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IV Capitolo
La caduta di Cuza fece entrare in fibrillazione la diplomazia europea; in quella italiana riaffiorò immediatamente l'antica idea di ottenere dall'Austria il Veneto, offrendole in cambio il consenso per l'annessione dei Principati Danubiani. Si esprimeva in tal senso, subito dopo il colpo di stato contro Cuza, il 24 febbraio 1866, Costantino Nigra, ministro plenipotenziario a Parigi, in un rapporto confidenziale a La Marmora, ministro degli Esteri, ricordando l'adesione in linea di massima a tale piano da parte francese e britannica, ottenuta nel 1865, quando la repressione russa in Polonia aveva creato una seria frizione fra i governi di Londra e Parigi e quello zarista. Non si era comunque andati oltre nell'esecuzione di tale progetto, in quanto Napoleone III restava comunque favorevole a rispettare la volontà delle popolazioni dei Principati e Lord Palmerston era contrario allo smembramento totale dell'Impero turco che la cessione della Moldavia e della Valacchia all'Austria avrebbe potuto causare. La caduta di Cuza-affermava Nigra-mutava però il quadro politico e si poteva pertanto riaprire il discorso, poiché la successione a Cuza era un problema di portata europea e non soltanto romeno; la candidatura al trono di un principe locale avrebbe scatenato rivalità e contrasti, essendo numerosi i pretendenti, ognuno dei quali avrebbe avuto il sostegno di una grande Potenza. Inoltre, la scarsa disponibilità a tale scambio di territori dimostrata in precedenza dall'Austria sarebbe forse stata superata dalla considerazione che l'acquisto dei Principati poteva essere un efficace antidoto alla crescente influenza ungherese, osteggiata da Vienna, in quanto i Romeni, tradizionali avversari dei Magiari, si sarebbero opposti a questi.
E l'Inghilterra, dopo la morte di Palmerston, era governata da Gladstone e Russel, meno convinti sostenitori dell'integrità territoriale dell'Impero turco.
La Francia, infine, vedeva adesso nel progetto di scambio Veneto-Principati Danubiani una soluzione per lei indolore del problema italiano, in cui non voleva essere ancora coinvolta; il ministro degli Esteri francese, Drouyn de Lhuys, sosteneva addirittura di essere stato il primo a pensare alla cessione del Veneto all'Italia compensando l' Austria con i Principati. 1
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Nigra espose questo progetto direttamente a Napoleone III, come scriveva a La Marmora il 1° marzo 1866: in quell'incontro il diplomatico italiano faceva presente all'imperatore il vantaggio di mettere in crisi l'alleanza austro-russo-prussiana, in quanto la Russia non avrebbe consentito una aumentata presenza austriaca nella zona danubiana con il controllo delle Bocche del Danubio assicurato al governo di Vienna. 2
Contemporaneamente de Launay, rappresentante italiano a San Pietroburgo, faceva analoghe considerazioni sulla opposizione della Russia alla cessione della Moldavia e della Valacchia all'Austria, aspirando anch'essa ad ottenere quei territori.3
Permaneva inoltre la contrarietà britannica allo scambio di territori: lord Clarendon, titolare del Foreign Office, ricordava l'avversione all'Austria dei Moldo-Valacchi, la cui volontà andava rispettata, non potendosi trattare i popoli come mandrie da scambiare.4
Un'ulteriore difficoltà emergeva poi da una conversazione fra gli ambasciatori inglese e francese in Russia, riferita da de Launay nel suo rapporto a La Marmora: a causa del fanatismo religioso degli ortodossi, solo un principe russo appartenente a quella stessa fede sarebbe stato ben accetto in Moldavia e Valacchia: ed un russo sul trono di Bucarest certamente non conveniva alle Potenze occidentali. Secondo i due diplomatici l'opposizione della Turchia a tale eventualità poteva essere superata, poiché la perdita della sovranità puramente nominale sui Principati sarebbe stata compensata con la neutralizzazione del Mar Nero e con una indennità.5
Ma la Porta era poco propensa ad accettare la cessione dei Principati all'Austria; il gran Visir Alì Pascià faceva anzi presente ai diplomatici accreditati a Costantinopoli il diritto della Turchia ad un ritorno allo statu quo, sciogliendo l'unione della Moldavia e della Valacchia, com'era previsto dal firmano nel 1859 con cui il sultano aveva riconosciuto solo temporaneamente l'unione dei Principati sotto Cuza.6
Era questo l'intricato quadro politico europeo, complicato anche dalle avvisaglie della guerra mossa all'Austria dalla Prussia alleatasi con l'Italia.
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In questo contesto ci fu l'offerta della corona moldo-valacca a Filippo, conte di Fiandra e fratello di Leopoldo I, re del Belgio, da parte dell'assemblea dei Principati, accolta dall'entusiasmo popolare, subito dopo la caduta di Cuza.
La scelta di un principe belga corrispondeva all'antica aspirazione moldo-valacca alla neutralità, rappresentata con l'espressione corrente di voler divenire il Belgio dell'Oriente; a questa scelta si opposero subito le Potenze garanti, convocando una Conferenza da tenersi a Parigi per decidere le sorti future dei Principati. Una delle prime decisioni prese dalla Conferenza fu quella di intimare al governo provvisorio di Bucarest di limitarsi all'ordinaria amministrazione, senza prendere decisioni tali da condizionare le decisioni delle Potenze.7
Raccomandazione resa superflua dal rifiuto della corona da parte del conte di Fiandra, consigliato in tal senso anche da Napoleone III, sebbene all'inizio avesse l’imperatore stesso sostenuto quella candidatura, non volendo sfidare la volontà delle Potenze ostili: il 18 marzo 1866 il ministro degli Esteri belga, Charles Rogier, comunicò a Bucarest il passo indietro del principe Filippo.
Ma non per questo il governo moldo-valacco disarmò: seguendo il consiglio di madame Cornu, sorella di latte di Napoleone III, il governo di Bucarest avanzò un'altra candidatura, designando Carlo di Hohenzollern Sigmaringen, secondogenito del principe Carlo Antonio, legato da vincoli di parentela prestigiosi: oltre ad appartenere ad un ramo cadetto della casa imperiale di Prussia, in quanto cugino del kaiser Guglielmo I, Carlo aveva come nonna paterna Stefania di Beauharnais, figliastra di Napoleone I, e la sua nonna materna era una Murat; inoltre era cognato di Filippo di Fiandra, avendo questi sposato sua sorella Maria: si può quindi dire che l'assegnazione della corona dei Principati sarebbe rimasta un affare di famiglia.
La scelta del governo moldo-valacco era quindi oculata, potendo essa risultare gradita sia a Parigi che a Berlino, considerate le parentele del giovane principe, cui la proposta fu subito comunicata da Jon Bratianu recatosi ad incontrarlo.
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Sia Carlo che il padre Carlo Antonio accettarono l'offerta ed una delegazione romena, di cui facevano parte Jon Bratianu e Jon Balaceanu, si recò a Parigi per caldeggiare la candidatura del principe prussiano, senza curarsi del veto opposto dalla Conferenza delle Potenze, tuttora in corso a Parigi, a qualsiasi iniziativa di Bucarest.
Non mancarono difficoltà alla candidatura di Carlo, provenienti da chi si era creduto l'avrebbe dovuta sostenere. Il kaiser Guglielmo I si mostrò tutt'altro che entusiasta della prospettiva di un Hohenzollern sul trono di Bucarest e nell'incontro avuto con Carlo il 28 marzo 1866 gli sconsigliò di accettare l'offerta della corona. Diverse ragioni spingevano il kaiser ad assumere una posizione negativa: voleva evitare scontri con le Potenze riunite a Parigi per decidere il futuro dei Principati, avallando una decisione presa ignorando l'alto là opposto al governo di Bucarest dalla Conferenza di Parigi; non voleva che la Prussia, a seguito dell'ascesa di Carlo al trono moldo-valacco, restasse impegolata nella questione d'Oriente, in cui il governo di Berlino era sempre rimasto neutrale, proprio nel momento cui si accingeva a muovere guerra all'Austria; riteneva infine sconveniente che un Hohenzollern divenisse sovrano di un paese vassallo della Turchia.
Su posizioni diverse da quelle del kaiser si trovavano il principe ereditario ed il cancelliere Bismarck, favorevoli ad accettare subito l'offerta romena, senza curarsi delle decisioni della Conferenza di Parigi.
Prevalse l'opinione di Bismarck e Guglielmo I ammorbidì la sua posizione, in occasione di un suo incontro con Carlo il 19 aprile 1866 a Berlino. Il giovane principe rassicurò il kaiser sul carattere temporaneo dei vincoli di vassallaggio con l'Impero turco, affermando di voler presto acquistare sul campo di battaglia l'indipendenza.
Il kaiser non si pronunciò esplicitamente a favore dell'accettazione della corona, ma autorizzò la partenza per Bucarest, ponendo però la condizione che Carlo si dimettesse da ufficiale dell'esercito prussiano, appena varcata la frontiera: trovandosi la Prussia in guerra con l'Austria, nessun ufficiale in servizio poteva lasciare il paese. Bruciando le tappe, il governo
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romeno aveva organizzato per quegli stessi giorni un plebiscito popolare per ratificare la candidatura di Carlo al trono, svoltosi dal 15 al 21 aprile 1866. Una maggioranza schiacciante si pronunciò a favore della candidatura: su 688.193 votanti vi furono 685.969 sì; non fu però raggiunto, come avrebbe voluto il governo, il numero di 800.000 voti favorevoli, raggiunto nel plebiscito per la nomina di Cuza.
Contemporaneamente allo svolgimento del plebiscito si ebbe la decisione della Conferenza di Parigi, presa a maggioranza il 23 aprile, perché la Camera romena scegliesse un principe locale (decisione presa dall'Austria, dall'Inghilterra, dalla Russia e dalla Turchia; disposte ad accettare la candidatura di Carlo l'Italia, la Francia e la Prussia).
Incurante di questa deliberazione della Conferenza, Carlo partì l'11 maggio 1866 alla volta di Bucarest, compiendo una lunga deviazione, per recarsi prima in Svizzera per incontrare un abile falsario, il Candammen, e procurarsi così passaporti con false generalità; il principe figurava essere Carlo Hettingen (era il nome di un castello della sua famiglia), commerciante diretto a Odessa per affari.
Prima della partenza Bismarck aveva consigliato a Carlo di scrivere allo zar Alessandro II per ottenerne il favore affermando di considerarlo il suo maggiore patrono e di sperare di potere in futuro risolvere di comune accordo la questione d'Oriente.
Lasciata la Svizzera, Carlo iniziò il viaggio sul Danubio verso Bucarest il 20 maggio; dal battello inviò una lettera anche all'imperatore d'Austria, Francesco Giuseppe, assicurando di non nutrire sentimenti ostili all'Austria e di volere anzi mantenere con essa rapporti di amicizia (affermazioni non si sa bene quanto ritenute credibili a Vienna nel momento in cui Prussiani ed Austriaci si affrontavano sul campo di battaglia).
Carlo durante il viaggio mantenne prudentemente l'incognito:in territorio austriaco rischiava, se riconosciuto, l'arresto o addirittura la fucilazione, secondo l'affermazione forse esagerata dell'uomo politico romeno Balascianu. Sullo stesso battello su cui viaggiava il principe si era pure imbarcato Jon Bratianu ed i due si ignorarono, fingendo di non conoscersi.
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Carlo arrivò a Bucarest il 22 maggio 1866; la notizia si sparse subito, destando reazioni diverse nei governi europei.
In Francia Napoleone III si dimostrò soddisfatto e la stampa dedicò commenti favorevoli all'iniziativa di Carlo, sconfessata invece con irritazione dal ministro degli Esteri, Drouyn de Lhuys; timoroso delle possibili reazioni russe, il ministro telegrafò subito all'ambasciatore francese a San Pietroburgo perché comunicasse al governo dello zar di essere stato tenuto all'oscuro del proposito di Carlo di partire per Bucarest.
Ma anche in Russia ci furono posizioni diversificate: Gorciakoff protestò vivacemente, arrivando a minacciare un intervento armato; intervenne però lo zar smorzando i toni e dissuadendo il ministro da ogni proposito bellicoso, poiché non voleva guastare i rapporti con la Prussia, memore dell'aiuto ricevuto da Berlino nel 1863 per domare la rivolta della Polonia.
Profonda l'irritazione del sultano, sebbene Carlo, appena sbarcato in terra valacca, a Turnu Severin, gli avesse scritto per confermargli il rispetto della “suzeraineté” turca sui Principati. La Porta protestò con la Conferenza delle Potenze a Parigi e minacciò pure un intervento armato: ma le Potenze si opposero, anche se diedero disposizione ai rappresentanti diplomatici a Bucarest di evitare rapporti ufficiali con Carlo.
L'intervento dell'ambasciatore francese, marchese de Moustier, valse a rabbonire il sultano, che si limitò a proteste formali.
L'Austria ebbe un motivo in più di contrasto con la Prussia; ma sopraggiunse presto la vittoria prussiana di Sadowa (3 luglio 1866) ad impedirle ogni tentativo di intervento.
Sadowa pose pure fine ad un piano italiano per un'insurrezione in Ungheria contro l'Austria, di cui si era fatto latore a Bucarest l’ungherese Stefano Turr veterano garibaldino e generale dell'esercito italiano, venuto a proporre a Carlo un'azione comune contro Vienna.
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Il principe, benché appena salito sul trono ed ancora privo di un riconoscimento internazionale, non sarebbe stato alieno dall'accettare, nella speranza di ottenere la Transilvania ed il Banato in cambio dell'aiuto fornito ai Magiari. Ma Carlo desisté da quell'avventuroso proposito, considerando che la fine della guerra con la Prussia avrebbe consentito all'Austria di concentrare tutte le sue forze contro i rivoltosi in Ungheria; perché il principe rinunciasse ad appoggiare una rivolta in Ungheria esistevano inoltre numerosi e gravi problemi interni (difficoltà finanziarie, scarsa disciplina dell'esercito, minacce separatiste in Moldavia, la carestia,l'epidemia di peste).
E la maggiore urgenza era ottenere il riconoscimento delle Potenze, soprattutto della Turchia, alla cui “suzeraineté” erano sottoposti i Principati. Quanto precaria fosse la posizione di Carlo sul piano internazionale era dimostrato dall'assenza di tutti i rappresentanti diplomatici alle cerimonie di accoglienza, in ossequio alle disposizioni ricevute dai rispettivi governi, anche di quelli, come l'italiano, che non si erano opposti alla sua candidatura al trono. Difatti l'agente diplomatico italiano a Bucarest, Teccio di Bayo, si astenne da incontri ufficiali ed ebbe con Carlo soltanto un incontro ufficioso. Per l'occasione il principe gli comunicò di aver notificato a Vittorio Emanuele II il suo insediamento con una lettera affidata all'ambasciatore italiano a Vienna, il marchese Pepoli, di cui Carlo era parente. Teccio di Bayo mantenne un atteggiamento riservato, pur non nascondendo la simpatia destata in lui dal principe.8
Il giorno stesso dell'arrivo di Carlo a Bucarest si sciolse il governo provvisorio e l'incarico di formare il nuovo governo fu affidato a Lascar Catargi, membro della luogotenenza formata dopo la caduta di Cuza e rappresentante del partito moderato detto “bianco”. Trattative con la Porta furono subito intavolate per ottenere il riconoscimento dell'ascesa al trono del nuovo principe; ma ancor prima della Turchia fu la Francia a concedere implicitamente tale riconoscimento con l'udienza imperiale concessa il 21 giugno 1866 a Jon Balascianu, nominato agente diplomatico dei Principati a Parigi.
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Il governo francese inoltre intervenne presso il governo turco perché Carlo fosse riconosciuto legittimo sovrano della Moldavia e della Valacchia unite.
Reso ardito dall'appoggio di Parigi, Carlo avanzò la richiesta di poter stipulare direttamente accordi internazionali: ma lo stesso ambasciatore francese, de Moustier , si oppose e la Porta si irrigidì, pretendendo la conferma dell'appartenenza a pieno titolo dei Principati Danubiani all'Impero ottomano, di cui dovevano continuare ad essere parte integrante, e pertanto il governo moldo-valacco non poteva trattare direttamente con le Potenze.
Le trattative sembravano arenarsi, ma si trovò infine una soluzione soddisfacente per entrambe le parti, facendo seguire all'espressione “parte integrante” la precisazione “nei limiti fissati dalle capitolazioni e dal Trattato di Parigi”. Sciolto così il nodo principale del rapporto fra i Principati e l'Impero ottomano, fu raggiunto l'accordo anche sugli altri punti.
Carlo fu riconosciuto principe con diritto alla successione per i suoi eredi; poteva inoltre formare un proprio esercito forte di 30.000 uomini, battere moneta su cui doveva figurare l'emblema del governo imperiale turco; doveva però rinunciare a stipulare direttamente accordi internazionali e ad istituire ordini cavallereschi, prerogativa propria di Stati sovrani.
Il felice esito delle trattative con il governo turco fu coronato dal viaggio compiuto da Carlo per consiglio di Napoleone III a Costantinopoli, dove fu accolto con grandi onori nell'ottobre 1866.
Un effetto immediato del riconoscimento turco fu la concessione di un prestito da parte francese al governo di Bucarest, fino ad allora rinviato a causa del rifiuto turco di riconoscere Carlo.
Ma la conseguenza di gran lunga più importante fu che al riconoscimento della Porta seguì presto quello delle altre Potenze, notificato al governo turco il 20 gennaio 1867 dagli ambasciatori con distinte note diplomatiche dall'identico contenuto, preferendo tale procedura a quella più solenne di un'unica nota collettiva.
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Prima del viaggio nella capitale ottomana Carlo si era recato nel settembre 1866 in Moldavia per farsi conoscere dalla popolazione e porre fine alle tendenze separatiste, manifestatesi anche ad opera dei nostalgici di Cuza,peraltro non incoraggiati dall'ex principe ad agire contro il nuovo sovrano.
Cuza scrisse da Parigi a Carlo il 20 aprile 1867 chiedendo di poter rientrare in patria da privato cittadino, ricordando, a conferma della sua lealtà verso il nuovo ordine costituzionale, di aver sostenuto già nel 1859, all'atto della sua elezione, la nomina di un principe straniero come soluzione definitiva preferibile ad ogni altra.9
La richiesta di Cuza non fu accolta, per il timore che la sua presenza potesse rafforzare il fronte degli oppositori; in seguito, quando l'ex principe venne più volte eletto in Parlamento, fu egli stesso a rifiutare l'invito di Carlo a rientrare in patria, essendo consapevole che il suo ritorno da rappresentante politico, e non più da privato cittadino, avrebbe potuto turbare la pace del paese; ed un'altra prova di lealtà fu data dal rifiuto di Cuza ad accettare l'appoggio offertogli per una sua restaurazione dall'ambasciatore francese a Vienna, Gramont, quando i rapporti di Parigi con Carlo si erano guastati momentaneamente.
Più che da Cuza le difficoltà per Carlo derivavano dalla sua nazionalità prussiana, poiché la Convenzione di Parigi del 1858 aveva stabilito l'elezione di un principe locale.
Il problema fu aggirato con la concessione a Carlo della cittadinanza romena, volendolo così presentare come un principe indigeno; ma tale disposizione non pose fine all'avversione verso il principe, finché non si convertì alla religione greco ortodossa, anche se ancor prima assisteva alle cerimonie officiate da tale Chiesa; nel suo rapporto del 2 giugno 1866 il console italiano Teccio di Bayo deprecava il comportamento di una “popolazione fanatica e superstiziosa, e che nella sua ignoranza avversa qualsiasi credenza che non sia la propria”.10
La fine dell'isolamento diplomatico dei Principati non risolse completamente le loro difficoltà in campo internazionale; nuovi problemi nacquero proprio con la Francia, la Potenza che più di ogni altra si era prodigata a favore del riconoscimento di Carlo.
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Questi problemi dei rapporti moldo-valacchi con la Francia furono appunto alla base dell'offerta di aiuto prima ricordata, fatta dall'ambasciatore francese a Vienna, Gramont, a Cuza per sostenere la sua restaurazione. Il dissidio di Parigi nasceva dal rinvio della missione militare francese, chiamata da Cuza ad organizzare ed addestrare l'esercito dei Principati; con scarso senso dell'opportunità Carlo affidò questo incarico ad una missione militare prussiana ed in seguito revocò pure il contratto con la ditta francese Godillot per la fornitura delle uniformi all'esercito.11
La reazione francese non si fece attendere; inutilmente Carlo aveva cercato di giustificarsi, attribuendo il rinvio della missione francese a ragioni non politiche, ma esclusivamente economiche, considerato il suo alto costo; Napoleone III gli scrisse per rimproverargli di aver turbato la pace dell'Europa incoraggiando le proteste dei Valacchi di Transilvania contro gli Ungheresi ed il governo di Vienna; inoltre non fu rivolto al principe l'invito a visitare l'Esposizione Universale del 1867 a Parigi.
Nonostante lo sgarbo del mancato invito a Carlo, la Romania partecipò all'Esposizione e lo scopo di questa partecipazione era esposto nell'opuscolo illustrativo dedicato alla Spagna ed alla Grecia oltre che alla Romania: farsi conoscere: “Nous voici tels qui nous sommes, devions nous, devrons nous vivre et être inscrits à jamais au rôle des nations? Apprenez à nous connaître vous qui nous ignorez: voyer et jugez”. Si chiariva poi la funzione di ponte verso l'Oriente svolta dalla Romania: “Latins par le coeur, la langue et le courage, les Roumains sous leurs brillants costumes orientaux , forment la transition entre nous et le monde de l'Islam”.
Ed infine nella conclusione l'autore francese dell'opuscolo,Théophile Brillant, esaltava il principe Carlo quale simbolo dell'unità nazionale romena: “...quelles que soient les agitations parlementaires du pays, la personne même du Prince est en dehors des luttes auxquelles pourraient se livrer les partis”.12
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Posizione al di sopra delle parti in realtà inesistente, poiché Carlo era invece pesantemente coinvolto nelle lotte dei partiti, privi come erano questi di riguardi nei suoi confronti.
Degno di nota il fatto che nell'opuscolo il paese viene definito “Romania” e non con il nome ufficiale “Principati Uniti di Moldavia Valacchia”. La rivendicazione del nome “Romania”, contenente un riferimento alle altre regioni con popolazione moldo-valacca soggette al governo austriaco ed a quello russo, ancora alcuni anni dopo era respinta dalle Potenze; il 28 gennaio 1870 l'agente diplomatico presso la Porta, Dimitrie Sturdza, comunicava a Bucarest il rifiuto dell'ambasciatore d'Austria ad usare il nome “Romania” come richiesto con una nota diplomatica del governo di Carlo; per il diplomatico austriaco il termine “Principati Uniti di Moldavia e Valacchia”, introdotto dalla Convenzione di Parigi del 1858, era divenuto ufficiale, consacrato dall'uso fattone nei trattati successivi e non era quindi possibile cambiarlo (per la verità il nome “Romania” era stato usato dal barone d'Avril, agente diplomatico francese a Bucarest, nel porgere a Carlo gli auguri per il capodanno 1867).
L'uso del nome Romania da parte francese non poteva però tranquillizzare Carlo ed i suoi sudditi, poiché il malcontento di Napoleone III dipendeva da ragioni ben più gravi del licenziamento della missione militare francese o della rescissione del contratto con la ditta Godillot.
Gravava difatti su Carlo il sospetto che, memore delle sue origini prussiane, volesse distaccarsi dalla tradizionale amicizia con Parigi per accostarsi a Berlino; veniva maturando il contrasto franco-prussiano, sfociato poi nella guerra del 1870 e, anche se non attuale, riusciva certo sgradita all'imperatore francese l'eventualità futura di una politica filo-prussiana del governo di Bucarest.
Esisteva poi il problema sempre presente nella storia della Romania: la questione ebraica, tanto importante da condizionare la vita politica interna ed i rapporti internazionali del paese.
E la Francia fu in prima linea nel difendere i diritti degli Ebrei di Romania, non solo perché aveva preso ad insegna della sua rivoluzione il motto “liberté, fraternité, égalité”, ma
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anche per le continue sollecitazioni ad intervenire fatte dalla potente Alliance Israélite Universelle, con sede centrale a Parigi e comitati periferici in molti paesi, di cui era autorevole presidente Adolphe Crémieux.13
A Bucarest era sorto nel 1864 un comitato provvisorio dell'Alliance, cui erano seguiti nel gennaio 1865 i comitati di Barlad, Galatz e Jassy; con rapida crescita dell'organizzazione i comitati erano divenuti 31 nel novembre 1866 e 34 nel gennaio 1867. Il governo provvisorio costituito dopo la caduta di Cuza si era mostrato ben disposto verso la comunità Israelitica, tanto da comunicare alla Alliance nell'aprile 1866 la disponibilità ad accordare parità di diritti agli Ebrei.
Il primo impatto con questo spinoso problema Carlo lo ebbe fin dal suo arrivo a Bucarest, dove Crémieux si era recato per sostenere la causa dei suoi correligionari, trovando cortese accoglienza da parte del principe. Era in corso il dibattito parlamentare per la nuova Costituzione ed il governo, su richiesta di Carlo, presentò un progetto di legge per riconoscere gradualmente la parità giuridica degli Ebrei.
Ma il governo e Carlo non avevano messo in conto quale violenta opposizione la proposta avrebbe scatenato.
L'opposizione passò presto dal Parlamento alla piazza; furono saccheggiati negozi ed abitazioni degli Ebrei, fu devastata la grande sinagoga. Il governo fu costretto a cedere alla violenza e il 18 giugno 1866 Jon Bratianu annunciò fra gli applausi del Parlamento il ritiro della proposta governativa.
A titolo di riparazione il principe offrì di tasca sua 6000 ducati per la ricostruzione della sinagoga.
La notizia delle violenze destò viva impressione in Europa, ma prima che potessero pervenire a Bucarest le proteste dei governi,il Parlamento, per mettere l'Europa di fronte al fatto compiuto, si affrettò a regolare la questione ebraica, approvando il 21 giugno 1866 l'articolo 7
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della Costituzione per cui soltanto gli stranieri Cristiani potevano ottenere la cittadinanza e con essa i diritti civili e politici; gli Ebrei erano considerati tutti stranieri e quindi esclusi dalla concessione della cittadinanza, in dispregio dell'articolo 46 della Convenzione di Parigi del 1858, in base al quale tutti i cittadini moldo-valacchi dovevano godere dei diritti civili, rinviandosi a future leggi la possibilità di ottenere anche quelli politici.
Il governo italiano fece comunque sentire la sua voce; Visconti Venosta, ministro degli Esteri, scrisse il 18 agosto 1866 al console Teccio di Bayo, disapprovando la marcia indietro fatta dal governo romeno per le misure a favore degli Ebrei. Il governo italiano-affermava il ministro-non poteva restare “indifferente a fronte di siffatte manifestazioni di una illiberale tendenza”. Pur non volendo ingerirsi negli affari interni romeni, Visconti Venosta esprimeva l'augurio che il governo romeno potesse trovare un “facile mezzo di riparare la deliberazione dell'assemblea di Bucarest e di concedere di fatto agli Israeliti romeni la pienezza dei diritti civili e politici”.
Ricordava poi il ministro italiano l'articolo 46 della Convenzione del 1858 secondo il quale era da riconoscersi agli Ebrei la qualità di cittadini, per cui non potevano essere considerati stranieri, ai quali la Costituzione negava i diritti civili e politici. Consigliava infine Visconti Venosta all'agente diplomatico e console Teccio di Bayo di concordare con i colleghi francese ed inglese un'azione comune, avendo essi già ricevute analoghe istruzioni per raggiungere “lo scopo umanitario e liberale che le tre Potenze si prefiggono”.14
Malgrado tali interventi la situazione degli Ebrei peggiorò rispetto al periodo precedente, quando regnava Cuza. Continuando ad ignorare l'articolo 46 della Convenzione del 1858 non si fece più distinzione fra Ebrei indigeni e stranieri, ridotti tutti ad essere considerati vagabondi, come stabiliva la circolare emanata il 6 settembre 1866 dal ministro dell'Interno Jon Ghika, riprendendo l'articolo 94 del Regolamento organico; seguirono tre circolari emanate il 7, 24 aprile e 2 maggio 1867 dal successore di Ghika, Jon Bratianu, ribadendo il divieto agli Ebrei di vivere in campagna, di gestire alberghi ed osterie, di acquistare o
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prendere in affitto proprietà agricole. In Francia ci fu una campagna di stampa contro queste misure, l’ “Alliance Israélite Universelle” si mobilitò; Crémieux si rivolse personalmente a Napoleone III e l'imperatore inviò il 26 maggio 1867 un duro telegramma di protesta al principe Carlo. Ci furono proteste contro le circolari di Bratianu anche in altri paesi, avendo Crémieux rivolto un appello a personalità ebraiche di spicco, Goldsmith in Gran Bretagna, Artom in Italia, Wertheimer in Austria perché sollecitassero l'intervento dei loro governi.15
La risposta romena fu ambigua. Carlo promise a Napoleone III un'inchiesta per accertare eventuali abusi, sostenendo però la legalità delle circolari di Bratianu; “Monitorul Oficial”, organo del governo, il 26 maggio 1867 affermò trattarsi soltanto di misure igieniche, senza alcun intento persecutorio nei confronti degli Ebrei.
In realtà le persecuzioni non si arrestarono; crebbero anzi di intensità fino al tragico episodio di Galatz del giugno 1867.
Un gruppo di 10 Ebrei era stato espulso da Jassy con l'accusa di vagabondaggio ed inviato a Galatz per essere estradato in Turchia, venendo però respinto dai soldati turchi posti a guardia della frontiera. Tornati indietro, agli Ebrei fu vietato il rientro dai militari moldavi ed il sergente turco comandante la scorta li fece gettare nel Danubio. Vennero soccorsi dalla popolazione, ma due di essi morirono annegati. Esponeva così i fatti il console italiano Susinno nel suo rapporto al ministro degli Esteri ed aggiungeva di aver consigliato al ministro dell'Interno, Bratianu, molto afflitto per l'accaduto, di porre fine alle espulsioni, rendendo gli Ebrei “eguali agli altri cittadini o forestieri, giacché allora, potendo esercitare ogni professione e stabilirsi dovunque, si rialzerebbero ben presto da quello stato di abiezione in cui si trova non poca parte di loro e non presenterebbero più verun pericolo per la società tramezzo cui vivono”.
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Bratianu assicurò che avrebbe Trattato il problema nel prossimo consiglio dei ministri ed attribuì ogni responsabilità dell'accaduto alla barbarie turca.16
I consoli a Galatz condannarono l'accaduto con una nota collettiva, ritenendo responsabili le autorità moldave non meno di quelle turche.
Alla protesta si associò il console italiano a Galatz, Stefano Castelli, ma presto se ne pentì.
Nel suo rapporto del 22 luglio 1867 Castelli affermava di essere stato costretto a firmare la nota di protesta inviata al prefetto di Cuturbiu, località dove si era verificato il tragico incidente, perché altrimenti l'opinione pubblica sarebbe rimasta colpita sfavorevolmente. Volendo però mantenere buoni rapporti con le autorità locali, in particolare con il prefetto, personaggio notevole per avere in precedenza ricoperto importanti incarichi ministeriali, si era affrettato a rendergli visita dopo l'invio della nota collettiva, di cui si era fatto promotore il console austriaco.
Il prefetto Lupascu aveva gradito molto la visita e dopo due giorni l'aveva ricambiata.
In questo secondo incontro aveva promesso di istituire quattro borse di studio per studenti romeni della Transilvania, Bucovina, Banato e Bessarabia e di altre 6 borse per quelli moldavi, affinché potessero compiere in Italia i loro studi. Aveva inoltre espresso meraviglia perché gli emigranti italiani si recavano in America, anziché in Romania, dove, accolti come fratelli, avrebbero facilmente fatto fortuna. Lupascu faceva poi al console l'imbarazzante confidenza di sovvenzioni date ai giornali italiani, senza però precisare quali fossero, perché presentassero gli avvenimenti romeni in modo favorevole.
Il console austriaco era stato indotto a promuovere la nota collettiva di protesta da falsi testimoni, fra cui molti erano Ebrei.
Malgrado le melliflue dichiarazioni del prefetto, il console Castelli sembrava dubitare nel suo rapporto della versione ufficiale dei fatti osservando che i Turchi avrebbero potuto rifiutare l'ingresso agli Ebrei espulsi senza riportarli sulla sponda romena del Danubio e farli affogare sotto gli occhi di tutti: senza dichiararlo apertamente Castelli riteneva dunque le autorità romene quanto meno corresponsabili dell'accaduto.
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Il prefetto Lupascu, messo da parte il tono amichevole, concludeva la sua conversazione con Castelli ed affermava di aver risposto il 20 luglio alla nota di protesta dei consoli, respingendo le accuse mosse alle autorità romene e contestando il diritto dei consoli di occuparsi della vicenda, su cui avrebbe fatto luce l'inchiesta giudiziaria in corso.17
Sull'argomento tornò più volte Susinno, console generale ed agente diplomatico a Bucarest: il 10 agosto 1867 comunicava al ministro degli Esteri Campello i risultati di un'inchiesta svolta dal console Castelli a Galatz: le responsabilità risultavano comuni a Turchi e Romeni; il console informava pure il ministro del prossimo arrivo di un'importante personalità ebraica dalla Gran Bretagna, sir Moise Montefiore, membro della Camera dei Lords, malgrado i capi della comunità ebraica di Bucarest si fossero detti contrari a tale visita, temendo il rinforzarsi delle polemiche.
Susinno affermava poi che la stessa comunità ebraica non era contraria ad una permanenza di Bratianu al governo, ritenendolo piuttosto che l'autore delle persecuzioni, una vittima degli intrighi dei suoi avversari, istigatori delle violenze per screditare il ministro e con lui tutto il governo. Successivamente, il 14 agosto, Susinno informava Campello di aver trasmesso a Castelli il biasimo del ministro per essere andato al di là dei suoi poteri associandosi alla protesta collettiva dei consoli. Ne era consapevole lo stesso Castelli, scusandosi di non aver chiesto istruzioni perché l'urgenza della situazione richiedeva una sua immediata adesione. E Castelli faceva atto di contrizione con il suo rapporto del 21 agosto 1867, nel prendere atto dell'ammonizione giunta da Firenze di non prendere altre iniziative senza aver prima consultato Susinno, l'unico ad essere competente per i problemi politici data la sua qualità di agente diplomatico.18
La visita di sir Moise Montefiore, preannunciata da Susinno, ebbe luogo in quello stesso mese di agosto 1867.
Il console italiano dava notizia del suo arrivo il 24 agosto, dicendo di averlo incontrato il giorno precedente e di ritenerlo “... persona rispettabile per età, per carattere e per sentimenti”.
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Il lord britannico lanciò un messaggio distensivo, assicurando di non voler rivangare il passato, poiché era venuto allo scopo “di esaminare imparzialmente la condizione degli Israeliti, di pacificare gli animi ed ottenere dal governo guarentigie per l'avvenire”.19
Tanta moderazione non bastò ad impedire reazioni negative alla visita di Montefiore da parte dei Romeni; un giornale dell'opposizione, “La Speranza”, proprio durante la permanenza del lord britannico, quasi per compiere un gesto di sfida, organizzò una raccolta di firme per l'espulsione degli Ebrei, arrivando a raccoglierne 7000, a quel che si diceva. Una petizione di segno opposto, intesa a concedere agli Ebrei libertà di soggiorno e di attività professionali, fu invece promossa dai radicali Constantin A. Rosetti e Jon Bratianu, autore peraltro da ministro degli Interni delle circolari limitatrici dei diritti degli Israeliti.20
Da vero Giano bifronte, Bratianu nel corso della sua lunga carriera politica alternò agli atteggiamenti repressivi aperture liberali nei confronti del problema ebraico, comunque occasionali e meno impegnative; si attirò così gli attacchi di quanti lo consideravano un oppressore degli Ebrei per le disposizioni emanate da ministro ed al contempo di quanti gli rimproveravano invece prese di posizioni liberali, considerate pericolose per l'equilibrio sociale della Romania, da lui contraddittoriamente assunte in alcune occasioni.
Dopo alcuni giorni Montefiore partì, poco soddisfatto dell'esito della sua missione, anche se Carlo gli aveva inviato una cortese lettera autografa, in cui si diceva lieto perché riteneva che il lord inglese si fosse reso conto dell'inesistenza in Romania di persecuzioni antiebraiche; gli Ebrei erano tutelati dalla legge come tutti i cittadini e-concludeva il principe-se c'era stata qualche sporadica violenza, non si poteva farne ricadere sul governo la responsabilità. Carlo comunque assicurava il suo interessamento perché gli Ebrei fossero rispettati e migliorate le loro condizioni di vita. 21
Giunto a Londra, Montefiore con una lettera pubblicata il 20 settembre 1867 dal “Times” informò l'opinione pubblica della sua missione a Bucarest, riferendo le promesse di Carlo di intervenire a favore degli Ebrei.
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Non si placava frattanto la polemica dell'Alliance per gli avvenimenti di Romania; l'obiettivo principale di tale polemica restava sempre Bratianu, a causa delle sue circolari. Risultò inutile la missione affidata da Carlo al suo segretario particolare, il francese Emilio Picot, inviato a Parigi per convincere Crémieux della buona volontà del principe e del governo verso gli Ebrei, contro i quali non erano stati presi provvedimenti particolari: gli interventi nei loro confronti dipendevano da disposizioni generali di carattere igienico e da misure contro il vagabondaggio. Questi argomenti, esposti da Picot nell'incontro avuto il 22 luglio con il comitato centrale dell'Alliance, non convinsero Crémieux, che affidò a Picot una lettera per Carlo, chiedendo le dimissioni di Bratianu e la punizione dei funzionari responsabili delle violenze. Crémieux rinnovò tale richiesta con una successiva lettera del 3 agosto, definendo menzognere le smentite romene e facendo presente il rischio per la Romania di restare isolata in Europa. Instancabile, Crémieux non si limitò a questi rapporti epistolari; incontrò Napoleone III e lo convinse ad inviare a Carlo un telegramma di protesta contro Bratianu, di cui si chiedevano ancora una volta le dimissioni.
Il bombardamento anti Bratianu continuò con l’incontro a Parigi fra Napoleone III ed il padre di Carlo, il principe Carlo Antonio, cui l'imperatore rinnovò ancora una volta la richiesta delle dimissioni del ministro romeno.
L'accerchiamento di Bratianu si completò con il dibattito svoltosi alla Camera dei Comuni,contrassegnato da una profonda ostilità verso di lui; una volta di più erano richieste le sue dimissioni: e queste furono alla fine presentate il 16 agosto 1867.
Carlo aveva esitato a lungo prima di acconsentire al sacrificio del suo ministro, verso cui nutriva stima e riconoscenza, poiché Bratianu era stato uno dei principali sostenitori della sua candidatura al trono dei Principati.
Stima e riconoscenza confermate qualche mese dopo, quando il 9 novembre 1867 l'uomo politico fu da Carlo chiamato a far parte del governo in qualità di ministro delle Finanze.
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L'episodio delle forzate dimissioni lasciò comunque il segno: il rapporto di Bratianu con il principe, nonostante l'atto riparatore del nuovo incarico, si incrinò e non fu più lo stesso; negli anni successivi in varie occasioni Bratianu si dimostrò un avversario di Carlo, adoperandosi addirittura per rovesciarlo dal trono.
Al momento non si manifestò questa avversione e Bratianu, pur non essendo più il ministro dell'Interno e quindi il responsabile dell'ordine pubblico, adoperò la sua influenza politica per evitare le violenze antisemite; il risultato ottenuto furono nuovi attacchi, rivoltigli stavolta dal fronte opposto dei nemici degli Israeliti.
Gli sforzi di Bratianu non potevano infatti evitare nuove espulsioni, come quella disposta nell'aprile 1868 per 25 famiglie ebree di Bacau, in Moldavia. Inoltre, la situazione degli Ebrei risultò peggiorata dalla formazione nel marzo 1868 di un nuovo schieramento politico, dall'ambiziosa e lunga denominazione “partito libero ed indipendente solo e vero nazionale”, forte in Parlamento di una trentina di deputati, provenienti tutti dal partito liberale radicale, il cosiddetto partito “rosso”. Il programma di questo nuovo partito non era del tutto noto, ma quanto si sapeva bastava per definirlo xenofobo: si dichiarava infatti contrario ad ogni presenza straniera (fra cui era chiaramente sottintesa quella di Carlo); erano pure avversate le concessioni ferroviarie a ditte straniere e si chiedeva la destituzione di tutti gli impiegati stranieri e, manco a dirlo, l'espulsione in massa degli Ebrei. Su quest'ultimo punto i deputati del nuovo partito presentarono una proposta di legge, passata all'esame delle Commissioni parlamentari in vista della sua discussione in aula. La proposta non aveva l'appoggio del governo, ma, secondo il conte Gloria, reggente il consolato italiano in attesa della nomina del nuovo console titolare, il progetto antiebraico sarebbe passato se sottoposto a votazione segreta, poiché riscuoteva un consenso pressoché generale, anche se inconfessato da parte di molti. Gloria si augurava che il progetto, se approvato dalla Camera, fosse poi respinto dal
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Senato, confidando nel buon senso dei senatori ritenuto maggiore di quello dei deputati. Il ministro degli Esteri, Golescu, aveva rassicurato Gloria affermando che la legge, seppure fosse stata approvata da entrambi i rami del Parlamento, non sarebbe stata promulgata dal principe. I sostenitori del progetto di legge confidavano nell'appoggio di Jon Bratianu, considerando la loro iniziativa legislativa un derivato delle circolari da lui emesse quando era ministro dell'Interno.
Questa parentela politica era tutta da dimostrare; era invece indubbia una parentela anagrafica del ministro con il leader del partito xenofobo, Gheorghe Bratianu, suo nipote. 22
L'atmosfera parlamentare era turbata da continui tumulti e scontri, tanto che non si era neanche approvato il bilancio; incombeva inoltre la sorveglianza dei governi stranieri; quello inglese tallonava Carlo, telegrafando al suo agente a Bucarest di ricordare al principe le promesse di migliorare le condizioni degli Ebrei fatte a Montefiore. 23
Il governo si manteneva estraneo, anzi ostile al progetto di legge contro gli Ebrei; ma era in difficoltà perché senza l'appoggio dei parlamentari presentatori della proposta si sarebbe trovato senza maggioranza e quindi costretto a dimettersi.
Le rinnovate violenze contro gli Ebrei in Moldavia, culminate nelle espulsioni di Bacau, erano confermate da un documento collettivo dei consoli a Jassy, che chiedevano la destituzione del prefetto di Bacau, Leccu, e del prefetto di Galatz, Lupanu, entrambi fieri nemici degli Ebrei.
Ma questi prefetti erano sostenuti dal partito xenofobo e quindi il governo aveva le mani legate nei loro confronti, costretto a non scontentare i deputati di quel partito, necessari per avere la maggioranza alla Camera. Gli agenti diplomatici a Bucarest prima di compiere un ulteriore passo attendevano notizie più precise dalla Moldavia; Gloria comunicava di essere disposto ad associarsi ad una eventuale nota collettiva di protesta mantenendo però un tono moderato, poiché era costretto a fidarsi dei resoconti fatti dai consoli degli altri paesi presenti a Jassy, dove non c'era un console italiano.
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Nella confusione creata dalle smentite dei ministri e dalle conferme invece delle persecuzioni da parte dei consoli e degli avversari del governo, neanche il principe riusciva ad orientarsi e decise quindi di partire alla volta di Jassy per rendersi conto di persona quale fosse la reale situazione.
A Carlo, in partenza per la Moldavia, Gloria dedicava, come conclusione del suo rapporto, questo augurio: “voglia il destino della Rumenia che egli riesca a calmare la questione degli Ebrei e possa cattivarsi l'amore di quelle popolazioni, come si cattiva le simpatie di tutti coloro che possono conoscerlo personalmente...”
Se Carlo avesse abdicato, aggiungeva il console, la Romania sarebbe divenuta ingovernabile. 24
Contrariamente all'augurio di Gloria, il viaggio di Carlo in Moldavia non giovò a rasserenare gli animi.
Il ministro degli Esteri, Golescu, aveva smentito l'esistenza di persecuzioni antisemite in Moldavia con una secca nota cui gli agenti diplomatici stranieri in un primo momento prestarono fede. Ma il consolato francese a Jassy confermò le persecuzioni con documenti inoppugnabili, quali la copia dell'ordine del prefetto per impedire agli Ebrei il soggiorno in campagna, l'elenco con i nomi di 120 Ebrei espulsi, il telegramma del precedente prefetto inviato a Bratianu per chiarire in base a quale legge poteva sfrattare un ebreo dall’osteria da lui gestita.
Gloria aveva cercato inutilmente Golescu per contestargli la sua falsa smentita; non avendolo trovato, aveva parlato con il segretario generale del ministro degli Esteri, ricevendo conferma della calma assoluta regnante in Moldavia, come dimostrato anche da un telegramma del principe da Bacau, datogli in visione. Gloria arrivò a dubitare dell'autenticità di quel telegramma e ritenne che la posizione del governo non derivasse da un odio antisemita, ma dalla necessità di mantenersi l'appoggio “del partito esagerato, il quale a forza di essere retrogrado ed esclusivo, finì per intitolarsi liberalissimo. Questo partito è composto di mediocri professori e piccoli negozianti i quali odiano gli Israeliti perché ne temono la concorrenza”.
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A questo duro giudizio sui parlamentari del partito xenofobo o, come diceva Gloria, “esagerato”, il vice console italiano fece seguire in un successivo rapporto una penetrante analisi dell'ambiguo comportamento di Bratianu, dichiaratosi contrario al progetto di legge antisemita, lasciando però intendere di essere in cuor suo favorevole ad esso e di mostrarsi ostile solo per finta, al fine di illudere le Potenze.
Accertata la falsità delle smentite del ministro degli Esteri, Stefan Golescu, gli agenti diplomatici ne furono indignati, ma non presentarono al momento una nota collettiva di protesta. Il più risentito era l'agente diplomatico austriaco, barone Eder, poiché giudicava la smentita di Golescu offensiva per il console d'Austria a Jassy, accusato da Golescu di aver diffuso false notizie di espulsioni di Ebrei, senza averne accertato l'autenticità. 25
Anche il console italiano a Galatz, Castelli, per quanto in precedenza ben disposto verso le autorità romene e desideroso di mantenere con esse buoni rapporti, non esitò a denunciare le numerose espulsioni di Ebrei spogliati pure dei loro averi, allegando al suo rapporto copia di due ordini di espulsione emessi dal prefetto. 26
Golescu però continuava imperterrito a negare le persecuzioni, incurante dell'evidenza delle documentate prove diffuse dal console francese a Jassy, Boyard, trasmesse da Gloria a Menabrea, in allegato al rapporto con cui comunicava il trasferimento al ministero del prefetto di Bacau, Leccu.
Ma questi rifiutò il trasferimento e preferì restare da privato cittadino a Bacau, dove si diede ad organizzare manifestazioni contro il governo e contro gli Ebrei, non risparmiando neanche il principe recatosi in visita a Bacau accompagnato da Bratianu. Il ministro fu accolto con fischi, sassate, manciate di fango, tra grida di “abbasso”, tra cui quella rivolta a Carlo, “fuori il tedesco”. 27
Né fu migliore l'accoglienza riservata al principe ed al ministro a Jassy: furono affissi manifesti incitanti a prendere le armi contro il tiranno straniero ed i suoi complici; il prefetto li fece staccare, ma ne furono affissi altri dello stesso tenore, firmati da un deputato del partito xenofobo “liberale indipendente”, Negura. 28
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Ormai vi era un'aperta sedizione antigovernativa: alla luce del sole agivano contro il governo ed il principe parlamentari e prefetti, mentre gli agenti diplomatici continuavano a bersagliare con le loro proteste il ministro degli Esteri e l'Alliance Israélite Universelle” non era da meno, attaccando Golescu anche dalle colonne del giornale da essa fondato a Bucarest, “L'Israélite roumain”.
Alla fine Golescu fu costretto a cedere e rassegnò le dimissioni; dovette pure subire la mortificazione di riconoscere, a seguito delle pressioni inglesi ed austriache, la correttezza del comportamento del console d'Austria a Jassy, in precedenza da lui accusato di avere diffuso false notizie sulle espulsioni degli Ebrei.
Dopo Jassy anche Bacau fu tappezzata con manifesti antigovernativi, firmati oltre che dal deputato Negura, anche da un altro parlamentare del partito “liberale indipendente”, Lupascu, fratello del prefetto di Galatz. A Bacau la situazione si aggravò con l'espulsione a furor di popolo del prefetto nominato al posto di Leccu, richiamato in carica dai rivoltosi. Sui fatti di Bacau e sulle persecuzioni antisemite presentò un'interpellanza un giovane deputato conservatore, Carp, mettendo in difficoltà il governo. Per sedare i tumulti a Bacau furono inviati reparti dell'esercito, vista l'impotenza o la connivenza della polizia locale; ma i rivoltosi non disarmarono: si costituirono in comitato e decisero di inviare in Parlamento a Bucarest delegazioni di cittadini “difensori della patria” per sostenere i deputati contrari al governo ed opporsi alla vendita della Romania allo straniero. 29
Queste delegazioni di “difensori della patria” non arrivarono a Bucarest, ma le sedute della Camera furono comunque movimentate dallo scontro fra Carp e Bratianu: il ministro accusò il giovane deputato di essere un nemico del paese, diffamandolo con le sue accuse di un preteso antisemitismo dei Romeni. Carp replicò affermando di poterlo provare con documenti e presentò un ordine del giorno: l'esito della votazione (47 voti contrari all'ordine del giorno, uno a favore e 43 astenuti) salvò il governo, ma le numerose astensioni sottolinearono la sua debolezza.
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Il governo quindi si dimise, venendo sostituito da quello presieduto da Nicolae Golescu (fratello dell'ex ministro degli Esteri, Stefan), cui andò anche il portafoglio degli Esteri. Il neo presidente del consiglio dei ministri promise a Gloria la fine delle persecuzioni antisemite e la punizione dei deputati responsabili dei fatti di Bacau, sottoponendoli ad un processo. 30
I governi stranieri seguivano la situazione in Romania, continuando ad intervenire spesso con durezza. Anche il governo italiano si interessò alle vicende romene, ma senza calcare troppo la mano, con toni di amichevole consiglio più che di censura.
Già il 5 agosto 1867, a seguito dell'annegamento nel Danubio di due ebrei di Galatz, il ministro degli Esteri aveva inviato al console Susinno un dispaccio perché facesse presente al governo di Bucarest la “triste impressione” che nuove eventuali violenze avrebbero suscitato in Italia.
La condanna veniva però sfumata affermando la soddisfazione del governo italiano nel vedere “stabilirsi altrove quei principi e quelle istituzioni che sono il fondamento della sua novella esistenza”. 31
Seguì a fine settembre del 1867 un altro dispaccio ministeriale per lanciare un grido d'allarme sulla situazione internazionale della Romania, sempre più esposta al rischio dell'isolamento (“... irritata la Russia, malcontenta l'Austria, diffidenti i Serbi...”): in caso di necessità il governo romeno non avrebbe trovato alcun appoggio. Pertanto - proseguiva il dispaccio - “... noi siamo d'opinione che i ministri romeni farebbero prova di molto senno nel mostrarsi arrendevoli e concilianti...”, poiché la situazione politica europea imponeva “ai piccoli Stati... di osservare la massima prudenza nei loro atti politici”. 32
Ma di tali consigli il governo romeno non sembrava tenere molto conto. Ancor prima dei fatti di Bacau, all'inizio dell'anno 1868 si erano verificate violenze in Moldavia, a Berlad, dove gli Ebrei furono accusati di avere avvelenato il pope Karnov, candidato e poi eletto alla Camera, noto per essere antisemita. Montefiore aveva scritto a Carlo per lamentare l'accaduto: per tutta risposta Stefan Golescu, all'epoca ancora ministro degli Esteri, pubblicò sull' “Echo danubien”
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del 14 gennaio 1868 un violento atto di accusa contro gli Ebrei, ritenuti gli unici responsabili di quei fatti. Intervenne il 4 febbraio Crémieux con un appello alle Potenze; fra gli altri rispose Bismarck, noncurante di creare difficoltà a Carlo con le sue dichiarazioni.
Il cancelliere prussiano difatti disse di aver dato disposizione all'agente diplomatico a Bucarest di intervenire perché fosse assicurata agli Ebrei la protezione loro dovuta, come avveniva in ogni paese civile. Anche le parole di Bismarck rimasero però inascoltate: lo stesso giorno della sua dichiarazione, il 22 febbraio 1868,il prefetto di Vaslui ordinò nuove espulsioni di Ebrei.
Sulla critica situazione romena non mancò di intervenire ancora una volta il governo italiano. Il ministro degli Esteri, Menabrea, inviò il 7 aprile 1868 un dispaccio all'agente diplomatico Susinno, perché confermasse al governo di Bucarest “la triste impressione” manifestata dal precedente ministro Campello; faceva il ministro poi riferimento al progetto di legge presentato dal partito xenofobo “... per istabilire odiose esclusioni e per decretare vessatorii provvedimenti contro gli Israeliti”; Susinno doveva far presente l'assoluto rifiuto italiano di “... una legge così inumana e contraria ai principii elementari ed ogni civile libertà e progresso”.
Il tono così duro di queste affermazioni era poi temperato dal compiacimento di Menabrea di non dover protestare contro il governo dichiaratosi contrario a quella proposta di legge; il ministro italiano si augurava che, seguendo i consigli delle Potenze garanti, il governo romeno mantenesse la sua contrarietà; in caso contrario l'agente diplomatico italiano si sarebbe dovuto associare agli eventuali passi decisi dagli agenti delle maggiori Potenze. 33
Nello stesso mese di aprile, il giorno 24, sir Francis Goldsmith, rivolse in Parlamento al governo inglese una interrogazione sui fatti di Romania; il sottosegretario lord Stanley, nella sua risposta, riportata sul “Times” del 25 aprile 1868, affermò che il problema ebraico riguardava i Cristiani ancor più degli Ebrei: se la sofferenza era dei secondi, il disonore ricadeva invece sui Cristiani.
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Incredibilmente qualche voce però si levava ad esaltare la situazione esistente in Romania, dipingendola con le più rosee tinte. Era il caso di una pubblicazione anonima apparsa alla fine del 1867 a Parigi, opera forse di un autore romeno, a giudicare dall'ottimismo a prova di bomba dimostrato.
L'opera s'intitolava “La liberté en Roumanie” e riportava la Costituzione approvata all'unanimità il 10 luglio 1866 dall'Assemblea nazionale di Bucarest, dopo averne emendato la formulazione originaria in senso negativo per gli Ebrei, sopprimendo a seguito delle pressioni della piazza il riconoscimento ad essi della parità dei diritti.
Nell'introduzione, datata 3 novembre 1867, l'anonimo esaltava la Costituzione, voluta dai Romeni d'accordo con il principe, ritenendola la più liberale fra tutte quelle esistenti: l'articolo 24 garantiva la più preziosa delle libertà, quella di stampa, ritenuta fondamentale per garantire tutte le altre; gli articoli 26 e 27 garantivano il diritto di associazione e di riunione in ogni luogo coperto; la libertà dell'individuo era assicurata dall'articolo 23, l'inviolabilità del domicilio era stabilita dall'articolo 15.
In base all'articolo 29 erano perseguiti gli abusi dei funzionari; veniva abolita la pena di morte, tranne nei casi previsti dal codice militare in tempo di guerra; erano liberi l'insegnamento e l'esercizio del culto; la Chiesa ortodossa romena, definita dominante, era stata liberata da ogni ingerenza straniera, pure se restava confermata l'unità dogmatica con la Chiesa ecumenica orientale.
I contadini-continuava l'autore-conservavano i benefici assicurati loro dalla riforma agraria di Cuza; il principe era un sovrano costituzionale ed era istituito un Parlamento bicamerale; per evitare ogni possibile violenza, solo con il suo consenso potevano essere poste forze armate all'ingresso o nei dintorni delle sedi parlamentari (era chiaro il riferimento al gesto di forza compiuto da Cuza nel 1864, facendo intervenire i militari di guardia al Parlamento per farlo sciogliere).
Le cause penali venivano giudicate da giurie popolari.
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L'anonimo affrontava infine la scabrosa questione ebraica, vera pietra di paragone per giudicare lo spirito liberale della Costituzione; era deprecata la privazione dei diritti stabilita per gli Israeliti, considerati stranieri: “...il semble étrange que des hommes nés dans le pays où y habitent depuis vingt ou trente ans, soient traités en étrangers”. Si ricordava che la Convenzione di Parigi del 1858 assicurava a tutti i diritti civili, rinviando all'emanazione di future leggi l'estensione ai non Cristiani di quelli politici. Uniformandosi a quella disposizione il governo ed il principe avevano proposto con la stesura originaria della Costituzione la parità dei diritti sia civili che politici per tutti; ma -concludeva la sua discutibile difesa l'anonimo autore - “...si par des circonstances indépendentes de la volontè des liberaux roumains, cet article du programme a été écarté, ce n’est qu'un ajournement. Chez les meilleurs peuples eux-mêmes la coscience peut-être un moment troublée, mais la raison reprend ses droits. Aussi peut-on avoir foi que, par un mutuel mouvement du coeur, Israélites et Roumains se reconnaîtront frères”.33bis
Nell'attesa che si compisse questa palingenesi e trionfasse in Romania l'età dell'oro, continuavano i contatti del governo romeno con quelli degli altri paesi per affrontare i numerosi problemi esistenti.
Menabrea nel maggio 1868 incontrò a Firenze Dimitrie Bratianu venuto a discutere il problema delle capitolazioni, che sottraevano alla competenza dei tribunali romeni i cittadini stranieri, sottoposti al giudizio dei loro rispettivi consoli; ed a chiedere la presenza a Bucarest di una rappresentanza diplomatica di grado superiore all'agenzia. Menabrea riferiva all’agente italiano a Bucarest la risposta data a Bratianu: il problema delle capitolazioni non poteva al momento risolversi; perché ciò avvenisse e per portare ad un livello superiore la rappresentanza diplomatica a Bucarest occorreva una decisione di tutte le Potenze, non essendo quindi sufficiente una singola decisione italiana. Inoltre ciò sarebbe stato possibile solo con “un governo solido ed illuminato delle province danubiane”; la persecuzione degli Ebrei destava invece in Europa impressioni sfavorevoli sulla Romania.
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Bratianu replicò affermando trattarsi di notizie esagerate, e provocò così un'ulteriore replica di Menabrea: “..nell'applicazione dei principii di tolleranza civile religiosa dovevano i Principati cercare il rimedio alle loro difficoltà sociali”. 34
Non ignorava però Menabrea quanto complesso e difficile fosse in Romania il problema ebraico, poiché esso implicava “ad un tempo considerazioni economiche e sociali”. Era quanto Menabrea affermava nel dispaccio al console generale ed agente diplomatico Saverio Fava, da poco nominato a Bucarest, cui il ministro raccomandava “la massima riserva, senza sconoscere le massime di umanità e di giustizia che noi abbiamo costantemente professate; non possiamo però d'altro lato dissimularci che l'agitazione suscitata dalla questione di cui si tratta potrebbe essere sfruttata per iscopi individuali da quella Potenza che tra gli Ebrei di Rumania conta il maggiore numero di sudditi e di protetti. Prudenza somma nel discernere il vero dalle esagerazioni”.
Pertanto-proseguiva il ministro-interventi assidui presso il governo romeno ma “massima ponderazione nei passi collettivi che si volessero fare dagli agenti stranieri presso l'autorità romena”. 35
La Potenza a cui nel suo dispaccio si riferiva Menabrea era l'Austria, con la quale permanevano diffidenza ed ostilità reciproche. A Menabrea Fava rispondeva ringraziando e fornendo notizie sugli sviluppi della questione ebraica. L'inchiesta disposta dal governo romeno sui tumulti antiebraici di Galatz aveva confermato la responsabilità dei capi locali della polizia e della guardia nazionale, subito destituiti perché accusati di scarsa vigilanza ed energia. Gli Ebrei sudditi austriaci e l'unico con cittadinanza francese erano stati risarciti per i danni subìti dall'amministrazione comunale di Galatz e non dal governo, per far pesare l'onere del risarcimento sulla città dove si erano verificate le violenze. 36
Sull'origine dei disordini a Galatz dava spiegazioni una memoria presentata il 27 ottobre 1868 a Menabrea dal comitato italiano dell'Alliance Israélite Universelle. Non era il primo passo dell'Alliance presso il governo italiano. Il presidente generale Adolphe Crémieux il 4 febbraio
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dello stesso anno si era rivolto a Menabrea pronunciandosi contro la richiesta romena di abolire le capitolazioni, facendo presente esser la giurisdizione consolare l'unica difesa degli Ebrei di Romania, non tutelati dalle leggi del paese.37
Alla memoria presentata a Menabrea dal comitato italiano dell'Alliance era allegata una relazione del comitato di Galatz della stessa associazione, in data 6 ottobre 1868, spiegando la banale origine dei tumulti con l'accidentale ferimento di un giovane apprendista romeno da parte di un sarto ebreo, cui era sfuggita di mano la forbice mentre stava tagliando la stoffa. Per tre giorni, dal 3 al 6 ottobre 1868, la città era rimasta in balia di una folla in tumulto: saccheggiate le case degli Ebrei, devastata la sinagoga, ci furono 36 feriti gravi. Per eccitare gli animi il giovane ferito era stato portato in giro per la città,cosparso del sangue con cui alcuni macellai l'avevano sporcato per far sembrare la ferita ancora più grave. 38
Le difficoltà internazionali si accrebbero per la Romania quando Bratianu, messa da parte la prudente politica di neutralità, fino ad allora seguita sul modello del Belgio, unica politica possibile -come osservava Fava-, si avventurò a suscitare agitazioni in Transilvania, sperando di ottenere così vantaggi territoriali.
Vienna reagì energicamente ed il governo romeno cadde, venendo sostituito da uno nuovo presieduto da Jon Ghika, titolare pure del Ministero degli Esteri e di quello dei Lavori Pubblici, con Mihail Kogalniceanu agli Interni. Secondo Fava il cambio di Governo non sarebbe stato utile all'Austria, poiché Bratianu con i suoi estremismi giustificava la politica repressiva del governo austriaco, così come “Mazzini era in Italia, ed in altra epoca, uno dei più potenti ausiliari del Governo Austriaco”.
Il giudizio su Mazzini confermava le tendenze politiche conservatrici del barone Fava, proveniente dalla diplomazia dei Borboni e passato a far parte di quella italiana dopo un periodo di sospensione dal servizio, successivo alla fine del Regno delle due Sicilie.
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La caduta di Jon Bratianu faceva seguito a precedenti analoghi episodi: le dimissioni dello stesso Bratianu nell'agosto del 1867 volute da Napoleone III per le accuse di antisemitismo mosse al ministro degli Interni romeno, seguite nella primavera del 1868 dalle dimissioni di Stefan Golescu, ministro degli Esteri, pretese dall'Austria risentita per la nota ritenuta offensiva per il console austriaco a Jassy.
I retroscena di questi episodi non erano stati divulgati, ma l'opinione pubblica romena ne ebbe sentore e-osservava Fava a conclusione del suo rapporto - “... come solenne protesta contro questa ingerenza straniera, la Camera ed il Senato hanno scelto a loro presidenti Bratianu e Golescu”. 39
Ben diverso era stato l'atteggiamento italiano nei confronti di Bratianu rispetto a quello francese ed austriaco: una lettera personale di Vittorio Emanuele II per il principe Carlo nella primavera del 1868 dava notizia del conferimento di una onorificenza italiana a Bratianu. 40
Attenendosi alle istruzioni di Menabrea di esser cauto nell'associarsi a proteste collettive degli agenti diplomatici, per non favorire manovre austriache, Fava nel dicembre 1868 respinse la richiesta dell’agente francese Mellinet perché si associasse alla protesta contro le aspirazioni romene ad ingrandimenti territoriali, sì da “mettre aux pieds du mur” il governo di Bucarest. Fava replicò che l'Italia aveva sempre consigliato moderazione alla Romania; occorreva però dare al nuovo governo di Jon Ghika, appena formatosi, il tempo necessario per attuare i buoni propositi annunciati.
Gli agenti francese, inglese ed austriaco si dissero sicuri delle sagge raccomandazioni italiane al governo romeno; ma non erano sufficienti i consigli amichevoli, occorrevano interventi energici. Fava si mantenne comunque fermo nel suo rifiuto di firmare una protesta comune ed osservò come, malgrado le rassicurazioni del principe Carlo, Austria e Francia tenessero sempre desti sospetti e timori. Nel rapporto a Menabrea l'agente italiano diceva di capire le ragioni dei governi di Vienna e Parigi per tenere sotto scacco il governo romeno, ma di non rendersi conto del comportamento dell'agente inglese Green, “... indefesso nel trascinare la Rumania con grande schiamazzo, e pel più lieve affare, innanzi all' Aeropago delle Grandi Potenze”. 41
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La condotta di Fava riscosse l'approvazione di Menabrea; il ministro si chiedeva inoltre quale fosse l'utilità delle periodiche riunioni degli agenti diplomatici, inesistenti negli altri paesi, convocate anche in assenza di comuni interessi da trattare. Dette riunioni oltretutto potevano riuscire dannose, comportando la possibilità di contrarre con la Romania o con gli altri paesi impegni di dubbia utilità per l'Italia. 42
A qualche mese di distanza, nel marzo 1869, Fava tornò sull'argomento, chiarendo l'origine dell'abitudine delle riunioni periodiche degli agenti diplomatici per concordare azioni comuni.
Si era cominciato a tenerle dopo la guerra di Crimea per porre fine all'influenza esclusiva della Russia; sotto Cuza si ebbe un alternarsi dell'influenza dei vari agenti in seno alle loro riunioni e Cuza si schierava di volta in volta con un agente o con un altro. Ma ormai-aggiungeva Fava-non esistevano più motivi per continuare a tenere periodicamente riunioni, divenute una semplice perdita di tempo, un'occasione perché una Potenza o un'altra ne traesse profitto per imporre al governo romeno determinate decisioni. In particolare, ne approfittava l'agente austriaco per “... proteggere con più forza la numerosa sua colonia Israelitica sparsa nei Principati”.
A titolo di semplice cortesia Fava si era recato un paio di volte alle riunioni dopo il suo arrivo a Bucarest nell'ottobre del 1868; poi aveva smesso di frequentarle, destando scandalo negli altri agenti diplomatici, eccetto che in quello prussiano, pur esso convinto dell'inutilità o addirittura della dannosità per il suo paese delle riunioni. 43
La Romania veniva posta sul banco degli imputati non soltanto per le violenze antiebraiche; il governo di Bucarest era pure accusato di favorire le aspirazioni alla parità dei Valacchi di Transilvania e di sostenere la rivolta antiturca dei Bulgari.
Kogalniceanu, ministro degli Interni nel governo di Jon Ghika, nel suo primo discorso alla Camera respinse con energia queste accuse; non negava le simpatie romene per la causa dei Bulgari cristiani e non potevano essere sciolti i loro comitati in Romania - affermava il ministro – finché restavano nei limiti della legalità, poiché la Romania era uno Stato
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costituzionale in cui era garantita la libertà di associazione. Ed in quanto all'accusa di fomentare l'odio contro gli Ungheresi in Transilvania, Kogalniceanu ricordava l'ospitalità concessa in Romania agli Ungheresi nel 1848, prima che fosse repressa la rivoluzione valacca; valeva inoltre la stessa considerazione fatta per i Bulgari: in uno stato costituzionale non si potevano impedire manifestazioni non violente di simpatia per i fratelli Valacchi della Transilvania.
Venendo poi al problema ebraico, Kogalniceanu deplorava gli eccessi avvenuti e si impegnava a farli cessare; nella sua prima circolare ai prefetti aveva raccomandato di assicurare l'ordine e di garantire a tutti la sicurezza, senza distinzione di classe o di religione. Ricordava però il divieto opposto dalla Costituzione a colonie straniere, anche se formate da Cristiani: non si poteva quindi accettare la colonizzazione in Romania da parte degli Ebrei, affermava il Ministro fra gli applausi prolungati della Camera, citati nel resoconto parlamentare.
Era competenza del Parlamento risolvere con nuove leggi il problema degli Ebrei; nell'attesa che ciò avvenisse, il Governo doveva attenersi alla legislazione vigente; l'equilibrio dei ministri nello svolgere quel delicato compito poteva esser garantito dal loro rispetto delle leggi dell'umanità, ma al tempo stesso non avrebbero mai sacrificati i diritti e gli interessi della nazione. 44
Fava non aveva però molta considerazione per la classe politica romena, criticando in particolare Jon Bratianu, presentato da qualche agente diplomatico per i suoi particolari interessi come un uomo pericoloso e da qualche altro “per antico vezzo di importanza consolare in Oriente”.
In realtà-affermava Fava-Bratianu non era “all'altezza dei posti occupati e della missione che si attribuisce”; era soltanto “un agitatore di bassa lega, fornito di cognizioni solide, per quanto ricco di frasi a sensazione, ed uomo per nulla prattico (sic)...”. Riprendeva poi Fava l'accusa già espressa contro l'uomo politico romeno: Bratianu inconsapevolmente era “il migliore
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ausiliare che l'Austria potesse mai desiderare di avere nei Principati”, poiché con le sue intemperanze giustificava la politica repressiva del governo di Vienna. Ancora una volta faceva velo al giudizio di Fava la consolidata mentalità conservatrice, eredità indelebile della sua formazione borbonica.
Per dimostrare le intemperanze di Bratianu, Fava allegava al suo rapporto il discorso pronunciato dal ministro romeno il 27 dicembre 1868 per sostenere la candidatura alla Camera del maggiore Pilot nelle elezioni suppletive per il collegio di Bucarest. Bratianu aveva ricordato in quell'occasione l'origine latina dei Romeni, ma anche la loro fede ortodossa, per cui si sentivano legati ai popoli della stessa religione: secondo Fava quell'affermazione provava a chi andassero, tra la Francia e la Russia, le simpatie di Bratianu e di tutti i Romeni.
Bratianu aveva concluso il discorso con accenti bellicosi; ricordando le illustri ascendenze del principe Carlo, si era chiesto perché mai i Romeni avessero chiamato a cingere la corona dei Principati “il nipote di Federico il Grande e di Napoleone”, se poi non gli davano i mezzi per fare grande la Romania. 45
Le insinuazioni capziose di Fava sull'orientamento filo russo di Bratianu facevano il paio con lo sprezzante giudizio da lui dato sulle capacità del politico romeno,confermando l'avversione del console italiano per i politici della sinistra liberale romena, il cosiddetto “partito rosso”. 46
E proprio a Bratianu si rivolgeva un suo vecchio amico e compagno di fede politica, l'ebreo francese Armand Levy, con una lettera aperta sulla questione ebraica, pubblicata a Bucarest nel 1869.
Levy iniziava la sua lettera facendo ricorso alla mozione degli affetti; si rivolgeva difatti a Bratianu così: “Mon cher Jean, après une amitié de vingt-deux ans, serions nous donc destinés à devenir ennemis pour le reste de nos jours? Plus je vous ai aimé, plus j'ai souffert de certains de vos actes”.
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Levy ricordava di essergli stato amico anche dopo le persecuzioni degli Ebrei, definiti dal politico romeno una razza pervertita, e di averlo difeso, venendo perciò attaccato dai suoi correligionari; aveva sperato in una resipiscenza di Bratianu, per l'antico attaccamento ai principi liberali, se non per amore degli Ebrei.
Invece Bratianu aveva continuato a dirsi amico degli Ebrei a parole, ma in realtà li aveva perseguitati, privandoli di ogni garanzia legale e costituendo le famigerate Commissioni contro il vagabondaggio, formate da quanti avevano interesse a sbarazzarsi degli Ebrei: “Vous avez , sans y songer, livré les créanciers aux mains de leurs débiteurs...Le terrorisme anti-juif était à l'ordre du jour, et chacun s'ingénia à leur nuire, masquant les plus vils intérêts sous le voil du bien public”.
Era profondamente ingiusto definire vagabondi gli Ebrei tanto laboriosi; ed in quanto all'accusa rivolta da Bratianu a Crémieux di averlo attaccato senza prima aver sentito le sue ragioni, per salvare gli Ebrei di Romania occorreva un intervento immediato e non c'era quindi stato tempo per spiegazioni. I provvedimenti presi in Romania avevano suscitato in Francia l'indignazione dei liberali antichi amici di Bratianu, ancor più di quella degli Ebrei.
Levy aveva difeso Bratianu, affermando la necessità di sostenerlo comunque e facendogli incontrare a Parigi esponenti dell'Alliance Israélite Universelle. Si era deciso di sospendere le polemiche per tre mesi, con l'impegno dell'Alliance di chiedere a Bratianu chiarimenti in caso si fossero verificate nuove persecuzioni, prima di un qualsiasi intervento; in cambio Bratianu aveva promesso di far approvare una legge a favore degli Ebrei, appena avesse avuto la certezza di disporre di una maggioranza.
Invece Bratianu aveva fatto il doppio gioco: a Jassy aveva rimproverato in pubblico le autorità locali per le misure prese contro gli Ebrei; ma in privato aveva raccomandato al prefetto di continuare a perseguitarli.
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Gli Ebrei di Moldavia ritenevano che Bratianu non agisse in quel modo per odio personale contro di essi, ma perché riteneva di agire nell'interesse del suo partito; per tale ragione aveva favorito l'elezione in Parlamento di accesi antisemiti, assegnando pure ad essi posti nei tribunali e nell'amministrazione; Donici, accanito nemico degli Israeliti, era stato nominato ministro dei Lavori Pubblici.
In tutti i paesi civili - continuava Levy - gli Ebrei avevano ormai ottenuta la parità dei diritti e chi infieriva contro di essi era severamente punito, anche se posto al più alto livello; alla perdita di gran parte dei suoi territori, subita dal Papa, non era stato estraneo il rapimento del piccolo Mortara nel 1858, perché fosse battezzato. E la persecuzione degli Ebrei in Romania dipendeva pure dalla volontà di favorire gli interessi economici di alcuni speculatori, eliminando la concorrenza degli uomini d'affari israeliti.
Tra i tanti problemi della Romania - incalzava Levy - quello ebraico era il più grave, poiché si negavano i principi liberali ed umanitari, a causa di una xenofobia che aveva contagiato pure Bratianu. Questi, come tutti i Romeni, era orgoglioso delle origini romane del suo popolo; ma gli antichi Romani accoglievano tutti come cittadini, senza praticare alcuna discriminazione di razza. Seguendo l'esempio degli Stati Uniti, dove chiunque veniva considerato degno della parità dei diritti, Bratianu avrebbe reso grande la Romania; l'emancipazione degli Ebrei non avrebbe recato danno al paese, come non l'aveva recato l'emancipazione dei contadini. Respingeva poi Levy l'accusa di arretratezza degli Ebrei di Romania rispetto ai loro confratelli dei paesi occidentali; anche in Moldavia vi erano Ebrei colti e civili, gli unici anche ad esercitare alcune attività economiche; sarebbero pure stati buoni agricoltori, se fosse stato loro permesso l'acquisto di terre.
Anche gli Ebrei Sefarditi della Valacchia erano esclusi dall'esercizio di attività professionali, dopo aver compiuto studi all'estero, e pur essendo citati dai Romeni come un esempio di progresso rispetto agli Askenazi di origine russa e polacca presenti in Moldavia.
Era poi ingiusto sottoporre gli Ebrei ad imposizioni fiscali, negando loro al contempo ogni diritto civile, e altrettanto ingiusto pretendere un loro impegno politico verso uno Stato che li privava dei diritti.
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Durante il medioevo in Francia e Spagna gli Ebrei erano stati vittime di espulsioni e confische dei beni; ma in epoca moderna quelle pratiche non erano affatto tollerabili.
In un primo tempo - osservava Levy - gli Ebrei arrivati dall'Europa occidentale in Romania erano stati ben accolti, perché svolgevano funzioni sociali ed economiche, supplendo così all'assenza di una borghesia nazionale; ma l'incipiente formazione di una borghesia romena aveva spinto ad eliminare la concorrenza degli Israeliti, soggetti per tale ragione ad essere perseguitati, vittime degli egoismi nazionali e di classe, contro i quali Bratianu da giovane aveva combattuto. Divenuto ministro, Bratianu aveva invece agito a difesa di questi egoistici interessi, perseguitando gli Ebrei; in tal modo aveva fornito un ulteriore motivo di malcontento alle Potenze, già contrarie alla sua politica ed aveva causato la sua caduta, da non ritenersi quindi frutto del caso. Se fosse ritornato al potere, Bratianu avrebbe dovuto riconoscere e correggere gli errori commessi; avrebbe in tal modo reso alla borghesia romena un grande servizio, richiamandola ai suoi doveri di solidarietà, messo da parte il miope egoismo antisemita, ed evitando l'isolamento internazionale della Romania.
Levy giustificava il risentimento romeno per le ingerenze straniere e riteneva quindi preferibile una soluzione del problema ebraico ad opera soltanto del governo di Bucarest: ma in realtà - affermava Levy - non erano state troppo invadenti le Potenze straniere nell'occuparsi del problema degli Ebrei in Romania
Doveva esser tenuto presente un altro rischio, oltre all'isolamento politico cui i governi europei avrebbero potuto ricorrere: il boicottaggio economico della Romania ad opera delle grandi imprese controllate dagli Ebrei in molti paesi. Ed a Bratianu Levy ricordava l'esempio di Cavour, autore del progresso economico e dell'indipendenza politica italiana, attuando i principi liberali, calpestati invece in Romania con la persecuzione ed il boicottaggio delle attività economiche svolte dagli Israeliti, ai quali andava la solidarietà dei confratelli di altri paesi, dove occupavano importanti posizioni in qualità di ministri, parlamentari, giornalisti, banchieri, uomini d'affari.
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Come era avvenuto per l'abolizione della schiavitù negli Stati Uniti, anche l'emancipazione degli Ebrei in Romania era una questione di interesse universale, e non soltanto locale, poiché riguardava quei principi di umanità rispettati da Cavour (ancora una volta proposto ad esempio) e dal Piemonte, dove gli Ebrei erano stati affrancati già nel 1848. In passato Bratianu aveva affermato la necessità di realizzare l'unione della Moldavia e della Valacchia prima di affrontare la questione ebraica: ora che quell'unione era stata realizzata-ironizzava Levy - occorreva forse attendere l'unione con la Transilvania?
Bratianu conosceva l'origine straniera di molti commercianti, perfettamente integrati dopo alcuni anni di permanenza in Romania, e di alcuni boiari oriundi della Grecia e dell'Albania: c'era da chiedersi perché non potessero essere assimilati gli Ebrei residenti in Romania da secoli.
C'era però da osservare che Levy taceva il rifiuto opposto all'assimilazione dagli Askenazi emigrati in Moldavia, tenacemente attaccati alle loro tradizioni. Il francese concludeva la sua appassionata difesa degli Ebrei di Romania con l'affermazione di non sperare in un mutato comportamento di Bratianu a seguito della sua lettera: aveva solo voluto chiarire la situazione e ricordare gli anni della giovinezza, quando Bratianu, esule a Parigi dopo la fallita rivoluzione del 1848, l'informava sul progetto di Costituzione dei rivoluzionari, in cui era prevista l'emancipazione degli Ebrei. Invece, c'era stata l'emancipazione degli Zingari, ma non degli Ebrei ritenuti un popolo inferiore, in realtà oggetto di gelosia più che di disprezzo.
Concludeva Levy esprimendo la speranza di un riscatto degli Israeliti ad opera dei futuri governi, cui però Bratianu lasciava una pesante eredità politica; e con tono biblicamente ispirato ammoniva Bratianu perché si chiedesse per quale ragione avesse contro di sè il popolo ebraico, la Francia e la Polonia, cioè “le peuple de Dieu, la Grande Nation et la Nation martyre”. 47
L'intervento di Levy a favore degli Israeliti in Romania non si esaurì con la lettera aperta a Bratianu; nello stesso anno 1869 dalle colonne del giornale da lui diretto, “L''Étoile d'Orient”, il battagliero francese difatti polemizzava con Mihail Kogalniceanu, rintuzzandone l'accusa mossa agli Ebrei di rivolgersi agli stranieri piuttosto che alle autorità romene.
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Queste - osservava Levy - avevano sempre ignorato le richieste loro fatte; era quindi ben motivata la sfiducia in esse, anche perché erano stati emancipati “les Cigains, sans croyance religieuse, sans dignité humaine, sans force morale” e non gli Ebrei, di cui forse si aveva timore.
Kogalniceanu - incalzava Levy - per giustificare le sue circolari contro gli Ebrei ricordava il suo precedente favore alla causa ebraica: “Mais le bien de la veille, loin d'être une excuse pour le mal du lendemain, l'aggrave en raison même des arrhes données à l'avenir”.
Inoltre, l'Alliance Israélite Universelle, cui si erano rivolti gli Ebrei di Romania, era un'organizzazione internazionale, da non considerarsi quindi straniera, come ne esistevano tante altre, anche per la protezione degli animali: “...partout l'Alliance est chez elle: partout où bat un coeur d'honneur libre, qui croie à l'égalité et voie dans le juif un frère, là existe l'Alliance, là est son foyer et sa bénédiction”. Né poteva essere accusata di indebita ingerenza la Francia, nazione latina sorella della Romania, patria dei diritti dell'Uomo: “Quiconque est anti-juif est anti français, au même titre que l'esclavagiste est ennemi de la France de 1789”. 48
Altre voci si levavano, oltre a quella di Levy, per deplorare le violenze romene contro gli Ebrei.
Anche un grande amico della Romania, Marco Antonio Canini, non esitava a condannarle, affermando di poter scusare i Romeni di essere divenuti russofili, cioè barbarofili, ma di non poter perdonare loro l'antisemitismo.
Certo - osservava Canini - gli Ebrei, come tutti i popoli perseguitati avevano difetti, ma avevano anche molti pregi, come la laboriosità; e proseguiva illustrando i vantaggi che sarebbero stati assicurati da una accettazione della presenza ebraica: “C'est cette forte race juive-allemande qui a produit les Mendelssohn, les Meyerber, les Heine, les Diefenbach et tant d'autres hommes illustres. Est-ce-qu'une infusion de ce bon sang dans les veines appauvries des Daco-Roumains, ne serait pas salutaire?”.
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Il contributo ebraico alla formazione di una borghesia romena sarebbe stato un fatto positivo; ma, a parte le considerazioni socioeconomiche, Canini esprimeva la sua umana solidarietà per i perseguitati di Roman e di Bacau, uomini nè migliori nè peggiori degli altri: “Ils sont faibles et persécutés, je suis donc leur ami. J'ai toujours laissé à d'autres l'honneur et les avantages d'être les amis des forts. Tout ce qui se passe depuis quelque temps en Roumanie, attriste les amis sincères de ce pays, les amis du progrès”.49
Canini scriveva nel 1868 da Parigi, una delle tante tappe della sua continua peregrinazione; e pure a Parigi veniva pubblicato l'anno successivo l'opuscolo anonimo: “La question des Israélites de Roumanie”, presso la libreria editrice A. Frank, atto d'accusa rivolto non contro i persecutori, ma contro gli Ebrei perseguitati, di cui l'anonimo autore denunciava le supposte colpe: opportunismo, esosità, pratiche usuraie.
Le ragioni dell'antisemitismo dipendevano da questi comportamenti negativi e non da intolleranza religiosa, come gli Ebrei facevano credere, cercando con il loro vittimismo di ottenere la solidarietà internazionale.
In Moldavia e Valacchia aveva sempre regnato la tolleranza e nel medioevo vi avevano trovato rifugio gli eretici di altri paesi, dove venivano arsi vivi.
Né si poteva ritenere responsabile dell'avversione agli Ebrei il “partito libero ed indipendente solo e vero nazionale”, di recente costituito da 32 deputati, autori del progetto di legge per l'espulsione in massa degli Ebrei; nessuno di essi era stato rieletto, data la scarsa fortuna avuta dalla proposta. Quel movimento politico era da ritenersi l'effetto e non la causa dell'antisemitismo.
L'eccessivo numero degli Ebrei aveva determinato l'antisemitismo; l’afflusso continuo di nuovi immigrati era dovuto alla possibilità per essi di praticare su vasta scala l'usura, poiché scarseggiavano i capitali nel paese; sul numero degli Ebrei residenti nei Principati l'autore forniva dati da valutare con cautela, considerata l'incertezza dei rilevamenti demografici e la tendenza abituale ad esagerare le stime fatte.
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Secondo questi dati vi sarebbero stati in Romania più di 400.000 Ebrei su di una popolazione di 5 milioni di abitanti, con un rapporto cioè di 1 a 12,5 (in Austria il rapporto era 1 a 31,2; in Russia di 1 a 19,5); particolarmente grave la situazione in Moldavia, dove risiedeva la grande maggioranza degli Ebrei: erano 370.000 su 2 milioni di abitanti, con il rapporto 1 a 5,4.
Kogalniceanu attribuiva all'Austria la responsabilità di questa eccessiva presenza degli Israeliti, nel corso di un colloquio con l'agente diplomatico italiano, Fava. Il ministro romeno polemizzava con il conte de Buol, ministro degli Esteri austriaco, respingendo le accuse di mire romene sulla Transilvania e soggiungeva: “... sarebbe molto più leale se invece di far pesare su di noi accuse insussistenti, si astenesse dal munire di passaporti gli Israeliti romeni nell'intento manifesto di creare complicazioni”; in tal modo difatti l'Austria aveva il pretesto di intervenire a difesa dei suoi supposti sudditi. Il problema ebraico in Romania - contestava Kogalniceanu al governo austriaco - era “... nato dal profondere che fa in Romania dei suoi passaporti”. 50
Tesi semplicistica, che nasceva dalle esigenze polemiche di Bucarest nei confronti di Vienna.
I dati statistici sul numero degli Ebrei in Romania forniti dall'anonimo opuscolo parigino appaiono esagerati ad arte51 e sembra quanto meno discutibile l'affermazione di una tolleranza dei Romeni ortodossi verso gli altri culti: in realtà esistevano discriminazioni anche contro la Chiesa cattolica: come già ricordato, non si riconosceva la validità del battesimo impartito dai suoi ministri ed erano osteggiati i matrimoni misti.
L'anonimo autore dell'opuscolo antiebraico accusava inoltre i commercianti ebrei di essere esosi, effettuando nelle vendite al dettaglio un ricarico dal 100 al 200% rispetto al prezzo d'origine, mentre gli altri commercianti si limitavano ad operare una maggiorazione del 20-25%: affermazione poco credibile, essendo noti i prezzi vantaggiosi praticati dai commercianti ebrei per battere la concorrenza, come contraddittoriamente riconosceva lo stesso anonimo.
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Era poi condannata perché intempestiva la richiesta di emancipare gli Ebrei, avanzata da alcuni politici; gli Ebrei, oltre tutto, erano disgustosi per la loro sporcizia e per l'abbigliamento trasandato: “...les juifs de Roumanie sont certainement, avec leurs correligionaires de la Pologne et de la Gallicie, les êtres les plus misèrables, les plus sales, les plus répugnants qui existent”. 52
E gli Ebrei restavano sempre stranieri rispetto al paese che li ospitava; lo erano, benché più civilizzati, anche in Francia, Inghilterra, Italia, Germania. Era quindi quanto mai opportuno il divieto di acquistare proprietà agricole opposto ad essi; molte di queste proprietà erano state ipotecate a loro favore come garanzia per i prestiti concessi; se quel divieto fosse venuto meno, gli Ebrei avrebbero potuto acquistare quelle proprietà messe all'asta e sarebbero diventati padroni della Romania.
Era stata vietata la formazione di colonie agricole tedesche ( elemento certo di progresso economico sociale); a maggior ragione si doveva evitare una colonizzazione da parte degli Ebrei, refrattari ad ogni tentativo di civilizzarli e testardamente attaccati alle loro tradizioni retrograde.
Sarebbe quindi stato un suicidio accordare loro la parità dei diritti; gli Ebrei, anziché eccitare contro la Romania i governi stranieri, avrebbero fatto meglio a non favorire nuovi arrivi e ad incoraggiare invece l'emigrazione dalla Romania verso altri paesi; secondo le leggi della natura -sentenziava l'autore -ogni corpo sociale, come ogni essere vivente, tendeva ad opporsi all'intrusione di elementi estranei volti ad annientarlo.
Era questa l'opinione della maggioranza dei Romeni: si spiegava quindi la ragione per cui continuavano ad essere avversati gli Ebrei, malgrado i ripetuti interventi dei governi stranieri.
Inutilmente Clarendon, ministro degli Esteri britannico, il 15 febbraio 1870 inviò un duro richiamo al governo di Bucarest perché rispettasse la Convenzione di Parigi del 1858, secondo la quale spettavano agli Ebrei i diritti civili, restando aperta la possibilità di assicurare loro con future leggi anche quelli politici.
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Nei successivi mesi di aprile e maggio dello stesso anno ci furono in Moldavia nuove violenze popolari antisemite, a Tecuciu e Bacau, nonostante la circolare ai prefetti del governo perché attenuassero il rigore contro gli Ebrei.
Seguì una tregua nel successivo 1871, ma fatti di particolare gravità si verificarono a Ismail all'inizio del 1872, il 24 gennaio, a causa di un furto sacrilego avvenuto nella cattedrale. Ne dava notizia il vice console italiano Gloria, reggente del consolato di Bucarest, a Visconti Venosta nel rapporto del 7 febbraio 1872.
Autore del furto era tale Silbermann, un israelita di origine russa, convertitosi però al Cristianesimo, subito scoperto ed arrestato.
La sua cattura non aveva però placato il furore popolare, sicché la folla “spinta da alcuni Greci più fanatici ancora dei Rumeni, e soprattutto dal partito rosso” si diede al saccheggio e devastò la sinagoga. Ma ciò non bastò ai dimostranti e la violenza dilagò nei centri vicini, a Bolgrad, dove i tentativi di violenza furono subito repressi dal prefetto; a Cahul, invece, dove pure furono saccheggiate la sinagoga e le circostanti abitazioni degli Ebrei, cacciati a bastonate, fatto inaudito, mai verificatosi in precedenza, alcuni Ebrei reagirono a revolverate, ferendo gli assalitori.
Ma “spaventati essi stessi del loro ardire” cessarono di sparare e furono sopraffatti dalla folla inferocita.
Alcuni trovarono protezione rifugiandosi nella caserma dei gendarmi; un ufficiale minacciò di far aprire il fuoco ed i dimostranti si allontanarono, andando a saccheggiare le case rimaste vuote. Il prefetto di Cahul chiese istruzioni per telegrafo al Ministero dell'Interno e gli fu ordinato di opporsi alla violenza, promettendo l'invio di rinforzi, peraltro non arrivati fino al 7 febbraio, data del rapporto di Gloria. 53 Il vice console sottolineava la fermezza senza precedenti dimostrata per l'occasione dal governo romeno e dava notizia della riunione degli agenti diplomatici indetta per il giorno successivo dal rappresentante degli Stati Uniti, Peixotto. 54
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Nel corso di questa riunione il console americano fece un quadro della situazione molto più grave di quello ufficiale; l'autore del furto era inviso alla comunità ebraica perché convertito; per vendicarsi dei suoi ex correligionari aveva accusato di complicità il rabbino di Ismail, eccitando così ancor più gli animi. Peixotto aveva quindi chiesto udienza al principe per esporgli la verità sui fatti e chiedere giustizia.
Dal rapporto di Gloria dell'8 febbraio 1872 si ricava la negativa reazione degli altri agenti diplomatici.
Iniziò quello francese chiedendo a che titolo Peixotto avesse chiesto udienza,poiché nessun ebreo americano era tra le vittime e se gli Stati Uniti si fossero arrogata la protezione esclusiva degli Israeliti, quasi tutti sudditi dell'Austria.
Peixotto replicò di aver agito in nome dell'umanità; data l'impotenza del governo romeno di fronte alla violenza, “ogni governo civile aveva il diritto ed il dovere” di intervenire contro le violenze antisemite. Propose quindi ai colleghi un passo comune presso le autorità romene, per chiedere la punizione dei colpevoli ed il risarcimento delle vittime.
La proposta ebbe un'accoglienza gelida. Green, agente britannico, si disse contrario alla protesta collettiva, in quanto non conosceva direttamente i fatti e Peixotto non aveva documentato le sue accuse. Era inoltre ingiusto accusare il governo romeno, prontamente intervenuto per sottrarre gli Ebrei alle violenze, destituendo prefetto, capo della polizia e capo della gendarmeria di Cahul, ritenuti colpevoli di aver agito con scarsa energia.
Seguì l'intervento ostile dell'agente dell'Austria, Schelechter: non aveva motivo il governo romeno di eccitare il popolo contro gli Ebrei; era anzi suo interesse evitare disordini dannosi per l'immagine del paese.
L'austriaco respingeva poi l'affermazione di Peixotto circa la legittimità di un intervento fatto in nome dell'umanità: sarebbe stato un'indebita ingerenza negli affari interni della Romania.
Gloria trovava ragionevoli le obiezioni mosse a Peixotto; non riferiva dichiarazioni di altri agenti diplomatici,ma il loro silenzio suonava implicitamente come un dissenso nei confronti dell'agente americano; fu difatti respinta da tutti l'idea di una protesta collettiva; fu invece
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approvata una nota proposta dall' agente francese per esprimere rincrescimento per l'accaduto, manifestando al contempo fiducia nell'azione del governo romeno per punire i colpevoli ed impedire in futuro il ripetersi dei disordini.
Peixotto, rimasto isolato, dichiarò di accontentarsi di questa iniziativa e vi aderì.55
Lascar Catargi cercò di giustificare il governo dichiarando alla Camera il 7 febbraio che responsabili dei tumulti erano stati i Greci residenti a Ismail; tale dichiarazione suscitò la replica dell'agente greco, Manos, nel corso della riunione degli agenti diplomatici svoltasi l'8 febbraio; Manos ricordò che il prefetto di Ismail aveva anzi ringraziato il vice console greco di quella città per l'atteggiamento responsabile dei cittadini ellenici, di cui a Cahul ce n'era solo qualcuno; preannunciò quindi una protesta al principe per le dichiarazioni di Catargi.56
L'estraneità dei Greci ai tumulti sembrava confermata dai numerosi arresti disposti dal governo: imprigionati 60 assalitori a Ismail, oltre al rabbino ed a due o tre ebrei supposti complici del furto, più di 100 arresti a Cahul: quasi nessun forestiero era tra questi. Il bilancio dei disordini comprendeva poi due morti e cinque feriti gravi fra gli Ebrei, due morti fra gli assalitori. Il governo spiegava l'assenza di Greci fra gli arrestati con la loro maggiore furbizia grazie alla quale erano riusciti a farla franca;prometteva una severa inchiesta per accertare le responsabilità e punire i colpevoli. Gloria dimostrava poca fiducia nei risultati dell'inchiesta, ma riconosceva l'impegno del governo nel reprimere i disordini. Ed un’altra prova di buona volontà era l'assicurazione di Catargi a Visconti Venosta di volere impedire analoghi episodi in futuro.57
In un successivo rapporto del 10 febbraio Gloria forniva a Visconti Venosta ulteriori particolari sulla riunione degli agenti diplomatici svoltasi il giorno 8 dello stesso mese, da cui risultava ancora più evidente l'isolamento di Peixotto. L'agente francese Lesourd aveva infatti proposto di chiarire al governo romeno la natura individuale dell'intervento dell'americano presso il principe e presso il presidente del consiglio: quel passo era soltanto un'iniziativa presa “da un privato qualsiasi”.
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Gloria faceva poi presente l’utilità per il governo italiano dell’approvazione della nota proposta da Lesourd da parte degli agenti d’Austria, Inghilterra, Grecia, Olanda e dello stesso Gloria: poteva essere citata nella risposta del governo ad un eventuale interrogazione parlamentare.
L'agente russo si era riservato di associarsi in seguito alla nota, dopo aver avuto notizie dal viceconsole di Russia a Ismail, per accertare se, come era stato detto, cittadini russi avessero partecipato ai tumulti; l'agente tedesco si era trincerato dietro l'attesa di nuove istruzioni da Berlino, in quanto le precedenti disponevano di intervenire solo in difesa di Ebrei di origine germanica.58
Le interrogazioni parlamentari, previste o paventate da Gloria, ci furono a qualche mese di distanza nella seduta della Camera dei Deputati del 15 maggio 1872; nel corso della discussione sul bilancio degli Esteri, l'onorevole Mauro Macchi fece infatti presente a Visconti Venosta la situazione degli Israeliti, per molti secoli “rimasti come sotto una specie di maledizione nella mente delle moltitudini cieche ed ignare”. Ricordava poi la tradizione “di molte interdizioni giuridiche e civili, le quali contribuivano forse ad imprimere sul carattere, sulle attitudini e sull’ ingegno di quella famiglia un'impronta speciale”, da tutti riconosciuta.
Reso poi omaggio all'azione di Cattaneo per abolire quelle “odiose interdizioni”, Macchi passava alla situazione attuale e citava gli episodi di antisemitismo verificatisi ad Ismail ed a Smirne; tali violenze-affermava il deputato-dovevano suscitare “nel cuore di tutti quel raccapriccio che ha veramente destato in tutti gli uomini civili”.
Ricordava in proposito la discussione svoltasi nel Parlamento britannico; all'interrogazione di sir Francis Goldsmith sui fatti di Romania aveva risposto lord Enfield, annunziando intese con tutti i governi d'Europa per un’azione comune utile ad impedire il ripetersi di quegli orrori.
A conclusione del suo intervento Macchi chiedeva al ministro se il governo inglese avesse fatto passi in tal senso presso quello italiano e quale risposta fosse stata data.
Visconti Venosta confermò di aver ricevuta ed accolta la richiesta britannica; aveva quindi dato istruzioni ancora una volta all'agente italiano di associarsi all'agente inglese per conseguire i fini umanitari illustrati da Macchi.59
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Seguì la discussione al Senato, dove il 27 giugno 1872 prese la parola Terenzio Mamiani per interrogare il ministro sui fatti avvenuti nei Principati Danubiani: si trattava “della sventurata persecuzione ripetutamente accaduta contro la popolazione ebrea”. L'Italia aveva il diritto ad interessarsene in quanto Cavour “non fu certamente l'ultimo a cooperare con l'abile sua parola, e colle sue alte viste diplomatiche, perché quelle popolazioni acquistassero una quasi completa indipendenza”. Inoltre, l'Italia aveva un diritto d'intervento poiché il popolo romeno aveva una discendenza latina. Esprimeva poi Mamiani l'augurio di una minore gravità delle violenze rispetto alle cronache giornalistiche; chiedeva quindi quale fosse la realtà dei fatti e quale contributo avesse dato la diplomazia italiana per impedire il ripetersi dei “luttuosi casi della Moldavia a danno dell'inerme e sventurato popolo ebreo”.
Visconti Venosta nella sua risposta definì “ deplorabile” la situazione in Romania: “in più occasioni la passione e i pregiudizi popolari proruppero in scene di violenza, che sembrano di altri tempi e che contrastano colla moderna civiltà”. Il governo italiano aveva quindi dato “in ogni occasione istruzioni formali, precise, insistenti al suo rappresentante perché intervenisse per assicurare la tutela della vita e dei beni degli Israeliti, nell'interesse della Romania stessa”, soggetta al discredito derivante dalle violenze.
L'agente italiano si era sempre associato alle iniziative degli altri diplomatici, dimostrandosi non “meno attivo, né meno volenteroso”. Le iniziative diplomatiche avevano spinto il governo di Bucarest ad impartire severe istruzioni alle autorità locali per impedire le violenze. Al governo italiano, in quanto era uno dei firmatari della Convenzione di Parigi del 1858 e degli atti costitutivi dell'indipendenza romena, era giunta la proposta inglese per un'azione comune in difesa degli Ebrei. Proposta subito accettata, per cui i governi di Roma e di Londra avrebbero agito di comune accordo “in favore di una causa, che è la causa dell'umanità e della civiltà”.
Mamiani si dichiarò soddisfatto della risposta del ministro, avendo constatato “con giubilo che la nostra azione è stata viva, è stata continua, è stata di una particolare efficacia”.
Sperava in una buona accoglienza dell'intervento italiano da parte dei popoli della Romania, che “si volgono affettuosamente all'Italia, ed anche essi esclamano: salve magna Parens; non troveranno discaro che questa antica madre li rimproveri con amore assennato e con efficace severità”.60
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Molti altri Parlamenti, oltre all'italiano, nel 1872 si occuparono della situazione degli Ebrei in Romania: il 19 aprile ci fu l'interrogazione di Goldsmith ai Comuni, ricordata da Macchi; il 20 maggio alla Camera degli Stati Uniti Samuel Cox propose al governo di unirsi all’Italia per rivolgere una protesta comune al governo di Bucarest; il 22 maggio al Reichstag i deputati Lasker e Bamberg sollecitarono un'azione del governo tedesco; ed infine il 23 settembre 1872 il deputato Goldefray intervenne alla Camera olandese.
L' “Educatore Israelita”, giornale di Vercelli esistente fin dal 1852, sotto il titolo “Simpatie del mondo civile per gli Israeliti Romeni” riportava compiaciuto la notizia degli interventi a favore della causa ebraica verificatisi nei Parlamenti di molti paesi e si soffermava in particolare sull'interrogazione dell'onorevole Macchi e sulla replica di Visconti Venosta; citava inoltre il dibattito nel Parlamento inglese, riferendo l'affermazione del deputato Weelhouse sulla necessità di non limitarsi a proteste verbali e di ricorrere, se necessario, ad azioni più incisive; secondo il deputato Simon, di origine israelita, gli Ebrei stavano meglio sotto il governo turco, (anno XX, 1872, pp. 172-175).
La diplomazia statunitense in questa occasione si mostrò molto attiva: oltre agli sfortunati sforzi di Peixotto a Bucarest, vanno ricordate le sollecitazioni dell'ambasciatore a Parigi, Washburn, per un intervento francese, per il quale il ministro degli Esteri, de Rémusat, fornì assicurazioni.
L'ambasciatore italiano a Washington, Luigi Corti, il 5 giugno 1872 dava notizia a Visconti Venosta della proposta di Cox alla Camera degli Stati Uniti perché il governo americano si associasse a quello italiano in una protesta da rivolgere a Bucarest; in un rapporto successivo, in data 11 giugno, Corti informava del seguito dato alla mozione di Cox dal Segretario di Stato, Fish; questi, informato il Presidente Grant, approvò l'operato di Peixotto e gli diede istruzioni per associarsi ad eventuali proteste collettive degli agenti diplomatici in Romania.61
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La proposta di Cox per un'azione comune italo-americana in Romania destò in Italia un moto di orgoglio di cui si rese interprete “Il Diritto” (27 giugno 1872, p. 1, articolo di fondo non firmato e quindi da attribuirsi al direttore “Gl'Israeliti di Rumenia e la politica italiana”),poiché in altri tempi il governo statunitense si sarebbe rivolto a Parigi e non a Roma. L'Italia doveva assumersi in Oriente la missione prima svolta dalla Francia ed accettare quindi la proposta di Washington senza esitazioni e timidezze ispirate dal timore di spiacere alla Russia; inoltre -si chiedeva “Il Diritto”- l'Italia temeva forse di dover dare spiegazioni alla Francia?
Nei mesi precedenti l'intesa fra il governo italiano e quello di Washington per un'azione comune in Romania era stata messa a rischio dalla pubblicazione, avvenuta per errore, di un rapporto del rappresentante americano a Roma, George Marsh, critico nei confronti della politica italiana, accusata di scarso impegno per la questione ebraica in Romania; ma la vicenda venne presto archiviata.62
Sempre più avvelenata era invece la situazione in Romania, mentre proseguiva l'inchiesta governativa sui tumulti di Ismail, Vilcov e Cahul. Il vice console Gloria non credeva in un risultato soddisfacente dell'inchiesta, poiché conosceva la scarsa trasparenza dei metodi del governo romeno; il presidente del consiglio Lascar Catargi continuava infatti a cercare scuse e diversivi, addebitando l'accaduto ad intrighi russi, senza voler ammettere responsabilità romene. Da parte sua Gloria si abbandonava ad esercizi di dietrologia, attribuendo la paternità dei tumulti all'azione dei ricchi Ebrei di Bucarest e di Jassy, nella speranza di richiamare così l'attenzione internazionale sul problema dei diritti civili e politici per gli Israeliti in Romania63
Il presidente Catargi ostentava tranquillità, ma in privato confessava a Gloria la gravità del problema ebraico, punto dolente per ogni governo amante dell'ordine64; la situazione si faceva sempre più difficile nell'approssimarsi del processo contro l'autore del furto nella cattedrale di Ismail ed i suoi supposti complici ebrei e dell'altro processo contro di autori delle violenze antisemite.
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I procedimenti giudiziari erano stati trasferiti presso il tribunale di Buzeu, ritenuta una sede più tranquilla, in grado di assicurare un regolare svolgimento del giudizio; ma -osservava “L'Opinione” del 10 aprile 1872 - “un ebreo non trova maggior guarentigia davanti ad un giurì cristiano in Rumania che un cristiano davanti al cadì maomettano in Turchia”.
E difatti le cose si misero male per gli Ebrei accusati di complicità con il ladro; lo stesso giudice istruttore aveva chiesto il loro rilascio, ma la procura penale di Focsani ne aveva disposto invece il rinvio a giudizio. Il ladro ammise di aver fatto per istigazione della polizia la chiamata di correo nei confronti del rabbino Braudes e del presidente della comunità ebraica di Ismail, David Goldschlaeger; gli altri Ebrei imputati, Preizman, Vaiszman, David Hain disponevano di alibi e dichiararono di aver subito violenze esercitate dalla polizia per estorcere le loro confessioni.
L'accusa era sostenuta dal procuratore generale della Corte di Appello di Bucarest, Borsch, autore della inchiesta sui tumulti; la stessa accusa richiese la condanna solo per Silbermann e l'assoluzione degli altri imputati ebrei. La speranza di un sereno svolgimento del processo si rivelò presto illusoria: la folla in tumulto presente nell'aula chiedeva infatti a gran voce la condanna di tutti gli Ebrei, minacciando di morte i giurati se li avessero assolti; e la giuria, impaurita, pronunciò la condanna di tutti gli imputati ebrei.
Al ladro Silbermann, per il quale il difensore Paterlegeanu si era raccomandato alla clemenza della corte, fu inflitta una condanna a cinque anni di carcere, ai supposti complici, di cui la stessa pubblica accusa aveva chiesto l'assoluzione, toccarono tre anni di carcere, oltre a dover risarcire con 35 ducati pro capite il sacerdote della cattedrale di Ismail per il furto di una pisside ed altri oggetti sacri e di 112 ducati trovati in sagrestia.
Attestava il livello culturale dei giurati la loro richiesta al cancelliere di scrivere lui il verdetto, non essendo essi in grado di farlo perché analfabeti.65
Il giorno successivo si svolse il processo intentato contro gli autori delle violenze avvenute a Vilcov, di cui Gloria aveva previsto l'assoluzione, commentando con sdegno: “Dinnanzi ad una simile flagrante ingiustizia parmi sarebbe delitto il tacersi”.
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E fu un buon profeta Gloria nel prevedere la loro assoluzione: furono tutti prosciolti, fra il tripudio della folla e lo scorno degli agenti diplomatici che il 18 aprile sottoscrissero una nota collettiva di protesta; inoltre Peixotto chiese telegraficamente al presidente Catargi la grazia per tutti gli ebrei condannati e l'agente austriaco, barone Schlecthe, chiese la liberazione sotto cauzione del rabbino, suddito dell'Austria.66
L’organo del cosiddetto “partito rosso”, “Romanul”, accolse con soddisfazione l'assoluzione degli imputati per le violenze antisemite, criticata invece dal giornale ufficioso del governo “Pressa”; il procuratore fece ricorso in Cassazione per la condanna degli Ebrei, di cui aveva chiesto l'assoluzione.67
Si verificò così un paradossale scambio delle parti: i conservatori erano meglio disposti verso gli Ebrei di quanto non lo fossero i liberali, tra cui erano alcuni dei protagonisti del 1848, quando avevano chiesto l'emancipazione degli Israeliti.
Le violenze antisemite del gennaio 1872 a Ismail, Cahul, Vilcov e nel mese di aprile gli scandalosi verdetti di assoluzione dei persecutori e di condanna delle loro vittime destarono violenti commenti sulla stampa italiana. Gli attacchi più violenti alla Romania furono quelli de “ Il Pungolo”, giornale della Sinistra pubblicato a Napoli. In un articolo di fondo anonimo dal titolo “L'Austria e l'Italia”, pubblicato il 28 aprile 1872, era affermata l'inutilità dei piccoli Stati, a partire dal Belgio, definito un ostacolo doganale, “un convento di zoccolanti” puntello dell'influenza papale in Europa: “perché conservarlo?”, si chiedeva l'autore.
In quanto poi alla Serbia ed ai Principati Danubiani, definiti “infetti cenacoli di intrighi”, incapaci di contenere l'avanzata della Russia, o addirittura ad essa favorevoli, la proposta era di darli all'Austria perché li civilizzasse, divenendo con tale aumento del suo territorio “una Potenza capace di neutralizzare la Russia, covrir la Germania e la Turchia”.
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Un successivo articolo di fondo de “Il Pungolo”, “Gli Israeliti in Romania” (non firmato,10 giugno 1872) sosteneva che i giurati Cristiani di Buzeu, autori della condanna degli Ebrei, erano stati influenzati dal tradizionale pregiudizio antisemita: per essi “era meritorio condannare un israelita che agli occhi loro è reo solo perché israelita”. L'articolo polemizzava poi con il ministro degli Esteri romeno, secondo il quale lasciava molto a desiderare il grado di civiltà degli Ebrei di Moldavia; commentava ironicamente il giornale napoletano: “quasi che ivi lasciasse a desiderare poco quello delle popolazioni cristiane”. Tutti i paesi civili avevano protestato: “solo il Papa-notava acidamente “Il Pungolo”- che si pretende capo di una religione di carità e d'amore, non ha levato la voce”; da notare infatti l'assenza sullo “Osservatore Romano” di qualsiasi notizia sui fatti di Romania. “Il Pungolo” esortava, nel caso non fosse migliorata la condizione degli Ebrei in Romania, a prendere misure “risolute ed anche minacciose, ove occorra”. E precisava quali fossero queste misure: occorreva far cadere il governo di Bucarest “per decoro della moderna civiltà, a beneficio di un governo più forte”, poiché quello debole al potere era costretto a giovarsi “del fanatismo delle popolazioni come d' istrumento di Regno”.
Impietoso il giudizio finale sui Romeni, definiti “... un popolo sedicente cristiano molto al di sotto del popolo turco, il quale mostra(va), se non altro, le intenzioni di voler camminare sulle vie dell'incivilimento”.
A tanta durezza non arrivava neanche l'”Educatore Israelita”; malgrado le violenze inflitte agli Ebrei-affermava Giuseppe Levi,uno dei due direttori del giornale – “...la popolazione rumena non è fanatica; il clero stesso è tollerante; i bojardi non possono fare a meno dell'ebreo; sono i sedicenti progressisti, sono i capi dei partiti, sono i giornalisti che non hanno trovato a vendersi, sono i comunisti di tutti i colori , sono gli spostati che vogliono spostare gli altri, i quali spargono il veleno dell'odio contro gli Ebrei. Il governo o debole o impotente o malintenzionato non ha che buone parole. E intanto è col sangue che si tenta di inaugurare la pretesa emancipazione dell'Oriente”. (Cronaca estera. La Rumenia, anno XX 1872, pp. 148-149).
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In realtà, di elementi sani e non fanatici della popolazione non dovevano poi essercene molti, considerato il lungo elenco dei sobillatori antisemiti stilato da Levi.
“Il Pungolo” proseguiva la sua campagna antiromena con l'articolo di fondo “I tre imperatori”, inviato da Londra da Fernando Petruccelli della Gattina, pubblicato il 14 agosto 1872.
L'autore deprecava che “quello sciagurato Regno di popoli slavi o mezzo slavi all'Est dell'Europa” potesse turbare la pace, per la cui conservazione suggeriva la spartizione di quei territori, chiedendosi: “non potrebbe forse l'Austria arrotondarsi con la Bosnia e la Valacchia, lasciando la Moldavia alla Russia, la quale avrebbe così un confine forte nei Carpazi ?...Per quei popoli del Danubio, entrare a far parte della Russia e dell'Austria è civiltà; e dal punto di vista di questa, l'Europa non avrebbe che a congratularsene”.
Lo stesso Petruccelli della Gattina tornava poi sull'argomento con l'articolo di fondo “L'Austria”, inviato da Londra e pubblicato sempre su “Il Pungolo” il 22 ottobre 1872. L'autore riteneva responsabile delle difficoltà austriache la Romania e la Serbia: “La Romania, che è un focolaio di incorreggibile anarchia alle sue porte,all'Est; la Serbia, che ha un esercito di 150,000 uomini trincia da Piemonte delle razze Slave-Danubiane, al Sud, non la possono far restare indifferente”. Attribuiva poi agli intrighi francesi la perenne irrequietezza nei paesi Danubiani: “Volessero poi questi staticelli inquieti rinsavire e restare tranquilli, avrebbe comunque pensato la Francia a sobillarli”, poiché essa aspirava a trovare nella questione d'Oriente l'occasione di una rivincita, dopo la sconfitta subita dalla Prussia nel 1870.
Un attacco deciso alla Romania veniva pure lanciato dal giornale di Roma “La Riforma” ospitando il 19 maggio 1872 una lettera da Vienna, in cui le difficoltà del partito costituzionale austriaco erano attribuite agli intrighi del partito clericale ultramontano, sostenuto - secondo l'autore della lettera - da “fautori del partito turbolento dei principati danubiani, covile di corruzione e di barbara ignoranza, il quale disturberà l'Europa ancora più volte, finché sparirà dalla carta geografica”.
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Questa affermazione suscitò la reazione sdegnata del romeno I. C. Dragescu, manifestata con una lettera allo stesso giornale, su cui apparve il 26 maggio. Alla prevista sparizione della Romania Dragescu opponeva il ricordo della formazione degli Stati unitari italiano e germanico, avvenuta in base all'ideale di nazionalità, proprio anche dei Romeni. Accusava poi “La Riforma” di essere filotedesca, dimenticando l'origine latina comune all'Italia ed alla Romania; tacciava poi di ingratitudine il giornale per la funesta profezia della scomparsa dello Stato romeno, dimenticando la simpatia per l'Italia sempre dimostrata dai Romeni, come attestavano fra l'altro le congratulazioni per Roma capitale espresse per prima dalla Romania all'Italia. Inoltre, la Romania aveva reso all'Europa “un servizio non piccolo facendo da baluardo contro la barbarie osmanica”.
“La Riforma” nel commento alla lettera di Dragescu prendeva le distanze dalle affermazioni della lettera da Vienna circa la scomparsa futura della Romania, espressione del pensiero dell'autore e non del giornale.
Lungi dall' augurarsi la sparizione della Romania, gli Italiani le avevano sempre manifestato simpatia, salutando con gioia la Convenzione di Parigi del 1858 da cui erano nati i Principati Uniti di Moldavia e Valacchia, ed auspicando il ricongiungimento di tutti i territori popolati da Romeni ancora soggetti a governi stranieri. Ma sfortunatamente il governo di Bucarest aveva fatto poco per realizzare questo obiettivo e, in dispregio agli articoli 5 e 21 della Costituzione, non aveva garantito la libertà di coscienza e di culto.
Contro gli Ebrei erano state commesse violenze tanto gravi da far inorridire l'Europa e da spiegare, se non giustificare la durezza della lettera da Vienna, peraltro non condivisa dalla redazione del giornale.
Ed infine il corsivo de “La Riforma” rinviava al mittente l'accusa di tedescomania rivolta agli Italiani: “Noi siamo Italiani e solamente Italiani”, affermava il giornale, ribadendo che tedescomani si erano dimostrati semmai i Romeni, chiamando un principe germanico a sostituire Cuza.
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Alla Germania comunque guardava con simpatia anche l'Italia, sosteneva “La Riforma” nel suo articolo non firmato “L'alleanza latina”, pubblicato il 17 dicembre 1871: in passato le invasioni francese e spagnola non erano state meno rovinose di quelle teutoniche e nell'alleanza latina ipotizzata da alcuni sarebbe stata la Francia ad avere la prevalenza; la Germania quindi-affermava l'autore dell'articolo-restava in quel momento la migliore amica dell'Italia ed anche in futuro sarebbe stata un'alleata privilegiata.
Con le condanne emanate contro gli Ebrei nell'aprile 1872 non ebbero fine le persecuzioni: il cimitero Israelitico di Roman veniva infatti profanato; particolare macabro, i cadaveri sarebbero stati dissepolti e dati in pasto ai cani, come scriveva “Il Pungolo” del 27 maggio 1872, riprendendo la notizia dal giornale ungherese “Pester Lloyd”. Quasi in contemporanea, il 26 maggio, anche “La Perseveranza” dava la stessa informazione, sottolineando la particolare gravità del fatto perché ispirato dal borgomastro e dal consiglio municipale; la comunità Israelitica di Roman aveva denunziato lo scempio alla Procura di Stato.
La condanna della violenza contro Ebrei espressa dai dibattiti parlamentari e dalla stampa mise in seria difficoltà il governo romeno, costretto a correre ai ripari.
Infatti, se da un lato la legge del 6 febbraio 1872 vietava il commercio del tabacco agli Ebrei e la legge del 14 aprile 1873 confermava il diritto di vendere alcolici solo agli iscritti nelle liste elettorali, escludendo così senza nominarli gli Ebrei che non ne facevano parte; dall'altro canto il governo diede energiche disposizioni per far cessare le violenze antisemite; Gloria comunicava con soddisfazione il 2 maggio 1872 che era trascorso senza incidenti il periodo pasquale in cui abitualmente si verificavano seri incidenti.
Il governo-osservava il diplomatico italiano-era rimasto colpito dalla nota collettiva di protesta presentata il 18 aprile dagli agenti diplomatici subito dopo lo scandaloso verdetto di Buzeu; in un primo tempo aveva cercato di fare ritirare la nota, ma si era presto reso conto della necessità di adottare provvedimenti per limitare i danni arrecati all'immagine del paese da quei fatti deplorevoli. Ne derivarono le rigorose disposizioni contro chi avesse ancora commesso atti di violenza e la grazia concessa dal principe Carlo al rabbino di Ismail.68
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Ma ciò non poteva bastare ad allontanare dal governo di Bucarest le nubi minacciose che si venivano addensando sul suo capo. Il console italiano Fava, rientrato in sede dopo il periodo di ferie in cui il consolato era stato retto da Gloria, affermava il 4 luglio 1872 che, ristabilita almeno momentaneamente la tranquillità, si sarebbero dimenticati i “saturnali” di Ismail, Cahul e Vilcov, se non si fosse sparsa la voce di una imminente Conferenza europea per far avere agli Ebrei di Romania la parità dei diritti. Il governo romeno si rivolse allora alla Porta per scongiurare un intervento straniero in quella che era considerata una questione interna romena, di natura sociale e non religiosa, come Maurogheni, reggente il ministero degli Esteri, dichiarava a Fava, lamentando l'adesione italiana alla proposta di tenere una Conferenza.69
Posizione ribadita da Visconti Venosta il 14 luglio nel dispaccio inviato a Fava per ricordare i passi collettivi in difesa degli Ebrei compiuti in precedenza e la decisa condanna delle violenze in Romania espressa nel corso dei dibattiti svolti sia alla Camera che al Senato.70
In quegli stessi giorni, per evitare la Conferenza internazionale ed il conseguente intervento straniero a favore degli Ebrei, il ministro degli Esteri romeno Costa-Foru si recò a Costantinopoli per spiegare alla Porta ed agli ambasciatori delle grandi Potenze la reale situazione degli Israeliti e quanto fossero infondate le accuse rivolte al governo romeno.
L'ambasciatore italiano a Costantinopoli Ulisse Barbolani comunicava a Roma l'arrivo di Costa-Foru e la richiesta da questi rivoltagli di sostenere la sua missione. Il ministro romeno sperava in un riconoscimento dello sforzo fatto per conciliare le richieste degli Ebrei con le esigenze dell'ordine pubblico; ammetteva la cattiva prova data dalla giuria di Buzeu assolvendo i rivoltosi e condannando gli Ebrei, per cui nella prossima sessione parlamentare si sarebbe esaminato un progetto di riforma della giuria; di più - assicurava Costa-Foru - non poteva farsi: una legge per riconoscere i diritti civili agli Ebrei avrebbe suscitato reazioni violente, gettando il paese nel caos.
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Barbolani aveva assicurato ad un soddisfatto Costa-Foru di non avere ricevuto particolari istruzioni sul problema ebraico in Romania, confermando però l'interesse italiano a tale questione, non inferiore a quello degli altri governi. D'altra parte, comunicava al ministro l'ambasciatore italiano, anche la Porta si era dimostrata poco interessata alla situazione degli Ebrei, limitandosi a dare a Bucarest generici consigli di prudenza e moderazione.71
La missione di Costa-Foru a Costantinopoli ebbe successo e la temuta Conferenza internazionale non ci fu, destando scoramento tra i sostenitori dell'emancipazione ebraica.
Fu a questo punto che Peixotto avanzò la proposta di una massiccia emigrazione degli Israeliti verso gli Stati Uniti, suggerendo, benché sconsigliato dagli altri agenti diplomatici, la costituzione di una società per organizzare l'esodo. Il progetto però si rivelò un'arma a doppio taglio: si dimostrarono difatti favorevoli ad esso anche quanti speravano di potersi così liberare della scomoda presenza degli Ebrei; Peixotto, accortosi della intempestività della sua proposta, cercò di riparare precisando che prima di dare il via all'emigrazione occorreva formare la società organizzatrice.
Ciò non gli evitò comunque gli attacchi e le ironie dei suoi avversari; Fava riferiva in un suo rapporto l'ironico titolo di “ambasciatore di Palestina” affibbiato al console americano e faceva sue le critiche rivoltegli, ricordando di avere già in passato criticato più volte le iniziative di Peixotto: “il poco tatto dimostrato dal console degli Stati Uniti nel trattare la causa degli israeliti” risultava nocivo “alla questione ebraica, di natura economica e politica più che religiosa”, sfruttata all'Interno dai “partiti bramosi di popolarità e di potere” ed all'estero utile “alle mire di più di una potenza”. Questi intrighi “interni ed esteri” - concludeva Fava - “non potevano davvero trovare un miglior ausiliare della condotta del console d'America”, con il rischio di causare nuove violenze.72
Ma le critiche a Peixotto provenivano anche dal campo ebraico. L'organo dell' “Alliance Israélite Universelle”, “Archives Israélites”, pubblicò il 15 agosto 1872 una corrispondenza
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da Bucarest del rabbino Emil Hirsch, datata 17 luglio. L'autore osservava con malinconia come, finita la momentanea indignazione dell'Europa, tutto sarebbe rimasto immutato; Costa-Foru aveva avuto successo, con la sua missione a Costantinopoli aveva affossato la progettata Conferenza internazionale sulla questione ebraica, da non risolversi affidando poteri straordinari al principe Carlo: ciò avrebbe significato “mettre un pays qui se gouverne librement aux mains d'un prince de la famille des Hohenzollern. La libertè de tous sera menacée, et les Israélites roumains, nous le prouverons, ne gagneront rien au change”. Pure inopportuno appariva ad Hirsch un intervento straniero, poiché avrebbe ancor più eccitato gli animi contro gli Ebrei, già oggetto di molti attacchi, fra cui quelli del “Journal de Bucharest”. Per evitare le violenze e calmare gli odi occorrevano inchieste serie ed imparziali e responsabilizzare i politici: “...c'est tout ce que demandent les hommes qui voient clair dans la situation: le temps, ce grand conciliateur, fera le reste”.
Bisognava quindi evitare intempestive richieste di emancipazione; ed a questo punto scattavano le critiche a Peixotto, portato ad esempio di inopportunità nell'agire; Peixotto si era prodigato a favore degli Ebrei, ma in modo maldestro e controproducente: “Ses rapports s'écartent quelquefois de la vérité; il a allumé en Angleterre un feu de paille qui s'est éteint dès que le cabinet s'est aperçu que la Russie lui donnait satisfaction; il n'a reussi qu'à allumer dans le coeur des Roumains une haine sourde qu'il sera difficile de tempérer. Ce n'est point là de la diplomatie”. Ed il consiglio dato a Peixotto era di agire con prudenza: “...que son action soit douce, bienfaisante, et qu'elle passe pour ainsi dire inaperçue”.73
Gli “Archives Israélites” successivamente davano notizia della replica all'articolo del rabbino Hirsch pubblicata dal “Jourmal de Bucharest” del 10 settembre 1872.
Autore della replica era un giornalista francese, che negava di essere antisemita; anzi, se fosse stato romeno, avrebbe favorito l'emancipazione degli Ebrei; affermava non trattarsi “...ni d'intolérance religieuse ni de persécutions: il s'agit simplement de l'invasion d'un prolètariat à l'aspect véritablement odieux”.
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L'organo dell'Alliance non riferiva la risposta data a questo articolo da Peixotto, perché la giudicava troppo violenta ed ammoniva il console americano perché si comportasse con maggiore prudenza, senza attaccare una nazione giovane come la Romania: “...en un mot, nous prétendons faire appel à la raison et à l'intérêt bien entendu des Roumains eux mêmes”.
Gli "Archives" informavano pure, senza riportarla, di una violenta risposta data ad Hirsch da Peixotto sul “Rumanische Post” del 19 settembre 1872. Il rabbino aveva replicato con tono sereno, affermando di aver parlato a titolo personale non volendo coinvolgere Crémieux e l’Alliance nelle critiche da lui rivolte a quanti facevano più male che bene alla causa israelita. Ma gli "Archives” prendevano però ancora una volta posizione contro Peixotto, ricordando la disapprovazione del comitato di Bucarest dell'Alliance per le iniziative del console americano ritenute maldestre.74
Sulla proposta di Peixotto per l'emigrazione degli Ebrei intervenne anche il giornale italiano "La Nazione" di Firenze, affermando erroneamente l'adesione degli Ebrei al progetto; era invece conforme al vero la disponibilità del governo romeno a sbarazzarsi - come scriveva il giornale fiorentino - di "una causa continua di imbarazzi interni ed esterni. Qui i semibarbari ministri condividono le passioni del semibarbaro popolo che essi governano e tollererebbero ben volentieri il vedere gli israeliti insultati, saccheggiati, trucidati”. "La Nazione" condannava il governo di Bucarest perché "vedrebbe volentieri la parte più intelligente e più laboriosa della popolazione partirsi dalla Rumania", dando così prova di una cecità politica già denunciata dal giornale viennese "Neue Freie-Presse”, che a proposito degli Ebrei aveva asserito: "Tutti hanno bisogno dell'opera loro e non vi è alcuno in Rumania che possa fare le loro veci".75
Anche se era stata accantonata l'idea di una Conferenza internazionale sulla questione ebraica, la Romania restava sempre una sorvegliata speciale delle Potenze. Il ministro degli Esteri britannico Granville difatti inviò il 23 maggio 1873 una nota alle Potenze garanti proponendo un intervento comune dei governi; la proposta non ebbe però successo: vi aderirono
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soltanto l'Italia e la Francia. La Germania si limitò a ringraziare per l'invito, l'Austria neanche rispose e la Russia oppose un aperto rifiuto. Boerescu, ministro degli Esteri romeno, comunque ricordò, a titolo cautelativo, il divieto all'intervento di singoli Stati disposto dall'articolo 22 della Convenzione del 1858.
L'iniziativa di Granville nasceva da una spinta dell'opinione pubblica britannica, ben disposta verso la causa israelita, grazie alla stampa ed a pubblicazioni filo-ebraiche, come l'opuscolo sulle persecuzioni in Romania tradotto dal francese ad opera di Anna Maria Goldsmith e pubblicato nel 1872 a Londra.
Era anzitutto espressa la ferma intenzione di non opporre violenza a violenza, volendo restare sempre nell'ambito della legalità: "We are not of the number of those who take up arms in self-defence, or fight for the attainment of their rights, we have never offered resistance to the Government, or the laws of the Country. Our sacred book enjoins as top desire the happiness of our fellow-citizens, even they become our oppressors. Our only weapon is persuasion…”.
A questa distensiva dichiarazione faceva seguito una interpretazione, per la verità poco convincente, dell'antisemitismo in Romania. L'anonimo autore, chiaramente un ebreo romeno che parlava in prima persona della situazione romena (l'originale dell'opuscolo era in ebraico, poi tradotto in francese ed infine dal testo francese in inglese), attribuiva l'intera responsabilità delle violenze antisemite agli intrighi del partito "rosso" ed in particolare di Bratianu: questi, incitando alla violenza, avrebbe voluto screditare il principe Carlo e provocarne così la caduta.
Era stato Bratianu a volere l'articolo 7 della Costituzione del 1866, negando agli Ebrei l'acquisto della cittadinanza, riservato esclusivamente ai Cristiani; era stato ancora Bratianu con il decreto del maggio 1867 ad imporre agli Ebrei una serie di divieti: essi non potevano vivere in campagna, possedere beni agricoli, stipulare contratti; l'articolo 7 della Costituzione aveva privato gli Ebrei dei diritti politici, ma non di quelli civili, negati poi loro con un decreto del 1867.
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Questa tesi veniva però smentita da quanto lo stesso autore poi ammetteva : i successori di Bratianu e Kogalniceanu: Dimitrie Ghika, Vasile Boerescu, Epureanu, Carp, non avevano fatto nulla per migliorare le condizioni degli Ebrei, pur essendo devoti a Carlo e quindi non interessati a screditarlo facendo diffondere l'antisemitismo.
Con la nomina di Lascar Catargi a Presidente del Consiglio e ministro degli Interni e di Costa-Foru a ministro della Giustizia, gli Ebrei di Romania sperarono in misure legislative più favorevoli, restando però in paziente attesa, consapevoli dei rischi derivanti da una troppo rapida ed improvvisa emancipazione.
Continuarono quindi a subire con rassegnazione le violenze e le espulsioni, restando il governo indifferente senza usare i mezzi per agire di cui disponeva. Il lassismo delle autorità locali, poco attente e scrupolose nell'attuare le norme di legge, rendeva la situazione più tollerabile, grazie anche ai cospicui doni fatti dagli Ebrei per assicurarsi un po' di tranquillità. Si trattava comunque di brevi pause, subito interrotte dal continuo ripetersi delle violenze; le più recenti c'erano state ad Ismail e Cahul; si era voluta addossare la responsabilità del furto di Ismail , opera di un singolo ebreo convertito al Cristianesimo, all'intera comunità, certo non interessata a ridestare l'antico odio dei Rumeni per gli Ebrei.
Era poi ricordata e criticata l'ingiusta sentenza di condanna del tribunale di Buzeu, opera di giurati intimiditi dall'atmosfera di violenza in cui si era svolto il processo.
Il partito "rosso" continuava a seminare odio contro gli Ebrei; Lascar Catargi e Costa-Foru, pur essendo persone oneste, non si opponevano agli intrighi orditi da Bratianu e dai suoi seguaci contro gli Israeliti.
Cadevano nel vuoto le note inviate dai governi europei: per passare dalle parole ai fatti sarebbe stata necessaria una Conferenza internazionale in grado di assicurare agli Ebrei la parità di diritti cui avevano diritto, poiché essi risiedevano in Romania da più generazioni; la loro emancipazione corrispondeva all'interesse stesso del paese, ponendo fine al ripetersi delle violenze.
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A conclusione dell'opera, l'autore rivolgeva al pubblico straniero questa supplichevole richiesta: "….turn on us your pitying glance. Our hope is in You, our trust that You will be to us a light in our darkness”.76
In questa conclusione sembra di poter cogliere l'eco di invocazioni bibliche; era invece ispirata ad una ottimistica quanto ingenua fede nel progresso, tipica dell'ultima parte del secolo XIX e destinata a trovare la sua celebrazione nel ballo "Excelsior" del 1881, l'inno "Ultimi eccessi del fanatismo contro gli israeliti d'Oriente", composto nel 1872 da Fernando Rossi per uno spettacolo benefico dato a Trieste a favore degli Ebrei dell'Oriente europeo. Dopo aver deprecato l'infelice sorte di quelle vittime innocenti, prendendo a prestito un verso di Dante ("Oh, se non piangi, di che pianger suoli!") e dopo aver scagliato contro i persecutori un anatema pur esso chiaramente dantesco ("Maledetto lupo-taci e consuma te con la tua rabbia") il Rossi concludeva l'inno con questo auspicio: "Convertansi i feroci in bei costumi,-uguaglianza, lavor, amore e pace,.. dunque bando alle fole e regni il vero;-Morte per sempre al fanatismo iroso,-Dell'arti e del saper splenda l'Impero,-Industria il suo valor stenda operoso".77
Pur non accettando la tesi del complotto di Bratianu contro Carlo, basato sul discredito arrecatogli dalla diffusione dell'antisemitismo, indubbiamente va riconosciuto che la questione ebraica fu per il principe un assillo continuo; già il 1° giugno 1867 annotava difatti nel suo diario: "La pénible question juive prend tous les jours de plus grandes proportions dans la presse étrangère, et le peuple roumain, le plus tolérant de tous les peuples chrétiens, apparait éclairé par les lueurs d’un fanatisme religieux comme le moyen âge seul en a connu".78
Questo antisemitismo persistente e dilagante in alcune occasioni coinvolgeva anche elementi stranieri, come nel caso dei disordini scoppiati a Tecuciŭ nella primavera del 1870. Nel suo rapporto del 27 aprile 1870 il console Fava scriveva: "I mestatori di Tecuciŭ si componevano nella maggior parte dei lavoratori della ferrovia, cioè Italiani, Ungheresi, Greci e Ruteni"; se
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questa era la manovalanza dell'agitazione, secondo Fava la regia era invece curata dal partito "rosso" e dai nostalgici di Cuza, interessati a screditare Carlo con le violenze antisemite: era lo stesso disegno politico esposto nell'opuscolo "Persecution of the jews of Roumania", già esaminato.79
Ma le responsabilità di queste manifestazioni antisemite erano di volta in volta attribuite a soggetti diversi: qualche mese dopo i fatti di Tecuciŭ, il governo romeno non esitava ad addebitarle a quello russo ed in particolare al generale Ignatieff, il potente ambasciatore presso la Porta.80
Per il console italiano a Galatz, Berio, erano invece soltanto rumeni gli ispiratori delle vicende contro gli Ebrei: "Tutti i partiti della Romania, dal retrivo al rosso, sono unanimi tutti contro gli Israeliti"; non erano esclusi da tale patto scellerato i giornalisti, che predicavano la libertà per tutti, ma la negavano agli Ebrei. Questi, secondo Berio, erano stati però soltanto un pretesto in occasione dei fatti di Tecuciŭ: "Lo scopo era una rivoluzione politica, ed i rivoltosi inaugurarono il loro tentativo, che dovrebb’essere (nel loro concetto) d’emancipazione politica, con un atto di ingiustizia, di infamia sociale".
I rivoltosi si spinsero sino a dichiarare decaduto Carlo ed a promulgare la Repubblica, nominando un governo provvisorio.
Destava preoccupazione nel console la presenza a Tecuciŭ "di certo Rosetti, direttore del Romanulu, giornale dell'opposizione repubblicana, anzi anarchico, uomo che si dice molto istrutto, abilissimo, che si camuffa da Catone, ma che ha l'anima di Verre". Ma Berio riteneva privo di tradizioni in Romania un partito repubblicano: era secondo lui un termine appreso da pochi "nei clubs di Parigi e nelle conventicole di Londra", attraente perché insolito.81
Giudizio condiviso dal vice console italiano a Galatz, Zerboni, reggente il consolato in assenza di Berio: nel rapporto del 6 luglio 1870 riconosceva il discredito caduto su Carlo a seguito dei tumulti di Tecuciŭ; non era comunque da prendersi sul serio la proclamazione della Repubblica: essa "era una pianta esotica in questo paese, essa disseccherebbe prima
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ancora di toccare il suolo". Altre amarezze furono riservate a Carlo dall'esito del processo contro i rivoltosi, assolti tutti tra le grida di gioia del pubblico; l'assoluzione confermava i sentimenti ostili a Carlo ed al governo; l'avvocato difensore aveva sostenuto l'esistenza di un piano concepito dall'organizzazione ebraica di Parigi (chiaro riferimento all’ “Alliance Israélite Universelle”) per rovesciare il governo e favorire un'occupazione straniera: "più che arringhe di difesa erano un'accusa contro il governo che causò cinque richiami all'ordine per l'oratore e prolungate acclamazioni del pubblico, ugualmente avverso agli Ebrei ed al governo".
Per il vice console la sentenza era un insulto alla giustizia, poiché senza dubbio gli Ebrei erano stati "attaccati, battuti, spogliati, espulsi".82
Ma un nuovo e più grave tentativo repubblicano dopo quello di Tecuciŭ si verificò dopo poco a Ploiesti. I congiurati contavano su di una vittoria francese sulla Prussia, per cui di riflesso si sarebbe indebolita la posizione di Carlo e più facilmente si sarebbe riusciti a detronizzarlo. Si ebbe invece la vittoria prussiana, ma si diede comunque seguito al progetto di una rivoluzione repubblicana; il deputato Candiano fece arrestare il prefetto ed il capo della polizia a Ploiesti, dichiarò decaduto Carlo e proclamò la Repubblica, con il generale Nicolae Golescu presidente ed un governo provvisorio di cui facevano parte i capi del partito "rosso", Jon Bratianu e Constantin Rosetti. Carlo rimase particolarmente colpito dalla partecipazione di Bratianu e Golescu, tra i principali artefici della sua ascesa al trono nel 1866.
La neonata Repubblica fu presto soffocata dalle truppe inviate a Ploiesti dal governo rimasto fedele a Carlo; Candiano, noto per essere stato tra quelli che avevano sorpreso nel sonno Cuza, fu arrestato assieme al generale Golescu a Buzeo, Bratianu fu catturato a Pitesti; altri arresti di politici e militari, fra cui il colonnello Kretzulescu, furono eseguiti a Bucarest, mentre Rosetti riuscì a rifugiarsi in Italia. Fava nel suo rapporto giudicò serio il tentativo, affermando che soltanto la vittoria prussiana sulla Francia aveva salvato il trono di Carlo.83
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Il console italiano confermò tale giudizio nel suo rapporto del 30 ottobre 1870, con cui informava il Ministro del nuovo scacco subito da Carlo con l'assoluzione degli autori del tentativo repubblicano di Ploiesti, decisa il 29 ottobre dal tribunale di Tirgoviste, tra le ovazioni dei seguaci di Candiano e Bratianu, accorsi numerosi “per influenzare la stampa locale e rendere i giurati proclivi alla clemenza”.84
Anche l'Italia sembrò esser coinvolta nei fatti di Ploiesti. Il presidente del consiglio, Epureanu, chiese al console Fava di far perquisire a Venezia dalla polizia italiana la casa di un certo B. M. Carrara, per cercare la lettera di un commerciante di Bucarest, Ballianu, riguardante una congiura internazionale contro Carlo, cui Garibaldi avrebbe aderito. Fava ritenne opportuno soddisfare “in modo riservato” tale richiesta, anche perché la congiura internazionale contro Carlo sembrava essere confermata dalla lettera di un italiano residente a Bucarest, Bidischini, ad un altro italiano inviato a Costantinopoli per cercare non si sapeva bene quali appoggi per la rivoluzione in Romania.
La perquisizione della casa di Ballianu a Bucarest era però rimasta infruttuosa, nonostante le indicazioni dell'austriaco Inch, commesso di Ballianu; Epureanu però insisteva perché fosse perquisita a Venezia la casa del Carrara, ritenendo che non si era trovato nulla in casa di Ballianu perché questi aveva fatto sparire le lettere compromettenti.
Sul Bidischini Fava dava notizie nel rapporto del 7 settembre 1870, definendolo autore di “un disgustoso libello” intitolato “La question d'Orient”, pubblicato a Bucarest; aveva preso parte ai disordini organizzati a Giurgevu dai radicali e partecipato alla campagna elettorale facendo propaganda contro il governo. La polizia romena avrebbe voluto espellerlo, ma Fava si era opposto giudicando insufficienti le prove addotte contro di lui. Comunque la polizia aveva continuato a sorvegliarlo e gli aveva sequestrato alcune lettere dirette ad altri Italiani di Alessandria d'Egitto, comprovanti i suoi rapporti con l'ambasciatore russo presso la Porta, Ignatieff, e con l'agente diplomatico russo a Bucarest, d'Offenberg. Da queste lettere si era avuta l'impressione di un piano per una prossima invasione russa della Romania, secondo la polizia da collegarsi ai fatti di Ploiesti.
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A fil di logica, tali sospetti polizieschi non sembravano avere consistenza: la Russia, la Potenza autocratica per eccellenza, in combutta con estremisti repubblicani!
Epureanu, dopo il ritrovamento di queste lettere, tornò alla carica presso Fava, insistendo perché non si opponesse all'arresto di Bidischini e di un altro italiano, Pozzana. Di fronte alle insistenze del capo del governo Fava capitolò ed i due furono arrestati. Pozzana venne però liberato quasi subito per l'assoluta mancanza di prove a suo carico; Bidischini fu invece trattenuto, ma Trattato con ogni riguardo.
Fava comunicò a Visconti Venosta di essere disposto a chiedere la sua liberazione se anche per lui si fossero dimostrate inesistenti le prove a carico. E così fu: venute meno le accuse di partecipazione ad una congiura internazionale, la polizia, per salvare la faccia, trattenne ancora per qualche tempo Bidischini con l'accusa di vagabondaggio. Cadde nel vuoto anche quest'accusa, riconosciuta infondata dal tribunale, per cui Bidischini fu rilasciato, continuando però ad essere sorvegliato e venendo diffidato a lasciare entro 10 giorni la Romania. Fava si adoperò a suo favore, facendogli pure avere dal governo romeno un sussidio per le spese di viaggio. Tutto si dissolse come una bolla di sapone; caddero anche le accuse contro Ballianu, essendosi scoperto che il suo commesso Inch l'aveva denunciato per vendicarsi del licenziamento.
Infruttuose anche le ricerche a Venezia del Carrara, risultato sconosciuto. La polizia italiana, non meno diffidente della romena, era preoccupata per l'arrivo a Firenze “di certo C. A. Rosetti e del capitano Pilat che presero la fuga da Bucharest come implicati in una cospirazione”: una volta tanto non si trattava di fantomatiche accuse, in quanto Rosetti aveva veramente preso parte al tentativo insurrezionale di Ploiesti, facendo addirittura parte del governo repubblicano provvisorio.
La polizia italiana pensò che i due sospetti romeni avrebbero cercato di mettersi in contatto a Venezia con il Carrara fino ad allora inutilmente ricercato e predispose quindi un servizio di sorveglianza.
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Il contatto non avvenne ed ebbe così fine la girandola di sospetti sulla partecipazione di cittadini Italiani alla congiura contro Carlo.85
Vennero meno anche i sospetti di Epureanu, che tanto aveva insistito con Fava perché si investigasse su questa presunta partecipazione e si arrestassero gli elementi ritenuti pericolosi, come Bidischini e Pozzana.
Manuel Kostaki Epureanu aveva formato il suo governo nel maggio 1870, con il sostegno del partito della giovane destra, pur non essendo il premier membro di tale partito. Era stato più volte ministro sotto Cuza e Fava aveva stima di lui; giudicandolo uomo intelligente lo presentava in un suo rapporto come “animato da spirito liberale nella questione degli Ebrei, ed i giornali radicali lo disegnano già per l'uomo della Alleanza Israelitica”; concludeva il console: “I radicali di Rumania sono ebreofobi”.
La buona disposizione del governo verso gli Ebrei era confermata dal ministro degli Esteri Carp a Fava: il governo avrebbe Trattato la questione ebraica con “spirito di tolleranza e di civiltà”, revocando le circolari di Bratianu e di Kogalniceanu.86
In effetti fu emanata una circolare, secondo Carp concordata con i notabili israeliti di Bucarest, per cui il divieto di ingresso in Romania doveva essere opposto a quanti risultavano sprovvisti di mezzi di sussistenza, senza operare alcuna discriminazione religiosa. Fava trovava positiva tale disposizione, pur se si dimostrava scettico sulla sua effettiva attuazione, dicendosi “uso alle tergiversazioni orientali “.
La circolare fu vista con favore dal governo di Vienna: il cancelliere Beust incaricò l' agente di Romania in Austria, Steege, di congratularsi con il governo di Bucarest per quel tollerante provvedimento.87
Il pessimismo di Fava aveva però colto nel segno; la tregua durò poco e nel giro di qualche settimana si diffusero infatti voci allarmanti di torbidi antisemiti a Jassy ed a Botosani, in Moldavia.
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Epureanu e Carp cercarono di minimizzare l'accaduto, asserendo esserci stata soltanto una manifestazione dei liceali di Botosani, cui poi si era unita “la gente della strada”. I due ministri Romeni ammettevano però l'invio di un reparto di cavalleria a Botosani per mettere la situazione sotto controllo.
Ed Epureanu in privato si era lasciato andare con Fava ad ammettere le difficoltà della situazione; scriveva il console: “... a cuore aperto ha confessato che il paese è minato” e che le agitazioni verificatesi di continuo “or quà (sic) or là additano delle tendenze la di cui eloquente gravità non può essere dissimulata”.88
Ma le angustie del principe Carlo non venivano soltanto dal problema ebraico e dagli intrighi contro di lui orditi; era colpito anche nei suoi sentimenti più intimi.
Dopo aver rifiutato la proposta dello zar di sposare una principessa russa, con la promessa di ottenere in cambio vantaggi territoriali e addirittura l'indipendenza, il giovane Carlo, reduce da un viaggio a Vienna e Parigi, incontrò a Colonia il 12 ottobre 1869 la principessa Elisabetta de Wied, legata da antica amicizia con sua madre e le sue sorelle, conosciuta già nel 1861. La principessa era detta “Waldroschen” (rosa dei boschi) ed era destinata poi ad assumere un “nom de plume” altrettanto poetico, Carmen Sylva ( usignolo dei boschi), utilizzato per la sua copiosa attività letteraria.89
La principessa ci ha lasciato memoria dell'incontro con Carlo e della improvvisa proposta di matrimonio, comunicatale dalla madre, cui secondo l'etichetta ottocentesca si era rivolto il principe: “Il mio viso si compose a quell'espressione consueta con la quale pronunciavo “no”, che opponevo invariabilmente a domanda di tal genere, ma risposi solo: “così presto!”. Seguirono quattro settimane di fidanzamento trascorse in agitazione: “solo davanti all'altare, divenni perfettamente tranquilla e non tremai più”.90
Le nozze furono celebrate il 15 novembre 1869 ed a quel punto si manifestarono le complicazioni di quella che non poteva essere solo una storia d'amore, argomento di cronache rosa, ma doveva divenire un affare di Stato. Carlo era di religione cattolica mentre Elisabetta
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era luterana. La Chiesa di Roma non si opponeva ad un matrimonio con un coniuge di altra fede religiosa, ma prescriveva l'educazione cattolica per i futuri figli; il principe però nell'accettare il 22 maggio 1866 la corona dei Principati aveva giurato sulla Costituzione che imponeva per la prole l'educazione nella fede greco ortodossa: e già in quell'occasione Monsignor Pluym, vescovo cattolico ed amministratore apostolico della Valacchia,si era mostrato dispiaciuto.
Le esigenze della diplomazia spinsero in seguito il Papa Pio IX a congratularsi con Carlo per le sue nozze, come fecero tutti i capi di Stato; ma al tempo stesso il pontefice manifestò il suo rincrescimento per la fede luterana della sposa e per la prospettiva di una mancata educazione cattolica dei figli.
Le difficoltà con Roma vennero superate al momento delle nozze dalla disponibilità di un cappellano cattolico a celebrarle, sfidando le riserve della curia romana; la cerimonia fu poi ripetuta secondo il rito luterano ed in seguito entrambi i coniugi si convertirono alla Chiesa greco ortodossa.
Ad aumentare il disagio di Carlo si aggiunse poi la fredda accoglienza ricevuta all'arrivo in Romania; dispiacevano l'età non più giovanissima della sposa (aveva 26 anni, essendo nata nel 1843; all'epoca le principesse sposavano non ancora ventenni) e la sua appartenenza ad una famiglia nobile, ma non regnante.91
Altro motivo di difficoltà fu l'origine tedesca di Carlo, rimasto sempre legato alla madrepatria e destinato perciò a trovarsi in contrasto con il sentimento popolare, fedele alle origini latine. All'attaccamento di Carlo al suo paese d'origine corrispondeva poi la spregiudicatezza politica di Bismarck, interessato solo alla salvaguardia degli interessi prussiani senza tener conto di quelli romeni. Carlo si trovò quindi più volte ad essere accusato dai suoi avversari di favorire la Prussia a scapito della Romania, pur essendo abbandonato alla sua sorte dal cancelliere, incurante dell'illustre parentela del principe di Romania con il kaiser; più volte nelle manifestazioni contro Carlo echeggiò il grido “abbasso il tedesco”.
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In diverse occasioni, come la costruzione delle ferrovie, Carlo fu accusato di favorire gli interessi della Prussia piuttosto che quelli nazionali. La crisi per le violenze antisemite verificatasi all'inizio del 1872 era stata preceduta in Romania da un periodo di grandi tensioni causate appunto dalla stipula di un contratto con il finanziere prussiano Strusberg per la costruzione della rete ferroviaria romena. Per l'affidamento dell'incarico a Strusberg si schierarono su posizioni opposte il principe ed il governo, sorretto quest'ultimo dal Parlamento e dall'opinione pubblica; si determinò inoltre un grave contrasto fra Berlino e Bucarest ed il prestigio di Carlo fu ancor più compromesso.
La Romania era priva di infrastrutture,ideale terreno di caccia quindi per le società straniere interessate ad ottenere le commesse dei grandi lavori necessari per ammodernare il paese. La costruzione di una rete ferroviaria era l'affare più allettante e fu causa di un serio dissidio fra Carlo ed il suo governo.
Il sovrano sosteneva il progetto di Strusberg, osteggiato invece dall'opinione pubblica e di gran parte del Parlamento, convinti del danno che ne sarebbe venuto all'economia del paese “E' certamente grande sfortuna che il Principe Carlo siasi immischiato di questa facenda (sic), ed abbia appoggiato questa Compagnia, poiché se il progetto Prussiano viene approvato e messo in opera, il Paese sarà completamente ruinato ed al Principe darassi colpa”: era quanto scriveva il vice console Gloria il 20 marzo 1868, affermando poi che l'eventuale bocciatura del progetto da parte del Parlamento avrebbe mortificato il principe togliendogli “quel poco prestigio che gli resta”; riteneva quindi opportuno il proposito attribuito al governo di “lasciar cadere ogni cosa nell'oblio così facile ad ottenersi in Romania”; era infatti diffusa l'opinione che alla fine non si sarebbe deciso nulla.92
Nel programma del “nuovo partito libero ed indipendente solo e vero nazionale”, nato da una costola del partito “rosso”, oltre all'acceso antisemitismo figurava il rifiuto di concessioni ferroviarie ad imprese straniere; ma non esistevano imprese nazionali in grado di assumersi l'impegno di lavori tanto importanti e le ferrovie erano indispensabili per lo sviluppo sociale ed economico del paese. Il problema quindi non poteva essere eluso con rinvii all'infinito.
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Un concorrente del prussiano Strusberg, l'austriaco Offenhein, si fece avanti telegrafando al governo romeno di essere disposto a ridurre il prezzo per la costruzione di 1 km di ferrovia a 200.000 franchi dai 230.000 chiesti da Strusberg; chiedeva però di ottenere per il resto le stesse condizioni previste per il progetto della compagnia prussiana; con tale sconto si sarebbe avuto un risparmio di 60 milioni di franchi.
Carlo insisteva comunque per assegnare il lavoro a Strusberg; l'offerta di Offenhein fu presto ridimensionata, in quanto lo sconto offerto sarebbe stato soltanto di 10.000 franchi a chilometro, per cui il risparmio si sarebbe notevolmente ridotto. Impegnandosi in prima persona, Carlo si recò a Jassy per convincere i Moldavi, favorevoli al progetto austriaco, a scegliere invece quello prussiano; si approfondiva così il solco fra Carlo e la classe politica; anche gli antichi sostenitori gli si rivolgevano contro.93
Da parte sua Bratianu per mantenersi al potere ed ottenere la fiducia del Parlamento per il progetto ferroviario aveva bisogno dei voti del nuovo partito antisemita ed indugiava quindi a condannare nettamente il progetto di legge antisemita presentato da quella forza politica: si delineava così l'intreccio del problema ebraico con quello ferroviario, destinato a durare fin dopo il Congresso di Berlino del 1878.
Si coalizzavano frattanto contro Carlo ed il progetto di concessione ferroviaria da lui sostenuto i deputati di Bacau Negura, Lupascu e Lecca ed il deputato di Jassy Halbou, già ostili al principe ed al governo per la questione ebraica, arrivando a chiedere il deferimento al tribunale dei sostenitori della concessione a Strusberg.94
Faticosamente si avviò in Parlamento la discussione sulle strade ferrate; ai due progetti iniziali, il prussiano e l'austriaco, se n'era aggiunto un terzo della compagnia inglese Waring, appoggiato dal ministro dei lavori pubblici, Donici, perché più vantaggioso. Si opponeva però da parte di molti deputati una seria difficoltà: il progetto inglese non prevedeva anticipi da parte della compagnia e pertanto restava al governo romeno l'onere di finanziare interamente i
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lavori fin dal loro inizio. Per diminuire questo impegno economico gravante interamente sul governo, il deputato Kogalniceanu, a nome pure di altri deputati moldavi, propose di costruire per il momento solo il tronco Suceava-Jassy-Roman, in territorio moldavo, dove non esistevano ferrovie, mentre per la Valacchia era già stata disposta la costruzione della linea Bucarest-Giurgevu.
Il governo era disposto ad affidare ad Offenhein la costruzione del tronco moldavo, lasciando la costruzione delle altre linee a Strusberg, verso cui si era attenuata l'opposizione.
Gloria prevedeva il voto favorevole anche della destra e del partito antiebraico, conquistati dai doni offerti dai costruttori.95
Scartato il progetto Waring, essendosi ritenuto troppo oneroso per il governo dover fornire da solo dall'inizio dei lavori tutte le risorse necessarie, la Camera approvò alla fine i progetti di Strusberg e di Offenhein con 79 voti favorevoli e 28 contrari; ne dava notizia Gloria il 9 giugno 1868, prevedendo pure il voto favorevole del Senato, seppure con una maggioranza meno notevole.96
Per recuperare il tempo perduto a causa delle lunghe esitazioni prima di decidere, la Camera, accogliendo una proposta di Carlo, votò a larga maggioranza (contrari i conservatori ed il nuovo partito indipendente) una mozione per l'inizio dei lavori ancor prima dell'approvazione del Senato, di cui era prevedibile lo scioglimento se avesse votato contro; procedura discutibile, giudicata incostituzionale dal viceconsole italiano.97
Le elezioni del nuovo Senato assicurarono al governo la maggioranza anche in questo ramo del Parlamento e le Camere furono convocate per il 14 settembre 1868; la notizia della convocazione e l'esito delle elezioni per il Senato indussero Strusberg ad iniziare i lavori preliminari per la linea Galatz-Roman, fino ad allora rinviati in attesa dell'approvazione anche da parte della Camera alta; da parte sua Offenhein contava di terminare i lavori per la tratta Suceava-Roman contemporaneamente a quelli eseguiti da Strusberg, cioè entro 18 mesi; si trovava ad uno stadio più avanzato dei lavori la Bucarest-Giurgevu, di cui il vice console Gloria nel rapporto del 27 agosto 1868 prevedeva il completamento entro 8-9 mesi;98 in realtà ci volle più tempo e la linea fu aperta al pubblico il 29 dicembre 1869.99
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Dando prova di un decisionismo sprezzante delle lungaggini parlamentari (prima la costante mancanza del numero legale, poi le numerose interpellanze presentate avevano impedito al Senato di approvare la legge per le ferrovie), Carlo aveva autorizzato i lavori della linea Bucarest-Galatz, che univa la Valacchia alla Moldavia, ancor prima della definitiva approvazione della legge, attirandosi così le critiche di Gloria. Il Senato comunque non tardò oltre a pronunciarsi ed il 2 ottobre 1868 approvò quasi all'unanimità entrambe le concessioni: il vice console italiano trovava i progetti costosi, ma di grande utilità per il progresso economico del paese.100
Bratianu esprimeva al nuovo console italiano Fava la sua fiducia in un rapido completamento dei lavori;101 ma questi subirono un ritardo a causa della loro sospensione dovuta allo scoppio nel 1870 della guerra franco-prussiana; il ritardo compromise il prestigio prussiano in Romania, divenuta, secondo il console italiano a Galatz, Berio, una colonia economica del governo di Berlino.102
Restava sempre grande l'influenza politica di Bratianu, le cui ambizioni arrivavano però ancora più in alto.
Il suo rapporto con Carlo si era venuto logorando sia per le controversie legate alle concessioni ferroviarie, che avevano lasciato il segno anche se alla fine la vicenda si era conclusa; sia perché l'uomo politico non perdonava al principe di non averlo sostenuto sino in fondo contro la richiesta francese delle sue dimissioni da ministro dell'Interno, per le sue circolari contro gli Ebrei, anche se a breve distanza di tempo era stato richiamato al potere come ministro delle Finanze e successivamente era stato ancora risarcito con la nomina a presidente della Camera; ma Bratianu nutriva aspirazioni ancora più elevate e non esitò quindi a prender parte al tentativo rivoluzionario a sfondo repubblicano di Ploiesti nel 1870.
In un annesso cifrato al suo rapporto del 30 gennaio 1869 Fava aveva attribuito a Bratianu l'intenzione addirittura di sostituirsi a Carlo, come presidente della Repubblica, poiché le aspirazioni dei vari pretendenti al trono, i principi Ghika, Stirbey, Bibesco, si neutralizzavano a vicenda ed aveva chiesto conferma a Menabrea delle voci circolate a Parigi secondo le quali Carlo avrebbe avuto i giorni contati.
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Fava criticava poi nel rapporto la debolezza dimostrata da Carlo nei confronti del colonnello Kretzulescu, postosi alla testa di quanti avevano chiesto ed ottenuto il licenziamento della missione militare prussiana comandata dal colonnello Krenski. Carlo aveva ceduto e si era limitato a mettere l'indisciplinato colonnello nella riserva, anziché destituirlo.103
Erano difficili i rapporti del principe anche con Kogalniceanu,sospettato di aver favorito l'elezione di Cuza in Parlamento fornendogli l'appoggio del prefetto di Turnu-Severin. Gloria riteneva infondato questo sospetto ed attribuiva il successo dell'ex principe alle simpatie dei contadini, memori di quanto Cuza aveva fatto per loro imponendo l'approvazione della legge agraria. Il vice console italiano non riteneva però possibile un ritorno di Cuza sul trono, in quanto, tranne Kogalniceanu, erano contrari tutti gli uomini politici, troppo compromessi con Carlo, per altro da essi detestato. Lo scarso favore della classe politica per Carlo era dimostrato dalla difficoltà di trovare qualcuno disposto a formare il governo dopo la caduta di quello presieduto da Dimitrie Ghika; solo dopo molte esitazioni Golescu aveva finito per accettare.104
Di tali difficoltà approfittavano i seguaci di Kogalniceanu: “Mercè il vieto pretesto degli Israeliti, i mestatori ed i partigiani di Kogalniceanu sono riusciti a riprodurre mentre scrivo la stessa agitazione...”, annotava Gloria nel suo rapporto del 28 febbraio 1870.105
Quasi non bastassero queste difficoltà interne, vi si aggiunse il contrasto con il governo turco, irritato perché la zecca di Bucarest aveva coniato monete con l'effigie di Carlo, definito principe di Romania; espressione adottata al posto dell'altra “principe dei Romeni”, per non urtare l'Austria, poiché l'espressione poteva adombrare aspirazioni sulla Transilvania, in cui la maggioranza della popolazione era valacca.
Se furono con la più prudente definizione di “principe di Romania” evitate le difficoltà con Vienna, si ebbero invece le critiche del partito “rosso” per aver rinunciato al titolo più patriottico “principe dei Romeni”.106
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Fava si mostrava molto pessimista sulla sorte di Carlo, oggetto di dileggio assieme alla consorte; soltanto “la mancanza di un ardito condottiero - affermava il console - ritarda il desiderato colpo di mano, e se questo avvenisse sarebbe tutto a profitto dei radicali cioè della vagheggiata Repubblica Rumena”. Il governo appariva impotente ed occorreva, secondo il parere del console,1'intervento delle Potenze garanti, promesso dall'Italia, l'unica a non essere sospettata di nutrire secondi fini.
I governi di Parigi e Vienna consigliavano a Carlo di mantenere in vita il governo di Golescu, ma Fava lo riteneva poco energico ed auspicava la formazione di un governo più deciso nel contrastare i nostalgici di Cuza e “che rinviasse una Camera di luridi speculatori”.107
Il malumore della Porta per il conio delle monete con l'effigie di Carlo, giudicato da Fava un colpo di mano contro la “suzeraineté” turca, si accrebbe poi con l'istituzione da parte romena di un ordine cavalleresco, prerogativa tradizionalmente riservata agli Stati sovrani.108
Riferiva poi Fava su vaghi progetti di riforma costituzionale per dare al principe maggiori poteri; piano difficile da realizzarsi in quanto occorreva un uomo energico; ma, aggiungeva il console “questa idea è sorta e si fa strada nell'animo della principessa Elisabetta, la quale nutrendo minori illusioni di suo marito, sembra aver dato nel segno con una perspicacia ammirabile....”.109
Questa misura estrema sembrava necessaria a Fava perché Carlo, abbandonato dalle Potenze, era oggetto di una offensiva congiunta dei seguaci di Cuza e dei radicali del partito “rosso”.110
Carlo sembrava sul punto di arrendersi e di abdicare, rinunciando alla riforma costituzionale; l'incoraggiavano ad abbandonare il trono l'agente diplomatico prussiano e, vista l'indecisione del marito ad attuare la riforma della Costituzione, anche la principessa Elisabetta, stanca dei continui attacchi.111
Una via di salvezza sembrò aprirsi con il progetto del ministro degli Esteri, Vasile Boerescu, pubblicato sulla “Pressa”, per una Romania indipendente e neutrale.
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La proposta era stata già avanzata dal partito “rosso” di Jon Bratianu e Constantin Rosetti, indotti però dalle mutevoli esigenze della politica ad opporsi al progetto di Boerescu. Ergendosi a paladini dei diritti della Porta, i “rossi” affermarono che il piano era lesivo della “suzeraineté” turca e si mostrarono pure preoccupati per gli interessi della Francia: una Romania indipendente sotto un principe prussiano sarebbe stata per essa una catastrofe simile alla sconfitta subita nel 1870.
Carlo si dimostrò favorevole al piano di Boerescu, ritenendo l'indipendenza un rimedio per fronteggiare le sue difficoltà, in quanto essa avrebbe comportato la necessità di una revisione costituzionale basata su maggiori poteri del sovrano; per definire questo nuovo status internazionale della Romania il principe si proponeva di ricorrere ad una Conferenza delle Potenze garanti, firmatarie del Trattato di Parigi del 1856.112
Il principe si affrettò a parlarne a Fava, preannunciandogli una sua lettera personale a Vittorio Emanuele II per prospettare la possibilità di fare inserire la questione romena all'ordine del giorno della Conferenza in programma a Londra per rivedere le clausole fissate a Parigi nel 1855 per la neutralità del Mar Nero, come richiesto dalla Russia. Chiedeva un accordo del governo italiano con le altre Potenze garanti per un intervento sulla situazione romena, poiché non gli era più possibile regnare in una completa anarchia, esposto ai continui attacchi della stampa e del Parlamento.
Il contratto per le ferrovie stipulato con Strusberg, lamentava Carlo, gli fruttava “luride accuse in nome della patria spogliata dallo straniero”; se fosse stato costretto ad abdicare, la Romania avrebbe cessato di esistere. Carlo non rispose alla richiesta di Fava di chiarire quali iniziative fosse intenzionato a prendere; ma l'agente italiano riteneva fosse intenzione del principe chiedere alle Potenze di “imporre con passi energici ed identici al suo governo di finirla con la presente anarchia rintracciando ordinamenti politici più conformi ai bisogni del paese”.
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Fava obiettò non esserci in Romania un politico capace di realizzare quel programma; al che Carlo rispose potersi ricorrere anche ad un uomo politico straniero, senza dover effettuare un colpo di Stato cui si diceva contrario.
A conclusione del suo rapporto Fava esprimeva la convinzione sulla possibilità di una azione contraria a Carlo da parte di paesi che avevano mire sul territorio del basso Danubio e volevano mettere sul trono di Bucarest un loro candidato: era chiara l'allusione all'Austria ed alla Russia.113
La lettera di Carlo a Vittorio Emanuele II, datata 13 dicembre 1870, fu consegnata a Fava dal segretario del principe, Vogel, perché fosse trasmessa al sovrano italiano. La lettera esprimeva gli stessi concetti anticipati a Fava “....les institutions actuelles dans les principautés paralysent les efforts d'un gouvernement sérieux et l'on empèche ainsi de procurer au pays les précieux avantages d'une organisation rationelle et d'une administration regulière”.
Il principe aggiungeva di essere sino ad allora rimasto al suo posto per senso del dovere; ma se “la division des partis et les plus perfides menées” fossero continuate, avrebbe dovuto prendere una decisione per liberarsi completamente da ogni responsabilità.
Era un chiaro riferimento al proposito di abdicare; Carlo infine proponeva di porre all'ordine del giorno della Conferenza di Londra dedicata alla questione del Mar Nero il problema romeno per trovarvi una soluzione ed esprimeva fiducia nell'appoggio italiano a tale richiesta.
Nel suo incontro con Vogel Fava, come aveva già fatto con Carlo, chiese chiarimenti su cosa il principe si aspettasse dall'intervento delle Potenze; Vogel dopo qualche esitazione rispose, a titolo di confidenza personale, che il principe pensava alla formazione di una speciale commissione composta dagli agenti diplomatici accreditati a Bucarest, incaricati di imporre al governo romeno la fine dell'anarchia, se necessario ricorrendo anche ad un politico straniero; ricordava al riguardo il buon ricordo lasciato dal russo Kisselev come governatore dei Principati.
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Fava obiettò che Kisselev era stato governatore a causa dell'occupazione russa dei Principati; perentoria la risposta di Vogel: “.... se l'eventualità di un'occupazione dovesse verificarsi pel bene del paese, egli non ne vedeva gli inconvenienti”.
Il segretario di Carlo confermava infine l'estraneità di Carlo al piano di Boerescu, opera esclusivamente del ministro.114
Questa smentita non pose comunque fine ai sospetti sulla paternità del principe per il progetto pubblicato a firma di Boerescu; ne erano convinti gli ambasciatori presso la Porta, esprimendo la loro contrarietà. Nè ebbe maggior successo il discorso di Carlo alla Camera in cui confermava il rispetto della posizione internazionale della Romania e dei trattati vigenti; affermazioni che sembravano dimostrare il suo rifiuto del piano presentato da Boerescu.
Il persistente sospetto sull'avere ispirato Carlo il piano del ministro si univa al coro dei rifiuti della sua attuazione.115
L'ambasciatore britannico a Costantinopoli, Elliot, negò il suo appoggio al piano presso la Porta, anche se l'agente a Bucarest, Green, aveva promesso di parlarne all'ambasciatore, facendo intendere di essere stato autorizzato a farlo da Londra. L'agente della Prussia, Radovitz, si era invece detto subito contrario ed aveva accusato Carlo di avere agito con leggerezza rivolgendosi ai sovrani delle Potenze garanti. Il principe infatti aveva scritto, oltre che a Vittorio Emanuele II, a tutti gli altri capi di Stato; Radovitz rimproverava pure a Carlo la credulità dimostrata nel prestar fede “alle entrature che il signor Green si tolse l'incarico di fare presso il signor Elliot”.116
Carlo non si lasciava scoraggiare dai rifiuti e dalle critiche e continuava a sperare nell'appoggio dei governi delle Potenze garanti, meditando di far seguire alle lettere inviate ai sovrani un memorandum “sulla situazione precaria” della Romania e sui possibili rimedi; manifestava inoltre il proposito di abdicare se i sovrani non avessero risposto favorevolmente ai suoi appelli.117
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Fava attribuiva le voci di una partecipazione di Carlo al progetto di Boerescu ad una manovra dei nemici del principe, diffusa attraverso la stampa turca ed austriaca per screditarlo presto le Potenze.118
In realtà Carlo aveva agito maldestramente nel rivolgersi alle Potenze perché la Conferenza di Londra si occupasse pure della questione romena, anziché fare tramite l'agente a Costantinopoli appello al sultano, di cui aveva in tal modo destato il risentimento. La Porta aveva quindi dato disposizione al suo ambasciatore a Londra, Mussurus pascià, delegato a partecipare alla Conferenza, di abbandonarne i lavori se si fosse esaminata la situazione della Romania.
Nel comunicarlo a Visconti Venosta, il rappresentante italiano a Costantinopoli, Ulisse Barbolani, esprimeva il suo timore per un'eventuale abdicazione di Carlo, cui avrebbe potuto far seguito la proclamazione della Repubblica ed un intervento militare in Romania da parte delle Potenze confinanti.119
Il mancato appello al sultano da parte di Carlo dipendeva dalla scarsa fiducia del principe nell'agente di Romania a Costantinopoli, Sturdza, cui il principe non aveva voluto affidare quella delicata missione.
Aveva preferito quindi rivolgersi all'ambasciatore inglese Elliot perché facesse da tramite con il sultano; ma Elliot si rifiutò perché Carlo non aveva scritto pure al gran visir Alì pascià. Carlo si lamentò di tale rifiuto dell'ambasciatore inglese con Fava, pregandolo di far pervenire tramite Ulisse Barbolani la lettera per il sultano e quella per Alì pascià. Nel frattempo si era avuta l'accoglienza negativa dei sovrani alle lettere di Carlo e questi si limitò quindi ad inviare la lettera al gran visir, facendola recapitare da un corriere prussiano.120
Per rassicurare la Porta, Visconti Venosta comunicò a Photiades bey, ambasciatore turco in Italia, di non avere intenzione di far includere il problema romeno nell'ordine del giorno della Conferenza di Londra,come Carlo aveva chiesto.121
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Il gran visir ringraziò per questa amichevole risposta; ne diede notizia a Visconti Venosta Ulisse Barbolani, comunicando pure il biasimo per Carlo espresso da Ignatieff; l'ambasciatore russo inoltre non drammatizzava la situazione in cui sarebbe venuta a trovarsi la Romania, nel caso Carlo avesse realmente abdicato;per ristabilire l'ordine a suo parere sarebbe stato sufficiente inviare commissari delle Potenze in Romania, senza bisogno di ricorrere ad un intervento armato.122
Un'ambigua disponibilità per le richieste di Carlo era dimostrata dall'Austria: il cancelliere Beust dichiarava infatti all'incaricato d'affari italiano di non opporsi a modifiche della posizione internazionale della Romania, fingendo di non essersi reso conto delle aspirazioni all'indipendenza.123
Ulisse Barbolani smentì però la disponibilità austriaca, affermando essere ostili alle richieste del principe gli ambasciatori d’ Austria, Russia ed Inghilterra a Costantinopoli, oltre alla stessa Turchia. Fava nel suo rapporto dell'11 gennaio 1871 accusava addirittura il governo di Vienna di avere alterato il testo della lettera di Carlo per farlo apparire un avventuriero pronto a turbare la pace dell'Europa proprio nel corso della guerra franco-prussiana; dava pure notizia di un telegramma inviato da Bismarck a Carlo per esprimere la sua contrarietà all'invio delle lettere ai sovrani; il messaggio era però pervenuto a Bucarest in ritardo, quando le lettere erano ormai state spedite.124
Il governo austriaco coinvolgeva Bismarck nelle sue critiche a Carlo, accusando il cancelliere di giovarsi del principe per complicare la situazione politica europea; ma Bismarck, osservava Fava, non aveva alcun interesse per la Romania ed avrebbe anzi considerato l'eventuale abdicazione di Carlo utile a disimpegnare la Prussia dal ginepraio romeno.125
Fava non era il solo a pensarla in quel modo: Jules Favre, ministro degli Esteri francese, giudicava così i rapporti tra Bismarck e Carlo scrivendo a de Vogue, ambasciatore francese a Costantinopoli: “...la Prusse semble se soucier médiocrement de le maintenir sur le trône et l'on ne saurait douter qu'elle ne soit prête à le sacrifier au premier intérêt prussien qui pèsera sur ses résolution”.125bis
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L'insuccesso di Carlo era confermato dalla mancata risposta di molti sovrani alle sue lettere: soltanto Austria e Prussia gli avevano scritto, ma per manifestare la loro contrarietà.126
L'Inghilterra era sempre contraria a mutare l'equilibrio politico nell'Oriente europeo per non indebolire la Turchia, considerata un bastione contro la Russia; e questa da parte sua non voleva fosse trattata la questione romena nella Conferenza di Londra, considerandola un diversivo per distogliere l'attenzione dalla libertà di navigazione nel Mar Nero, il problema che l'aveva spinta a chiedere la convocazione di quella Conferenza per rivedere le clausole del Trattato di Parigi del 1856 relative al Mar Nero.127
Il governo italiano si era già espresso contro le richieste di Carlo con le assicurazioni fornite nel dicembre 1870 all'ambasciatore turco in Italia; seguì un dispaccio di Isacco Artom, segretario generale del ministero degli Affari Esteri, a Fava, per comunicargli la risposta di Vittorio Emanuele II a Carlo. Il sovrano italiano si defilava, asserendo di non poter prendere posizione poiché conosceva poco la situazione romena: “...S.M. il Re ed il suo governo -scriveva Artom - non potendo riconoscere la propria competenza a giudicare della situazione interna della Romania, debbono astenersi necessariamente non solo dal pronunciare un giudizio, ma anche dall' emettere un'opinione sull'indole e sull'efficacia dei rimedi che si dovrebbero introdurre nell'amministrazione interna di codesto Paese”. Il tono negativo della risposta veniva diplomaticamente addolcito dalla fiducia espressa nella capacità della Romania “di fortificarsi all'infuori di ogni influenza creata da competizioni straniere”. Ma l'affermazione era lusinghiera solo in apparenza, poiché costituiva un implicito rimprovero per avere sollecitato l'intervento straniero rivolto a Carlo, cui si rendeva un omaggio di maniera esprimendo la previsione di un superamento delle difficoltà “mercè la fermezza e la virtù del Principe, il senno e la prudenza del suo Governo”.128
Meno diplomaticamente vago e più aderente ai problemi della Romania era un successivo dispaccio di Artom a Fava: nel caso Carlo avesse abdicato, il diplomatico italiano prevedeva un ritorno, favorito dalla Turchia, alla situazione antecedente il Trattato di Parigi del 1856, cioè due Stati distinti per la Moldavia e la Valacchia. Soluzione questa accettata dall'Austria
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e non avversata dalla Russia. C’era pure da tener conto della tradizionale diffidenza britannica per l’unione dei Principati, sostenuta nel congresso di Parigi soltanto dalla Sardegna e dalla Francia e più tiepidamente da Russia e Prussia. Considerato l’indebolimento della Francia, sconfitta dalla Prussia e quindi per il momento incapace di prendere iniziative, l’Italia sarebbe rimasta isolata nel sostenere uno Stato unitario moldo-valacco. Fava quindi doveva far presente ai politici rumeni interessati a mantenere l’unione dei Principati le conseguenze pericolose per l’unità del paese derivanti dall’eventuale abdicazione del principe, convincendoli ad accettare i compromessi necessari per l’interesse della Romania.129
Artom tornava ancora sui rischi derivanti dall’abdicazione di Carlo in un successivo dispaccio, approvando la risposta positiva di Fava alla richiesta di Lascar Catargi di fare opera di convinzione perché il principe restasse sul trono: le sorti del paese altrimenti sarebbero state compromesse. Anche se si dimostrava scettico sull’efficacia dell’intervento di Fava su Carlo, Artom esortava comunque l’agente italiano ad adoperarsi in forma ufficiosa per convincere il principe a restare.130
Anche la Turchia si mostrava preoccupata da un eventuale abbandono di Carlo. Contrariamente alle previsioni di Artom, convinto della propensione della Porta alla fine dell’unione moldo-valacca, Aristarchi bey, ambasciatore turco a Berlino, comunicava a Bismarck la volontà del governo del sultano di mantenere Carlo sul trono di uno Stato unitario moldo-valacco: “Qu’arriverait–il, en effet, si le Prince abbandonerait la patrie? L’établissement a Bukarest d’une république rouge, taillée sur le meme patron qu’à Paris”.131
Anche Ulisse Barbolani attestava un riavvicinamento fra i governi di Bucarest e Costantinopoli; il gran visir aveva accolto benevolmente l’agente diplomatico romeno, Strat, latore di una lettera di Carlo per il sultano; la Porta temeva “le disastrose conseguenze” di una caduta del principe ed aveva deciso di dargli un appoggio morale.
Sarebbe stata preziosa per il governo romeno una pubblica dichiarazione del sultano favorevole alla Romania e sia Barbolani che il rappresentante prussiano a Costantinopoli avevano promesso a Strat di sollecitarla.132
Malgrado l’evasiva risposta ricevuta da Vittorio Emanuele II, il governo di Bucarest continuava a sperare in un appoggio italiano alle modifiche della Costituzione romena. Fava riteneva essere rivolto a tal fine il messaggio di congratulazioni per la proclamazione di Roma capitale d’Italia approvato dalla Camera romena il 5 febbraio 1871.
Era poco benevolo il commento del console italiano a quel messaggio: i Romeni “ridotti a non poter più contare sull’appoggio della Francia, si adoperano ora ad assicurarsi quello dell’Italia facendo appello alla pretesa comunanza di origine per muoverla a stender loro una mano che valga a salvarli dal naufragio”.
Con tono acido Fava affermava l’opportunità per l’Italia di ammonire i Romeni “ a riorganizzarsi, per assestare le loro finanze, a smettere le loro gare, a non conculcare il diritto delle genti e gli interessi degli stranieri e quindi degli Italiani qui dimoranti”, anziché “votare delle manifestazioni di natura equivoca”.
Ed il console concludeva condannando “la disordinata fantasia di certi sognatori politici che in questi giorni ebbero persino l’insania di pronunziare sommessamente il nome del duca di Genova quale successore desiderato del principe Carlo di Hohenzollern”.
In un successivo rapporto il console italiano ironizzava sul linguaggio, in realtà alquanto ampolloso, del messaggio della Camera romena per Roma capitale, aperto con queste altisonanti espressioni: “I Rumeni-Daci, sorti da una costola del popolo-Re, trapiantati dal divo Trajano a vigile custodia dei lontani confini del popolo romano...”.133
Il giudizio di Fava sulla natura interessata del messaggio della Camera romena era esplicitamente ed ingenuamente confermato dal deputato Jonescu, uno dei promotori dell’iniziativa: “… esprimendo i battiti del nostro cuore nel vedere sventolare sul Quirinale lo stendardo di Roma, avremo la protezione dell’Italia nei consigli dell’Europa dove essa siede”.134
L’ostilità di Fava al messaggio della Camera romena di congratulazioni per Roma capitale era pure dimostrata dalla sua riluttanza a trasmetterlo; si decise soltanto dopo aver ricevuto un telegramma favorevole all’invio da parte di Visconti Venosta, cui aveva domandato l’autorizzazione a farlo, e dopo la rinnovata richiesta di Lascar Catargi.134bis
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Ma il messaggio della Camera romena a quella italiana, contrariamente al parere del console italiano, non poteva considerarsi un goffo tentativo di ingraziarsi il governo italiano per averne l’appoggio; esso rientrava in una visione politica per cui la fine del dominio papale su Roma era da collegarsi ad un rivolgimento democratico su scala europea, rappresentato anche dalla proclamazione della Repubblica francese, dopo la caduta di Napoleone III.
Né l’iniziativa della Camera di Bucarest fu l’unico segno dell’attenzione e della simpatia dei Romeni per Roma capitale. Constantin A. Rosetti, in viaggio in Italia, aveva esaltato la presa di Roma da parte italiana con un telegramma al suo giornale “Romanul” inviato da Firenze il 20 settembre 1870, concludendo: “Vive l’Italia et la colonie Trajane”. Il telegramma fu pubblicato dal giornale sul numero del 21-22 settembre 1870, in cui apparve anche un editoriale dello stesso Rosetti, secondo il quale la proclamazione della Repubblica in Francia era l’evento storico che mutava l’equilibrio politico europeo e permetteva di realizzare “les aspirations si longtemps étouffées de la nation italienne” e grazie al quale “le génie de Trajan, notre grand aïeul, n’est plus captif dans les cellules du Vatican papal; du haut de l’antique Capitol il tendra sa main toute-puissante au dessus de sa fille du Danube”.
Traiano e la colonna raffigurante le sue imprese in Dacia erano oggetto di un culto religioso in Romania, diffuso anche presso le classi popolari; un oscuro contadino valacco della Transilvania, Badea Cîrţan, si recò in devoto pellegrinaggio a Roma, compiendo a piedi il viaggio dalla sua terra natia, per vedere la storica colonna.
E da questa colonna prese nome il giornale “Columna lui Trajan”, diretto da B. P. Hasdeu; questi in un articolo pubblicato nel febbraio 1871 considerava la presa di Roma un incoraggiamento per la Romania ed una speranza per tutto il mondo latino: l’Italia, affermava Hasdeu, era ormai divenuta “la stella polare della latinità”.
Altre voci si levarono dalla stampa di Bucarest a sostegno di Roma capitale. “Federaţiunea” il 20 ottobre 1870 commentò con simpatia la presa di Roma, esprimendo la speranza in una Repubblica italiana; speranza riaffermata in un articolo su “Albina” del 5 dicembre 1870, criticando l’ostilità francese verso l’Italia.
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Il giornale conservatore “Pressa” non faceva sue, naturalmente, queste speranze in una Repubblica italiana; ma in un articolo del 10 febbraio 1871 condannava a sua volta la politica di Thiers, avversa all’Italia, oltre a definire avventurista e ridicola l’offensiva dei cattolici contro il governo italiano.
Non mancarono però sulla stampa romena valutazioni negative dell’operato del governo italiano; “Columna lui Trajan” il 26 aprile 1871 pubblicò tre lettere di Jon Bratianu, spedite da Malta, Napoli e Firenze, in cui il politico romeno criticava la politica italiana in Sicilia, dove il governo non aveva saputo guadagnarsi le simpatie della popolazione.
Prevalevano comunque le attestazioni favorevoli all’Italia, non solo da parte di giornalisti e letterati rumeni, ma pure da semplici popolani.
Il viaggio di Cîrţan a Roma, ingenua espressione dell’animo popolare, non fu infatti l’unica testimonianza di fede in Roma e nella latinità o, più generalmente, di simpatia per l’Italia.
Passando dall’età classica ad avvenimenti più recenti, c’è da ricordare che le vicende del Risorgimento italiano non ispirarono soltanto un poeta come Vasile Alecsandri, autore di odi dedicate alle battaglie di Magenta, Palestra, Solferino ed all’esaltazione della sagacia politica di Cavour e del valore del “bersagliere morente”; un anonimo canto popolare descrisse infatti la durezza degli scontri avuti a Solferino, cui presero parte pure soldati valacchi della Transilvania, inquadrati nell’esercito austroungarico.
Schierati dalla parte opposta, a difesa degli ideali democratici e repubblicani, combatterono poi nella guerra franco-prussiana volontari rumeni, partecipando con i garibaldini alla battaglia di Digione sotto la guida del grande condottiero italiano, al grido di “viva la Repubblica, viva la Romania!”, come attestava il capitano romeno Titus Dunca in una lettera da Tours il 23 settembre 1870. 134ter
Nonostante le sue poco benevole considerazioni sul messaggio della Camera di Bucarest per Roma capitale e l’abituale disistima della classe politica romena, Fava ammetteva miglioramenti della situazione politica nei Principati, attribuendone la causa alla fermezza del governo di Lascar Catargi ed alla stanchezza del paese per le “passate aberrazioni” dovute, a suo parere, soprattutto al partito “rosso”, alfine indebolito e ridotto ad inconcludenti agitazioni: “… il partito demagogico, pel qual tutto è male quando non è esso padrone della situazione, si agita con sterili proteste”.135
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Sebbene la situazione fosse migliorata, Carlo persisteva nell’idea di abdicare; all’inizio del 1871 aveva progettato l’istituzione di una luogotenenza formata dalle stesse persone in carica nel 1866 dopo il colpo di Stato contro Cuza (Stefan Golescu, Lascar Catargi, Karambaki), costituendo un governo con Bratianu e Jon Ghika, al potere quando era salito al trono, al fine di neutralizzare gli aspiranti alla successione, il principe Bibesco e lo stesso Jon Ghika.136
Il divorzio politico tra Carlo ed il governo romeno era reso ancora più evidente dalla nomina di Balascianu, da lui voluta, ad agente diplomatico a Costantinopoli al posto di Sturdza , della cui fedeltà si era dimostrato poco sicuro, tanto da non affidargli l’incarico di far pervenire al sultano la lettera con cui proponeva di far discutere il problema romeno alla Conferenza di Londra.
Altrettanto diffidente si dimostrò però in seguito il principe nei confronti di Balascianu, incaricando Fava di comunicare al rappresentante italiano a Costantinopoli, Barbolani, che Balascianu rappresentava soltanto il governo romeno, le cui posizioni erano ben diverse dalle sue.137
Ma il documento più significativo della gravità del dissenso fra Carlo e la classe politica romena fu la lettera all’amico Auerbach, scritta nel dicembre 1870, contemporaneamente alle lettere rivolte ai sovrani delle Potenze garanti, resa nota nel gennaio 1871, quando apparve sulla “Allgemeine Ausburger Zeitung” , venendo ripresa dall’ “Indipendence Belge” del 29 dello stesso mese.
Vere destinatarie della lettera erano però l’opinione pubblica romena e quella internazionale. Senza usare mezzi termini Carlo accusava i politici rumeni, colpevoli di avere coltivato un’utopia pretendendo di importare in Romania idee e metodi politici appresi durante la loro formazione all’estero, poco consoni alla realtà di un paese passato di colpo da un regime dispotico ad uno ultraliberale, non adatto ad un popolo privo di educazione civica. Il principe dichiarava di avere fino ad allora sopportato, resistendo all’amarezza: ma ormai la misura era colma ed era pronto a rinunciare al trono se non fosse cambiata la situazione.
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La lettera fece sensazione: i “rossi” reclamarono ed ottennero un dibattito parlamentare sulle dichiarazioni di Carlo, mostrandosi indignati perché questi non l’aveva smentita, restando pure silenzioso il governo sulla autenticità della lettera.
Il presidente del consiglio, Jon Ghika, tentò un’imbarazzata difesa d’ufficio del principe, asserendo che aveva scritto la lettera in un momento di sconforto, non rispondendo essa al suo vero pensiero.
Il deputato radicale Blarenberg infierì contro Carlo, definendolo un disertore,un traditore disposto ad abbandonare il paese in preda a gravi difficoltà.
La mozione di biasimo di Blarenberg, presentata l’11 febbraio 1871, fu comunque respinta dalla Camera; fu approvata invece la mozione presentata da Kogalniceanu per confermare la devozione al principe, ma al tempo stesso la fedeltà alla Costituzione; era quindi implicitamente condannata la richiesta di Carlo per modificarla. Poco dopo, il 17 febbraio, il Senato discusse in termini più pacati la lettera di Carlo, confermandogli la devozione e differenziando la sua posizione rispetto a quella della Camera: si affermava infatti che le difficoltà provenivano proprio da quella Costituzione a cui la mozione di Kogalniceanu aveva confermato fedeltà.
La mozione approvata dal Senato fu violentemente criticata dai “rossi”; il loro giornale “Romanul” la considerò un attentato alla Costituzione ed un tradimento del paese.138
Il padre di Carlo, il principe Carlo Antonio, col telegramma inviatogli il 27 febbraio giudicava insostenibile la situazione ed ormai inevitabile abdicare. Lo sconfortante messaggio faceva seguito alla lettera di Bismarck inviata a Carlo da Versailles, dove il cancelliere si era recato a celebrare il suo trionfo sulla Francia, il 19 gennaio 1871. Il cancelliere aveva cancellato le residue speranze di Carlo in un aiuto straniero, comunicandogli freddamente di contare soltanto su se stesso.
Carlo, malgrado tutto, continuava a resistere perché prima di lasciare il trono voleva trovare una soluzione al grave problema del mancato pagamento delle cedole, maturate il 1° gennaio 1871, delle obbligazioni emesse nel 1868, sottoscritte soprattutto da risparmiatori tedeschi per la costruzione della rete ferroviaria affidata a Strusberg.
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Per costruire 970 km di linea (questa dalla frontiera ungherese attraversava la grande e piccola Valacchia ed arrivata in Moldavia si congiungeva al tronco Lemberg-Cernauti) erano stati raccolti 260 milioni di franchi assicurando ai sottoscritti un interesse del 7,5%, con la garanzia del governo romeno.
I maggiori investitori erano Prussiani, avendo essi sottoscritto per 200 milioni sul totale di 260; fra i sottoscrittori figuravano nomi illustri dell’aristocrazia, quali il principe di Hohenloe, il duca di Ratibor, il duca di Ujpest. Il controllo delle operazioni e la tutela degli interessi romeni erano stati affidati ad un commissario residente a Berlino, il suddito prussiano Ambron, accusato di aver tratto illeciti profitti dal suo incarico.
Strusberg, dichiarata l’impossibilità di far fronte al pagamento delle cedole, l’aveva scaricato sul governo romeno, garante dell’operazione finanziaria, mettendo in grave imbarazzo il principe, per le cui insistenze era stata affidata la commessa al finanziere prussiano, pur essendo svantaggiose le condizioni da lui fatte ed accettate perché per la Romania era indispensabile creare vie di comunicazione di cui era del tutto sprovvista; basti ricordare che per la pavimentazione delle vie di Bucarest fu preferito far arrivare dalla Scozia via mare le lastre di pietra necessarie, anziché prenderle dalle cave dei Carpazi.139
Della necessità di costruire una rete ferroviaria si era reso conto Carlo, tanto da insistere per crearne una più estesa di quella proposta dalle Camere, limitata ai tronchi Bucarest-Giurgevu in Valacchia e Itakeni (presso Suceava) – Roman in Moldavia.
Posto di fronte alla richiesta di Strusberg di addossarsi il pagamento delle cedole delle obbligazioni, il governo romeno eccepì che nel costo della costruzione della ferrovia, fissato in 270.000 franchi a chilometro (con una notevole lievitazione del prezzo iniziale di 230.000 franchi) era compreso il pagamento degli interessi per tutta la durata dei lavori e quindi null’altro poteva essergli richiesto. A questa interpretazione del contratto si opposero gli azionisti in quanto era stato sottoscritto dal commissario romeno Ambron con questa precisazione: “Le paiement exact et intégral des intérêts est garanti par le Gouvernement roumain” (“Il pagamento puntuale e integrale degli interessi è garantito dal Governo romeno”).
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L’agente prussiano a Bucarest, Radovitz, cercò la solidarietà dei colleghi; Fava gli promise di compiere passi ufficiosi presso il governo romeno e precisò a Visconti Venosta di non ritenere opportuno di farne ufficiali, poiché non vi erano Italiani fra i sottoscrittori del prestito; la stessa linea, comunicava Fava al ministero, era stata seguita dall’agente austriaco e dal britannico, pur essendo a rischio per un notevole ammontare interessi di loro connazionali. Ulteriore motivo di contrasto tra Strusberg ed il governo romeno era lo stato di avanzamento dei lavori: secondo il costruttore prussiano i lavori erano ultimati, ma in realtà il loro completamento non era stato realizzato.139bis
La permanenza di Carlo sul trono dipese non soltanto dei suoi personali scrupoli di lasciare irrisolto il problema ferroviario, ma anche dal monito del governo: abdicare in quella situazione sarebbe stata una indecorosa fuga. Il principe si trovò quindi stretto in una morsa: da una parte c’era l’assillante necessità di risolvere quello spinoso problema delle ferrovie prima di abdicare; dall’altra esisteva un’insostenibile situazione dati i continui attacchi rivoltigli dalla stampa con le insistenti accuse di aver causato la rovina economica del paese facendo assegnare i lavori della ferrovia a Strusberg. Occorre però ricordare che quella malaugurata assegnazione non dipese soltanto dalle pressioni di Carlo: Strusberg godeva di una grande reputazione di uomo d’affari esperto e fortunato140 ed inoltre la Prussia era allora all’avanguardia per le costruzioni ferroviarie.141
Esisteva pure il timore di rafforzare eccessivamente l’influenza dell’Austria nei Principati affidando i lavori della ferrovia esclusivamente alla compagnia austriaca di Offenheim. Si era pertanto deciso di frazionare l’affidamento dei lavori: ad Offenheim era toccato costruire la linea Lemberg-Cernovitz-Jassy, lunga 220 km; a Strusberg invece era stata assegnata la costruzione della linea di 970 chilometri, dalla frontiera ungherese fino alla Moldavia, dove si sarebbe congiunta con l’altro tronco affidato alla compagnia austriaca. Non si era potuta attuare la speranza del governo romeno di affidare i lavori ad una compagnia francese a causa del mancato appoggio di Napoleone III.
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Occorre pure ricordare che non fu soltanto Strusberg a dare cattiva prova di sé, costruendo male le linee ferroviarie e causando al governo romeno seri imbarazzi economici e politici; Offenheim eseguì infatti lavori difettosi, anche se il ministro delle Finanze romeno, Maurogheni, ne attestò la regolarità. Maurogheni fu poi coinvolto nel processo intentato a Vienna contro Offenheim per altre sue malefatte commesse in Austria ed in Romania fu accusato di aver ricevuto 300.000 franchi da Offenheim perché facesse accettare dal governo romeno i lavori male eseguiti; come spesso capita, la sua sopravvivenza politica non fu compromessa da questi infortuni giudiziari.141bis
Agli occhi di Bismarck, dei politici Rumeni e dell’opinione pubblica, sia tedesca che romena, Carlo restava comunque il principale responsabile delle disastrose conseguenze della commessa data a Strusberg.
Bismarck intervenne dunque con una sua dura lettera del marzo 1871, intimando a Carlo di pagare le cedole del prestito giunte a maturazione il 1° gennaio di quell’anno.
Per effettuare tale pagamento occorreva però che il bilancio dello Stato romeno venisse prima approvato dal Parlamento; l’approvazione era ritardata dalle esitazioni della Camera ad assumersi quel notevole onere e Carlo minacciava ancora una volta l’abdicazione se entro otto giorni non si fosse conclusa positivamente la discussione del bilancio, facendo partecipi di tale suo proposito gli agenti diplomatici nel corso di un’udienza collettiva loro concessa il 24 marzo 1871.
Fava riteneva contraddittoria tale intenzione rispetto al decreto di scioglimento della Camera, predisposto da Carlo perché aveva avuto sentore di una mozione del partito “rosso” per dichiarare vacante il trono nel caso in cui il principe avesse realmente abdicato.142
La situazione era ormai giunta al punto di rottura, essendo sopravvenuta un’ulteriore grave difficoltà, a causa di una violenta manifestazione antiprussiana, svoltasi a Bucarest il 22 marzo 1871, anniversario del compleanno del kaiser.
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Nel corso della guerra franco-prussiana la Romania aveva apertamente simpatizzato con la Francia; Carlo prudentemente si era astenuto dal prendere posizione, diviso tra l’attaccamento alla terra natia e l’esigenza di non urtare il sentimento popolare filo-francese; non era però riuscito a vincere l’avversione di quanti vedevano in lui il simbolo dell’odiata Prussia, rea di avere schiacciato la Francia tanto cara ai cuori romeni.
Si colse quindi l’occasione del banchetto organizzato dal console prussiano Radowitz per festeggiare l’anniversario di Guglielmo I con la partecipazione di tutta la comunità tedesca a Bucarest, riunita nella sala Slatineanu, per dare sfogo all’ostilità covata contro Carlo e la Prussia. Una fitta sassaiola fu scagliata contro la sala della festa, al grido di “Abbasso Carlo”, “Abbasso la Prussia”. Per cinque lunghe ore i cittadini tedeschi rimasero assediati dai dimostranti, senza che la polizia intervenisse.143
Si trattava della classica goccia che fece traboccare il classico vaso. Carlo ritenne responsabile del mancato tempestivo intervento della polizia il presidente del consiglio Jon Ghika, cui impose le dimissioni, e comunicò a Stefan Golescu e Lascar Catargi l’abbandono del trono.
I due uomini politici pregarono il principe di desistere da tale proposito, facendogli presente il caos in cui sarebbe sprofondato il paese. Carlo finì per cedere alla loro insistenza, ponendo però la condizione di una rapida approvazione del bilancio statale da parte della Camera e di una soluzione del problema delle ferrovie e del pagamento delle cedole ai proprietari delle obbligazioni.
Si tenne allora un’agitata riunione segreta della Camera, cui Catargi riferì le parole del principe.
La seduta della Camera proseguì pubblicamente, ma non si riuscì a trovare un accordo.
Catargi dichiarò a Carlo di essere disposto a formare un governo, purché fosse sciolta una Camera dimostratasi tanto riottosa. Carlo accettò la richiesta ed il 24 marzo si formò il nuovo governo di Lascar Catargi, con Costa-Foru ministro degli Esteri. Il partito “rosso”, forte della maggioranza di cui disponeva nella Camera, presentò una mozione di sfiducia contro il governo appena costituito ed a questo punto Catargi presentò il decreto di scioglimento già preparato d’intesa con il principe.
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Si svolsero quindi le elezioni per la Camera e per il consiglio municipale di Bucarest.
I conservatori ottennero un successo clamoroso: al consiglio municipale di Bucarest furono eletti solo i candidati governativi e Rosetti, scoraggiato, si recò a Parigi in volontario esilio. Nelle successive elezioni politiche i “rossi” ottennero soltanto sei deputati.
La sessione parlamentare si aprì il 4 giugno 1871; nel suo discorso di apertura Carlo esaltò l’ordine e la stabilità politica; e nel suo successivo discorso tenuto il 13 giugno in risposta al messaggio rivoltogli dai parlamentari, il principe adottò un linguaggio più duro, accusando una minoranza faziosa di profittare della libertà per creare disordini.
Lascar Catargi dimostrò senso della misura ed attaccamento ai principi liberali, non modificando la Costituzione in senso autoritario, come gli consigliavano alcuni suoi amici, tra cui erano gli ex ministri Epureanu e Carp; e come avrebbe gradito Carlo.
La quasi unanimità dei consensi di cui poteva disporre alla Camera non evitò a Catargi serie difficoltà. La Camera difatti respinse il progetto di legge del governo per il problema delle ferrovie e vi oppose un proprio progetto presto approvato, in base al quale si sarebbe dovuto svolgere un arbitrato per revocare la concessione a Strusberg e far subentrare alla sua impresa una società dei sottoscrittori del prestito, erede delle attività e passività della gestione del finanziere prussiano. Se i sottoscrittori non avessero costituito entro 30 giorni la società, lo Stato romeno avrebbe acquistato le obbligazioni fino al valore massimo di 245 milioni di franchi, riducendo gli interessi dal 7,50 al 5%.
Il console prussiano Radovitz si dichiarò subito contrario a questa legge e Carlo esitò a lungo prima di promulgarla, cedendo però alla fine alle insistenze del governo; non mancò comunque di tranquillizzare prima Radovitz affermando trattarsi di una legge provvisoria, semplice base di discussione per futuri provvedimenti.
Ma Bismarck non demordeva e chiedeva una piena e pronta soddisfazione degli interessi dei finanziatori tedeschi, facendo ricorso alla Porta. A questo ricorso, indubbiamente molto umiliante per la Romania, mortificata in tal modo nella sua dignità, fece opposizione l’agente romeno a Costantinopoli, Strat, sostenendo che l’articolo 22 del Trattato di Parigi, relativo alla
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sovranità turca sui Principati, su cui si basava il ricorso di Bismarck, non poteva applicarsi ad una questione finanziaria di diritto privato; né poteva riguardare la controversia nata dal mancato pagamento delle cedole l’articolo 27 dello stesso Trattato, in base al quale poteva intervenire il governo turco nelle questioni romene, poiché tale intervento era previsto solo in caso di grave turbamento dell’ordine pubblico, eventualità non verificatasi in questa occasione. Inoltre, faceva presente Strat, il governo dei Principati aveva già cercato di tutelare al massimo i proprietari delle obbligazioni, spinto da principi di equità e non da costrizioni straniere.
L’Austria interpose i suoi uffici per un accordo tra Romania e Germania e la Camera di Bucarest riprese l’esame del problema ferroviario, mentre sul giornale dei “rossi”, “Romanul”, imperversava una violenta campagna contro la Germania ed il principe tedesco, come Carlo fu definito da Dimitrie Bratianu in un articolo pubblicato l’8 dicembre 1871.
Alla fine del 1871 si ebbe una nuova approvazione della legge sul problema delle ferrovie e sul pagamento degli interessi sul prestito, passata alla Camera con 81 voti contro 49 ed al Senato con 31 sì e 6 no.
Gli attacchi al principe avevano frattanto acquistato uno sgradevole tono personale, venendo gli Hohenzollern accusati di essere direttamente interessati alla questione delle ferrovie e del prestito, avendoci speculato sopra.
Queste accuse indignarono Carlo, tanto più che analoghi attacchi per supposte speculazioni gli vennero mossi all’inizio del 1872, traendo spunto da una permuta effettuata dal principe di un terreno di sua proprietà con un altro cedutogli dall’Eforia di Sinaia, ritenuto più adatto per la costruzione del castello reale di Peles, grazie al quale quella località divenne un importante centro turistico; gli avversari di Carlo lo accusarono di aver ottenuto con quella permuta un terreno di valore molto più notevole di quello dato in cambio, per cui quell’operazione costituiva un furto simile a quello compiuto con la commessa data a Strusberg
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Ed ancora all’inizio del 1872 il tribunale di Bucarest inflisse un’umiliazione a Carlo, assolvendo gli imputati per la sommossa antitedesca del 22 marzo 1871. In questo caso però il principe non subì passivamente, come era accaduto per le altre assoluzioni per lui mortificanti; con un intervento autoritario il guardasigilli destituì il presidente della corte responsabile di quella assoluzione e ci fu un seguito polemico con le dimissioni date per protesta da molti magistrati.
La mediazione del governo austriaco per la tormentata vicenda delle ferrovie portò Bucarest ad avvicinarsi a Vienna, grazie anche all’avvento al ministero degli Esteri del conte Andrassy, meglio disposto verso la Romania del suo predecessore Beust. Carlo comunque cercò di migliorare i rapporti anche con Berlino, rivolgendosi a Bismarck perché si dimostrasse più comprensivo verso la Romania, in preda a tante difficoltà.
Poco incoraggiante la risposta del cancelliere: Bismarck assicurava la sua personale buona disposizione e quella del kaiser verso i Principati, ma affermava di dover tener conto dell’opinione pubblica indignata per il danno arrecato agli interessi tedeschi dalle disastrose vicende legate al prestito per la costruzione della rete ferroviaria in Romania.
Intervenne anche il padre di Carlo, il principe Carlo Antonio, ricordando le garanzie date dal governo romeno per convincere gli investitori tedeschi ad acquistare le obbligazioni del prestito ferroviario, stipulato per 99 anni con l’interesse del 7,50%; l’impegno andava onorato e Carlo doveva evitare di urtarsi con Bismarck.
Queste vicende si svolgevano all’inizio del 1872, proprio in concomitanza con le violenze antisemite di Ismail, Cahul, Vilcow, già ricordate; anche per questa ragione ci fu un duro attacco tedesco alla Romania; il kaiser inviò a Carlo una lettera personale, dicendosi costretto a prendere, seppure a malincuore, le parti degli Ebrei, le cui responsabilità erano risultate meno gravi di quelle inizialmente attribuite loro dal governo romeno.
Inoltre il Reichstag approvò la mozione presentata dal deputato Blamberg, per impegnare il governo tedesco ad intervenire presso quello romeno, onde evitare in futuro lo scatenarsi di nuove violenze contro gli Ebrei; i radicali del partito “rosso” romeno non mancarono di protestare contro questo voto del Parlamento tedesco, considerato un’indebita ingerenza nelle questioni interne romene.
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Di tali proteste non tenne però gran conto il console Fava, poiché assunse una posizione più decisa della precedente, non limitandosi più ad amichevoli e private osservazioni; a seguito delle istruzioni telegrafiche ricevute da Visconti Venosta per un intervento ufficiale sulla questione ferroviaria, resa più complicata dall’ostruzionismo di Strusberg all’arbitrato previsto per stabilire le condizioni della revoca della concessione e per impedire anche lo svolgimento dell’azione giudiziaria intentata in Prussia dal governo romeno.
Fava presentò quindi una nota ufficiale associandosi all’azione degli altri agenti diplomatici.
Il governo romeno a questo punto ruppe gli indugi e costituì una commissione di giuristi assegnandone la presidenza al chiacchierato ministro delle finanze Maurogheni, certo poco affidabile visto il suo precedente equivoco comportamento tenuto nell’accettare per buoni i difettosi lavori eseguiti da Offenheim.
La Commissione doveva regolare in sede giudiziaria la questione pendente con Strusberg e fu affidato a Costache Negri il compito di recarsi a Berlino per “intentare un’azione criminale al signor Strusberg dinanzi ai tribunali Prussiani per furto e scroccherie”; si era difatti misteriosamente dileguata una somma di circa 37 milioni di franchi, residua dopo le spese sostenute per i lavori della ferrovia.144
Strusberg continuò la sua azione di ostruzionismo; i suoi delegati disertarono ancora le sedute della Commissione arbitrale, per cui i delegati Romeni (un ingegnere inglese ed uno romeno) verificarono da soli lo stato dei lavori, secondo Strusberg completati, accertandone invece la mancata ultimazione e la cattiva esecuzione di quelli già fatti. Si calcolò pure l’entità degli interessi da liquidare per il prestito, insostenibile per le esauste finanze romene.
Consapevole di tali obiettive difficoltà, Fava ritenne opportuno non incalzare con decisione il governo romeno e non insistere troppo sui dolenti tasti della questione ebraica e di quella ferroviaria, per non dare all’opposizione argomenti per la sua propaganda nell’imminenza delle elezioni; anche il governo di Berlino concesse una tregua, dando al suo agente a Bucarest disposizione di non premere troppo in quel particolare momento.145
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Non dimostrava invece moderazione il console americano Peixotto nell’affrontare il problema ebraico, suscitando la riprovazione di Fava, che l’accusava di “invelenire una questione già largamente usata dai partiti… per l’interesse demagogico ed anti dinastico”. Bene avrebbe dunque fatto il governo di Washington concludeva Fava, “a consigliare a Peixotto di rinviare il suo intervento ad un momento più opportuno”.146
Il regolare svolgimento delle elezioni, senza gli imbrogli e le violenze verificatesi nelle precedenti occasioni, portò ad un miglioramento dei rapporti fra il Parlamento ed il principe, accolto, fatto senza precedenti, da calorosi applausi all’inaugurazione della nuova sessione parlamentare. Inoltre, notava Fava, il messaggio del principe e quelli di risposta sia della Camera che del Senato esprimevano gli stessi principi: rispetto dell’ordine, lotta all’anarchia, rispetto dei legami con la Porta, dare all’Europa garanzie “di saviezza e tranquillità”.147
Se ne rallegrava Fava ed attribuiva il merito di questa schiarita all’energia dimostrata dal governo di Lascar Catargi: inoltre il paese, stanco delle violenze, aveva portato in Parlamento uomini d’ordine, attenti ai reali problemi della Romania. Carlo non pensava più ad abdicare, anche se rimaneva il punto nero della irrisolta questione Strusberg.148
Questione destinata ad aggravarsi sempre più: era fallito il tentativo di sequestrare in Prussia i beni di Strusberg e dei suoi soci nella concessione delle ferrovie romene, né si era riuscito a portarli in tribunale. A seguito di tali insuccessi il governo romeno cercò di venire a patti con Strusberg, negoziando un nuovo accordo, per cui sarebbe avvenuto subito, e non dopo 99 anni, il passaggio allo Stato romeno della proprietà della rete ferroviaria e sarebbe rimasto a Strusberg l’obbligo di pagare gli interessi del prestito, ridotti al 5%.
Ma il tentativo non ebbe successo: Strusberg continuò a non pagare gli interessi, la Camera era riluttante ad approvare il tentativo di conciliazione proposto dal governo e Carlo premeva perché questo ponesse la questione di fiducia; la posizione del governo e del principe era resa critica dal dilemma se pagare ai sottoscrittori del prestito gli interessi, scontentando l’opinione pubblica romena; ovvero non pagarli, scontentando il governo tedesco.149
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Passò alla fine, sia alla Camera che al Senato, la proposta governativa del nuovo accordo con Strusberg, stipulato comunque a condizioni poco vantaggiose per i proprietari delle obbligazioni.
L’articolo 1 dichiarava rescisso il contratto precedente; l’articolo 2 stabiliva la presa in carico della rete ferroviaria da parte del governo romeno; l’articolo 4 prevedeva la formazione di una società dei sottoscrittori del prestito al posto della società di Strusberg; se i creditori non avessero costituito la loro società, gli articoli 5 e 6 stabilivano l’acquisizione della rete ferroviaria da parte del governo romeno, indennizzandoli in base ad una valutazione dei lavori eseguiti e del materiale esistente. Era questo l’aspetto meno gradito dai creditori per il timore di una valutazione non equa.
Carlo diede ascolto ai creditori malcontenti e non promulgò la legge e Catargi si dimise; Carlo non riuscì a trovare un personaggio disposto a formare un nuovo governo. Fava consigliò al principe di prender tempo per trovare una soluzione di compromesso, accettabile sia per i creditori che per il popolo, stanco delle “sordide speculazioni” di Strusberg.150
Alla fine Carlo dovette cedere e promulgò la legge: erano corse perfino voci di un colpo di Stato ordito dallo stesso governo per dichiararlo decaduto ed incombeva sempre la pressione di Bismarck; l’agente prussiano Radovitz dichiarava che il suo governo avrebbe agito senza tener conto dell’appartenenza di Carlo alla famiglia Hohenzollern, poiché gli interessi della nazione dovevano prevalere su quelli della famiglia reale.
I Romeni però non si preoccupavano troppo della minaccia prussiana, convinti che un intervento straniero sarebbe stato impedito dalle rivalità tra le Potenze; Fava non era dello stesso avviso e giudicava disperata la situazione della Romania ed inutili i suoi tentativi di resistenza.151
Pur dopo la promulgazione della legge restarono difficili i rapporti fra Carlo e Catargi. Bismarck , sempre implacabile, aveva notificato ad Austria e Francia il ricorso fatto alla Porta
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per imporre alla Romania una soluzione del problema ferroviario ed il gran visir aveva chiesto chiarimenti al governo romeno; Carlo pertanto volle scindere le sue responsabilità da quelle governative e scrisse in via confidenziale a Catargi di avere promulgato la legge sgradita al governo prussiano solo perché costretto dalle forti pressioni su di lui esercitate, riservandosi di rendere pubblico il fatto.152
In risposta alla richiesta di chiarimenti avanzata dal gran visir , il ministro degli Esteri romeno Costa-Foru inviò il 4 agosto 1871 una nota, analizzata da Fava nel suo rapporto a Visconti Venosta del successivo giorno 5.
Il console italiano riconosceva le responsabilità romene in tutta l’intricata questione delle ferrovie.
Il commissario romeno a Berlino, Ambron, non aveva impedito la cattiva esecuzione dei lavori e da ultimo non si era opposto al prelievo di circa 38 milioni di franchi residui, pur essendo suo compito controllare l’operato di Strusberg; di fronte ai creditori era quindi responsabile anche il governo di Bucarest per le inadempienze di Ambron, suo rappresentante.
Inoltre, la procedura dell’arbitraggio, voluta dalla Camera romena, non era prevista dalla Convenzione con Strusberg e ritardava notevolmente l’azione del governo di Bucarest. Costa-Foru assicurava che il suo governo non volevo certo arricchirsi defraudando i creditori, avendo anzi cercato di tutelarli con l’azione giudiziaria promossa contro Strusberg.
Il ministro accusava i creditori di non essersi associati a questa azione; ma, osservava Fava, se l’avessero fatto, avrebbero affidato al tribunale la tutela dei loro interessi e perduta la garanzia del governo romeno.153
Il comportamento di Bismarck irritava più che preoccupare il governo romeno, convinto che ad un eventuale atto di forza prussiano si sarebbero opposte le altre Potenze: l’Austria non l’avrebbe appoggiato per non rendersi impopolare nei Principati, a vantaggio dell’influenza della Russia; e questa si era già defilata, evitando di prendere posizione.
Se queste due Potenze fossero state solidali con le richieste prussiane, osservava Fava, la Romania sarebbe stata costretta a cedere; una rottura diplomatica con la Prussia avrebbe però indebolito ulteriormente la posizione di Carlo.154
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Le tiepide reazioni dell’Austria e della Russia al pressing diplomatico prussiano non tranquillizzavano però del tutto il governo romeno, in quanto i due governi non avevano dato riscontro alla nota inviata da Costa-Foru il 4 agosto alla Porta, pur essendo state messe a conoscenza dei chiarimenti dati con quella nota; quindi la Romania veniva a trovarsi isolata di fronte alla Prussia sempre ostile.
Berlino infatti non perse l’occasione per infliggere a Carlo un’altra umiliazione. L’agente diplomatico prussiano a Bucarest, Radowitz, aveva rappresentato fino ad allora la Confederazione germanica del Nord, ma, dopo l’esito vittorioso della guerra contro la Francia, il suo titolo fu mutato in quello di agente dell’Impero germanico.
Si rese pertanto necessaria la presentazione di nuove credenziali a Carlo e Bismarck pretese che vi fosse unito il “bérat”, cioè il gradimento del sultano; non si trattava di una semplice sottigliezza del cerimoniale diplomatico, poiché la procedura era umiliante per Carlo, ricordandogli la dipendenza dalla Porta.
Quella pratica non era mai stata formalmente abolita; ma dopo l’avvento di Carlo al trono, nessuna Potenza, compresa la Prussia, vi aveva fatto ricorso. Quasi ciò non bastasse, Bismarck aveva fatto pervenire alla Porta la nota di Costa-Foru del 4 agosto 1871, inviatagli per conoscenza, affermando che il governo romeno a causa della sua dipendenza dalla Turchia non poteva corrispondere direttamente con gli altri governi. La Porta, imbarazzata, non si pronunciò, poichè in numerose occasioni precedenti il governo di Bucarest aveva avuto rapporti diretti con gli altri paesi.155
Le cose si complicarono per il governo di Berlino perché il tono delle nuove credenziali era molto amichevole, addirittura lusinghiero per Carlo, in quanto erano state preparate con notevole anticipo fin dal maggio 1871; il tono era poco adatto quindi dopo il peggioramento dei rapporti fra i due paesi; fu perciò data disposizione a Radowitz di ritardarne la presentazione fino all’invio di un nuovo testo più adatto alla situazione del momento.
Agendo in modo provocatorio, Costa-Foru fece allora pubblicare sull’ufficioso “Journal de Bucharest” le precedenti credenziali presentate da Radowitz in qualità di agente della Confederazione germanica del Nord, esasperando così il rappresentante prussiano.
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La questione rimase in sospeso, a seguito del trasferimento di Radowitz a Costantinopoli come incaricato d’affari; la rappresentanza a Bucarest fu affidata ad un reggente, il vice console Thielau, venendo così aggirato il problema della presentazione di nuove credenziali.156
Restava invece sempre aperto il problema delle ferrovie e ci fu un coro di raccomandazioni da parte degli agenti diplomatici stranieri, cui si unì il rappresentante della Romania presso la Porta, Strat, perché il governo romeno chiudesse alfine la spinosa vertenza. Un’ennesima discussione si svolse quindi alla Camera romena, cui una speciale commissione presentò un nuovo progetto di legge approvato da sei dei suoi sette componenti. La nuova proposta ricalcava in parte la precedente legge: era decisa la rescissione della Convenzione con Strusberg; il completamento dei lavori era affidato ad una società da costituirsi da parte dei sottoscrittori delle obbligazioni, erede delle attività e della passività, dei diritti e dei doveri di Strusberg.
Questa nuova società sarebbe entrata in possesso delle linee ultimate e di quelle in costruzione, dei fabbricati e di tutto il materiale esistente e doveva impegnarsi ad ultimare i lavori entro il 30 giugno 1872. Entro tre anni dalla promulgazione della legge i ponti ed i viadotti provvisori costruiti in legno dovevano essere sostituiti da strutture definitive in ferro. C’era poi la novità dell’impegno del governo romeno a pagare gli interessi per le cedole maturate il 1° gennaio 1872 nella misura di 4.760.000 franchi ed a pagare lo stesso importo per la scadenza del 1° luglio 1872.
Il governo romeno si riservava la possibilità di affidare ad altri il completamento dei lavori, se la società dei sottoscrittori del prestito non avesse rispettato i termini previsti.
In alternativa all’affidamento dei lavori residui al consorzio dei creditori, era prevista la conversione dei due terzi delle obbligazioni (per un valore cioè di 163.440.000 franchi sui 245.160.000 sottoscritti) in titoli di Stato Rumeni, all’interesse del 5%.157
Il 2 gennaio 1872 la legge fu approvata dalla Camera con 75 voti contro 48; il rappresentante prussiano, il viceconsole Thielau, dichiarò subito che essa non poteva soddisfare i creditori; l’iter della legge poi era ancora lontano dalla conclusione, in quanto occorreva attendere l’esito del voto al Senato e le decisioni dell’assemblea dei creditori, fissata per il 26 gennaio.
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Il Senato “con amichevole prontezza”, secondo l’espressione usata dal vice console italiano Gloria, approvò a sua volta la legge il 4 gennaio 1872, e seguì il 12 dello stesso mese la promulgazione da parte di Carlo. Gloria riteneva preferibile liquidare i creditori convertendo i due terzi delle obbligazioni in titoli di Stato anziché affidare loro la prosecuzione dei lavori: era meglio, affermava con pittoresca immagine il diplomatico italiano, “cavarseli per sempre dai piedi, invece di dover vivere con essi pendenti 90 anni come due cani ringhiosi che si credono un dell’altro derubati di un osso stato preso da un terzo”.158
Ma l’assemblea dei creditori decise invece di assumersi l’impegno di ultimare i lavori, anziché accettare la liquidazione basata sulla conversione in titoli di Stato dei due terzi della somma sottoscritta.
Questa soluzione non pose però fine al contenzioso romeno-prussiano, destinato a trascinarsi ancora per anni, complicando i rapporti fra i due paesi.
Le nuove gravi difficoltà nate dai tumulti antisemiti del gennaio 1872 a Ismail, Cahul e Wilcov si intrecciarono con quelle suscitate da questo pomo della discordia rappresentato dal problema delle ferrovie; l’azione di Bismarck era spiaciuta a Bucarest soprattutto perché mortificava le aspirazioni nazionali della Romania, facendo risaltare in modo pesante il persistente vincolo di dipendenza dalla Turchia.
Obiettivo principale dei politici Rumeni fu quindi l’affermazione di una totale indipendenza, da realizzarsi in ogni modo.
Fu pertanto salutata con soddisfazione l’apertura di un’agenzia diplomatica romena a Berlino, seppure a carattere ufficioso, ottenuta da una missione diplomatica affidata al ministro delle finanze, Maurogheni, nel maggio 1872. Fu nominato agente Teodoro Rosetti, residente da tre anni nella capitale tedesca dove aveva saputo abilmente mantenere buoni rapporti, malgrado gli accesi contrasti suscitati dal problema delle ferrovie.159
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A questa schiarita nei rapporti con la Prussia corrispose un incidente con l’Italia, archiviato però con facilità, nato da un articolo pubblicato il 6 luglio 1872 sul giornale di Bucarest “L’Alliance Latino-Slave”, fondato e diretto da Gheorghe Ballianu, definito da Fava un libellista indegno di qualsiasi considerazione.
L’articolo anonimo aveva il titolo “L’Italie, la France et la Conféderation Latine”; attaccava con violenza Vittorio Emanuele II accusato di tradire la latinità appoggiandosi alla Germania contro la Francia, e auspicava un rinnovamento della vita politica italiana ad opera di Ricasoli o di Rattazzi, se Garibaldi perseverava nel suo volontario esilio a Caprera.
Il giornale non era nuovo ad attacchi al re d’Italia; già il 12 marzo 1872 aveva pubblicato l’articolo di un professore francese insegnante in un ginnasio di Bucarest, Robin, dal titolo “La Dinastye de Savoie est elle le dernier mot de l’Italie?” (“La dinastia Savoia è l’ultima parola dell’Italia ?”), in cui rivolgeva a Vittorio Emanuele II l’accusa, ripresa poi nel successivo articolo pubblicato a luglio, di trescare con l’Austria e la Germania ai danni della Francia. Si imputava pure al re la responsabilità della grave situazione economica italiana e si pronosticava, nel caso non si fosse realizzata una confederazione latina, l’avvento della Repubblica in Italia con Garibaldi presidente e vicepresidente Enrico Amante, redattore del giornale “Conféderation Latine”.
Nell’inviare a Visconti Venosta copia dell’articolo del mese di marzo, il vice console Gloria non gli aveva dato molto peso poiché il giornale non aveva una larga diffusione, ma temeva un’attività divulgativa dei radicali francesi. Ballianu era stato presentato da Gloria come un megalomane, che aspirava addirittura al trono di Romania diffondendo proclami con il nome “Giorgio I”.
In occasione del secondo articolo pubblicato in luglio Fava concordava nel giudizio dato da Gloria su Ballianu; ma non lasciò correre e se ne lamentò in privato con Lascar Catargi, senza però sollecitare provvedimenti contro il giornale e il suo direttore.
Catargi si disse indignato ed agì con energia, facendo arrestare Ballianu e cessare la pubblicazione del giornale.
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Isacco Artom approvò la condotta di Fava perché si era limitato ad una segnalazione senza chiedere provvedimenti punitivi ed espresse gratitudine a Catargi per la sua spontanea ed energica azione nei confronti di Ballianu. Artom raccomandò inoltre al gabinetto particolare del re di non prendere in considerazione un’eventuale domanda di grazia da parte del giornalista romeno, definito un “volgare intrigante” condannato per spontanea iniziativa del governo romeno, essendosi Fava mantenuto estraneo.160
Si trattò di un fatto minore di cronaca, di ben scarsa importanza, ma il governo romeno gli dedicò un pronto interesse, desideroso di evitare ogni possibile complicazione con l'Italia sul cui appoggio contava molto.
A questa speranza romena si oppose da parte italiana un cauto riserbo o addirittura una deludente freddezza, Non fu infatti data risposta alla richiesta avanzata da Bucarest nel 1870 perché fosse riconosciuto ed usato il nome “Romania” al posto di “Principati Uniti di Moldavia e Valacchia”; non fu accolta la proposta di Carlo di includere il problema romeno nell'ordine del giorno della Conferenza di Londra per la revisione delle clausole del Trattato di Parigi del 1856 relative alla navigazione nel Mar Nero; non si erano appoggiate le rivendicazioni della Romania sulla Transilvania, consigliando al governo di Bucarest di mantenere un basso profilo su tale argomento e dando al delegato italiano alla Conferenza di Londra, Carlo Cadorna, istruzioni perché desse tale suggerimento,
Inoltre, su di un argomento di vitale interesse per la Romania, la stipula di un Trattato commerciale, il governo italiano assunse un atteggiamento di attesa, opponendo l'interesse prioritario italiano a firmare trattati con gli stati più vicini e con i quali esistevano rapporti economici più importanti, come Artom scriveva a Fava il 3 dicembre 1873, facendo pure presente l'opportunità per l'Italia di agire d'intesa con le altre Potenze,
Artom faceva poi presente in un annesso cifrato la contrarietà delle grandi Potenze all'aspirazione romena ad affrancarsi dalla dipendenza dalla Porta mediante trattati commerciali comprovanti il suo autonomo potere negoziale, prerogativa degli Stati indipendenti. Bismarck aveva frenato queste aspirazioni di Carlo e su tale linea concordavano gli altri governi: “La Russie et l'Autriche seraient d'accord avec l'Allemagne parce que rien ne soit changé à l’état des choses actuel”.161
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Anche il governo italiano non voleva riaprire la questione d'Oriente, compromettendo un equilibrio politico faticosamente raggiunto. Senza usare mezzi termini lo dichiarava Visconti Venosta all'agente diplomatico romeno a Roma, Esarcu, nel febbraio 1874; e sempre Visconti Venosta dichiarava al successore di Esarcu, Cantacuzeno, nell'agosto 1875 di riconoscere la necessità di intrattenere proficue relazioni commerciali con la Romania, senza però sollevare spinose questioni di principio: “Nous sommes donc tout disposés à entrer en rapport pour traiter, sans pour cela soulever la question de droit, parce que je ne vois pas là une question politique, mais purement et simplement une question économique et d'intérêt local”.
Il ministro italiano aggiungeva poi di non potere al momento stabilire un accordo con la Romania “parce que nous aurions l'air de jeter un défi par une mesure interprétative”.
Anche il governo austriaco tendeva a sminuire il significato politico del Trattato commerciale stipulato con la Romania nello stesso anno 1875, assicurando alla Turchia che esso non avrebbe compromesso la “suzeraineté” della Porta sui Principati.162
Ma in realtà il governo di Bucarest già aveva direttamente stipulato accordi: nel 1860 la Convenzione telegrafica con la Russia, ratificata nel 1862; un analogo accordo con l'Austria era stato firmato nel 1862; successivamente, nel 1865, c'erano state una Convenzione postale con la Turchia ed una telegrafica con la Serbia; sempre nel 1865 Bucarest aveva aderito alla Convenzione telegrafica internazionale di Parigi ed a quelle successive di Vienna (1868) e Roma (1872); con la Serbia e l'Austria nel 1865 c'erano stati accordi per l'estradizione.
Nonostante questi numerosi precedenti, la prudenza italiana si spinse fino a rifiutare la stipula di una Convenzione postale con la Romania.
Inutilmente Fava aveva insistito con Visconti Venosta sull'interesse italiano a stabilire un accordo commerciale italo-romeno, per il quale Austria, Germania e Russia già trattavano. Il ministro replicò esser sufficiente rifarsi al Trattato commerciale stipulato nel 1862 con la Turchia, valido anche per i Principati essendo questi sottoposti alla sovranità turca; faceva pure presente che gli altri governi trattavano con la Romania perché avevano nell'area
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danubiana interessi maggiori di quelli Italiani e volevano quindi profittare delle condizioni più favorevoli stabilite dal governo di Bucarest rispetto a quelle praticate dalla Turchia, sorvolando comunque per il momento sulla questione del diritto della Romania a trattare direttamente; su tale problema i governi interessati avevano iniziato consultazioni in cui l'Italia non era stata coinvolta. Il governo italiano seguiva con interesse quelle consultazioni, in attesa di un chiarimento utile per eliminare ogni incertezza politica.163
Il console Fava non era l'unico a premere per la stipula di un accordo commerciale italo-romeno; si schierava decisamente a favore anche l'ingegnere Edoardo Gioia, già collaboratore di Lesseps a Suez, nella sua lettera aperta al presidente del consiglio Marco Minghetti. Gioia conosceva bene la Romania, dove su richiesta del principe Carlo si era recato per esaminare i problemi dell'irrigazione nell'agricoltura,
L'ingegnere italiano sosteneva anzitutto il buon diritto romeno a stipulare direttamente accordi con gli altri paesi; la definizione dei Principati quale parte integrante dell'Impero turco non si trovava infatti nelle antiche capitolazioni stipulate da Moldavia e Valacchia con la Porta e confermate dal Trattato di Parigi del 1856; quindi non potevano essere regolati i rapporti con la Romania dai Trattati sottoscritti con la Turchia. Difatti la stessa Porta, oltre che le maggiori Potenze, accettava le tariffe doganali stabilite dal governo di Bucarest, al quale nel gennaio 1870 si erano rivolti i consoli d'Austria, Francia e Gran Bretagna perché fosse ridotta al 2% la tassa di importazione dei prodotti stranieri; e nel 1873 il governo romeno aveva vietato l'importazione dei vini Turchi.
L'articolo 23 del Trattato di Parigi aveva riconosciuto ai Principati Uniti piena libertà di culto, di legislazione, di commercio e di navigazione; l'articolo 93 della Costituzione romena del luglio 1866 riconosceva al principe la facoltà di stipulare accordi di commercio e di navigazione, come era ben noto alla Porta nel rilasciare nell'ottobre 1866 il firmano di investitura per Carlo.
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Lo Statuto di Cuza del 1864 era stato accettato dalla Porta e nell'atto aggiuntivo alla Convenzione di Parigi del 1858 era riconosciuta ai Principati Uniti la facoltà di modificare la Carta costituzionale.
Carta ispirata al principio della libertà di culto, anche se l'articolo 21 definiva “predominante” la religione greco-ortodossa (analogamente lo Statuto di Carlo Alberto aveva riconosciuto “predominante” la religione cattolica),
A questo punto Gioia ammetteva l'esistenza di una questione ebraica in Romania, ma, colorando troppo di rosa la situazione, affermava la necessità di riconoscere “que les Israélites eux même rendent hommage à l'ésprit d'équité et à la bonne volonté du Prince, et que la question est entrée dans une voie d'apaisement qui permet d'ésperer une juste solution, d'autant plus qu'en aucun siècle il n'y eut d'intolérance en Roumanie même chez le clergé”. Si erano imposte restrizioni agli Ebrei solo per timore “de leur exuberante activité” e non per un preconcetto antisemita. Era quindi prevedibile l'emancipazione degli Ebrei ad opera degli stessi Romeni, come era già avvenuto per gli Zingari liberati dalla schiavitù e per i contadini affrancati dalle oppressive “corvées”.
L'istituzione di una rete diplomatica stabilita dalla Romania, malgrado l'opposizione turca, confermava il riconoscimento dell'individualità nazionale e statale dei Principati da parte delle Potenze; si erano create agenzie diplomatiche dapprima a Vienna e Parigi (la seconda competente anche per la Gran Bretagna); erano seguite, a partire dal 1873, rappresentanze diplomatiche romene a Berlino, Roma, San Pietroburgo, Belgrado (quest'ultima competente pure per la Serbia ed il Montenegro),
Già il Regolamento organico voluto da Kisselev aveva affermato il diritto della Moldavia e della Valacchia ad un'azione autonoma nel campo commerciale, come era ormai generalmente riconosciuto; Gioia concordava con Fava nel ritenere interesse comune dell'Italia e della Romania stipulare un Trattato commerciale; riprova dell'indipendenza della seconda ed occasione per la prima di trovare più facilmente uno sbocco alla propria emigrazione nella zona danubiana, anche se l'articolo tre della Costituzione romena del 1866 vietava la formazione di colonie agricole straniere.
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Ma, secondo una diffusa interpretazione, tale divieto non si poteva applicare per i popoli latini, per quello italiano in particolare. In contrasto con tale interpretazione, sulla “Revue des Deux Mondes” del 15 marzo 1875 Charles Vogel sosteneva invece nel suo articolo “Le nouvel état roumain” che erano preferite le colonie formate da Serbi e Bulgari, in quanto di fede greco-ortodossa come i Romeni, anziché quelle tedesche, svizzere o italiane, che pure sarebbero state preferibili per le loro migliori capacità.
L'emigrazione italiana in Romania era preferibile a quella nei lontani paesi del Sudamerica ed avrebbe assicurato alla nazione danubiana la manodopera qualificata necessaria al suo sviluppo.
Gioia infine raccomandava di non ignorare i rischi di una espansione russa e di non trascurare le aspirazioni all'indipendenza dei paesi dell'Europa orientale, sottolineando però la necessità di “mettre en garde ces populations contre de trompeuses illusions et de funestes impatiences”.164
Sulle possibilità offerte dalla Romania per l'emigrazione e per la formazione di colonie agricole italiane sin dal 1858 si era soffermato Marco Antonio Canini, ma il piano era fallito, come ricordava con disappunto molti anni dopo, nel 1884, lo stesso autore: “quel progetto, benissimo accolto dal popolo rumâno allora fallì per cagione dell'indifferenza del governo italiano e della coperta ostilità del rumâno, che aveva bisogno di assicurarsi l'Austria nella questione degli Ebrei”.
Canini sottolineava la necessità di inviare in Romania non avvocati, ma tecnici come medici ed ingegneri, ricordando i progetti di irrigazione di Edoardo Gioia; sarebbero pure stati utili professori per l'insegnamento dell'italiano nelle scuole superiori romene; in regime di reciprocità, l'autore raccomandava lo studio del romeno in Italia, utile per il personale diplomatico e per alimentare le mutue simpatie fra i due popoli. Ricordava quindi l'autore che la sua amicizia per la Romania non era mai venuta meno, anche quando, per servire la giusta causa degli Israeliti, spiacqui ad alcuni Rumâni, traviati da un male inteso interesse nazionale”.165
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E la questione ebraica continuava ad essere perenne fonte di complicazioni per la Romania, interferendo nelle trattative per gli accordi commerciali; ad essa faceva appunto riferimento l'agente diplomatico della Romania a Roma, Obedenare, nell'intervenire sulla opportunità di tali accordi con l'Italia, resi difficili dalla pretesa di escludere gli operatori economici israeliti con cittadinanza italiana dagli scambi commerciali regolati dal Trattato da stipulare.
Il diplomatico romeno faceva anzitutto presente la necessità per gli Stati come Grecia e Romania di armonizzare la coesistenza delle numerose etnie di cui era composta la loro popolazione.
La Grecia era riuscita a realizzare in larga misura tale intento, assimilando gli Albanesi ed i Valacchi dell' Acarnania; solo i Turchi costituivano ancora una comunità a sé stante.
Più complessa la situazione in Romania, dove a partire dal secolo XV erano affluiti Slavi, Bulgari, Greci, Albanesi, Armeni e, più di recente, Tedeschi. Le diversità religiose non erano state un ostacolo alla convivenza, poiché la Romania “accoglieva affabilmente e con bontà rara ogni orda straniera che arrivava, purché piccola”.
Non erano invece ben accetti gli emigrati in gran numero, anche se di religione greco-ortodossa. I Tartari arrivati in Moldavia nel 1730 erano stati perciò confinati in Bessarabia, impedendo loro di espandersi in altre regioni; agli Ebrei ed ai Russi era stato consentito di vivere soltanto nelle città, vietando loro il soggiorno nelle campagne, dove non potevano risiedere gli stranieri, anche se ortodossi, come nel caso dei Russi.
Erano stati visti con viva contrarietà i comitati formatisi in Germania per promuovere ed assistere l'emigrazione germanica in Romania ed agli emigrati tedeschi era stato vietato dal Parlamento romeno di svolgere attività.
Il caso più difficile era quello degli Ebrei, arrivati in gran numero da Polonia e Russia, ben diversi dai loro correligionari dell'Europa occidentale; essi erano infatti “ribelli ad ogni idea di civiltà”; tenacemente attaccati alle loro tradizioni rifiutavano l'assimilazione; era impossibile “dare un'idea della loro insinuante bassezza, del loro stomachevole servilismo”, cui si univa
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una sfrontata invadenza. Non c'era quindi da meravigliarsi se erano malvisti e se contro di loro erano previste leggi speciali. Il loro numero era in continua crescita e, se continuavano ad affluire numerosi in Romania, voleva dire che le loro condizioni di vita in fondo erano accettabili.
Anche l'inchiesta sugli Ebrei di Romania, disposta dall'ambasciatore degli Stati Uniti a Costantinopoli utilizzando notizie fornite dall'agente americano a Bucarest, Peixotto, di religione ebraica, aveva riconosciuto che l'ostilità contro gli Israeliti dipendeva dall'accanita concorrenza da essi esercitata e dalla loro nazionalità tedesca, non da ragioni religiose; secondo la “République française” del 1° giugno 1875 gli Ebrei erano gli apostoli del Germanesimo presso Slavi e Romeni: a ragione quindi era vista con preoccupazione in Romania l'aumento della popolazione israelita.
Esisteva una profonda differenza tra gli Ebrei di origine spagnola, i Sefarditi residenti in Valacchia, e gli Askenazi di origine polacca o russa, numerosi in Moldavia. I Sefarditi si erano perfettamente integrati, venivano accettati e rispettati, detestavano quelli venuti dalla Polonia e dalla Russia, “schiuma di birbanti”, del tutto meritevoli della generale avversione, in quanto erano dei truffatori ed avvelenavano con gli alcolici i contadini.
Obedenare smentiva poi le notizie date da alcuni giornali Italiani, secondo i quali l'accordo commerciale da stipulare con l'Italia non avrebbe concesso agli Italiani non Cristiani libertà di culto, di residenza e di commercio in Romania; queste libertà erano garantite dall'articolo 21 della Costituzione e la residenza in campagna era vietata agli Ebrei per ragioni di opportunità sociale, non per motivi religiosi.
Agli Ebrei Austriaci la Convenzione commerciale con l'Austria promulgata il 6 giugno 1876 proibiva l'acquisto di proprietà agrarie, ma riconosceva il diritto di possedere immobili urbani e di risiedere in città.
Le stesse condizioni erano stabilite dalla Convenzione commerciale con la Russia e previste nella bozza dell'accordo con la Germania, in corso di approvazione; e così pure era per il testo della Convenzione con l'Italia.
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Inoltre, non era necessario stabilire con una stessa Convenzione le norme per il commercio, la navigazione e la residenza dei cittadini delle parti contraenti: era possibile limitare al solo commercio l'accordo da farsi; difatti la Convenzione italo-francese del 1877 regolava le attività commerciali e poi nel 1878 si erano fissate le norme per la navigazione. Esisteva pure il precedente dell’accordo italo-svizzero del 1868 inizialmente limitato al commercio; era poi seguita una Convenzione per la residenza ed infine una Convenzione per la proprietà artistica e letteraria.
Obedenare poi affermava essere irrilevante per gli Ebrei italiani il divieto di acquistare proprietà agricole, dal momento che nessuno di essi progettava certamente di recarsi in Romania per fare il contadino.
Quel divieto non sottintendeva pregiudizi antisemiti: esso era infatti opposto a quanti, Romeni compresi, non fossero già dediti ad attività agricole, per evitare il costituirsi di proprietà latifondistiche a causa dell'acquisto di terreni da parte di grandi capitalisti, venendo così vanificati gli effetti della riforma agraria grazie alla quale si era formata una classe di piccoli proprietari coltivatori diretti.
Gli Italiani, assicurava il diplomatico romeno, in quanto popolo latino avrebbero avuto il diritto di formare colonie agricole in Romania. Ed infine, concludeva Obedenare, un Trattato commerciale non poteva farsi in base a considerazioni idealistiche sulla libertà religiosa, peraltro garantita dalla Costituzione romena, anziché tener presenti concreti interessi economici.166
Alla situazione economica della Romania lo stesso Obedenare aveva dedicato qualche anno prima, nel 1876, un'altra opera, in cui faceva pure riferimento alla questione ebraica ed alla sua incidenza sulla società romena, usando gli stessi argomenti poi adoperati per le successive osservazioni del 1878 sulla Convenzione commerciale italo-romena. Da ricordare l'elogio del console statunitense Peixotto, malgrado le difficoltà da lui create al governo romeno: il console era definito “homme impartial et éclairé”.
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Era per contro ridimensionato il giudizio positivo sugli Ebrei di Valacchia passati dalla Spagna nella Turchia e poi in Romania, riconosciuti più civili di quelli giunti in Moldavia da Polonia e Russia; ma c'era da aspettarsi poco di buono per la Romania anche da parte degli oriundi spagnoli, “car il existe entre eux tous une étroite solidarité toutes les fois qu'il s'agit de l'asservissement, sur le terrain économique, de l'élément roumain par l’élément juif”.167
Messa da parte la questione della residenza di cittadini italiani in Romania, il 16 novembre 1876 fu firmata una dichiarazione provvisoria italo-romena sul commercio, per cui ai due paesi era riconosciuto il trattamento reciproco di nazione più favorita; seguì il Trattato di commercio e navigazione firmato il 23 marzo 1878.168
Gli argomenti addotti da Obedenare per sostenere la stipula di questo Trattato erano confutati da un'anonima pubblicazione francese apparsa nello stesso anno 1878, pur non citando espressamente l'opera del diplomatico romeno. Veniva deplorata la persecuzione degli Ebrei in Romania, dovuta ad interessi di partito ed usata come strumento di lotta politica, destando “contre ces juifs laborieux les prejugés d'une population trés bonne au fond, mais peu civilisée”.
Le persecuzioni avevano avuto inizio con la Costituzione del 1866, prima della quale Ebrei e Romeni ortodossi erano pacificamente convissuti: in realtà, bisogna ricordarlo, le violenze contro gli Ebrei e la loro discriminazione si erano verificate in Romania fin dal medioevo, anche se non avevano avuto il risalto successivamente dato ad esse da un'opinione pubblica europea meglio informata e divenuta più sensibile al rispetto dei diritti umani ed al principio dell'eguaglianza di tutti: l'esistenza di un problema ebraico era stata riconosciuta dai rivoluzionari del 1848, che con uno slancio generoso ma troppo presto dimenticato ne avevano progettato la soluzione affermando la parità di diritti per gli Ebrei.
Le persecuzioni antisemite, notava l'anonimo autore, rendevano difficili i negoziati per la stipula di accordi commerciali, poiché le Potenze non potevano stipularle in contrasto con il principio dell'uguaglianza di tutti cittadini, sancito nelle loro Costituzione.
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Questa linea politica era seguita dai governi non solo per garantire i propri cittadini, ma anche “...au nom de leur dignité et dans l'intérêt de la civilisation”, poiché firmando una Convenzione commerciale con la Romania, avrebbero riconosciuto “...indirectement cette législation Roumaine contre laquelle ils avaient si souvent et si énergiquement protesté”. La Romania da parte sua rifiutava di modificare le sue leggi e per poter stipulare gli accordi tendeva a celare nei trattati le discriminazioni antiebraiche “sous des formules générales et des textes vagues”, da interpretare poi secondo la propria convenienza.
Era portato ad esempio il Trattato commerciale stipulato con l'Austria nel 1875: l'articolo 1 stabiliva piena libertà di commercio per tutti, ma tale principio era però vanificato dall'ultimo comma dello stesso articolo 1, confermando il divieto per gli Ebrei ad acquistare beni agricoli. Inoltre, secondo il protocollo finale del Trattato, “...on n'à pas voulu déroger aux droits de chaque Gouvernement de prendre, par des lois et réglements, toutes les mesures nécessaires de police et de sureté, et notamment celles par rapport à l'établissement de tout individu dans une commune rurale”.
Il Parlamento austriaco si era opposto a questo Trattato e per ottenerne l'approvazione il governo era stato costretto a porre la questione di fiducia.
Oltre che alla reticenza ed all'ambiguità dei trattati, i Romeni facevano ricorso alle tortuose argomentazioni usate dai tribunali per negare anche l'applicazione di norme chiaramente espresse, come l'articolo 4 del Trattato commerciale con l'Austria, per cui era consentito l'acquisto di immobili urbani.
Il tribunale di Galatz il 26 luglio 1876 aveva sentenziato che l'acquisto di quei beni era consentito ai cittadini austriaci ed ungheresi, notoriamente Cristiani, e quindi non poteva essere concesso agli Ebrei; il tribunale di Focsani il 23 agosto 1876 aveva osservato che il Trattato era in vigore per 10 anni e non poteva quindi accordare un diritto di proprietà
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valido per sempre, senza scadenza di tempo; secondo il parere del tribunale di Jassy, espresso nel novembre 1876, il diritto di acquistare immobili urbani era stato riconosciuto a quanti erano cittadini a pieno titolo dell'Austria-Ungheria, restando così esclusi gli Ebrei, sudditi o protetti in Romania, ma non cittadini di quel paese; ed ancora il tribunale di Jassy aveva sostenuto il 10 novembre 1876 che gli Ebrei, in quanto apolidi, non potevano essere considerati cittadini dell'Austria o di qualsiasi altro paese, e quindi non potevano godere dei benefici accordati dal Trattato.
Osservava poi l'anonimo come nei trattati proposti dalla Romania alla Svizzera ed all'Italia fosse previsto il trattamento reciproco di nazione più favorita, già presente nell'accordo commerciale con l'Austria e pertanto erano implicitamente confermate le discriminazioni antiebraiche proprie di quel Trattato, anche se ad arte dissimulate.
Ma la Svizzera non aveva sollevato difficoltà, esprimendo fiducia nelle leggi romene, come aveva notato con soddisfazione Pautasi Ghika, relatore su quel Trattato alla Camera romena; difficoltà si ebbero invece con la Germania: Parlamento e governo di comune accordo il 22 maggio 1878 avevano deciso in via preliminare di non esaminare neanche la proposta di Trattato avanzata dalla Romania, in quanto non garantiva pari diritti a tutti i cittadini tedeschi.
La questione ebraica, argomentava infine l'anonimo, non poteva considerarsi una questione interna romena, poiché dalla sua soluzione dipendeva la pace in Oriente, che non poteva essere mantenuta finché fosse continuata in Romania la persecuzione di una popolazione numerosa come quella Israelitica, che “...par son activité pacifique et féconde, est pour le Pays une source de bien être et de prosperité”.
Già nel Divano ad hoc del 1857 Kogalniceanu aveva sostenuto la necessità di assicurare l'eguaglianza giuridica a tutti, senza operare alcuna discriminazione.169
Non mancarono le difese contro le accuse di quanti si opponevano a riconoscere l'indipendenza della Romania e di conseguenza le negavano il diritto di negoziare direttamente trattati internazionali, commerciali o di altra natura. Secondo i difensori dell'indipendenza romena questa era da secoli una realtà, in quanto era stata riconosciuta dalle capitolazioni dei principi di Moldavia e Valacchia con la Porta, confermate dal Trattato di Parigi del 1856.
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La Romania indipendente aveva quindi il diritto inoppugnabile a stipulare trattati direttamente con gli altri Stati, senza dover sottostare ad alcuna autorizzazione turca,
Era questa la tesi di una pubblicazione anonima apparsa nel 1874, senza indicazione del luogo di stampa, con il titolo “Les droits de la Roumanie basés sur les traités. Par un ancien diplomate”.
Dietro l'anonimo si celava il ministro degli Esteri romeno, Vasile Boerescu, come svelava il console italiano a Bucarest, Fava, in un suo rapporto.170
Boerescu aveva già manifestato il suo pensiero alla fine del 1873, in polemica con una circolare in data 24 settembre 1873, inviata dal ministro degli Esteri turco Rachid pascià alle rappresentanze diplomatiche ottomane per contestare il diritto della Romania a stipulare Trattati internazionali, poiché l'articolo 8 della Convenzione del 1858 aveva confermato la sovranità turca sui Principati Danubiani. Boerescu aveva quindi replicato il 14 novembre 1873 con una nota destinata agli agenti diplomatici stranieri, rimproverando a Rachid di aver omesso nella sua citazione del suddetto articolo 8 la precisazione che la sovranità turca poteva essere esercitata fatti salvi i diritti assicurati dalle capitolazioni alla Moldavia ed alla Valacchia. E tali diritti, mai in precedenza contestati dalla Turchia, prevedevano appunto la facoltà dei Principati di stipulare trattati, più volte effettivamente esercitata; la stessa Porta aveva stipulato con la Romania nel 1862 la Convenzione postale e telegrafica di Temesvar e nel 1871 un accordo per estradare i malfattori.
Boerescu elencava nella sua nota agli agenti diplomatici le numerose altre Convenzioni stipulate con Austria, Germania e Russia, omettendo di citare il firmano per l'investitura di Carlo, cui veniva riconosciuto il diritto di firmare accordi amministrativi, ma soltanto con le Potenze confinanti. Il ministro romeno ricordava invece le antiche capitolazioni del XIV e XV secolo; la più antica era quella sottoscritta a Nicopolis nel 1391 da Mircea I principe di Valacchia e dal sultano Bajazet I; sempre per la Valacchia aveva fatto seguito la capitolazione di Adrianopoli fra il principe Vlad V ed il sultano Maometto II, il “Conquistatore”.
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Per la Moldavia era stata sottoscritta dal principe Bogdan e dal sultano Selim I la capitolazione del 1511, seguita nel 1529 da quella di Petru Rares e del sultano Solimano II, il “Magnifico”.
Fuad pascià, delegato turco alla Conferenza di Parigi, aveva però disconosciuto l'autenticità di queste capitolazioni nella seduta del 10 agosto 1858.
Fava aveva raccomandato a Boerescu di agire con moderazione ed il ministro romeno glielo aveva assicurato.171
Il segretario generale degli Esteri, Artom, con il dispaccio del 3 dicembre 1873 approvò questo consiglio del console e gli diede istruzione di tenere un atteggiamento riservato in attesa di un accordo fra le Potenze sulla linea politica da seguire.172
Fava si attenne fedelmente alle istruzioni di Artom e fece presente a Boerescu “quanto savio sarebbe da parte sua di apportare somma ponderatezza e calma nella questione che ci occupa, nulla precipitando e lasciando alle Potenze interessate il tempo necessario per esaminare e pronunciarsi”.
Per rinnovare questi consigli a Boerescu Fava trasse spunto dall'intervento alla Camera del ministro romeno, fatto nel dicembre 1873, al fine di ribadire che l'indipendenza romena era già stata riconosciuta dalle capitolazioni; ancora una volta, in questa nuova occasione, Boerescu rassicurò il console italiano, dicendo di essere consapevole dei danni derivanti alla Romania da “una condotta inconsiderata”.
Ma Boerescu insisteva comunque nel sostenere le sue tesi: dopo la nota agli agenti diplomatici stranieri del 14 novembre 1873 e l'intervento alla Camera nel dicembre dello stesso anno intervenne sulla stampa, pubblicando un articolo sul giornale “Pressa”, poi apparso in francese sul “Journal de Bucharest”, di cui Fava inviò copia a Visconti Venosta.
Si chiedeva Boerescu se con le capitolazioni i Principati avessero rinunciato alla loro indipendenza ed a questo interrogativo retorico rispondeva: “Nullement – Bien au contraire. Qu'on relise ces quatre capitolations et l'on verra que non seulement les princes roumains n'ont pas renoncé à leur souveraineté, mais encore qu’ils l’ont affirmée de nouveau, en mentionnant d’une manière expresse leur droit de faire la guerre et la paix”.173
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Non fu questo l'unico intervento di Boerescu sulla stampa a sostegno del diritto della Romania a stipulare accordi internazionali. Il “Times” del 6 dicembre 1873 aveva contestato tale diritto; nella sua replica sulla “Pressa”, ripresa poi dal “Journal de Bucharest” con l'articolo intitolato “Une explication à l'adresse du Times” (“Una spiegazione destinata al Times”), il ministro osservò ironicamente essere diminuita da qualche tempo l'ostilità della stampa inglese verso la Romania: “On commence à comprendre que la Turquie ne périra pas parce que la Roumanie aura su maintenir l'intégrité de sa suzeraineté”. La posizione del Times dipendeva forse dall'errata convinzione che la Romania fosse uno Stato vassallo della Turchia; ma i Principati di Moldavia Valacchia colle capitolazioni avevano accettato soltanto di pagare alla Porta un tributo annuo, in cambio della difesa contro eventuali attacchi nemici.
Il legame con la Turchia si voleva mantenerlo, ma entro i limiti fissati dalle capitolazioni e riconosciuti da tutte le Potenze, Inghilterra compresa.
La Romania non aveva quindi bisogno di proclamare la propria indipendenza: chiedeva solo il suo riconoscimento da parte delle Potenze. Negava poi Boerescu che le richieste romene fossero ispirate dalla Russia, schierata comunque dalla parte dei più deboli, difendendo fin dal 1829 con il Trattato stipulato ad Adrianopoli con la Turchia i diritti dei Principati; né il governo conservatore della Romania poteva esser sospettato di agire per fini demagogici.174
Il governo romeno non si limitava a semplici enunciazioni di principio per rivendicare il suo diritto a stipulare Trattati, ma l'applicava concretamente ratificando nella primavera del 1874 la Convenzione stipulata con l'Austria nel 1872 per il congiungimento delle reti ferroviarie austriaca e romena.
Il ritardo della ratifica secondo Fava era dovuto ad un'errata valutazione degli interessi nazionali ed all'ostruzionismo del Parlamento romeno in perenne conflitto con il governo.175
L'unificazione delle reti ferroviarie, avvenuta a Brasov, corrispondeva agli interessi austro-ungheresi e Fava riportava l'opinione di alcuni secondo i quali la ratifica della Convenzione ferroviaria aveva fruttato alla Romania l'accettazione del Trattato commerciale da parte di Vienna, anche se esso confermava le discriminazioni antiebraiche.
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Era questo il parere espresso da Fava, nel richiamare l'attenzione del ministro Visconti Venosta sull'utilità per l'Italia di un'analoga Convenzione, riservandosi di proporre alla controparte romena al momento opportuno la questione ebraica, su cui forse il governo di Roma non avrebbe ritenuto di poter transigere, anche se l'Italia non aveva “interessi da tutelare dell'importanza di quelli regolati dall'Austria-Ungheria”.176
Ricorreva spesso nei rapporti di Fava l'affermazione dell'utilità di un accordo commerciale con la Romania. Il console aveva comunicato a Roma le nuove tariffe doganali stabilite dal governo romeno, più vantaggiose di quelle fissate dal Trattato italo-turco; aveva comunque fatto presente a Boerescu la validità anche per la Romania dei trattati stipulati dall'Italia con la Turchia, ma al tempo stesso sollecitava Visconti Venosta a tener presente l'interesse italiano a profittare delle nuove e più convenienti tariffe doganali. Austria, Germania e Russia erano orientate in tal senso e, secondo Fava, bene avrebbe fatto il governo italiano a seguirne l'esempio.177
Fava reiterò in un successivo rapporto questa raccomandazione, facendo presente che Germania, Austria e Russia avevano notificato alla Porta di aver riconosciuto il diritto della Romania a stipulare accordi commerciali; il console ricordava i precedenti casi in cui era già stato esercitato tale diritto; nel 1784 il principe di Moldavia, Maurocordato, aveva stabilito per i commercianti Austriaci l'obbligo di applicare le tariffe doganali stabilite dal suo governo; ed un firmano di Rachid pascià, ministro turco degli Esteri, nel 1838 aveva ammesso sulle merci turche importate nei Principati l'esazione di una tariffa doganale pari al 5% del loro valore, eguale a quella percepita dai governi di Moldavia e Valacchia sulle merci provenienti da altri paesi.178
Era corsa pure la voce, riportata da Fava, di un tentativo inglese di appianare i contrasti fra Romania e Turchia per il diritto a stipulare trattati rivendicato da Bucarest; l'ambasciatore britannico a Costantinopoli, Elliot, sempre secondo tale voce, si sarebbe adoperato perché il sultano riconoscesse tale diritto con un firmano. La soluzione fu subito scartata da Boerescu,
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contrario a sottoporre un diritto della Romania al beneplacito turco; presto l'agente diplomatico britannico a Bucarest, Vivian, smentì l'iniziativa attribuita ad Elliot, ma raccomandò comunque al governo romeno “somma accuratezza nell'evitare che la soluzione di codesta vertenza venisse ad essere compromessa da atti non ben ponderati”, come Fava scriveva al governo di Roma; l'agente britannico non escluse in futuro un comune accordo delle Potenze per consigliare il ricorso ad un firmano del sultano per porre fine al contenzioso turco-romeno. Tale eventualità però, secondo il concorde parere di Fava e di Vivian, avrebbe fatto cadere il governo Catargi, ritenuto da entrambi i diplomatici il più adatto a reggere le sorti della Romania, in quel difficile momento in cui ogni occasione poteva divenire motivo di polemica fra Bucarest e Costantinopoli.179
E difatti un nuovo caso alimentò la tensione tra le due capitali. Il ministro plenipotenziario di Spagna a Vienna si era recato a Bucarest per notificare a Carlo l'ascesa al trono di Alfonso XIII; la visita irritò Savfet pascià, ministro degli Esteri turco; secondo il rapporto dell’agente diplomatico romeno presso la Porta, cui Fava lasciava la responsabilità della notizia nel trasmetterla a Visconti Venosta, il ministro turco avrebbe inviato una nota circolare ai rappresentanti turchi presso le maggiori Potenze per chiedere di far presente a quei governi la lesione della sovranità della Porta sulla Romania rappresentata dalla missione spagnola a Bucarest; di conseguenza doveva essere richiesto alle Potenze di fare pressioni su Madrid perché fornisse spiegazioni, in mancanza delle quali sarebbe stato ritirato il riconoscimento del rappresentante diplomatico della Spagna presso la Porta.
Alla protesta turca rispose un articolo della “Pressa”, ricordando i rapporti diretti già intrattenuti dalla Romania con altri Paesi. Carlo aveva notificato il suo avvento al trono a tutti gli Stati, ricevendo risposta; si era avuta notizia della prossima comunicazione alla Romania da parte del re del Belgio delle nozze di sua figlia con il duca di Sassonia; l'imperatore del Brasile, don Pedro, aveva già informato Carlo della sua ascesa al trono. Si chiedeva ironicamente la “Pressa” se la Porta avrebbe rotto le relazioni anche con questi Stati e la ragione per cui non avesse protestato in quelle precedenti occasioni.180
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La posizione del governo romeno era resa pure difficile dalle polemiche interne, non meno aspre di quelle con la Turchia. L'accordo commerciale con l'Austria, approvato dalla Camera romena il 12 luglio 1875 con 68 voti favorevoli e 22 contrari, era salutata con enfasi da Fava come un successo (“... un'era novella sorge quindi per la Romania...);181 l'opposizione invece rivolse aspre critiche al governo, accusato inverosimilmente di avere con quel Trattato favorito gli Ebrei, contro i quali invece erano confermate le restrizioni. Il giorno dell'approvazione dell'accordo il giornale radicale “Romanul” uscì listato di nero, in segno di lutto; il governo si trovò quindi preso fra due fuochi, poiché era al contempo criticato da quanti invece esprimevano riserve e preoccupazioni perché gli ebrei continuavano ad essere discriminati. Boerescu pertanto cercò di rassicurare il console italiano, perché a suo dire la Convenzione con l'Austria assicurava agli Ebrei il diritto di commercio e di possedere immobili urbani, restando in vigore solo l'antico divieto di acquistare beni agricoli. Il divieto di residenza nei comuni rurali, disposto dai regolamenti di polizia e riguardante gli stranieri di ogni religione, come l'altro divieto opposto agli Ebrei di gestire osterie, stabilito dall'articolo 8 della legge sugli alcolici, non erano stati di fatto applicati; erano perseguiti solo gli spacciatori di bevande alcoliche adulterate, senza tener conto della loro nazionalità o della loro religione.
Il rigore delle leggi era temperato, aggiungeva Boerescu, dalla loro inosservanza, come era avvenuto per la legge del 1864 secondo la quale solo gli stranieri Cristiani avrebbero potuto possedere immobili urbani; in realtà gli Ebrei avevano potuto acquistare proprietà in città ed a volte anche in campagna.
Singolare argomentazione, invero, per un ministro citare l'inefficienza dello Stato come attenuante di una legislazione riconosciuta inopportuna per l'eccessiva severità!
La situazione degli Ebrei in Romania era la migliore possibile, concludeva il ministro romeno, riuscendo però poco convincente; osservava difatti Fava come la rosea situazione dipinta da Boerescu fosse smentita dalla circolare n. 10941 diramata ai prefetti il 22 luglio 1875 dal presidente del consiglio Lascar Catargi, per negare di aver fatto concessioni agli Ebrei con l'accordo commerciale stipulato con l'Austria.182
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Le disposizioni impartite da Roma costringevano Fava, pur essendo egli favorevole ad un accordo commerciale italo-romeno, ad eludere le pressanti richieste del governo di Bucarest perché l'Italia seguisse l'esempio austriaco e firmasse una Convenzione commerciale. Catargi, pur prendendo per buona l'affermazione italiana di non aver stipulato l'accordo esclusivamente per ragioni economiche e non per una pregiudiziale politica, esprimeva la speranza in un ripensamento italiano ed al tempo stesso lamentava l'atteggiamento negativo del governo di Roma su altre questioni, come l'abolizione delle capitolazioni consolari, per cui gli stranieri erano sottratti al giudizio dei tribunali Romeni, sostituito dai poteri giudiziari dei rispettivi consoli.183
Le speranze romene per la stipula di un Trattato commerciale con l'Italia venivano alimentate dal possibilismo dell'agente diplomatico francese circa l’eventualità che Parigi seguisse l'esempio di Vienna, firmando il tanto sospirato accordo; e dall'affermazione dell'agente tedesco per cui la Germania era disponibile ad iniziare trattative per una Convenzione commerciale, precisando però esserne la ragione solo l'interesse commerciale, senza alcuna implicazione di natura politica. Anche la Russia, aggiungeva Fava, si accingeva a trattare con la Romania; pertanto fra le Potenze garanti solo Italia ed Inghilterra si mostravano restie a regolare con un accordo i rapporti commerciali con Bucarest.
La “Pressa” si rallegrava per le posizioni assunte dai quattro grandi paesi e si augurava una allineamento italiano e l'inglese.184
Visconti Venosta ci tenne a precisare la diversità della posizione italiana rispetto a quella inglese; il governo di Roma non aveva opposto un rifiuto categorico come quello di Londra ad un accordo commerciale con la Romania; aveva soltanto fatto presente la scarsa entità degli interessi economici italiani in Romania, per cui, come si era già chiarito in ripetute occasioni, era sembrato opportuno dare la precedenza agli accordi con i paesi di preponderante interesse per il commercio italiano. Non esisteva quindi nel governo di Roma alcuna pregiudiziale ostile nei confronti della Romania.
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Con lo stesso dispaccio il ministro rispondeva alle lagnanze romene, esposte a Fava, per la mancata risposta italiana alla richiesta di Bucarest, avanzata già nel 1870, di usare il nome “Romania” anziché quello di “Principati Uniti di Moldavia e Valacchia”; soltanto la Russia aveva dato una risposta positiva, faceva notare Visconti Venosta, mentre gli altri paesi avevano mantenuto il silenzio, eccettuata la Turchia, che aveva fatto presente come il nome “Principati Uniti di Moldavia e Valacchia” fosse stato deciso dal Congresso di Parigi del 1856 e fosse quindi necessaria l'approvazione di un'altra Conferenza internazionale per mutare il nome. Ma, concludeva Visconti Venosta, il nome “Romania” era entrato nell'uso comune dei governi; anche l'Italia si era adeguata a tale pratica, accettando per la Conferenza telegrafica internazionale svoltasi a Roma nel 1872 la partecipazione di un delegato intervenuto a nome della “Romania”. Poiché la questione era già stata risolta in linea di fatto, il ministro italiano riteneva inutile riesumarla.185
La favorevole disposizione alla stipula di un accordo commerciale italo-romeno non impediva però a Fava di rendersi conto di quanto fossero spesso ingannevoli le promesse romene di migliorare le condizioni di vita degli Ebrei. Il console italiano ricordava la concessione agli Israeliti dei diritti elettorali attivi e passivi per l'elezione dei consigli comunali, secondo le particolari condizioni stabilite dall'articolo 26 della legge elettorale del 1874 (esser stato sottufficiale dell'esercito, aver studiato in università o collegi Romeni, aver conseguito all'estero una laurea o un diploma riconosciuti validi in Romania, aver fondato una fabbrica con almeno 50 operai, purché non destinata alla fabbricazione di bevande alcoliche).
Appellandosi a tale legge due ebrei di Bucarest, i dottori Rosenthal e Blumenfeld, avevano chiesto l'iscrizione nelle liste elettorali. Dopo il rifiuto opposto dal consiglio comunale, i due si erano rivolti al tribunale. Ma il loro ricorso era stato respinto dai giudici, a cui parere l'articolo 26 della legge letterale era in contrasto con l'articolo 7 della Costituzione per cui la cittadinanza ed i conseguenti diritti politici potevano essere accordati solo agli stranieri cristiani (tutti gli Ebrei erano considerati stranieri); nel contrasto normativo così creato doveva ritenersi prevalente l'articolo 7 della Costituzione, legge fondamentale dello Stato.
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Commentava con amarezza Fava: “... i tentativi fatti dal Ministero attuale per migliorare gradatamente le condizioni degli israeliti indigeni sono resi frustranei dagli alti gradi dello Stato, i quali si basano sulla Costituzione per paralizzare i lodevoli ma sterili sforzi del signor Catargi che strenuamente sostenne e fece adottare dalla Camera l'articolo 26 della legge comunale sopra accennata”.186
Sulla questione ebraica Visconti Venosta si intrattenne all'inizio del 1876 con l'agente diplomatico romeno a Roma. Questi nel rapporto inviato al nuovo ministro degli Esteri, Balascianu, riferì l’ammissione di Visconti Venosta delle difficoltà per la stipula di un accordo commerciale derivante appunto dalle condizioni di vita degli Israeliti in Romania; Visconti Venosta confidava al diplomatico romeno l'impossibilità di sottoscrivere quell'accordo poiché il Parlamento italiano, sostenuto dall'opinione pubblica, vi si sarebbe opposto, fino a quando nel Trattato non fosse assicurata una perfetta parità di trattamento per i cittadini dei due paesi, a prescindere dalla loro fede religiosa, specialmente per quanto riguardava la libertà di commercio e di residenza.
Balascianu comunicò a Fava il rapporto dell'agente diplomatico a Roma, affermando di confidare nella “... imparzialità politica degli italiani” per escludere interferenze nelle questioni interne della Romania e fece pure presente l'impossibilità di modificare leggi dovute alla necessità di porre un freno alla dilagante invasione ebraica e non ad intolleranza religiosa. Il perdurare di quelle leggi non avrebbe comunque dovuto essere un ostacolo per la stipula di un accordo commerciale; la Francia, non meno attenta dell'Italia alla parità dei diritti per tutti, si mostrava disponibile.
Fava si trincerò prudentemente dietro la mancanza di nuove disposizioni ministeriali sulla questione ebraica, attribuendo la difficoltà a stipulare un accordo commerciale solo a ragioni di natura economica; fece comunque presente, a titolo di opinione personale, la difficoltà per l'Italia di transigere sulle discriminazioni opposte agli Ebrei.187
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Visconti Venosta era ormai giunto alla fine del suo mandato, essendo venuto a cessare il governo della Destra storica con la “rivoluzione parlamentare”del marzo 1876. Il nuovo ministro degli Esteri del governo della Sinistra, Luigi Amedeo Melegari, non apportò sostanziali novità nella politica estera italiana ed in particolare nei rapporti con Bucarest; non si dichiarò comunque contrario alla rinnovata richiesta di rendere ufficiale il nome “Romania”, dicendosi per giunta disposto ad appoggiarla presso la Porta unitamente alla richiesta di ottenere dalla Turchia alcuni isolotti del Danubio.188
Quasi contemporaneamente all'avvento della Sinistra al potere in Italia ci furono cambiamenti sulla scena politica romena; entrò difatti in crisi il governo di Lascar Catargi, rimpianto da Fava perché, a suo parere, per cinque anni si era prodigato per procurare alla Romania fiducia all'esterno e sicurezza all'Interno, ma alla fine “.. costretto a ritirarsi per guerre di ambizioni e di portafogli”.189
Questa crisi ministeriale in Romania non fu di facile soluzione; nel breve arco di due mesi (maggio-giugno 1876) ripetutamente fallirono i tentativi di formare un governo; anche il trono di Carlo traballò vistosamente e si fecero pure i nomi degli eventuali successori: il duca di Edimburgo se si fosse optato per un principe straniero, Dimitrie Sturdza se si fosse invece deciso per un principe indigeno.
Il primo tentativo fallito di formare un governo fu quello del radicale Vernescu e del suo insuccesso fu data la colpa a Carlo, accusato di avere pesantemente interferito nella scelta dei ministri operata dal presidente incaricato, opponendosi alla nomina di Dimitrie Sturdza ed all'assegnazione del ministero della Guerra a Jon Bratianu, confinato in un ministero di minore importanza. Seguì un altro sfortunato tentativo, quello del conservatore Florescu, generale e già ministro della Guerra nel governo Catargi; ancora una volta Carlo si oppose alla nomina di Sturdza, malvisto a causa delle voci circolate intorno ad una sua probabile candidatura alla successione a Carlo sul trono; sempre per questo stesso motivo Sturdza fu anche escluso dal Consiglio della Corona.
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Ma l'avversario più temuto da Carlo era il principe Jon Ghika, di tendenze radicali; tuttavia Fava credeva possibile, in caso anche Florescu fallisse, l'assegnazione proprio a Ghika dell'incarico di formare il governo, poiché i conservatori continuavano a dilaniarsi con le loro rivalità.
Florescu riuscì a formare un governo con elementi di secondo piano, destinato secondo Fava a durare poco; 190 questa profezia si avverò, perché Florescu già all'inizio del maggio 1876 fu costretto a dimettersi per l'opposizione congiunta di Ghika, Jon Bratianu e Mihail Kogalniceanu. Contrariamente alla previsione di Fava il principe non affidò l'incarico a Ghika o ad un altro esponente radicale, rivolgendosi invece al conservatore Costachi Epureanu, già scelto da Vernescu come ministro del governo in corso di formazione.
Epureanu il 9 maggio 1876 presentò un governo di coalizione, formato da conservatori e radicali: a Kogalniceanu spettò il ministero degli Esteri, a Jon Bratianu quello delle Finanze ed a Vernescu quello degli Interni. Fava diede un giudizio del tutto negativo su tale governo: “queste mostruose unioni di elementi tanto disparati furono possibili in Romania tutte le volte che si volle costringere i Principi pro tempore ad abdicare”.191
La coalizione dimostrò la sua intima debolezza dovuta alle rivalità fra i ministri appartenenti a tanto diverse tendenze politiche: Epureanu era un liberale conservatore, Kogalniceanu capeggiava il centrosinistra, Bratianu guidava la sinistra radicale, Vernescu veniva dalle fila dei conservatori. Erano tenuti insieme dalla comune avversione al principe 192, come affermato da Fava. Il console, dimostrando poco tatto ed accortezza diplomatica, non si limitò a trasmettere in via riservata a Roma questo suo giudizio sulla frammentazione del mondo politico romeno e sulla natura composita del governo; non si fece infatti scrupolo di intervenire attivamente, consigliando ai politici Romeni ed allo stesso Carlo di mettere da parte le rivalità per ricostituire “forte e compatto” quel partito conservatore che con Lascar Catargi aveva governato per cinque anni, dal 1871 al 1876, ed a cui andavano tutte le sue simpatie.
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Quasi consapevole di essere andato troppo oltre, Fava, a conclusione del suo rapporto, esprimeva l'augurio di un'approvazione della sua condotta da parte del ministro.193
Melegari invece trovò eccessiva l'invadenza del console e glielo fece notare con una certa durezza, raccomandandogli di “serbare quel carattere di inoppuntabile imparzialità che si addice al linguaggio di un agente di Potenza straniera”; aggiungeva il ministro che i discorsi del console sarebbero stati tanto più efficaci quanto più “scevri di qualsiasi apparenza di predilezione per questa o quella frazione parlamentare”.194
Nel suo discorso programmatico Epureanu assicurò il mantenimento della neutralità romena (era nell'aria la guerra russo-turca del 1877 ed era già in corso la rivolta antiturca in Bosnia-Erzegovina), pur se si sarebbe rinforzato l'esercito come misura precauzionale per garantire la difesa del paese; a riprova della moderazione romena, si sarebbe garantito il passaggio di armi ed armati dalla Romania verso i paesi vicini.
In cambio, dichiarò il ministro degli Esteri Kogalniceanu, il governo si aspettava dalla Turchia il riconoscimento del nome “Romania” e la cessione di alcuni isolotti Danubiani. Inoltre, essendo necessario fare economia, Kogalniceanu annunciò il proposito di mantenere agenzie diplomatiche soltanto a Vienna ed a Costantinopoli: la prima agenzia ad essere soppressa sarebbe stata quella di Roma.
Kogalniceanu fece pervenire a Melegari una memorandum illustrativo delle richieste romene alla Porta; il ministro italiano cercò di prendere tempo prima di dare una risposta e raccomandò quindi a Fava di non pronunciarsi, neanche a titolo personale. Si sarebbe dovuto limitare ad accusare ricevuta del documento da parte del governo italiano, poiché le richieste romene dovevano essere esaminate con attenzione ed il ministro non disponeva ancora di tutti gli elementi di giudizio necessari. Melegari confermava la tradizionale amicizia italiana per la Romania, per cui il memorandum sarebbe stato esaminato “con animo benevolo”.
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Nel suo dispaccio Melegari comunicava inoltre a Fava di avere dato incarico al rappresentante italiano a Costantinopoli di consigliare alla Porta di mostrarsi conciliante con la Romania, cui si sarebbe suggerita moderazione; seguendo questa linea politica il ministro italiano sperava di evitare nuove complicazioni in Oriente. 195
Andò delusa la speranza di Melegari, poiché le complicazioni tanto temute non tardarono a verificarsi ed una volta di più si dimostrò quanto mai appropriata la definizione di “polveriera d'Europa”, data ai Balcani.
(Rivista dell’Esposizione Universale del 1867 : Spagna, Grecia e Romania – di Théophile Bilhaut. Letterato, capo della Segreteria del Comune (Douai).
“Eccoci quale siamo: dovremmo, dovremo essere per sempre iscritti nel novero delle nazioni? Imparate a conoscerci, Voi che ci ignorate: guardate e giudicate”. (p. 56)
“Latini per i sentimenti, la lingua ed il coraggio i Romeni, sotto i loro brillanti costumi orientali, costituiscono il passaggio fra noi ed il mondo islamico”. (p. 64)
“…quali che siano le agitazioni parlamentari del paese la persona stessa del Principe resta al di fuori delle lotte cui potrebbero abbandonarsi i partiti”. (p. 70)
rapporto n. 5 Affari Politici del console Castelli al Ministro Campello, Galatz 21 agosto 1867.
La presenza in Italia della famiglia Montefiore risaliva al XVI secolo; nel 1758 Moses Vita Montefiore, nonno paterno del futuro Lord, si era trasferito in Gran Bretagna, gettando le basi della fortuna della famiglia; ma Moses Hain Montefiore nacque a Livorno, dove genitori si erano recati per affari, il 24 ottobre 1784, primo di otto figli.
A Londra si dedicò dapprima al commercio del tè e delle spezie; andato in rovina a causa di un socio della sua ditta, seppe però riprendersi, rimborsando correttamente tutti i creditori.
Nel 1810 spostò Judith Cohen, figlia della ricchissimo Levi Barenth Cohen e divenne cognato di Nathan Mayer Rotschild, marito di una sorella di Judith, per conto del quale operò in qualità di agente di cambio. Accumulò rapidamente un ingente patrimonio, per cui nel 1824, ad appena quarant'anni, si ritirò dagli affari e si dedicò completamente alle attività filantropiche. Nel 1835, assieme al cognato Rothschild, stanziò 20 milioni di sterline per compensare i proprietari degli schiavi liberati ed il governo britannico fu perciò indotto ad attuare l'emancipazione degli schiavi.
La sua fede religiosa uscì rafforzata dal primo dei suoi viaggi in Palestina, compiuto nel 1827, e si dedicò quindi in molti paesi al soccorso degli Ebrei perseguitati. Assieme ad Adolph Isaac Crémieux nel 1840 intervenne in difesa degli ebrei di Damasco, accusati di avere ucciso un frate cappuccino ed il suo servo musulmano per utilizzarne il sangue nei riti religiosi; ottenne dal kedivè d'Egitto, Mehmet Alì, la liberazione degli imputati e successivamente, recatosi a Costantinopoli, convinse il sultano ad emanare un firmano per dichiarare infondate le accuse di omicidio rituale, tradizionalmente rivolte agli Ebrei, ed eliminare così una delle cause più frequenti della loro persecuzione. Non per questo vennero però meno gli attacchi agli Ebrei; a Damasco il cappuccino fra Tommaso (ucciso probabilmente da suoi loschi soci in affari) continuò ad essere venerato come un martire del fanatismo ebraico.
Nel 1838 Montefiore aveva cercato di acquistare terreni agricoli in Palestina da far coltivare agli Ebrei perché ottenessero in tal modo le risorse economiche necessarie alla loro esistenza; il piano fallì per l'intervento delle Potenze che dissuasero Mehemet Alì dal dare il suo consenso.
Seguirono numerosi interventi in altri paesi a favore degli Ebrei: nel 1846 fu in Russia, nel 1863 in Marocco, nel 1867 in Romania.
Alle sue attività filantropiche giovò molto il prestigio acquistato grazie all'impegno politico; negli anni 1837-38 Montefiore fu sceriffo di Londra e venne insignito del titolo di cavaliere dalla regina Vittoria. Questa lo ebbe sempre molto caro e nel 1846 gli concesse la più alta onorificenza nominandolo baronetto in riconoscimento delle sue attività umanitarie a favore degli Ebrei sempre sostenute dal governo inglese.
Furono costanti l'impegno di Montefiore per la causa dell'emancipazione degli Israeliti ed il suo amore per Israele; tuttavia egli non pensò alla formazione di uno Stato ebraico in Palestina, nutrendo la fiducia, tipica di quel momento storico, in un progresso generale dell'umanità che avrebbe portato all'emancipazione del suo popolo.
Sir Moses Haim Montefiore fu ammirato in Gran Bretagna e nel resto del mondo per il suo disinteresse e per le sue attività filantropiche; il suo centesimo compleanno fu celebrato come un evento dagli Ebrei di tutto il mondo; morì all'età di 101 anni il 28 luglio 1885 a Londra.
Rapporto n. 117 Affari Politici di Gloria a Menabrea, Bucarest 30 aprile 1868.
“…appare strano che uomini nati nel paese dove essi abitano da 20 o 30 anni siano trattati da stranieri”.
“…se per circostanze indipendenti dalla volontà dei liberali romeni, questo articolo del programma è stato accantonato, si tratta solo di un rinvio. Anche presso gli stessi popoli migliori la coscienza per un momento può essere offuscata, ma la ragione riprende i suoi diritti. Pertanto si può aver fede che, con un reciproco slancio del cuore, Israeliti e Romeni si riconosceranno fratelli”.
Dallo stato di servizio pubblicato dal Ministero degli Affari Esteri risulta che il barone Saverio Fava, nato a Salerno il 3 luglio 1832, ottenne la licenza in diritto nell’Università di Napoli nel settembre 1849 e il 30 dicembre 1851, non ancora ventenne, assunse servizio come “alunno diplomatico”; qualche anno dopo, il 18 dicembre 1855, fu nominato vice console del Regno delle Due Sicilie a Genova. Prestò in seguito servizio nel consolati di Trieste, Marsiglia e Malta, venendo nominato console di seconda classe il 23 novembre 1859. Dopo un breve periodo trascorso nella legazione a Torino, il 16 agosto 1860 fu nominato segretario di legazione a Monaco di Baviera. Caduto il Regno di Francesco II, il governo garibaldino l’11 ottobre 1860 lo radiò dalla diplomazia; provvedimento revocato il 9 giugno 1861 dal governo italiano, che lo pose in aspettativa. Reintegrato con il grado di primo segretario di legazione il 16 maggio 1862, fu destinato a Berna (6 agosto 1862) e poi all’Aja (19 novembre 1864).
Divenuto consigliere di legazione fu nominato a Costantinopoli (6 febbraio 1868) e poi come agente politico e console generale a Bucarest, dove dall’ottobre dello stesso anno prestò servizio per 10 anni. Rimase bloccata la sua nomina a ministro plenipotenziario in Romania (3 novembre 1878), perché il Ministero preferì nominare al suo posto un diplomatico di maggior peso, il conte Tornielli, già segretario generale del Ministero Affari Esteri, con grave disappunto di Fava, cui toccarono comunque incarichi di prestigio (ministro plenipotenziario a Buenos Aires nel 1879 e poi a Washington nel 1881).
(Lettera al signor Giovanni Bratianu, ex Ministro, ex Presidente della Camera dei Deputati sulla questione Israelitica in Romania – di Armando Levy – Presso gli uffici de “L’Israelita Romeno” – Bucarest 1969).
“Mio caro Jean dopo un’amicizia di 22 anni saremmo noi destinati a diventare nemici per il resto della nostra vita? Più io vi ho amato, più ho sofferto per alcune Vostre azioni”.
“Voi avevate consegnato, senza farci caso, i creditori nelle mani dei loro debitori. Il terrorismo antiebraico era all’ordine del giorno. Ognuno si ingegnava di nuocere loro, mascherando i più vili interessi sotto il velo del bene pubblico”.
“…il popolo di Dio, la Grande Nazione e la Nazione Martire”.
Su Levy Cfr. nota 109 del capitolo III.
L’articolo era allegato al rapporto di Fava a Menabrea n. 98 Serie politica, Bucarest 16 luglio 1869 (ASDE – fondo Moscati 6, busta 1393, fascicolo 3).
“…gli Zingari, senza fede religiosa, senza dignità umana, senza forza morale…”
“…ma il bene della vigilia, lungi dall’essere una scusa per il male del giorno successivo, lo aggrava in conseguenza stessa delle garanzie date per il futuro…”
“…dovunque l’Alliance è a casa sua; dovunque batte un cuore d’onore libero, che crede all’eguaglianza e vede un fratello nell’ebreo, là esiste l’Alliance, là è il suo domicilio e la sua benedizione…”
“Chiunque è antiebraico, è antifrancese, allo stesso titolo per cui uno schiavista è nemico della Francia del 1789”.
L’attività di Levy in Romania era definita “tanto caritatevole quanto sapiente” dal console italiano a Galatz, Berio (ASDE fondo Moscati 6, busta 1393 fascicolo 4 – rapporto a Visconti Venosta n. 22 Politica, 27 aprile 1870).
“E’ questa forte razza ebraico-tedesca che ha prodotto i Mendelssohn, i Meyerber, gli Heine, i Diefenbach e tanti altri uomini illustri. Non sarebbe salutare una infusione di questo buon sangue nelle vene esauste dei Daco-Romeni?”.
“Essi sono deboli e perseguitati, io sono dunque loro amico. Ho sempre lasciato ad altri l’onore ed i vantaggi di essere gli amici dei forti. Tutto ciò che da qualche tempo avviene in Romania, rattrista gli amici di questo paese, gli amici del progresso”.
Gli Ebrei americani, insoddisfatti di questa edulcorata versione dei fatti, si rivolsero al presidente Ulisse Grant, ottenendo la nomina a console ed agente diplomatico a Bucarest di Adolf Buchner, giovane ebreo di Bucarest, già segretario del consolato. Il governo romeno, considerando una provocazione tale nomina, ne chiese ed ottenne la revoca.
Ma non per questo disarmarono gli Ebrei americani; essi difatti costituirono la società romeno-americana per assistere i confratelli di Romania e sollecitarono un più incisivo intervento del governo americano.
Grant accettò il suggerimento di nominare in sostituzione di Buchner un altro ebreo, Benjamin F. Peixotto, di rito sefardita e, secondo la definizione datane da Lloyd A. Cohen, “...perhaps the most colorful and the most controversial person involved in the Romanian-jewish question” (“forse il più pittoresco e controverso personaggio coinvolto nella questione Romeno-Ebraica” - Lloyd A. Cohen “Peixotto and the beginnings of American – Romanian diplomacy 1870-1876” in “100 years of American – Romanian Relations. Edited by Radu R. Florescu I – The East European Research Center. Dragan European Foundation. Editrice Nagard, Roma 1982; pp.27-32).
Già commerciante di tessuti a Cleveland e presidente dell'associazione delle biblioteche commerciali, Peixotto studiò poi diritto e fu avvocato a New York ed a San Francisco, divenendo presidente del B 'nai B'int, negli anni 1863-64.
Accettata la nomina a Bucarest dietro richiesta fattagli dal consiglio delle comunità Israelitiche degli Stati Uniti, Peixotto svolse il suo incarico come se fosse un rappresentante di quelle comunità più che del governo americano.
Del resto il presidente Grant nell'accettare la proposta di nominare Peixotto console a Bucarest fattagli dal banchiere ebreo Joseph Seligman, suo amico, aveva posto la condizione di mettere le spese del consolato a carico di organizzazioni ebraiche, come l'”American – Roumanian Society” e il “Board of delegates” ed aveva poi presentato Peixotto come un missionario inviato in aiuto degli Ebrei di Romania. E difatti Peixotto, appena arrivato a Bucarest, nel corso della prima udienza concessagli il 25 marzo 1871 dal principe Carlo, non esitò a dichiarare la volontà del governo americano di assicurare la libertà di culto non soltanto nel suo territorio, ma anche negli altri paesi.
Carlo lo accolse con simpatia, ma non mancarono reazioni negative a quell'anomala dichiarazione, come l'articolo molto critico di Cesare Bolliac apparso sul giornale “Trompeta Carpatilor”. Anche le accoglienze riservategli dagli ebrei di Romania furono di segno contrastante: favorevoli i moderati, diffidenti ed ostili i notabili conservatori, sia Sefarditi che Askenazi.
Peixotto trovò un fedele collaboratore in un giovane avvocato ebreo, Adolf Stern, nominato segretario del consolato oltre che redattore, assieme al fratello Leopold, del giornale in lingua tedesca con un supplemento in romeno “Rumanische Post”, fondato dal console e pubblicato prima settimanalmente poi bisettimanalmente ed il cui primo numero uscì il 16 aprile 1871.
Per pubblicare un altro giornale interamente in romeno, Peixotto promosse una raccolta di fondi all'estero, urtandosi perciò con alcuni componenti del comitato dell'Alliance Israélite Universelle (A.I.U.) di Bucarest, timorosi di irritare i nazionalisti Romeni.
Di particolare interesse l'attività educativa promossa da Peixotto con le scuole ebraiche della “Societate pentru cultura Israelitilor Romani” (Società per la cultura degli Israeliti Romeni) da lui fondata nell'autunno 1871, boicottata tuttavia dal disinteresse dei notabili Israeliti.
Ma oltre a curare l'attività culturale, Peixotto volle agire sul piano economico, raccogliendo fondi all'estero per indennizzare le vittime delle violenze avvenute all'inizio del 1872 a Ismail, Cahul, Vilcov. Come rimedio poi al continuo ripetersi delle violenze esortò gli ebrei a reagire, opponendo alla violenza la violenza.
Rendendosi però conto dell'insufficienza dell'autodifesa per una definitiva soluzione del problema, propose agli Ebrei di emigrare verso gli Stati Uniti. La proposta riscosse l'approvazione di quanti volevano liberarsi della “piaga” degli Ebrei; il ministro degli Esteri Costaforu offrì passaporti gratuiti agli Ebrei disposti ad emigrare, limitando però la loro validità al solo viaggio di andata; restava così esclusa la possibilità di far ritorno in Romania; il giornale del partito “rosso” Romanul (7-8 agosto 1872) si dimostrò pure favorevole, illustrando questa alternativa: se gli Ebrei fossero emigrati, avrebbero dimostrato scarso amore per la terra romena e questa mancanza di patriottismo avrebbe reso evidente la loro indegnità a ricevere l'eguaglianza dei diritti da essi reclamata; se invece fossero rimasti, sarebbe stata dimostrata la falsità dell'accusa di persecuzione rivolta al governo romeno dai paesi stranieri e dalle organizzazioni ebraiche.
La proposta di Peixotto fu disapprovata dall'Alliance Israélite Universelle, la cui politica cambiò radicalmente in seguito, costituendo un apposito comitato a Koenisberg per facilitare l'emigrazione degli Ebrei verso gli Stati Uniti, in particolare dalla Romania e dalla Russia, dove nel 1881 si ebbero sanguinosi pogroms. Il console replicò affermando con una lettera allo studioso ebreo ungherese Albert Cohen del 20 settembre 1872 che ad essere ostili all'emigrazione erano gli Ebrei ricchi risparmiati dalle persecuzioni, di cui erano invece vittime gli Ebrei poveri.
Ma oltre all'A.I.U. si pronunciò contro il progetto di emigrazione anche il rabbino Haim zvi Sneersohn, uno dei sostenitori della nomina di Peixotto a console, poiché, precorrendo il sionismo, voleva indirizzare gli ebrei verso la Palestina e non verso gli USA, come proposto da Peixotto.
Il progetto di emigrazione degli Ebrei dalla Romania fu esaminato dalla Conferenza internazionale ebraica svoltasi a Bruxelles il 29-30 ottobre 1872 sotto la presidenza di Crémieux avendo come vice presidente sir Francis Goldsmith.
Fu proposto di rivolgere una petizione al Parlamento romeno e venne bocciato il piano di Peixotto, giudicato offensivo per i Romeni cristiani di cui gli Ebrei si sentivano fratelli. La condanna della Conferenza, pronunziata in nome di questa supposta fratellanza, non impedì tuttavia a molti ebrei di recarsi dalla Romania in Germania, dove, mancando loro i mezzi per proseguire il viaggio fino in America, si rivolsero al console Usa a Berlino, Kreisman, perché li fornisse loro.
La richiesta creò difficoltà a Kreisman e violente accuse a Peixotto, colpevole di avere spinto incautamente gli Ebrei ad emigrare.
A quel punto anche il “Board Of American Israelites” condannò il piano di Peixotto, costringendolo a desistere, poiché continuava a dipendere economicamente dalle organizzazioni ebraiche americane.
Negli ultimi tre anni di permanenza a Bucarest continuò ad agire a favore degli Israeliti di Romania, promuovendo iniziative culturali e benefiche, rivolgendo petizioni per la concessione dei diritti civili e politici, opponendosi all'accordo commerciale austro-romeno perché conteneva discriminazioni contro i commercianti Austriaci di origine ebraica (e tale opposizione impedì la stipula di analoghi accordi con altri paesi).
Per contro, Peixotto si adoperò a favore del governo romeno, chiedendo all'A.I.U. di convincere i grandi banchieri ebrei di Parigi, i Rotschild, a contribuire al prestito di 300 milioni di franchi richiesto dal ministro delle finanze romeno, Maurogheni.
Il console sperava di indurre così il governo romeno ad appoggiare la petizione per i diritti degli Ebrei da presentare al Parlamento; ma l'A.I.U. non fu d'accordo e sconsigliò anzi di presentare la petizione non ritenendo opportuno il momento; e difatti la petizione, pubblicata con il corredo di 5000 firme, non ottenne alcun risultato.
La stella di Peixotto ormai non brillava più;avversato anche dai suoi antichi sostenitori, non più ascoltato dal comitato centrale dell'associazione di Crémieux, era oggetto di continui attacchi della stampa romena.
Il giornale conservatore “Pressa” del 14 settembre 1874 accusava Peixotto di essersi comportato da rappresentante degli Ebrei e non del governo americano; a maggior scorno del console nel successivo numero del 18 ottobre dello stesso giornale i notabili ebrei di Bucarest concordavano con tale giudizio.
Ormai logorato dalle polemiche, Peixotto nell'autunno del 1875 chiese un lungo congedo e nel giugno 1876 lasciò definitivamente la Romania e fu console a Lione dal 1877 al 1885.
La sua partenza fu salutata con gioia dagli avversari, che sembravano aver trionfato; ma la storia finì per dare ragione a Peixotto, venendo dimostrato che la sua opera non era stata inutile nonostante l'apparente fallimento.
Non fu raggiunto l'obiettivo della parità dei diritti degli Israeliti, ma si attivò un processo per cui solo pochi anni dopo, successivamente al congresso di Berlino del 1878, la soluzione del problema ebraico divenne una condizione essenziale per il riconoscimento dell'indipendenza della Romania da parte delle Potenze.
Ed il tanto contrastato progetto di emigrazione degli Ebrei in Romania verso gli Stati uniti trovò poi larga applicazione: dalla fine del secolo XIX alla prima guerra mondiale circa 90,000 Israeliti, cioè un terzo circa dell'intera comunità romena, emigrò verso i più ospitali lidi statunitensi.
Sull'attività di Peixotto in Romania, cfr. “ Benjamin Franklyn Peixotto, l'Alliance Israélite Universelle et les juifs de Roumanie Correspondance inédite (1871-1876)” di Carol Jancu – Revue des Étude juives, fascicolo, gennaio-giugno 1978, pp. 77-147.
Doc. 21 rapporto dell’amb. Corti a Washington al Ministro Visconti Venosta, Washington 5 giugno 1872.
Doc. 23 rapporto di Corti a Visconti Venosta, Washington 11 giugno 1872.
“….mettere un paese che si governa nella libertà nelle mani di un principe della famiglia degli Hohenzollern. La libertà di tutti sarà minacciata, e gli Israeliti Romeni, noi lo dimostreremo, non guadagnerebbero nulla in cambio”.
“…è tutto quello che chiedono gli uomini che vedono chiaramente nella situazione: il tempo, questo grande conciliatore, farà il resto”.
“…i suoi rapporti a volte si discostano dalla verità; egli ha acceso in Inghilterra un fuoco di paglia, che si è spento appena il governo inglese si è accorto che la Russia gli dava soddisfazione; egli non è riuscito che ad accendere nel cuore dei Romeni un odio sordo che sarà difficile mitigare. Non consiste in ciò la diplomazia”.
“…che la sua azione sia dolce, benevola e che essa passi per così dire inosservata”.
“…né d’intolleranza religiosa né di persecuzioni: si tratta semplicemente dell’invasione di un proletariato dall’aspetto veramente odioso”.
“…in una parola, noi pretendiamo appellarci alla ragione ed al beninteso interesse degli stessi Romeni”.
Translated from the French version of the Original Hebrew by Anna Maria Goldsmith”. London, Simpikin, Marshall and Co. 1872.
(Persecuzione degli ebrei di Romania, di un amico del suo paese, del suo popolo e della libertà. Tradotto dalla versione francese dell’originale ebraico da Anna Maria Goldsmith).
“Noi non siamo fra quelli che impugnano le armi per difendersi da sé o combattono per l’acquisto dei loro diritti; noi non abbiamo mai opposto resistenza al Governo o alle leggi del paese. Il nostro libro sacro ci ordina di desiderare la felicità dei nostri concittadini, anche se essi sono divenuti i nostri oppressori.
La nostra unica arma è la persuasione…”.
“…rivolgete su di noi il vostro sguardo compassionevole. La nostra speranza è riposta in voi, la nostra fiducia è che voi sarete per noi una luce nella nostra oscurità”.
Tipografia Appolonio e Caprin 1872.
“La penosa questione ebraica assume ogni giorno più grandi proporzioni nella stampa straniera, ed il poplo romeno, il più tollerante fra tutti i popoli Cristiani, appare illuminato dai bagliori di un fanatismo religioso quale soltanto il Medioevo ha conosciuto”.
L’opera del De Witte utilizza largamente le “Notes sur la vie du roi de Roumanie par un témoin oculaire”; questo testimone oculare è il dr. Schaefer, antico precettore di Carlo, molto ben documentato.
Le note del dr. Schaefer furono pubblicate dapprima in tedesco sulla “Deutsche Revue” di Stoccarda con il titolo “Ausdem leben Könik Karls von Rümanien” e poi in edizione francese a Bucarest.
rapporto Fava a Visconti Venosta, n.200 Serie politica riservato , Bucarest 7 settembre 1870.
rapporto Fava a Visconti Venosta, n.201 Serie politica riservato , Bucarest 7 settembre 1870.
rapporto Fava a Visconti Venosta, n.202 Serie politica riservato, Bucarest 10 settembre 1870
rapporto Fava a Visconti Venosta, n.205 Serie politica, Bucarest 15 settembre 1870.
rapporto Fava a Visconti Venosta, n.206 Serie politica, Bucarest 18 settembre 1870.
rapporto Fava a Visconti Venosta, n.207 Serie politica, Bucarest 9 ottobre 1870.
Relazioni del Segretario generale del Ministero dell’Interno al Ministro Affari Esteri – Gabinetto particolare, in data 12,13,22,24 settembre “riservata ed urgente”.
Rapporto Fava a Visconti Venosta n. 172 Serie politica, riservato, Bucarest 7 maggio 1870.
Rapporto Fava a Visconti Venosta n. 179 Serie politica, Bucarest 21 maggio 1870.
Sul rifiuto di sposare una principessa russa per timore di reazioni francesi ed inglesi, rapporto Fava a Menabrea n. 102. serie politica – ASDE fondo Moscati 6, busta 1393, fascicolo 3 – Bucarest 30 luglio 1869; Ibidem, rapporto Fava a Menabrea n. 108 Serie politica, 14 agosto 1869.
Rapporto del console a Galatz, Berio a Menabrea n. 18 Politica, Galatz 6 novembre 1869.
Rapporto Gloria a Menabrea n. 125 Serie politica , Bucarest 26 novembre 1869.
“…le attuali istituzioni nei Principati paralizzano gli sforzi di un governo serio e gli si impedisce così di procurare al paese i preziosi vantaggi di una organizzazione razionale e di un’amministrazione regolare”.
“…se la divisione dei partiti ed i più perfidi intrighi”.
D.D.I. serie II , volume II , documento 35, rapporto n. 245 Serie politica riservato di Fava a Visconti Venosta, , Bucarest 11 gennaio 187
Doc. 8, pp. 17-25; M. Jules Favre, Ministre des Affaires Étrangères, à M. de Vogue, Ambassadeur de France à Costantinople. Versailles 12 juin 1871.
“…la Prussia sembra curarsi mediocremente di mantenerlo sul trono e non si potrebbe dubitare che essa sia pronta a sacrificarlo al primo interesse prussiano che peserà sulle sue relazioni”.
“Cosa succederebbe, in effetti, se il Principe si ritirasse? L’istituzione a Bukarest d’una repubblica rossa, modellata sotto lo stesso capo che a Parigi”
Stefan Delureanu “Il processo di unificazione italiana e l’opinione romena (1861-1887). Avviamento ad una ricerca “Atti del L Congresso di Storia del Risorgimento Italiano (Bologna, 5-9 novembre 1980) Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Roma 1982.
Matei Ionescu “La fine del potere temporale nella coscienza religiosa e nella cultura della Romania”.
Atti del XLV congresso di Storia del Risorgimento Italiano (Roma, 21-25 settembre 1970) Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Roma 1972.
Mircea Popescu “La battaglia di Solferino in un canto popolare romeno”. Rassegna storica del Risorgimento anno L, fascicolo III, luglio-settembre 1963.
“…le aspirazioni tanto a lungo soffocate della nazione italiana…”
“…il genio di Traiano, nostro grande antenato, non è più prigioniero nelle celle del Vaticano papale; dall’alto dell’antico Campidoglio egli tenderà la sua mano onnipotente sulla sua figlia del Danubio…”
Proveniva da una modesta famiglia ebraica della Prussia orientale e grazie alla sua abilità accumulò un’ingente fortuna costruendo in proprio il materiale ferroviario (binari, traversine, vagoni, locomotive); in Prussia costruì 1800 kilometri di ferrovie senza finanziamenti statali, usando soltanto capitali da lui stesso procurati.
Diversificando le sue attività, comprò pure grandi beni immobiliari, come in Boemia la proprietà di Zbirow, ricca di boschi e miniere, dell’estensione di circa 25.000 ettari e del valore di 30 milioni di franchi. Ad ognuno dei suoi sette figli assegnò una proprietà principesca e, pur essendo frugali le sue abitudini personali, a Berlino possedé un grande palazzo, divenuto in seguito sede dell’ambasciata britannica, con una galleria di quadri venduta per tre milioni di franchi quando si trovò in difficoltà a causa delle spericolate operazioni in cui si era avventurato, costruendo ferrovie senza disporre dei capitali necessari che contava di rastrellare sul mercato: procedimento riuscito per la costruzione di ferrovie in Prussia, ma dall’esito disastroso quando cercò di ripeterlo in Romania.
Le accuse di costruire male ed a caro prezzo cominciarono allora a fioccare: nel gennaio 1873 Strusberg fu duramente attaccato nel Parlamento di Berlino dal deputato nazional-liberale Lasker e fu accusato di aver fatto fortuna corrompendo funzionari e giornalisti perché favorissero le sue speculazioni.
Il tracollo finanziario di Strusberg dipese non soltanto dall’insuccesso della sua impresa in Romania, ma anche dal suo successivo coinvolgimento nel fallimento di una banca d’affari di Mosca, oberata da un debito di otto milioni di rubli, di cui sette prestati a Strusberg. Per coprire questo grosso ammanco la banca falsificò il bilancio; scoperto l’inganno, furono ritirati i depositi ed il conseguente crollo della banca determinò la rovina di Strusberg, dichiarato fallito, processato ed imprigionato in Russia, senza che lo Stato tedesco intervenisse in suo favore.
Nel giro di 20 anni le ferrovie germaniche triplicarono la loro estensione, arrivando nel 1870 a 19300 Km. Bismarck aveva favorito tale sviluppo, ritenendo le ferrovie un potente mezzo per l’unificazione politica della Germania (aveva agito allo stesso modo Cavour in Italia) e per lo sviluppo economico e demografico del paese (da 300 mila abitanti nel 1850 Berlino arrivò a 1.250.000 nel 1885), oltre che uno strumento bellico essenziale. Prima della guerra del 1870-71 contro la Francia furono pertanto costruiti in Germania tronchi ferroviari diretti alle frontiere e nel 1869 fu creato un apposito dipartimento per l’uso militare delle ferrovie, studiando orari e percorsi. I frutti di questa politica ferroviaria si videro nel 1870: in 14 giorni furono trasportati al fronte 384.000 uomini con il loro equipaggiamento, anticipando quasi la mobilità e velocità dei reparti corazzati tedeschi nella seconda guerra mondiale.
Lo sviluppo e l’efficienza della rete ferroviaria germanica dipesero dalla disciplina e dalla capacità tecniche del personale. L’eccellenza del servizio si mantenne negli anni successivi all’unificazione: agli inizi del 1900 tra Berlino ed Amburgo circolavano 11 coppie di treni.
Cfr. Geoffrey Freeman Allen “Storia delle ferrovie”. Istituto geografico De Agostini – Novara 1983; capitolo “Il consolidamento in Europa e lo sviluppo in Oriente; paragrafo “L’unificazione della Germania”, pp. 75-77.
ASDE fondo Moscati 6, registro copialettere 1201, dispaccio n. 41 di Artom a Fava 12 agosto 1872, n. 3 del registro, pp. 92-93; comunicazione di Artom al gabinetto particolare di S.M. 27 agosto 1872, n. 4 del registro, p. 93.
“La Russia e l’Austria sarebbero d’accordo con la Germania perché niente sia cambiato all’attuale situazione”.
Rapporto Esarcu a Boerescu, Roma 5 febbraio 1874, p. 97.
Rapporto Cantacuzeno a Boerescu, Roma 12 agosto 1875, pp. 114-119.
“Noi siamo quindi del tutto disposti ad allacciare rapporti per trattare, senza perciò sollevare la questione di diritto, poiché io non vedo in ciò una questione politica, ma puramente e semplicemente una questione economica e di interesse locale”.
“…poiché noi avremmo l’aria di lanciare una sfida per mezzo di una misura intempestiva”.
Cfr. Domenico Caccamo “L’Italia, la questione d’Oriente e l’indipendenza romena nel carteggio del consolato italiano a Bucarest (1870-1879)” – Storia e Politica, anno XVIII, fascicolo I (marzo 1879), pp. 65-124. Per le assicurazioni austriache alla Turchia. Cfr. “La Roumanie et la politique Allemande en Orient” di un anonimo francese – Paris 1875, pp. 37-39.
“…che gli stessi Israeliti rendono omaggio allo spirito di giustizia ed alla buona volontà del principe, e che la questione si è avviata a calmarsi, il che consente di sperare una giusta soluzione, tanto più che in nessun tempo ci fu in Romania intolleranza, neanche presso il clero”.
“…mettere in guardia quelle popolazioni contro illusioni ingannevoli e funeste impazienze”.
Vi fu pure un’edizione in francese della stessa opera con il titolo “Les juifs en Roumanie. Remarques sur la Convention de commerce et de navigation entre l’Italie et la Roumanie”, presso lo stesso editore e nello stesso anno.
“…uomo imparziale ed illuminato”.
“…poichè esiste fra loro tutti una stretta solidarietà ogni volta che si tratta di asservire, sul piano economico, l’elemento romeno per mezzo di quello ebraico”.
“…sotto formule generiche e testi vaghi…”
“…non si è voluto derogare ai diritti di ogni governo di prendere, con leggi e regolamenti, tutte le necessarie misure di polizia e di sicurezza, e particolarmente quelle relative allo stabilirsi di ogni individuo in un comune rurale…”
“…per mezzo della sua attività pacifica e feconda, è per il paese una fonte di benessere e di prosperità”.
ASDE fondo Moscati 6 – busta 1394, fascicolo 4, rapporto di Fava a Visconti Venosta n. 431 Serie politica, Bucarest 21 maggio 1874.
“Per niente, anzi al contrario. Si rileggano queste quattro capitolazioni e si vedrà che non solo i principi Romeni non hanno rinunciato alla loro sovranità, ma che essi l’hanno confermata, ricordando in modo esplicito il loro diritto di fare la guerra e la pace…”
“Si comincia a capire che la Turchia non morirà perché la Romania avrà saputo mantenere intatta la sua sovranità”.
La circolare di Catargi ai prefetti era stata trasmessa da Fava a Visconti Venosta allegata al rapporto 458 Serie politica del 6 luglio 1875.
ASDE fondo Moscati 6 registro copialettere n. 1201 dispaccio Melegari a Fava n. 62, n. registro 7, pp. 134-135, Roma 24 maggio 1876.
Sulla politica romena di Melegari Cfr. D. Caccamo “L’Italia, la questione d’Oriente e l’indipendenza romena ecc.”, già citato alla nota 162. Cfr. pure S. Delureanu “La Sinistra costituzionale italiana nei primi anni di governo e l’opinione romena”. Atti del LIX congresso di Storia del Risorgimento Italiano (Viterbo 30 settembre – 5 ottobre 1978) Istituto per la Storia del Risorgimento Italiano, Roma 1980.