camera ed i congiurati la sfondarono; erano armati, ma avevano l'ordine di trattare con ogni riguardo il principe, che chiese rispetto per l'amante.
Con minuzia pruriginosa Strambio riferiva che alla Catargi fu permesso di appartarsi per potersi rivestire, venendo tosto messa su di una carrozza ed inviata a casa sua.
La principessa Elena cercò di raggiungere il marito, “anche allo scopo di proteggere generosamente la persona che aveva saputo trovarsi con lui”. Non riuscì nel suo intento, ispiratole da un senso di solidarietà femminile: le porte erano sbarrate e si ritirò quindi nel suo appartamento.
Seduta stante Cuza firmò l'atto di abdicazione e fu trasferito in casa di un ex rivoluzionario del 1848, Ciorcolau, accolto con rispetto. I generali Manu e Florescu, ex ministri, furono posti agli arresti domiciliari e molti degli ufficiali d'ordinanza di Cuza furono disarmati, ma lasciati liberi.
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Fu subito costituita una luogotenenza formata dal generale Nicolae Golescu, già candidato alla Camera di Valacchia nel 1848, dimesso dall'esercito per i suoi contrasti con Cuza, definito da Strambio “sicuro patriota ed onesto ma di assai scarsi talenti”; dall'ex vicepresidente della Camera, Lascar Catargi, persona energica; dal capo dell'artiglieria Karambaki, secondo Strambio “soldato di forte tempra”, che, pur essendo uomo di fiducia di Cuza, aveva contribuito a deporlo.
Un governo provvisorio fu presieduto da Jon Ghika, animatore della congiura, cui andò pure il ministero degli Esteri, mentre ministro dell'Interno fu Dimitrie Ghika, suo omonimo, ma non parente, “ambiziosissimo, vanitoso anzi, ma onesto e non privo di ingegno”; il maggiore Leka, capo dei cacciatori che avrebbero dovuto difendere Cuza, fu ministro della Guerra.
I due Ghika erano rivali, perché entrambi segretamente aspiravano a salire sul trono, se non si fosse realizzato il piano di ricorrere ad un principe straniero.
Della deposizione di Cuza furono subito informati il corpo diplomatico ed i parlamentari.
All'assemblea parlamentare parteciparono in molti, fra cui uno zio del principe detronizzato, il vecchio Grigor Cuza; furono approvate per acclamazione la deposizione di Cuza e la proposta di offrire il trono al principe Filippo, conte di Fiandra, accolta con entusiasmo, sia dai parlamentari che dalla folla radunatasi davanti al Parlamento.
Osservava ironicamente Strambio che il docile popolo romeno avrebbe applaudito qualsiasi nome fosse stato proposto.
Fra grandi festeggiamenti, al suono delle bande militari e delle orchestrine tzigane, in molti si affrettarono a salire sul carro dei vincitori; fra questi il metropolita, che decise di abolire nelle chiese le preghiere per Cuza. “Pare che tutti trionfino per un solo che fu vinto”, concludeva con sarcasmo il console italiano nel suo rapporto, prevedendo che non ci sarebbero state difficoltà per il nuovo governo.169
Certo non ne creò Cuza, che con una lettera al generale Golescu riconobbe subito il governo provvisorio, ribadendo la necessità di un principe straniero. Da parte loro i vincitori non infierirono; Jon Ghika il 24 febbraio dichiarò all'assemblea che si doveva rispetto a Cuza, posto sotto la protezione del governo, arrestato per “impedire che uomini di poco conto osassero insultare quegli che governò il paese”.
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Il governo provvisorio fu subito riconosciuto dalla Chiesa ortodossa; nella cattedrale di Bucarest fu celebrato un “Te Deum” ed il primate impartì la benedizione.
Meno fair-play dimostrò invece il giornale “Romanul”, che sempre sotto la direzione di C.A. Rosetti aveva subito ripreso le pubblicazioni. Nel suo primo numero Cuza fu accusato di tradimento, poiché si preparava a fare della Romania un'altra Polonia, divisa tra Potenze vicine e nemiche.
Accusa ritenuta infondata da Strambio ed originata forse dal fatto che il governo Moruzi, formatosi nella immediata vigilia del colpo di Stato, comprendeva ministri filo austriaci e filo russi, capaci di “compiere fatti perniciosi e secondare mene funeste di vicini governi”. Ai congiurati andò pure il plauso dell'opinione pubblica per aver deposto Cuza senza spargimento di sangue. Un apprezzamento esprimeva pure l'anonimo autore di un opuscolo pubblicato poco dopo a Firenze affermando che la caduta di Cuza non era il frutto di una congiura di palazzo, ma un successo democratico: “la nation reprend ses droits partout où le prince perd les siens”.170
Sempre conciliante e rassegnato, Cuza dichiarò agli agenti diplomatici di avere abdicato spontaneamente; esprimeva però amarezza per il mancato sostegno dei militari e chiedeva di essere rimesso in libertà al più presto.
Chiedeva poi al governo ed alla luogotenenza di consentirgli di recarsi all'estero, affermando che in fondo gli obiettivi suoi e quelli dei rivoluzionari coincidevano, differendo solo i metodi.
Ottenne una risposta positiva e la sera del 25 febbraio 1866 Cuza partiva per l'Austria, da dove si sarebbe in seguito recato ad Ems. In una sua lettera il sovrano deposto definiva traditori quanti si fossero opposti alla nomina di un principe straniero.
Furono cambiati alcuni dei rappresentanti romeni all'estero: quale agente a Parigi e Firenze, al posto di Alecsandri, andò Balascianu ed Alexandru Golescu, cugino del generale Nicolae, sostituì Negri a Costantinopoli.171
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Anche il governo italiano cambiò il suo rappresentante a Bucarest; dopo sette anni Strambio fu sostituito da Teccio di Bayo; il nuovo agente italiano già il 7 marzo 1866 comunicava la smentita del Ministro dell'Interno alle voci di modifiche alla legge agraria promulgata nel 1864 da Cuza.172
Ci furono pronunciamenti di singoli e manifestazioni popolari a favore di Cuza. Strambio aveva previsto la possibilità che i generali Manu e Florescu si unissero ai congiurati perché malcontenti della loro esclusione dal governo; si resero invece promotori di una petizione, firmata anche da altri ufficiali, rivolta qualche mese dopo al nuovo principe, Carlo I, perché fossero perseguiti i militari che, tradendo il giuramento di fedeltà, avevano rovesciato Cuza; prudentemente Carlo I ignorò la richiesta.
Seguirono altre dimostrazioni di fedeltà a Cuza: Florescu gli attestò la sua devozione nel 1867 e lettere di auguri per il compleanno nel 1868 e 1869 gli inviò il metropolita di Moldavia, Calinic Nicolescu.
Il 12 gennaio 1872 l'ex ministro della giustizia, Dimitrie Cariady, comunicò a Cuza che uno dei congiurati, Alexandru Cadianu Papescu, avrebbe voluto chiedergli perdono.
Da ricordare che nel gennaio 1870 Cuza, sebbene fosse rimasto sempre all'estero e non avesse quindi svolto una campagna elettorale, fu eletto deputato. L'ex principe si rese conto della inopportunità della sua presenza in Parlamento e rifiutò la nomina, meritandosi così il plauso dell'assemblea. Ma fu rieletto nelle elezioni suppletive dell’aprile 1870, dimettendosi ancora una volta.
Rifiutò pure l'elezione al Senato avvenuta sempre nel 1870 nel collegio di Turnu Severin.
Cuza rimase in esilio fino alla morte, avvenuta ad Heidelberg il 15 maggio 1873; alla salma, tornata in patria, furono tributate solenni onoranze funebri; l'attesero per l'estremo saluto folle di contadini lungo tutto il percorso fino a Ruginoasa, dove fu tumulata, dopo un appassionato elogio funebre di Kogalniceanu.
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Alla memoria di Cuza furono dedicate in Romania molte pubblicazioni, fra cui spiccano le memorie di Dimitrie Bolinteanu, edite 5 volte dal 1868 al 1873, e la monumentale opera di Alexandru Xenopol “Domnu-lui Cuza Voda” ( “Il principe Cuza”), pubblicata nel 1903.
Durante il regime comunista la figura di Cuza, considerato un precursore delle riforme sociali, fu idealizzata, venendo assolti dagli storici i suoi metodi extra o anticostituzionali per realizzarle.
Fu preso a simbolo dalle guardie di frontiera che nel 1866 manifestavano contro Carlo I gridando: “Viva Cuza”, grido che echeggiò ancora nella rivolta contadina del 1899.
A Jassy nel 1912 fu dedicato al principe un monumento a lui dedicato, eretto a seguito di una sottoscrizione popolare; in preceduta gli erano stati dedicati monumenti a Craiova, Marasesti, Patna.
Al suo nome furono intitolati villaggi e strade; nel 1900 16 località portavano il nome di Cuza.173
Ma il maggior titolo di gloria, seppure postumo, possono dirsi per Cuza le sue riforme; da quella agraria a quella scolastica; dall'esproprio dei beni dei monasteri “dedicati” alla rivendicazione dell'autorità dello Stato compromessa dalle capitolazioni consolari.
In ognuno di questi campi Alexandru Jon Cuza ha lasciato un segno profondo.
Con qualche imbarazzo era costretto a riconoscerlo anche chi riteneva negativa la sua opera, dando giudizi contraddittori su di essa.
Alla voce “Romania” della “Nuova Enciclopedia Popolare” della Utet (2° volume del supplemento alla quarta e quinta edizione, Torino 1867, pp.712-715) può difatti leggersi che fra i candidati al trono nel 1859 fu scelto “Cuza, uomo di molto ingegno, che erasi procacciato buona riputazione come prefetto di Galatz”, considerato “uomo imparziale senza partigiani e perciò, senza avversari”.
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Ma a questa lusinghiera presentazione seguivano le critiche mossegli per aver operato senza la collaborazione della Commissione centrale di Focsani, osservando: “ma fatua si fu la sua pretesa, perché ripugnava alla sua natura ogni lavoro che richiedesse assiduità e costanza, né potevasi da lui concepire ed attuare un sistema di governo, perché passava di continuo da un'attività ostentata ad una specie di torpore, in cui abbandonavasi ai piaceri, ed intanto potevano i ministri fare alto e basso a loro talento”.
Dal decisionismo attribuito a Cuza per aver operato senza cercare il concorso della Commissione di Focsani, si passava poi a presentarlo come un assenteista che lasciava i ministri liberi di agire al di fuori di ogni controllo o direttiva.
Passando poi dalle questioni di metodo alle concrete iniziative assunte da Cuza, la confisca dei beni dei conventi “dedicati” era definita una misura “accolta con indignazione dall'Europa civile”, destinata a causare infinite controversie e trattative, salvo poi ad osservare che le rendite dei conventi finivano all'estero, anziché essere destinate ai fini sociali previsti negli atti di fondazione e di donazione.
Pertanto si affermava: “questo stato di cose non era né giuridicamente, né politicamente tollerabile, ed il principe Cuza fece un atto veramente coraggioso e giusto quando tolse, nel 1863, i beni dei conventi agli amministratori Greci e li dichiarò beni dello Stato “.
Per la sua più importante riforma, quella agraria, il principe era censurato perché “procedette bruscamente, con soverchia fretta e senza riguardi”, soggiungendo però subito dopo che “procurò così non poco vantaggio al paese”.
Acre ed ingeneroso il giudizio finale;si diceva di Cuza “vive tranquillo e contento a Parigi col reddito della somma di 10.000.000 di lire, che seppe raggranellare nella Romania povera ed oberata e trar seco in esilio, a consolazione dell'involontario ozio, che volentieri subisce”.
Sulla riforma agraria voluta da Cuza diede una valutazione altrettanto negativa Dora D’Istria, affermando con ironia in una lettera a Tullo Massarani: “Si les latins du Danube avaient bien compris leur rôle, ils auraient opposé avec une constance inébranlable le Droit romain et son admirable théorie de la propriété à des tendances qui tendent simplement à nous ramener au bienheureux <<état de nature>> de J.J. Rousseau et de cette école dont le Fourierisme est le dernier mot ».
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Alla luce di questa lettera appare ben motivato il giudizio di Antonio D’Alessandri nella sua monografia su Dora D’Istria : “Il tanto esaltato liberalismo della principessa romena esce significativamente ridimensionato da queste affermazioni, che la collocano, dal punto di vista sociale, su posizioni rigidamente conservatrici”.174
La citazione della lettera di Cuza a Cavour è tratta dal saggio di Michele A. Silvestri “Couza e Cavour. Un ignorato documento di storia nazionale romena” - Romania. Rassegna degli interessi italo-Romeni. Roma 1920, p. 7.
“Ho discusso a lungo questo argomento con il signor Bratianu che è passato ieri da Torino nel recarsi a Parigi. Mi ha assicurato che i Principati sono pronti a sollevarsi in massa per tendere la mano ai Romeni del Banato, della Bucovina e della Transilvania”.
Doc. 246, Cavour al principe Napoleone, 7 febbraio 1859 (da Torino). “L’elezione del colonnello Cuza da parte dell’Assemblea valacca è un avvenimento grandissimo. E’ il trionfo della politica della Francia e dell’Inghilterra in Oriente. Se la Turchia non vuole riconoscerlo ed invoca l’appoggio dell’Austria, potrebbe nascere un motivo di rottura che porrebbe fine a tutte le nostre difficoltà. Spero che l’Imperatore sosterrà la legittimità dell’elezione che non è affatto contraria agli accordi della Convenzione di Parigi”.
Su Alecsandri e la sua missione a Torino, cfr. Alexandru Marcu “V. Alecsandri e l’Italia. Contributo alla storia dei rapporti culturali tra l’Italia e la Romania nell’ottocento”. Istituto per l’Europa Orientale, Serie I Letteratura – Arte – Filosofia, vol. XX – Roma, Anonima Romana Editoriale 1929.
Per i viaggi in Italia precedenti la missione del 1859 cfr. G. L. Nicolescu “Vasile Alecsandri e l’Italia” – “Il Veltro. Rivista della civiltà italiana. Società Dante Alighieri”; anno XIII, febbraio-aprile 1869, n. 1-2, dedicato a “Le relazioni tra l’Italia e la Romania”, pp. 139-141
“Cfr. pure « Documents inédits. L’Alliance des Roumains et des Hongrois en 1859 contre l’Autriche. Publiés par V.A. Ureche ». Bucarest, 1894.
“Prolusione al libero corso di lingua, letteratura e storia romena nella R. Università di Torino, detta il 15 dicembre 1863 da Giovenale Vegezzi Ruscalla”. Torino, 1863.
“…un uomo senza passato politico, senza importanza, senza principi: un sedicente militare, nominato colonnello al termine di un anno di servizio nell’anticamera del reggente Volgorides. In Valacchia, sia per confermare il principio dell’unione che per metter fine alle rivalità, a causa delle quali si era prossimi ad una rivolta, è stato eletto lo stesso personaggio. Com’era risaputo, questi non era all’altezza del suo compito”.
« Vittorio Emanuele comprende le grandi idee. Quando si eccitano in lui certe fibre, egli balza, o almeno balzava, come un generoso cavallo da battaglia”.
Walter Maturi “Le avventure balcaniche di M. A. Canini nel 1862” in “Studi in onore di Gioacchino Volpe”, vol. II, Firenze 1958, pp. 559-643.
Nicolae Iorga “Un précurseur de la Confédération balkanique. Marco Antonio Canini, in « Bulletin de la Section historique de l’Académie roumaine ». Bucarest 1913, pp. 55-62.
Nicolae Iorga « Un pensatore politico italiano all’epoca del Risorgimento », ibidem, 1938, p. 5 e seguenti.
« In Valacchia la religione si mescola a tutte le azioni politiche, poiché essa non è soltanto la divinizzazione dell’idea, essa è tutta la società. In Francia la politica è dove è la bandiera. In Valacchia, essa è dove si trova la Croce”.
Si tratta di una raccolta di articoli pubblicati sull “Osservatore Romano”.
I riferimenti sono all’articolo “Un cardinale in Transilvania” (dal numero 293 dell’ “Osservatore”, 15 – 16 dicembre 1953, riportato alle pagine 15-16 del volume); all’articolo “Pio IX e i Romeni” ( numero 12 del giornale del 16 gennaio 1953, pp. 10-11 del volume).
“I membri della religione greca, considerando i Cattolici Romani soltanto dei pagani, è resa più disgraziata, più difficile la posizione dei Cattolici”.
“…per me, ogni figlio del paese, ogni indigeno è romeno. Non mi preoccupo del modo come onora Dio…Credo che verrà il giorno in cui la religione non sarà più in Romania motivo di esclusione per alcun cittadino”.
“Richiamiamo, per mezzo della naturalizzazione, questi stranieri che da lungo tempo vivono tra noi, che grazie alle loro attività, ai loro interessi, alla loro lingua, grazie all’amore che essi hanno per il nostro paese sono realmente divenuti indigeni”.
“Quale triste raccomandazione offriremmo all’Europa cattolica e protestante, che ha fatto tanto per la Romania, se noi votassimo contro il principio dell’articolo 9…?
“…di restare entro un limite che non potremmo oltrepassare senza sprofondare, a parer mio, nell’abisso, e che esse non ci obbligheranno ad intraprendere altre riforme più grandi, prima di aver avuto il tempo di studiarle e di provarle ed aver pazienza per sperimentarle un po’ alla volta e non di colpo”.
Op. cit., doc. 64, p. 476 – mons. Berardi a mons. Bedini; tratto da ASV – SS nunziatura Vienna 1860, rubrica 247, fascicolo 1, foglio 63r.
Op. cit., doc. 66 pp. 477-478; il cardinale Antonelli a mons. De Luca; tratto da ASV-SS nunziatura Vienna 1860, rubrica 247, fascicolo 1, foglio 64 r.
“…la Chiesa cattolica è sempre stata in Romania oggetto di una premurosa protezione da parte dei nostri diversi governi”.
Nel 1883 Leone XIII istituì a Bucarest una sede arcivescovile ed a Jassy una sede vescovile. Solo nel 1927 fu concluso il Concordato tra Romania e Vaticano, ratificato nel 1929.
“La libertà di coscienza e quella dei culti saranno rispettate”.
« …stranieri assenti nel momento delle difficoltà, di cui né il sangue né il sudore hanno mai bagnato il ruolo romeno…”
“…debbono accontentarsi, in Romania, dell’ospitalità generosa che essi vi trovano: solo ai Romeni spetta decidere fin dove debba arrivare questa ospitalità…”.
« Sempre sudati a forza di correre attraverso le pubbliche piazze, attraverso le osterie, per vendervi ; quasi tutti goffi ; una barba rossa e nera altrettanto sporca, colorito livido, sdentati, naso lungo e storto, lo sguardo pauroso ed incerto ; testa tremolante ; capelli crespi spaventosi ; ginocchia macchiettate di rosso e scoperte ; piedi lunghi e rivolti all’indentro ; gli occhi incavati ; mento lungo affilato ; calze nere bucate e ricadenti sulle gambe rinsecchite ; cappello giallo ad Avignone, manica gialla a Praga ; berretti da granatieri in Polonia ; altrove berretti di pelliccia sotto un vecchio grande feltro bucato e rivolto all’ingiù ; oppure un piccolo cappello a punta, con la punta all’insù…Ecco come sono 10 milioni di Ebrei in Europa ».
“Si crede di avere orrore degli Ebrei a causa della loro religione, e ciò è dovuto solo al loro aspetto…che siano ripuliti: l’abito orientale elimina l’avversione e dà nobiltà”.
“…attivi, accattivanti e mai scoraggiati, essi diffondono vita ed animazione attorno a loro; poiché essi non risparmiano né disturbo né fatica nella speranza di ottenere una minima ricompensa. Così, nel momento in cui vedete il cappello dalle “larghe tese” e l’abito nero scolorito di un ebreo, voi potete disporre, se volete, dei servizi di un abile, intelligente, infaticabile servo…Voi potete, senza timore, chiedere qualsiasi cosa a quest’uomo.
Vi risponderà in tedesco, in italiano, forse in altre quattro lingue, e per poche piastre – mettendo da parte ogni altra occupazione – la sua operosità, la sua ingegnosità, il suo silenzio, la sua pazienza, la sua eloquenza, le sue capacità, i suoi difetti, la sua anima, il suo corpo – tutto sarà vostro”.
“…questo paese deve divenire una patria anche per voi…”.
“…arrivare ad una fraternità di tutte le classi senza tener conto dell’origine e della religione…”
“…ma tutti i nostri sforzi saranno inutili se voi ed i vostri correligionari non volete aiutarci, decidendo di considerarvi e di diventare figli del paese, cioè di essere Romeni”
“Le nostre scuole sono aperte per voi, mandate i ragazzi sui loro banchi. Il nostro esercito ha bisogno di aumentare i suoi effettivi, i vostri giovani possono entrarvi. Niente può annullare i pregiudizi meglio della scuola e dell’esercito. L’amicizia nata sui banchi della scuola e nelle fila dell’esercito dura tutta la vita”.
“E’ lui che vi rende sgradevoli alla vista e, isolandovi da tutte le classi sociali, vi espone ai dileggi ed anche alle brutalità della folla”.
Op. cit., doc. 72, pp. 485-486; verbale consiglio ministri 7 marzo 1860; tratto da DGAS-MAI – Bucarest – Inventario 315, dossier 32/1860, foglio 25 r+v.
Armand Levy, nato a Metz, fu un idealista; liberale di tendenze rivoluzionarie prese parte alla Comune di Parigi nel 1870 e fu quindi costretto nel 1871 a rifugiarsi a Roma, dove nel maggio 1873 fu uno dei promotori della formazione del comitato ufficiale romano dell’Alliance Israélite Universelle, dopo il tentativo fallito del rabbino livornese Israel Costa all’inizio dello stesso anno. Levy negli anni successivi della sua permanenza in Italia si adoperò a favore degli Ebrei di Romania, agendo presso il governo italiano; all’inizio del 1878 promosse la presentazione al presidente del Consiglio, Benedetto Cairoli, di un memoriale dei Comitati dell’Alliance di Roma, Firenze , Mantova sulla situazione degli Ebrei in Romania. Avversò la stipula di un Trattato di commercio italo romeno ed il riconoscimento dell’indipendenza della Romania da parte del governo di Roma dopo il Trattato di Berlino del 1878, subordinandoli all’emancipazione degli Ebrei in Romania, mettendo in guardia il direttore generale degli Affari Politici del ministeri degli Esteri, Giacomo Malvano (pur esso ebreo), contro la parola romena “che è peggio della fede punica”. (lettera a Adolphe Crémieux dell’8 settembre 1879).
L’Alliance Israélite Universelle fu fondata a Parigi nel 1860 ed ebbe come scopo l’aiuto degli Ebrei inseriti nelle società dell’Europa occidentale ai confratelli in difficoltà negli altri paesi. Tale determinazione si maturò a seguito di avvenimenti di particolare importanza, come la persecuzione antiebraica causata nel 1840 a Damasco dalla scomparsa del cappuccino fra Tommaso e del suo servo musulmano Ibrahim Amara, uccisi probabilmente dai loschi soci d’affari del frate. Ma l’opinione pubblica accusò gli Ebrei di omicidio rituale, al fine di utilizzare il sangue delle vittime per cerimonie religiose.
Grazie all’intervento presso Mehemet Alì, Kedivè d’Egitto, di una delegazione di personalità ebraiche, fra cui il britannico Moses Haim Montefiore ed il francese Adolphe Crémieux, gli Ebrei fatti prigionieri furono liberati ed il Sultano,ad istanza della stessa delegazione, emanò un firmano per dichiarare infondate le accuse di compiere omicidi rituali, mosse agli Ebrei, vietandone in futuro la persecuzione se fatti oggetto di tali accuse.
Ad accelerare il processo di formazione dell'Alliance Israélite Universelle intervenne un altro fatto che destò scalpore e profonda emozione, il caso Mortara, cioè il rapimento nel 1858 a Bologna di un bambino ebreo, sottratto alla sua famiglia dalle autorità pontificie per battezzarlo ed educarlo nella fede cattolica.
Nel maggio 1860 si svolse a Parigi una riunione, in casa di Charles Netter, in cui fu decisa la formazione della Alliance; questa ebbe sede a Parigi, essendo in quel momento l'influenza della Francia preponderante in Europa ed ebbe un'organizzazione centralistica, di stampo francese. Spettava all'assemblea generale dei soci eleggere un comitato centrale con sede a Parigi, dove dovevano risiedere 20 dei 30 componenti detto comitato. Comitati locali dovevano sorgere dovunque esistessero comunità Israelitiche.
Il programma dell' Alliance fu esposto in un manifesto redatto da J. Carvallo e da N. Leven, segretario di Adolphe Crémieux, pubblicato nel giugno 1860 ed in cui gli scopi dell'associazione erano così specificati:
1) agire per l'emancipazione ed il progresso morale degli Ebrei in tutti i paesi;
2) assistere le vittime dell'antisemitismo;
3) incoraggiare e diffondere le pubblicazioni utili a realizzare queste finalità.
A conferma della preponderante influenza della Francia sull'Alliance, nel corso del XIX secolo tutti i presidenti furono francesi, ad eccezione del tedesco S. H. Goldschmidt, in carica dal 1881 al 1888.
Crémieux fu presidente dal 1863 al 1880, ottenendo l'appoggio del governo francese alle iniziative dell'Alliance.
Questa sostenne l'emigrazione degli Ebrei in difficoltà, in particolare dalla Russia e dalla Romania, verso gli Stati Uniti d'America, specialmente dopo i pogroms del 1881 in Russia.
Per assistere gli emigranti fu creato nella Prussia orientale, a Koenisberg, un comitato, che agì in collaborazione con le altre organizzazioni ebraiche.
Particolare attenzione fu pure dedicata alle attività culturali e scolastiche; già nel 1867 fu fondata a Parigi l'École Normale Israélite Orientale, per formare i direttori e gli insegnanti delle scuole ebraiche, sorte in molti paesi.
L'attività scolastica divenne sempre più intensa dopo il 1890; missioni furono inviate presso i Falascia d'Etiopia nel 1868 e presso gli Ebrei dello Yemen nel 1908.
Fu rimproverato all'Alliance di essere troppo francese e poco universale; ma l'accusa più grave fu quella di essere il centro della congiura ebraica, rappresentata come una piovra, per acquistare il dominio del mondo: immagine poi diffusa dall'opera “Protocolli dei Saggi di Sion”, un falso creato dalla polizia segreta russa.
Con l'avvento di Isaac Moise Crémieux, che prese il nome di Adolphe, alla presidenza, l'Alliance acquistò un prestigio internazionale e sviluppò un'intensa attività.
Crémieux era nato a Nimes il 30 aprile 1796; fu il primo ebreo a frequentare il liceo Imperiale di Parigi, studiò poi giurisprudenza all'Università di Aix en Provence ed esercitò la professione di avvocato presso il foro di Nimes; acquistò presto una notevole reputazione e nel 1840 fu con Moses Haim Montefiore nella delegazione intervenuta presso Mehemet Alì in difesa degli Ebrei imprigionati a Damasco, a seguito delle vicende sopra ricordate.
Entrato poi in politica, a partire dal 1842 fu più volte eletto deputato militando nelle fila dell'opposizione della sinistra liberale; ebbe un ruolo importante nella rivoluzione del 1848 e fino al giugno di quell'anno fu ministro della Giustizia, ottenendo l'abolizione della schiavitù e della pena di morte per ragioni politiche.
Favorì l'ascesa di Luigi Napoleone alla presidenza della Repubblica, ma si oppose poi al colpo di Stato del 2 dicembre 1851, a seguito del quale Luigi Napoleone divenne l'imperatore Napoleone III.
Cadde perciò in disgrazia e, imprigionato per qualche tempo, fu costretto a lasciare l'attività politica.
Si dedicò quindi completamente alla causa dell'emancipazione ebraica, operando attraverso l'Alliance Israélite Universelle ed intervenendo a più riprese in Marocco, Romania e Russia, a partire dal 1866.
Caduto Napoleone III, tornò alla vita politica; rieletto deputato, nel 1870 fu ancora ministro della Giustizia ed emanò un decreto per dare la cittadinanza francese a tutti gli Ebrei d'Algeria.
Proprio ad Algeri fu eletto deputato per l'ultima volta nel 1872, schierandosi ancora a sinistra con l'Unione repubblicana, prima di essere eletto nel 1875 Senatore a vita.
Malgrado l'età avanzata, continuò fino alla sua morte, avvenuta a Parigi il 10 febbraio 1880, ad operare a difesa degli Ebrei, nella sua qualità di presidente dell'Alliance Israélite Universelle.
Crémieux è stato considerato un esempio tipico dell'Ebreo assimilato, che conciliava l'orgoglio della propria origine con il sentimento di appartenenza e fedeltà alla nazione francese.
“…tutti gli Israeliti indigeni o stranieri siano ormai, per quanto riguarda i loro obblighi ed i loro doveri come abitanti di questo paese, sottoposti agli stessi regolamenti che gli indigeni o gli stranieri appartenenti ad altri culti”.
Opere di d’Azeglio e de Ligne già citate alle note 95 e 96 di questo capitolo.
“…un grave colpo era stato inferto alla Convenzione dal principe Cuza e dal suo governo”.
“…le Potenze si sentiranno impegnate a cercare in un esame imparziale e benevolo della situazione un facile mezzo di conciliazione e d’intesa”.
“…prove d’amore e di patriottismo verso l’Eletto della nazione romena”.
“La Révolution roumaine” – Florence, Bocca, 25 Avril 1866.
“..la nazione riprende i suoi diritti ovunque dove il principe perde i suoi”.
N. Adanilŏvic « La paysannerie et le prince Couza », ibidem, pp. 55-63.
“Se i latini del Danubio avessero ben compreso il loro ruolo, avrebbero opposto con incrollabile costanza il Diritto Romano e la sua ammirevole teoria della proprietà a tendenze che vogliono riportarci semplicemente al beato <<stato di natura>> di J.J. Rousseau e di quella scuola di cui l’ultimo grido sono le teorie di Fourier”.