Pietro Ardizzone
Formazione del regno di Romania: la posizione italiana
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Capitolo V Carol I, re di Romania

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Capitolo V

Carol I, re di Romania

“Il turco deve andarsene a Brussa. Discese come il lupo passando il Bosforo, devastando, massacrando e stuprando quelle bellicose popolazioni che si dissero i Pelasgi, che furono forse i primi civilizzati dell’Europa”; così da Caprera il 6 ottobre 1875, dopo la rivolta antiturca scoppiata nell’agosto di quell’anno in Bosnia Erzegovina, si esprimeva Garibaldi nell’appello rivolto “Ai fratelli dell’Erzegovina ed agli oppressi dell’Europa Orientale”.

Alla condanna delle violenze turche si univa l’esaltazione del valore degli “eroici figli della Montagna Nera, dell’Erzegovina, della Bosnia, della Serbia, della Tessalia,  della Macedonia, della Grecia, dell’Epiro, dell’Albania, della Bulgaria e della Romania”, messi in guardia contro i maneggi ed i compromessi dei governi: “non vi fidate della diplomazia, codesta vecchia senza onore vi ingannerà…Ma con voi stanno gli uomini di cuore del mondo intiero”. E questa solidarietà internazionale, notava con soddisfazione Garibaldi, aveva spinto a simpatizzare con le nazionalità oppresse dalla Porta anche il governo inglese, tradizionale sostenitore dell’integrità territoriale dell’impero turco, considerato un baluardo contro l’espansionismo russo.

Garibaldi era il leader della Sinistra radicale, formata dagli scontenti della prudente Sinistra di governo, erede anche in politica estera della moderazione della Destra storica.

La paciosa politica di Melegari continuava in sostanza quella di Visconti Venosta; come il suo predecessore, il ministro degli Esteri del governo della Sinistra, arrivata al governo nel marzo del 1876, dava di continuo istruzioni all’ agente diplomatico a Bucarest, Fava, perché consigliasse moderazione e prudenza ai governanti Rumeni.

La posizione della Sinistra di governo sulla questione d’Oriente non fu però priva di oscillazioni e contraddizioni, riscontrabili negli articoli del giornale di Depretis, “Il Popolo romano”. La posizione iniziale, allo scoppio della rivolta in Bosnia-Erzegovina, fu di solidarietà con gli insorti, spronando la Serbia ad intervenire per sostenerli (21 agosto 1875, “Gli Slavi meridionali” ; 26 agosto “Il primo passo”; 29 agosto “Un libro sulla Serbia”; 4 settembre “La questione d’Oriente”). Veniva poi condannato il ritardo della Serbia ad intervenire (10 ottobre 1875 “Le nozze serbe”) e, in omaggio al “sacro egoismo” delle nazioni, poi teorizzato da Crispi, era pure rivendicato il diritto italiano a ricavare vantaggi dalla questione d’Oriente (14 settembre “La questione dell’Erzegovina e il ministero degli Esteri”).

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L’incerto andamento della rivolta e l’insufficienza dell’aiuto serbo per farla trionfare resero però evidente la necessità per gli slavi del sud di far ricorso alla Russia, paese detestato dalla sinistra di governo come da quella radicale, in quanto ritenuto simbolo del dispotismo, e quindi il giornale cambiò linea (22 ottobre 1875 “In Oriente”), arrivando a sostenere l’inutilità di una guerra tanto sanguinosa, per cui sarebbe stato preferibile chiedere alla Turchia  riforme liberali (11 novembre “I quattro imperi”).

In tal modo la sinistra di Crispi e Depretis si fece sostenitrice dell’integrità territoriale dell’impero Ottomano; la sua scomparsa non avrebbe arrecato alcun vantaggio all’Italia, cui conveniva quindi restare semplice osservatrice, come la Francia (23 novembre “La questione d’Oriente”).

“Il Popolo Romano” nel confermare il sostegno allo “status quo” in Oriente polemizzava con la sinistra radicale, sempre decisa invece a simpatizzare con i rivoltosi (“La Capitale”, 12 agosto 1875, “La politica fuori di casa”; “Il Secolo”, 3-4 settembre 1875 “Gli insorti e la diplomazia”), criticando i sovrani dell’Europa orientale per il mancato appoggio agli insorti (“Il Secolo”, 31 luglio-1 agosto 1875); di particolare durezza fu l’attacco rivolto da “Il Secolo” a Carlo di Romania, di cui si augurava la deposizione poiché era rimasto un estraneo al paese da lui tanto male governato (11-12 agosto 1875 “La Rumenia”).

La Sinistra radicale italiana non si limitò a condurre campagne di stampa; promosse difatti comitati di solidarietà con gli insorti e, secondo la migliore tradizione garibaldina, si arruolarono volontari per prendere parte alla guerra. Garibaldi, ormai vecchio e malato, non poté intervenire di persona ma assicurò il suo appoggio, facendosi rappresentare sul campo da Celso Ceretti, un internazionalista in contatto con Bakunin, passato con i volontari garibaldini dall’Erzegovina in Serbia, quando il governo di Belgrado intervenne contro la Turchia.

L’ intervento serbo e l’avvento in Romania di un governo formato dai radicali di Ion Bratianu, dopo la caduta del presidente moderato Lascar Catargi, attenuarono l’ostilità della sinistra radicale italiana nei confronti della Serbia e della Romania. 1

Questi paesi condividevano del resto con la Bosnia-Erzegovina l’avversione verso la Turchia dal cui dominio si erano affrancati, ma nei cui confronti permanevano ostili, alimentando le aspirazioni all’indipendenza nelle regioni vicine, come la Bosnia-Erzegovina e la Bulgaria, dove nella primavera del 1876 una rivolta fece seguito a quella bosniaca dell’agosto precedente.

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La Serbia aveva sempre mantenuto un atteggiamento favorevole all’affermazione dell’indipendenza dei paesi Balcani: già nel 1867 Michele Obrenovic aveva proposto di costituire una confederazione balcanica, ponendo fine al dominio della Porta. La proposta non aveva avuto seguito, ma era comunque un chiaro sintomo delle tendenze e delle simpatie politiche serbe, per cui fu una naturale conseguenza l’intervento a favore degli insorti nel 1876, causato anche dallo sdegno per la dura repressione turca.

La situazione aggravata dall’intervento congiunto della Serbia e del Montenegro contro la Turchia preoccupò vivamente le Potenze, interessate non soltanto a proteggere le popolazioni cristiane, ma anche a salvaguardare i propri interessi.

L’Austria difatti era interessata alla situazione nella Bosnia-Erzegovina, retroterra della Dalmazia, possedimento austriaco, e nel sangiaccato di Novi-Bazar, territorio turco posto tra Serbia e Montenegro, la cosiddettaVia di Salonicco”, il porto ad oriente, sbocco agognato dal governo di Vienna, desideroso inoltre, come le altre Potenze occidentali, di limitare l’influenza russa nei Balcani.

La politica inglese, a dispetto dell’ottimismo manifestato da Garibaldi nell’appello prima ricordato circa le simpatie createsi in Gran Bretagna per le nazionalità oppresse nei Balcani,era divisa tra la posizione del wig Gladstone, propenso ad esercitare pressioni sulla Porta, in difesa delle popolazioni cristiane; e la posizione del primo ministro tory Disraeli, contrario invece ad ogni intervento che potesse indebolire la Turchia, favorendo così le aspirazioni russe al controllo degli Stretti.

La Francia, da sempre protettrice dei cristiani dell’impero turco, guardava pur essa con preoccupazione alla loro sorte e seguiva attentamente la situazione, sperando pure di trovarvi l’occasione per rialzare il suo prestigio compromesso dalla sconfitta subita nel 1870 ad opera della Prussia.

La Germania unita, nata appunto dalla vittoria riportata sulla Francia, voleva mantenere buoni rapporti con la Russia per consolidare con essa un’intesa che era come una polizza assicurativa contro la “revanchesognata a Parigi.

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La grande madre Russia, protettrice della fede ortodossa e di tutte le genti slave, era naturalmente la più interessata ad intervenire in difesa degli insorti della Bosnia-Erzegovina, oltre che della Serbia e del Montenegro, lanciatisi temerariamente a sfidare la potenza ottomana e destinati a sicura sconfitta, data la disparità delle forze in campo, se non fossero sopraggiunti aiuti esterni.

Il potente ministro russo Gorciakoff avrebbe voluto stabilire intese con gli altri governi per un intervento congiunto, al fine di evitare i contrasti derivanti da una singola iniziativa della Russia non concordata con gli altri governi; il generale Ignatieff, ambasciatore a Costantinopoli e tanto potente da potersi permettere una sua politica diversa da quella del ministro, premeva invece perché la Russia intervenisse subito, senza indugiare nella ricerca del consenso degli altri governi. E Gorciakoff finì per far sua questa posizione, poiché sarebbe stato un grave smacco per la Russia la sconfitta degli insorti della Bosnia-Erzegovina e dei loro alleati  Serbia e Montenegro.

Il governo italiano, fedele alla sua politica di cauta attenzione agli avvenimenti internazionali, evitava di prendere iniziative sproporzionate rispetto alle sue forze di ultima fra le grandi Potenze e prima fra quelle secondarie, secondo la definizione che precisava i limiti delle sue possibilità.

La stessa cautela l’aveva raccomandata alla Romania Visconti Venosta e continuava a raccomandarla Melegari. La Romania era naturalmente molto interessata al corso degli avvenimenti in Oriente, posta com’era fra i due grandi imperi rivali, il russo ed il turco, oltre a condividere le apprensioni per le sorti dei confratelli ortodossi esposti alle rappresaglie turche.

Ma il governo romeno teneva soprattutto presenti le possibilità che un nuovo conflitto avrebbe potuto offrire all’acquisto dell’indipendenza piena, ponendo fine ad ogni legame con la Porta.

Nel suo dispaccio a Fava del 6 febbraio 1876 Visconti Venosta riferiva sull’incontro avuto con l’agente diplomatico di Romania a Roma, Esarcu, e sulle rassicurazioni da questi dategli circa gli stanziamenti per spese militari disposti dal governo di Bucarest.

Il diplomatico romeno escludeva qualsiasi progetto offensivo: il riarmo rispondeva soltanto a necessità difensive.

Visconti Venosta se n’era rallegrato ed aveva affermato che una politica basata sulla prudenza avrebbe potuto meglio di ogni altra evitare complicazioni e pericoli per la Romania; dava pertanto istruzioni a Fava perché usasse un linguaggio conforme al suo, sì da distogliere il governo romeno da iniziative inopportune e tali da preoccupare l’Italia e con esso tutti paesi amanti della pace, minacciando l’integrità territoriale dell’impero turco.

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L’agente italiano, affermava Visconti Venosta, doveva evitare di impegnarsi in discussioni che sembravano “far parte di quella politica congetturale che governi savi e prudenti si astengono dal fare”, mantenendo il massimo riserbo “in quelle cose che potrebbero impegnarci ad emettere dei giudizi che consideriamo come prematuri”.2

Nella sua risposta Fava attestava l’assenza di propositi bellicosi nel governo romeno ed assicurava Visconti Venosta di avere sempre consigliato moderazione e prudenza; consigli oltretutto superflui, in quanto Lascar Catargi, capo del governo, “non si fece mai trascinare dagli eccitamenti inconsueti di coloro che avrebbero voluto imporgli l’immediata proclamazione dell’indipendenza assoluta del paese”. Il governo conservatore aveva sempre affermato di voler realizzare l’indipendenza della Romania, ma “con mezzi legali, prudenti e pacifici”. Però, aggiungeva l’agente italiano, “un ministero di altro colore o meno saggio dell’attuale potrebbe cambiare domani la situazione”.3

Il rapporto di Fava corrispondeva alla realtà. Fin dallo scoppio dell’insurrezione in Bosnia-Erzegovina Catargi si era mantenuto in prudente attesa, affermando l’interesse prioritario della Romania a risolvere i suoi problemi interni, piuttosto che arrischiare pericolose avventure internazionali; in futuro avrebbe potuto trovare l’occasione e le alleanze necessarie per conseguire l’indipendenza; ma al momento era necessario seguire una politica di stretta neutralità di fronte al conflitto già iniziato e destinato forse ad assumere proporzioni molto più ampie: era questo il quadro della politica romena tracciato da Fava nel suo rapporto del 20 agosto 1875, all’inizio cioè dell’insurrezione in Bosnia.4

La prudenza del governo romeno era successivamente confermata dal rapporto dell’agente italiano in data 15 settembre 1875: il governo di Bucarest permetteva la raccolta di fondi per soccorrere gli insorti feriti, effettuata dal comitato bulgaro; ma non avrebbe consentito alcun turbamento dell’ordine pubblico né l’arruolamento di volontari. Catargi era disposto ad usare il pugno di ferro, espellendo chiunque avesse preso quelle iniziative ed era intervenuto presso Carlo per dissuaderlo da ogni proposito di intervento, da cui il principe appariva tentato.

Le Potenze e la Turchia in particolare - osservava Fava - avevano apprezzato tanta prudenza, per cui la Porta forse in futuro avrebbe accolto le richieste romene, nel quadro di una soluzione complessiva della questione d’Oriente.5

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Qualche preoccupazione però la destava in Fava il contegno di Carlo, che in combutta con il ministro della guerra, Florescu, e con quello degli esteri, Boerescu, sembrava nutrire ancora propositi bellicosi. Proseguendo la sua attività di pompiere l’agente italiano fece presenti ai due ministri gli svantaggi derivanti dall’abbandono della neutralità, ricevendo pronta assicurazione  che si trattava di voci infondate.6

La prudenza di Fava ed i consigli da lui dati al governo romeno riscuotevano l’approvazione di Visconti Venosta, in quanto quel linguaggio corrispondeva “al desiderio del governo di S.M. di contribuire per quanto è possibile ad allontanare le cause di contestazioni che potrebbero complicare ancor maggiormente la situazione delle cose in Oriente”.7

Era pure motivo di sollievo per Visconti Venosta il discorso di Carlo nel novembre 1875 per l’apertura della sessione parlamentare, da cui non trasparivano più i propositi bellicosi prima manifestati.8

Da parte sua Fava lodava ancora una volta Catargi per la sua politica di neutralità, dimostrando che la Romania era “affatto estranea ed indifferente alle periclitanti sorti dell’impero ottomano”.

Neutralità ritenuta indispensabile per l’esistenza stessa della Romania: erano consapevoli i Romeni “che porgendo una mano imprudente agli insorti ed ai malcontenti della riva destra del Danubio troverebbero in questa politica di azzardo la tomba della loro nazionalità”.9

La diminuzione delle spese militari confermava la prudenza del governo romeno; era poi categorica ed esplicita l’affermazione di Catargi di esser pronto a dimettersi se fosse stata abbandonata la neutralità.10

Ma, pur non venendo meno la neutralità romena, alle dimissioni Catargi fu costretto dai persistenti contrasti politici e dallo sfavorevole esito delle elezioni svoltesi nell’aprile 1876 per il rinnovo del Senato, sciolto perché contrario a Catargi. La caduta del governo Catargi fu deplorata da Fava, in quanto quel governo aveva assicurato per cinque anni alla Romania la fiducia all’estero e la sicurezza all’interno, prima di esser “costretto a ritirarsi per guerre di ambizioni e di portafogli”.11

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Con perfetto sincronismo anche in Italia ci fu un cambio di governo, con la “rivoluzione parlamentare” del marzo 1876, per cui cadde il governo di Marco Minghetti, minato dai dissensi interni alla Destra, divisa sulla gestione delle ferrovie per cui il gruppo toscano guidato da Peruzzi votò contro il governo.

Vittorio Emanuele II affidò quindi ad Agostino Depretis la formazione del primo governo della Sinistra, in cui Luigi Amedeo Melegari fu ministro degli Affari Esteri, assicurando continuità con la politica di Visconti Venosta;  lo notava l’agente diplomatico romeno a Roma, Esarcu, scrivendo nel suo rapporto del 4 aprile 1876 “…je ne crois pas quau point de vue pratique sa politique à notre égard différera d’une facon essentielle de son prédecesseur. En tout cas il ne m’a pas paru avoir encore des idées bien arretées sur la ligne de conduite qu’il entend suivre”.

Ed alcuni mesi dopo, nel settembre 1876, il nuovo agente romeno Cantacuzeno esprimeva molte riserve su Melegari, divenuto ministro dopo una lunga permanenza a Berna come rappresentante diplomatico dell’Italia; Cantacuzeno riportava difatti con l’aria di condividerlo l’impietoso giudizio su Melegari dato da Isacco Artom, l’antico collaboratore di Cavour, a lungo segretario generale del ministero degli Esteri: “…c’est un homme de la famille, connaissant très bien le Ministère des Affaires Etrangères, dont il fut à deux reprises secrétaire général. Mais, depuis longtemps en Suisse, pour ainsi dire en retraite, peut-etre est-il un peuradoteur”. E Melegari, aggiungeva il diplomatico romeno, era oggetto di critiche ostili.11bis

Per dare una soluzione alla crisi ministeriale romena Fava riteneva opportuno formare un governo di coalizione, destinato però a suo parere a durare poco; esisteva difatti una situazione di grande instabilità, causata dalle ambizioni personali ed ancor più dal conflitto istituzionale che si veniva preparando, poiché il nuovo Senato era ostile a Catargi mentre la Camera si era mantenuta a lui fedele. Fava era quindi pessimista sul futuro della Romania: venuto meno il freno di Catargi sulle temuteintemperanze” del principe Carlo, con la probabile formazione di un governo radicale si sarebbe riaperta “l’era della politica di avventure che già mise in altra epoca a repentaglio l’esistenza della Romania”.12

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Fu difficile la formazione del nuovo governo succeduto a quello di Catargi. Andò a vuoto  un primo tentativo effettuato dal radicale Vernescu ed un nuovo incarico fu quindi affidato a Florescu; questi riuscì a formare un governo con elementi conservatori di secondo piano, subito contestato dai radicali. Fava era dubbioso sulla possibilità per la Romania di restare neutrale, ma sia Florescu che Cornea, ministro degli Esteri, gli confermarono che la neutralità sarebbe stata mantenuta.13

La stessa assicurazione Florescu la diede nel suo discorso programmatico in Parlamento; ma il suo governo ebbe vita breve, a causa dell’opposizione dei senatori, guidata da Jon Ghika, Jon Bratianu e Mihail Kogalniceanu. Carlo  non volle sciogliere il senato una seconda volta ed affidò l’incarico a Kostaki Epureanu; si formò un governo di coalizione, bollato da Fava come frutto di “… mostruose unioni di elementi tanto disparatipossibili in Rumania tutte le volte che si volle costringere il principe pro tempore ad abdicare”.14

Ma Carlo, malgrado la difficoltà della situazione, resistè; Epureanu imbarcò nel governo i radicali più autorevoli: Kogalniceanu ebbe il ministero degli Esteri, Jon Bratianu andò alle Finanze, Vernescu agli Interni.

Il neo-presidente confermò una volta ancora la neutralità romena e Kogalniceanu assicurò a Fava i propositi soltanto difensivi della Romania ed il divieto di formare bande di volontari per aiutare i rivoltosi; in cambio il ministro si attendeva dalle Potenze il riconoscimento del nomeRomania”, al posto di “Principati Uniti di Moldavia e Valacchia”, e la cessione di alcuni isolotti del Danubio.15

Richieste giudicate accettabili da Melegari; il ministro italiano lodava inoltre le “dichiarazioni savie e temperate del signor Epureanu” sulla neutralità, tali da meritare “l’unanime plauso” dei paesi amanti della pace, promettendo l’appoggio italiano presso la Porta se la Romania avesse iniziato trattative ufficiali perché fossero soddisfatte le sue richieste. 16

Contraddicendo queste favorevoli impressioni sulla volontà romena di mantenere la neutralità, lo stesso Melegari manifestava però a Balascianu, da poco divenuto agente diplomatico a Roma, la sua disapprovazione perché il governo romeno aveva permesso la formazione di bande di volontari bulgari in Romania, pronte a passare nella loro terra d’origine per dare man forte agli insorti.

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L’agente romeno lo comunicò a Bucarest e Kogalniceanu si lamentò con Fava del credito accordato dal Melegari a quelle voci, ritenute infondate anche dal console italiano.17

Kogalniceanu faceva inoltre osservare a Fava quale grande aiuto la Romania dava alla Turchia mantenendosi neutrale ed impedendo il dilagare della rivolta in Bulgaria grazie al divieto di farvi pervenire armi ed armati attraverso il territorio romeno; si attendeva quindi da parte del governo turco un gesto di gratitudine come riconoscere a Carlo il titolo di re di Romania, aggiungendo in tono di minaccia che sarebbe stato sufficiente un suo telegramma perché la frontiera del Danubio si aprisse al passaggio dei rifornimenti e dei volontari diretti in Bulgaria. Fava replicò sconsigliando il ricorso a ritorsioni contrarie agli interessi stessi della Romania, cui conveniva  proseguire nella sua prudente neutralità.18

In realtà si erano già verificati passaggi di rinforzi per gli insorti bulgari attraverso il territorio romeno, ma Fava non ne era sicuro e non ne aveva perciò fatto cenno a Kogalniceanu; contrastava tale voce del mancato rispetto della neutralità romena l’arresto di 50 membri del comitato bulgaro disposto dal governo di Bucarest.19

Melegari, nonostante tale misura di sicurezza presa dal governo romeno, continuava a dubitare dell’efficacia dell’impegno da questi preso di evitare l’arrivo di rinforzi in Bulgaria e rinnovava quindi l’esortazione ad agire con “maggiore accortezza e prudenza”.20

A seguito di tale richiamo Kogalniceanu espresse a Fava il suo rincrescimento perché non erano apprezzati gli sforzi del suo governo per impedire l’arrivo di rinforzi agli insorti in Bulgaria ed a riprova di tali sforzi citava la soddisfazione per la saggia politica della Romania manifestata da Francesco Giuseppe all’agente diplomatico di Romania a Vienna e la riconoscenza del gran visir per la condottaaccorta e leale” del governo di Bucarest.21

Era poi la volta della Romania a mostrarsi allarmata per l’invio di navi da guerra turche sul Danubio per attaccare la Serbia, minacciando così la neutralità romena, ritenuta da Fava una necessità più che una scelta: “anche volendolo, non saprei davvero come, con una armata che è al di sotto del mediocre e con le finanze così depauperate dello Stato, la Rumania potesse prender parte ad una guerra”. 22

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Aggiungeva Fava che i  Bulgari residenti a Bucarest avrebbero comunque cercato di aiutare i loro connazionali insorti, ma il principe ed il governo romeno avrebbe evitato di “farsi pel momento trascinare in una guerra di esclusivo interesse slavo” e pertanto “impopolare fra le popolazioni”.

Anche le difficoltà economiche si opponevano ad una partecipazione romena alla guerra, ma - e qui Fava sembrava anticipare il futuro - eventuali finanziamenti da parte di Potenze interessate all’intervento della Romania, avrebbero forse potuto spingerla ad intervenire.23

Il governo romeno chiese il  ritirò delle navi turche e la neutralizzazione del Danubio; al contempo inviò ai suoi agenti diplomatici all’estero un memorandum per le Potenze al fine di illustrare le seguenti richieste alla Porta: 1) riconoscimento dell’individualità nazionale romena e del nome storicoRomania”;2) ammissione nel corpo diplomatico degli agenti Rumeni fino a quel momento considerati ufficiosi;3) regolarizzare la situazione dei Rumeni residenti in Turchia;4) cessione alla Romania di alcuni isolotti danubiani;5) diritto della Romania a stipulare accordi di commercio e per l’estradizione, convenzioni postali e telegrafiche;6) diritto della Romania a rilasciare passaporti; 7) rettifica della frontiera turco-romena nel delta danubiano.24

Il memorandum con le richieste romene fu trasmesso a Melegari solo in via ufficiosa poiché era assente da Roma l’agente diplomatico romeno. Appigliandosi a questo aspetto formale, Melegari diede disposizione a Fava di non pronunciarsi sulle richieste romene, limitandosi ad accusare ricevuta del documento e ad assicurare che le richieste sarebbero state esaminate “con animo benevolo”, dopo averle studiate con attenzione data la loro serietà, tanto più che su alcune di esse il governo italiano non aveva elementi di giudizio sufficienti. Per tali ragioni, considerato anche il difficile momento attraversato dalla Turchia, Fava doveva consigliare al governo romeno di condurre il negoziato con la pacatezza propria dei sentimenti pacifici fino ad allora dimostrati.

Analogamente - aggiungeva Melegari - si erano date istruzioni al conte Corti rappresentante italiano a Costantinopoli, perché non incoraggiasse “la Romania ad assumere verso la Porta un contegno troppo risoluto…. fuor d’ogni proporzione con la entità delle domande”.

Salomonicamente Corti avrebbe pure dovuto far capire alla Porta l’inopportunità di creare nuove difficoltà dimostrandosi troppo rigida.25

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Ma Kogalniceanu non seguì i consigli dati da Roma; inviò difatti una circolare agli agenti diplomatici della Romania per far presente come una mancata pronta risposta turca alle richieste romene avrebbe comportato la fine della neutralità (l’affermazione non era comunque presa sul serio da Fava).

Al contrario Jon Ghika, agente di Romania presso la Porta, insisteva per il ritiro delle navi da guerra turche dal Danubio nel tratto fra il suo paese e la Serbia, minacciando in caso di mancato ritiro misure adeguate per assicurare la difesa da eventuali attacchi. Il ministro degli Esteri turco, Savfet pascià, giudicò quella minacciosa affermazione simile ad una dichiarazione di guerra; ma Kogalniceanu confermò a Fava le parole di Ghika e l’agente italiano per rabbonire il ministro romeno gli comunicò le istruzioni di Melegari a Corti perché insistesse presso la Porta per il ritiro delle navi e si disse convinto che la Porta avrebbe ceduto alle pressioni delle Potenze ed avrebbe ritirato le sue navi.26

La previsione di Fava presto si avverò: difatti il “Monitore ufficiale” di Romania l’11 luglio 1876 annunciò il ritiro delle navi turche e l’accettazione da parte della Porta della richiesta di rendere neutrale il tratto del Danubio che segnava il confine tra Romania Serbia.

Ci fu così una schiarita nei rapporti turco-Rumeni e non valse a turbarli neanche la raccolta di fondi destinati al soccorso dei feriti serbi e montenegrini, organizzata da alcuni sostenitori di Lascar Catargi.

C’era però anche il problema del passaggio di armi e munizioni russe destinate a Serbia e Montenegro attraverso la  frontiera segnata dal fiume Pruth, dove erano stati bloccati dal governo romeno cinque vagoni ferroviari con il loro carico. Ma Kogalniceanu confidava rassegnato a Fava l’impossibilità di controllare quella frontiera molto lunga, dovuta sia alla inefficienza della gendarmeria sia, come velatamente il ministro faceva intendere, alla segreta complicità di altri ministri e forse dello stesso principe perché fosse eluso il divieto di transito per i rifornimenti destinati ai nemici della Turchia. Inoltre, molti militari russi circolavano in Romania indossando abiti borghesi, diretti in Serbia e Montenegro per dare man forte contro l’esercito turco.27

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Incassato il successo della neutralizzazione del Danubio e del ritiro delle navi turche, il governo romeno tornò a chiedere alla Porta di accogliere le richieste elencate nel memorandum già presentato anche alle Potenze per conoscenza, sebbene queste l’avessero accolto molto tiepidamente.

Savfet pascià diede una risposta dilatoria, affermando di non aver ancora studiato con attenzione il documento ed anticipando trattarsi comunque per alcuni aspetti di problemi da prendere in considerazione a guerra finita e da risolversi con il consenso generale delle Potenze.

La risposta turca fu giudicata deludente e Kogalniceanu manifestò apertamente a Fava il proprio disappunto, osservando che solo la definizione del confine turco-romeno nel delta danubiano poteva esser considerato un problema da sottoporre al giudizio di tutte le Potenze.

Il ministro romeno attribuì alla Porta l’intenzione di prender tempo e di non avere in realtà interesse ad accogliere le richieste romene a guerra finita; la Romania pertanto sarebbe stata costretta a rivedere la sua politica di neutralità, anche se non si poteva al momento precisare in che modo l’avrebbe fatto: “come - dichiarava Kogalniceanu - nol sappiamo ancora; ma non ci riuscirà poi difficile di assicurarci altrove l’alleanza e la partecipazione di cui abbiamo bisogno”. Fava ripeté a Kogalniceanu e poi e allo stesso principe l’abituale consiglio di agire con moderazione e ponderatezza, tenuto anche conto delle reali difficoltà create alla Turchia dalla guerra in corso. L’agente italiano non credeva comunque a concrete azioni ostili della Romania contro la Turchia, poiché il governo di Bucarest non gli sembrava “in grado di appigliarsi a decisioni estreme”, considerato lo stato del suo esercito e delle sue finanze e la contrarietà della popolazione alla guerra; secondo Fava Kogalniceanu faceva la voce grossa solo per ottenere l’appoggio dell’Europa alle richieste romene.28

Ma le minacce di Kogalniceanu seppur vaghe dimostravano un evidente risentimento e causarono preoccupazioni a Roma, per cui il segretario generale del Ministero degli Esteri, Tornielli, inviò a Fava un dispaccio per deplorare il proposito romeno di lasciare la neutralità; proposito ritenuto ingiustificato, poiché la risposta di Savfet pascià apparivadilatoria sì, ma benevola”.

Tornielli impartiva a Fava la disposizione di comunicare questo parere italiano al governo romeno, “il quale - si affermava nel dispaccio - della nostra schietta e costante amicizia non può certo dubitare”.29

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L’insistenza romena nel chiedere una risposta della Porta era dovuta, secondo le confidenze fatte a Fava da alcuni ministri, all’esigenza di preparare il terreno in vista di una probabile Conferenza internazionale chiamata ad esaminare la questione d’Oriente, nel cui quadro generale potevano inserirsi le richieste avanzate alla Porta; ma queste furono giudicate intempestive dalle Potenze e Kogalniceanu pagò la sua insistenza con l’esclusione dal governo.30

A quel punto si verificò infatti in Romania l’ennesima crisi politica; Constantin Rosetti, presidente della Camera e leader radicale, il 4 agosto 1876 mise in stato di accusa per presunte malversazioni Catargi ed i ministri del suo governo e la Camera approvò a larga maggioranza (57 voti a favore contro 4 contrari e 9 astenuti).

La clamorosa iniziativa spinse alle dimissioni il governo Epureanu e si formò un governo dei radicali presieduto da Jon Bratianu; agli Affari Esteri Kogalniceanu fu sostituito da una figura di minor prestigio, Ionescu, per volere di Bratianu, in modo da poter attuare una sua personale politica estera.31

Il nuovo governo proclamò ancora una volta la neutralità della Romania; Ionescu  assicurò Fava di volere  intensificare i controlli alle frontiere per impedire il transito di aiuti agli insorti bulgari ed affermò di voler stupire l’Europa con la moderazione della sua politica. Il neo ministro degli Esteri romeno disse pure di condividere le richieste avanzate da Kogalniceanu con il suo memoriale, ma, considerata la situazione, era opportunometterlo per ora a dormire”. L’isolamento politico di Kogalniceanu fu completato dalla sconfessione del suo ex presidente Epureanu, che dichiarò essere frutto di una iniziativa personale dello stesso Kogalniceanu il tanto contestato memoriale. 32

Ma le parole di Ionescu non furono confermate dai fatti; i cinque vagoni di armi russe bloccati da Kogalniceanu alla frontiera del Pruth poterono varcarla e proseguirono il viaggio verso la Serbia, il cui rancore verso la Romania, accusata di tradimento per la sua neutralità, venne perciò ad attenuarsi.33

Fava notava inoltre il continuo aumento dei militari russi di passaggio in Romania; soltanto nell’agosto 1876 ne erano arrivati circa 4000, senza nascondere di essere diretti in Serbia; essi si presentavano come volontari, ma secondo Fava erano invece militari in servizio effettivo nell’esercito russo.34

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L’attività del governo Bratianu non era resa difficile solo dai problemi di politica estera; la turbavano anche le accese rivalità tra i partiti e l’atmosfera politica era resa incandescente dal processo intentato contro Catargi e gli altri ex ministri del governo conservatore, accusati di brogli elettorali, concussione, violazione delle leggi finanziarie.

A queste accuse dei radicali i conservatori replicavano con la minaccia di denunciare le responsabilità del principe Carlo, se si fosse veramente celebrato il processo intentato contro di essi. Secondo Fava gli uni e gli altri, se ridotti agli estremi, si sarebbero appellati alla Russia, sollecitandone l’intervento, con buona pace della sovranità nazionale. La principale colpa di Carlo per Fava era assistere passivamente alle lotte fratricide dei partiti; un suo intervento deciso avrebbe potuto porre fine all’ “intrapreso sistema di rappresaglie, che sotto l’usbergo del Parlamento alimentava …una disgraziata guerra civile”.35

Fava non nascose a Ionescu la penosa impressione in lui suscitata dal processo, giudicato illegale oltre che politicamente dannoso. Il ministro romeno apparve scosso da quel duro giudizio, cui non volle o non poté controbattere; diede invece assicurazione a Fava di non agire presso la Porta con l’impazienza dimostrata da Kogalniceanu, presentando quelle sue richieste con tenacia unita alla moderazione. Il segretario generale del Ministero degli Esteri romeno chiarì inoltre a Fava la necessità per Ionescu di non tralasciare le trattative con la Porta sulle richieste formulate da Kogalniceanu: il ministro doveva difendersi dalle accuse degli oppositori di non saper trarre profitto dalla neutralità romena tanto utile alla Turchia e voleva inoltre tener desta l’attenzione sui problemi della Romania, in vista della Conferenza internazionale probabilmente destinata a trattare la questione d’Oriente, auspicata dai politici Rumeni di ogni partito.36

Sulla intricataquestione d’Orienteintervenne anche il presidente dell’Alliance Israélite Universelle, Crémieux, con una lettera al ministro francese degli Affari Esteri, Decazes, per conoscenza trasmessa a Melegari dal Presidente del Comitato romano dell’Alliance, Samuel Toscano.

Crémieux non si limitava a chiedere occasionali provvedimenti per la tutela delle comunità Israelitiche in Romania, Serbia, Bosnia-Erzegovina e ricordava con disappunto come l’Europa si fosse dovuta pentire di non aver regolato “d’une maniére précise et liberale” le loro condizioni in Serbia e Romania con il trattato di Parigi del 1856 e con la convenzione del 1858.

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Quell’omissione era stata causa di gravi turbamenti della pace in Europa; pertanto, se dal conflitto in corso fosse derivata la formazione di un principato indipendente, occorreva includere nella costituzione del nuovo Stato precise garanzie per gli Ebrei per evitare altri casi di antisemitismo, da attribuire in larga misura alle gelosie di una borghesia timorosa della concorrenza commerciale esercitata dagli Israeliti. A queste garanzie non si sarebbero opposti le classi popolari né i principi e tanto meno la Porta: c’era da augurarsi che grazie alle garanzie costituzionali gli Ebrei non avrebbero rimpianto il governo turco, trovandolo preferibile a quello di una classe politica cristiana.37

E con la Turchia i rapporti del governo romeno tornarono presto a deteriorarsi dopo la breve schiarita dovuta al ritiro delle navi da guerra turche dal Danubio, come richiesto dalla Romania.

Savfet pascià presentò difatti a Bucarest una dura protesta perché vi era un continuo e crescente afflusso di “volontarirussi in Serbia attraverso la Romania e, per arginare quel  passaggio, dispose l’invio di due cannoniere nel tratto del Danubio in precedenza reso neutrale.

Bratianu si trovò così in un serio imbarazzo, dovendo scegliere fra l’inimicizia turca se non avesse posto fine al transito dei russi, e l’ostilità della Russia, se avesse adottato misure più severe per bloccare i rinforzi diretti in Serbia.38

La situazione sembrò precipitare quando il governo romeno disposte il richiamo delle riserve ed il concentramento delle sue truppe alla frontiera, quasi per opporsi ad un’eventuale invasione, di cui sembrava essere un presagio la presenza in Bessarabia di un forte contingente militare russo e di bande irregolari bulgare. Ma le forze di cui disponeva il governo romeno avrebbero potuto fermare lo stillicidio di “volontari” attraverso la frontiera, ma ben poco avrebbero potuto fare contro l’attacco di un intero esercito russo. Fava, oltre a notare quella insufficienza militare della Romania, richiamava ancora una volta l’attenzione sull’opinione pubblica contraria alla guerra e si chiedeva da che parte si sarebbe schierato il governo di Bucarest, se costretto ad entrare in guerra.39

Osservatore attento e trepidante per le sorti della pace, Fava si allarmò per l’invio di una delegazione guidata da Bratianu in Crimea, a Livadia, per incontrare lo zar, temendo fosse quella l’occasione per stringere accordi militari con la Russia: Ionescu lo rassicurò, affermando trattarsi di un semplice gesto di cortesia, analogo all’omaggio reso da una delegazione romena a Francesco Giuseppe, recatosi a Sibiu (Hermann Stadt) per le manovre militari.

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Non era quindi, secondo Ionescu, da ritenere possibile un’alleanza con la Russia; Bratianu, se si fosse presentata l’occasione, si sarebbe limitato a far presente allo zar l’imbarazzo derivante alla Romania dal passaggio dei numerosivolontarirussi, per cui era a rischio la sua neutralità.

Ma il tono generale del discorso di Ionescu non era certamente rassicurante; il ministro romeno riteneva infatti inevitabile una guerra tra Russia e Turchia e prevedeva il passaggio in forze dei russi attraverso la Romania, poiché non sarebbe stato “né prudenteagevole” fare uno sbarco a Varna. C’era solo da chiedersi se, almeno per salvare  le apparenze, il governo zarista avrebbe trattato con la Romania per far passare le sue truppe, ovvero avrebbe compiuto un gesto di forza passando il confine senza curarsi di ottenere il consenso romeno. - affermava ancora Ionescu - conveniva alla Romania tentare di opporsi a tale eventualità; non lo consentiva l’enorme disparità di forze esistente fra i due paesi ed inoltre l’opposizione delle forze romene ai russi sarebbe stata condannata dei cristiani d’Oriente al cui soccorso si muovevano le truppe dello zar.40

Si veniva così delineando quale piega avrebbero preso gli avvenimenti e quale sarebbe stata la posizione della Romania, destinata a schierarsi con la Russia. Ionescu non desisteva comunque dal tentativo di rabbonire la Porta e dava quindi disposizione all’ agente di Romania a Costantinopoli, Jon Ghika, di confermare a Savfet pascià il proposito della Romania di mantenersi neutrale; inoltre, per non irritare il governo turco, non insisté nelle richieste formulate da Kogalniceanu, seguendo così il consiglio più volte dato da Fava.41 D’altra parte, a Livadia,  non ci fu alcun accordo sul passaggio dei “volontarirussi e su quello eventuale futuro di un esercito regolare zarista; c’era stato solo un generico accenno di Gorciakoff  sulle garanzie offerte dal trattato di Parigi alla Romania nel caso fosse scoppiata la guerra con la Turchia.42

In realtà sia Carlo che Bratianu erano divisi tra il desiderio di ottenere garanzie per la neutralità romena e l’aspirazione a partecipare alla guerra con pari dignità con la Russia, come era riuscito a Vittorio Emanuele alleato nel 1859 con Napoleone III contro l’Austria; ma questa aspirazione  fu mortificata a Livadia dallo zar e da Gorciakoff, interessati soltanto far passare attraverso la Romania le forze russe, senza stipulare un’alleanza a pieno titolo, offrendo al governo di Bucarest l’occasione di presentare rivendicazioni a guerra finita.

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Gorciakoff arrivò ad adombrare minacciosamente la possibilità di un’invasione russa della Romania, in quanto parte del nemico impero turco, se ci fossero state resistenze a consentire il transito delle truppe dello zar. Orgogliosamente Bratianu replicò che l’esercito romeno si sarebbe opposto, pur se destinato ad una sicura sconfitta; ma sul piano politico la Russia si sarebbe trovata in gravi difficoltà, per aver iniziato con l’attacco ad uno Stato cristiano una guerra proclamata per soccorrere le popolazioni cristiane dell’impero turco.

Data la scarsa affidabilità dimostrata dai russi a Livadia, la Romania continuò la sua disperata ricerca di garanzie internazionali per la sua neutralità. “Unanime è in Rumania il desiderio di pace. Affatto estranei alle aspirazioni delle popolazioni slave, con cui non hanno di comune che il culto religioso ed i rancori verso la Turchia, i Rumeni di tutti i partiti anelerebbero, se loro il consentissero le circostanze, di conservare nel conflitto la neutralità già da essi praticata”: era quanto scriveva Fava nell’ottobre 1876, quando, dopo il deludente esito dell’incontro di Livadia, la Romania appariva ormai destinata ad essere suo malgrado coinvolta nella guerra, senza che le missioni di Rosetti a Parigi e di Jon Ghika a Londra aprissero qualche spiraglio di speranza in appoggi internazionali; da parte loro poi gli agenti diplomatici accreditati a Bucarest mantenevano un atteggiamento riservato che non faceva presagire nulla di buono.43

Appare quindi uno sforzato ottimismo di maniera, dettato più che altro da un tentativo di autoconsolazione, quello manifestato da Carlo nel discorso per l’apertura della sessione straordinaria del Parlamento: “…nous sommes en droit d’ ésperer que, si des perils au dessus de ses forces menaçaient l’Etat roumain, le puissant bouclier de l’Europe garante ne nous ferait pas défaut pour la défence de notre intégrité territoriale et de nos droits nationaux”.44

Ma se queste erano le speranzose dichiarazioni ufficiali del principe, fatte con l’avallo del governo, al contempo la Romania si veniva preparando alla guerra e conduceva perciò trattative riservate per un accordo sul passaggio delle truppe russe; a fine novembre 1876 infatti Bratianu sottopose a Carlo una bozza di accordo preparata dal diplomatico russo Nelidov; la bozza fu poi definita il 17 dicembre dello stesso anno e trasmessa a Bismarck perché l’esaminasse il 27 dicembre.

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Il cancelliere tedesco si disse d’accordo; già il 13 dicembre aveva fatto alla Camera dichiarazioni favorevoli alla Russia, che si diceva priva di ambizioni territoriali e desiderosa solo di proteggere i cristiani sottoposti alla Turchia. In realtà il governo russo mirava ad avere libero accesso nel Mediterraneo attraverso il Bosforo ed i Dardanelli ed era pure nota la sua aspirazione a riavere quella parte della Bessarabia ceduta alla Romania con il Trattato di Parigi del 1856: era questa la maggiore preoccupazione dei politici Rumeni, costretti comunque alla fine ad abbandonare la neutralità per schierarsi con la Russia, sacrificando la Bessarabia - secondo le lucide previsioni del console Fava - nella speranza di ottenere almeno la protezione ed il rispetto dello zar: “…anche mutilando la Romania con l’annessione di tutta la Bessarabia all’impero, la Russia rispetterebbe e proteggerebbe almeno a guerra finita ed in premio della loro partecipazione militare, la Moldavia e la Valacchia”.

Malgrado tutto, Ionescu continuava a sperare in un appoggio delle Potenze, da tradursi in un accordo internazionale da raggiungere in una Conferenza europea per garantire la Romania contro lo sconfinamento delle forze russe attraverso il Pruth e per porre fine al continuo flusso di armati ed armamenti russi in transito verso la Serbia.45

E questo afflusso di rinforzi russi alla Serbia attraverso la Romania veniva rimproverato da Melegari all’agente diplomatico romeno a Roma, Gheorghiu, considerandolo una violazione della neutralità.

Gheorghiu fece presente l’impossibilità per la Romania di opporsi da sola alla Russia: occorreva perciò una garanzia collettiva delle Potenze, da stabilire in seno alla Conferenza internazionale indetta a Costantinopoli, per discutere la questione d’Oriente, come richiesto del governo austriaco, pur mostrandosi scettiche le altre Potenze sulla possibilità di ottenere risultati positivi. Melegari replicò affermando essere già previste dal trattato di Parigi sufficienti garanzie per la Romania; la Conferenza di Costantinopoli si sarebbe dovuto occupare soltanto dei problemi delle province turche insorte contro la Porta. Inoltre era una pura ipotesi il timore della Romania per una guerra fra le Potenze garanti; Melegari evitò di citare Russia e Turchia, comprese appunto fra le Potenze garanti, giunte ormai sull’orlo della guerra.

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Le parole di Melegari spiacquero a Ionescu e il ministro romeno manifestò a Fava l’intenzione di insistere perché la Conferenza di Costantinopoli si occupasse anche delle garanzie chieste dalla Romania per la sua neutralità, sebbene  l’Italia ed ancor più l’Austria fossero  contrarie ad includere il problema nell’agenda della Conferenza.

Non ci fu però unità d’azione nel governo romeno: a differenza di Ionescu, Bratianu anziché insistere perché la Conferenza di Costantinopoli si pronunciasse a favore della neutralità romena, ritenne più opportuno chiedere una dichiarazione a favore della futura indipendenza della Romania.

Ionescu, per controbattere la tesi che erano sufficienti alla Romania le garanzie offerte dal trattato di Parigi, sostenne in una circolare telegrafica inviata agli agenti diplomatici accreditati nelle capitali europee che quelle garanzie potevano bastare finché il conflitto fosse rimasto limitato all’insurrezione antiturca della Bosnia-Erzegovina appoggiata da Serbia e Montenegro; ma, si chiedeva Ionescu con un chiaro riferimento a Russia e Turchia, chi avrebbe garantito la neutralità romena se fosse scoppiata una guerra fra grandi Potenze?46

Andarono però falliti tutti tentativi Rumeni perché la Conferenza di Costantinopoli discutesse pure le garanzie della neutralità della Romania; Melegari ne chiarì le ragioni con il dispaccio a Fava del 13 dicembre 1876: la Romania aveva già ottenuto a seguito di trattative dirette con la Porta l’assicurazione che le forze turche non sarebbero sconfinate neanche a scopi difensivi e quindi l’argomento era ormai da considerare chiuso;47 in effetti questa garanzia Savfet pascià l’aveva già data.48

Fava aveva già tracciato prima dell’inizio della Conferenza il quadro delle posizioni dei vari governi sulla richiesta della Romania di garantire la sua neutralità; il duca Decazes, ministro francese degli Esteri, secondo l’agente romeno a Parigi, aveva dato una risposta favorevole e di ciò era stato informato l’agente romeno a Roma perché lo comunicasse a Melegari. Berlino aveva dato una risposta evasiva, Vienna aveva rifiutato di assumere nuovi impegni, ritenendo sufficiente il trattato del 1856 per garantire la neutralità romena.

La Russia si era attestata sulla dichiarazione di Gorciakoff fatta a Livadia: la Romania non aveva nulla da temere e quindi non erano necessarie particolari garanzie della sua neutralità.

Il governo inglese, infine, non aveva dato risposta alla richiesta di Bucarest.49

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Quindi solo la Francia sembrava restare fuori dal coro; ma in realtà le cose non stavano così; Melegari informò infatti Fava di aver appreso dall’ambasciatore italiano a Parigi che il duca Decazes non aveva promesso all’agente diplomatico di Romania di proporre alla Conferenza di Costantinopoli l’esame della richiesta romena, ma aveva semplicemente consigliato di fare avanzare direttamente dal governo romeno quella richiesta.50

Alla interpretazione romena, volutamente troppo ottimista, della posizione francese, si unì  pure una disinvolta alterazione della posizione di Melegari, cui si attribuì la promessa di sostenere la richiesta romena alla Conferenza, come un soddisfatto Ionescu comunicò a Fava di aver appreso dall’agente diplomatico a Roma, Gheorghiu.

Sempre lo stesso Ionescu, in assenza di una risposta da Londra, confidava a Fava voci di corridoio secondo le quali Disraeli considerava un interesse europeo la neutralità romena, che il governo inglese avrebbe sostenuto come nel 1870 aveva sostenuto la neutralità del Belgio.51

In realtà Disraeli non aveva detto nulla di simile ed anzi aveva sconsigliato all’ inviato romeno Ghika di avanzare richieste in tal senso alla Porta, non essendo quello il momento opportuno per farlo.52

Più realistica la posizione di Carlo rispetto a quella di Ionescu; il principe non nascondeva infatti a Fava la sua preoccupazione per il mancato appoggio europeo alla richiesta della Romania di garantire la sua neutralità e non credeva neanche alla promessa turca di non passare in territorio romeno se vi fossero penetrati i Russi: in quel caso, secondo Carlo, la Turchia sicuramente avrebbe fatto varcare il Danubio dalle sue forze per tenere la guerra lontana dal suo territorio.53

La Romania comunque non demordeva e nell’ approssimarsi della Conferenza di Costantinopoli moltiplicava i suoi sforzi.

Fu diffuso infatti con la data del 26 novembre 1876 un opuscolo pubblicato a Bucarest con il titolo  “La Roumanie devant la conférence de 1876 par un ancien diplomate”; dietro quella anonima qualifica si celava il segretario generale del Ministero degli Esteri, Mitileneu, come svelava Fava nel suo rapporto a Melegari n. 619 serie politica del 2 dicembre 1876, inviando copia della pubblicazione.

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Mitileneu riteneva necessario per la Romania mantenersi neutrale, come aveva fatto fin dal 1856 rispondendo al suo istinto di conservazione ed obbedendo agli articoli 22 e 26 del Trattato di Parigi del 1856 e dagli articoli  2 e 43 della Convenzione di Parigi del 1858.

Quelle disposizioni non precisavano però i termini, le condizioni, i limiti della neutralità, erano chiarite  quali ne fossero le garanzie. La Romania si era mantenuta neutrale in occasione della guerra turco serba, ma le Potenze non avevano detto cosa avrebbero fatto se il territorio romeno fosse stato invaso; tale silenzio costringeva la Romania a cercare alleati per garantire la propria esistenza. La Romania era uno Stato sovrano, non una provincia della Turchia, di cui poteva considerarsi alleata, senza però un obbligo automatico di partecipare al suo fianco alla guerra. Per una consolidata tradizione, all’inizio di un conflitto i belligeranti confermavano il rispetto della neutralità dei paesi estranei alla guerra ed i paesi neutrali chiarivano il loro ruolo; così era stato nel 1870 con le dichiarazioni della Francia e della Prussia da una parte e del Belgio dall’altra. La Romania, da considerarsi il Belgio dell’Oriente, aveva chiarito la sua posizione; toccava all’Europa ed alle Potenze entrate in guerra dichiarare le proprie intenzioni: la Conferenza di Costantinopoli poteva essere l’occasione perché ciò avvenisse, precisando condizioni e garanzie della neutralità romena meglio di quanto non avessero fatto il Trattato del 1856 e la Convenzione del 1858. Esistevano precedenti preoccupanti di mancato rispetto della neutralità. La Svizzera non aveva partecipato alla guerra dei trent’anni, la sua neutralità era stata stabilita con il Trattato di Westfalia e poi riconosciuta con patti bilaterali da quasi tutti gli Stati europei, senza però stabilirne le garanzie. La neutralità svizzera era stata violata dagli Stati coalizzati contro la Francia rivoluzionaria nel 1789 e negli anni seguenti, poi ancora dall’Austria nel 1813 per attaccare sempre la Francia ed infine nel 1815 dagli Stati coalizzati contro Napoleone tornato dall’Elba.

Solo con il Trattato di Parigi del 20 novembre 1815 alla neutralità svizzera, ritenuta essenziale per l’equilibrio politico europeo, erano state date precise garanzie.

L’indipendenza del Belgio era stata riconosciuta nel 1830 a condizione di mantenersi neutrale; con i trattati del 15 novembre 1831 e del 19 aprile 1839 quella neutralità fu garantita, venendo da ultimo assicurata con il trattato dell’agosto 1870, in occasione della guerra franco-prussiana.

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In base a tali precedenti la Romania chiedeva quindi all’Europa precise garanzie della sua neutralità, considerata pure la sua posizione geografica, al confine tra gli imperi austriaco, russo e turco, analoga alla posizione della Svizzera posta tra Italia, Austria e Francia ed alla posizione del Belgio, situato tra Germania e Francia.

La Romania si attendeva quindi una dichiarazione delle Potenze a conferma e chiarimento delle disposizioni del Trattato del 1856 sulla sua neutralità, com’era avvenuto per la Svizzera e per il Belgio.

Il principio di una neutralità garantita-concludeva Mitileneu -doveva essere rispettato in Oriente come in Occidente e corrispondeva ad un interesse generale la neutralità romena, sì da evitare uno scontro diretto fra tre grandi Potenze quali erano l’Austria, la Russia e la Turchia.

L’aggrovigliata situazione diplomatica della Romania si arricchì di un controverso episodio con l’arrivo a Bucarest, alla vigilia della Conferenza di Costantinopoli, di Alì bey, governatore di Tulcea e presidente della Commissione europea  per il Danubio. Benché autorevole, l’emissario turco era però sprovvisto di un incarico ufficiale; le sue credenziali consistevano soltanto in una lettera privata di presentazione del gran visir. Riferiva Fava la promessa di Alì  bey di un’accettazione turca delle richieste esposte nel memorandum di Kogalniceanu, se la Romania avesse consentito l’insediamento di un presidio turco a Calafat, posizione strategica per la difesa di Viddino.

Il governo romeno, considerata anche la mancanza di un incarico ufficiale ad Alì bey, si limitò ad esprimere soddisfazione per l’apertura rappresentata da quella proposta, facendo però presente che la neutralità della Romania non consentiva la presenza di truppe straniere nel suo territorio.

Fava non si pronunciava sul reale valore della missione di Alì bey e credeva all’affermazione di Bratianu di non aver sollecitato la missione turca, essendo ben nota la contrarietà romena a trattative di quel tipo, compromettenti per la neutralità.54

Ionescu continuava invece ad affidare le speranze romene alla Conferenza di Costantinopoli, dove fu inviato Dimitrie Bratianu  per coadiuvare l’opera di Jon Ghika, agente diplomatico presso la Porta, intesa ad ottenere dai delegati della Conferenza la tanto sospirata garanzia della neutralità, oltre ad insistere con il  governo  turco  perché accettasse le  richieste fatte da Kogalniceanu per la

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cessione di alcuni isolotti del Danubio e la rettifica dei confini nel delta. Secondo Fava l’invio di un autorevole parlamentare (Dimitrie Bratianu era vice presidente della Camera) mirava pure a coinvolgere le responsabilità del Parlamento; il console italiano si dimostrava però poco fiducioso nella capacità di Dimitrie Bratianu di ottenere risultati positivi: e difatti la sua richiesta di garanzie per la neutralità romena, presentata il 15 dicembre 1876, fu respinta, in quanto ritenuta estranea alle finalità della Conferenza, convocata solo per esaminare la situazione dei paesi insorti contro la Turchia.

Questa decisione della Conferenza fu fortemente criticata da Frédéric Damé in un suo saggio del 187754bis, in cui affermava essere riconosciuta da tutti, compresa la Turchia, la funzione equilibratrice svolta in oriente dalla Romania, costituendo essa un ostacolo all’espansionismo russo; sarebbe quindi stato nell’interesse generale garantire effettivamente la sua neutralità, riconosciuta dal Trattato del 1856 e dalla Convenzione del 1858, ma non assicurata con misure concrete, per cui poteva essere considerata una “neutralità relativa”, indifesa contro eventuali minacce, come era avvenuto per la Svizzera. E quanto precaria fosse effettivamente la neutralità romena lo dimostrava pure l’interrogativo che tutta l’Europa si poneva: cosa avrebbe dovuto fare la Romania se la Russia avesse varcato il confine del Pruth?

Il rispetto della neutralità romena sarebbe giovato ad impedire la guerra, poiché l’unica via per un attacco russo alla Turchia passava attraverso la Romania. Sbarrare quella via avrebbe significato pure impedire l’espansionismo russo nei Balcani ed il congiungimento degli Slavi del nord con quelli del sud; principale beneficiaria di queste conseguenze del rispetto della neutralità romena sarebbe stata l’Austria, interessata ad evitare l’ingombrante presenza russa sul Danubio e quindi tenuta più di ogni altra potenza a fornire alla Romania le garanzie richieste.

E la Romania aveva cercato in ogni modo di ottenerle quelle garanzie; Fava riportava infatti una voce secondo cui Dimitrie Bratianu avrebbe offerto alla Porta il disarmo della Romania in cambio dell’impegno turco a rispettarne la neutralità. L’agente italiano non si pronunciava sulla attendibilità di quella voce, sospettando potersi trattare forse di un espediente per provocare un rifiuto e giustificare così il riarmo romeno. Il governo di Bucarest agli occhi di Fava restava sempre incerto sul da farsi; ma a suo giudizio si sarebbe opposto ad una invasione turca, non a quella russa.55

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Nel  governo romeno era viva la preoccupazione di un’occupazione turca di Calafat e Oltenitza, località necessarie per la difesa di Viddino, dopo il fallimento della missione di Alì bey. Venivano perciò rinforzate le guarnizioni di Oltenitza, Calafat, Braila, Giurgievu, anche per l’incapacità del governo turco di impedire le scorrerie delle bande irregolari, formate dai temuti basci-buzuk e dai Circassi, tristemente noti per le atrocità commesse nell’inverno del 1853-54, alla vigilia della guerra di Crimea. Il ricordo delle loro imprese spingeva non soltanto agli abitanti della zona danubiana, ma anche quelli di Bucarest a cercare rifugio nelle zone montagnose dell’interno.56

Le incertezze del mondo politico romeno erano oggetto di una interpellanza del deputato Blarenberg, per chiedere chiarimenti sulla linea del governo; il deputato esortava a rispettare i vincoli con l’impero turco ed insisteva perché si facesse ogni possibile sforzo per ottenere dalla Conferenza di Costantinopoli le garanzie della neutralità romena; in caso di un conflitto russo-turco Blarenberg  si diceva contrario ad un’alleanza con la Russia, per evitare l’annessione della Romania all’impero zarista

Ionescu rispose confermando l’aspirazione a mantenere la neutralità; se ciò si fosse rivelato impossibile, il governo avrebbe chiesto al Parlamento quale decisione prendere; al momento era però inopportuna una scelta di campo schierandosi con la Turchia, la cui politica anticristiana era criticata dall’Europa intera; a questo biasimo della Turchia, Ionescu univa l’elogio dello zar Alessandro, liberatore dei contadini. La Camera approvò quelle affermazioni del ministro e bocciò una mozione per il mantenimento della neutralità ad ogni costo.

Non sfuggì a Fava come quel dibattito parlamentare facesse intuire da che parte sarebbe stata la Romania in caso di guerra; l’alleanza con la Russia sembrava essere una scelta ormai fatta ed a favore di essa stava Bratianu, sostenuto dal principe Carlo, mentre si opponevano Sturdza, Vernescu e lo stesso Ionescu: ma quest’ultimo a giudizio dell’agente italiano alla fine si sarebbe schierato con Bratianu.57

E le avvisaglie di un accordo russo-romeno ci furono con l’incontro di Bratianu e del barone Stuart, agente diplomatico russo a Bucarest, e con il successivo viaggio dello stesso Stuart in compagnia del colonnello romeno Penkovich a Chiscineu , dove si trovava il comando generale russo.

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Era previsto un accordo per consentire il passaggio dell’esercito zarista attraverso la Romania, basato sull’impegno russo di garantire l’integrità territoriale romena; da parte sua il governo di Bucarest si impegnava a facilitare il passaggio delle truppe russe, fornendo loro i rifornimenti necessari, e ad assicurare un concorso militare per respingere eventuali attacchi turchi, senza però varcare i confini del paese. Secondo altre voci l’azione militare romena si sarebbe spinta al di dei confini, in cambio di vantaggi territoriali.

Fava riteneva però più probabile la prima ipotesi, sostenuta da Carlo anche a costo di cambiare governo se quello in carica si fosse opposto; il governo, a giudizio di Fava, era per il momento indeciso, ma alla fine si sarebbe uniformato al volere di Carlo, mentre la popolazione restava sempre favorevole a mantenere la neutralità. 58

Le difficoltà del governo erano accresciute dalle complicazioni derivanti dal processo intentato contro Lascar Catargi e gli ex ministri del suo governo; tre di essi erano senatori e quindi occorreva l’autorizzazione del Senato a procedere; autorizzazione negata in un primo momento e poi concessa solo perché il governo aveva posto la questione di fiducia e forse anche a seguito delle pressioni esercitate da Carlo; un rinnovato rifiuto del Senato avrebbe infatti comportato la caduta del governo, eventualità avversata dal principe in quel momento tanto delicato.

Le difficoltà non erano solo del governo; esse riguardavano anche Carlo, osteggiato dai conservatori perché si sentivano abbandonati dal principe e minacciato di rappresaglie dai radicali, se non li avesse sostenuti nella loro iniziativa giudiziaria contro Catargi e gli ex ministri conservatori.

A parere comune di Fava e degli altri agenti diplomatici un principe più energico si sarebbe appellato direttamente al popolo contro le rivalità e gli intrighi dei politici.59

La Conferenza di Costantinopoli era stata organizzata per arrivare ad una soluzione pacifica, in concomitanza con la tregua stabilita il novembre 1876 fra la Turchia e la Serbia, piegata dalle sconfitte subite; alla tregua si era arrivati grazie alle pressioni esercitate dalla Russia per venire in aiuto della Serbia prossima ormai ad una totale sconfitta.

Il governo turco dal maggio 1876 era diretto da Midhat pascià,  giunto al potere a seguito di una rivolta popolare per cui il sultano Abdul Aziz era stato deposto ed assassinato, venendo sostituito da Murad V.

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Per dimostrare all’Europa i suoi orientamenti liberali, mentre era ancora in corso la Conferenza internazionale di Costantinopoli, Midhat pascià ispirò nel dicembre 1876 al sultano la promulgazione di una nuova Costituzione in cui erano previste notevoli aperture, come la parità dei diritti civili e politici per tutti, tanto che anche Ebrei e cristiani potevano essere eletti al Parlamento.

Alle buone intenzioni, così dimostrate, si unì  però quella che alla Romania apparve una grave provocazione: gli articoli 1 e 7 della Costituzione definivano infatti Moldavia e Valacchia una provincia privilegiata appartenente all’impero ottomano, venendo così ad essere la loro condizione declassata ed assimilata a quella delle reggenze barbaresche del Nord Africa o dell’Egitto. Carlo avrebbe quindi avuto lo status di pascià governatore di una provincia e non di sovrano a pieno titolo, aspirante ad affermare la piena indipendenza del paese.

Il governo di Bucarest chiese quindi spiegazioni alla Porta e il giornale dei radicaliRomanulcommentò molto negativamente la nuova Costituzione, affermando esser stata promulgata soltanto per eludere ogni intervento straniero, reso inutile dalle concessioni già fatte dal sultano.

Il giornale riteneva oltraggiosa per Carlo e per il paese la definizione di “provincia privilegiata”, usata senza tener conto della saggia condotta romena, tanto utile alla Turchia; contro questa ingratitudine occorreva protestare, rivendicando i diritti e la posizione internazionale della Romania.60

Non rassicurò il governo romeno la dichiarazione della Porta circa l’immutata situazione internazionale della Romania, non alterata da quella definizione contestata, in quanto era garantita da trattati internazionali non soggetti ad eventuali modifiche introdotte in modo unilaterale dal governo turco.

L’agente diplomatico romeno Gheorghiu, a metà gennaio 1877 intrattenne Melegari su quella contestata definizione di “provincia privilegiata”, senza far cenno però alla protesta già presentata alla Porta. Nel suo dispaccio a Fava del 19 gennaio 1877 Melegari illustrò la posizione italiana al riguardo. Secondo il ministro i Principati Danubiani avevano fruito fino ai tempi più  recenti di una semi sovranità; condizione non mutata dai trattati commerciali stipulati dal governo di Bucarest, in quanto  la  Porta  aveva  riaffermato la  sua  sovranità sulla  Romania  e sulla Serbia  inserendo negli

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accordi commerciali da essa fatti tra il 1860 e il 1863 una clausola per affermarne la validità anche per quei Principati. Le antiche capitolazioni moldo-valacche con la Porta erano state confermate dal Trattato e dalla Convenzione di Parigi; ma, secondo Melegari, le capitolazioni erano valide solo per le parti non contrastanti  con gli accordi del 1856 del 1858 e non costituivano quindi un riconoscimento dell’indipendenza e della neutralità della Romania, le cui rivendicazioni dovevano essere presentate al momento opportuno. Non poteva considerarsi tale la Conferenza di Costantinopoli del 1876, cui il governo di Bucarest aveva chiesto una garanzia della sua neutralità.

In definitiva, Melegari si diceva convinto della necessità per la Romania di agire con prudenza, senza “forzare il corso degli eventi”.

Era questa la risposta data in termini generali dal ministro italiano a Gheorghiu; questi si limitò a prenderne atto, senza insistere oltre.61

Nonostante questo nuovo motivo di contrasto con la Porta, la Romania ridusse gli effettivi del suo esercito, licenziando le riserve chiamate alle armi, poiché si era diffusa l’illusione di una possibile pace a seguito del prolungamento dell’armistizio tra Turchia e Serbia, al di del termine previsto per il 31 dicembre 1876.

Ma secondo Fava la smilitarizzazione dell’esercito romeno, ridotto ad otto-nove mila uomini era dovuta soprattutto alla necessità di fare economie, a causa delle difficoltà finanziarie.62

Savfet pascià nella sua risposta alla protesta romena ribadì la definizione di “provincia privilegiata”, pur attenuandone il significato che a suo parere non mutava la situazione internazionale dei Principati Uniti. Fava riportava come quella definizione avesse suscitato una “penosissima impressione” e Carlo se ne fosse sentitoprofondamente offeso”. La Camera romena si riunì in seduta segreta per decidere cosa fare; il console italiano prevedeva che, nonostante la profonda irritazione, il governo romeno si sarebbe limitato a vibrate proteste, senza porre fine però alla sua neutralità. L’agente italiano si riprometteva di dare a Ionescusuggerimenti di moderazione e di calma”, prevedendo comunque l’ingresso in guerra della Romania a fianco della Russia, se fosse scoppiato un conflitto fra questa e la Turchia.63

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Nel rapporto successivo Fava informava Melegari della protesta romena alla Porta, accusata di aver violato le antiche capitolazioni, confermate dal Trattato e dalla Convenzione di Parigi, per cui i principati di Moldavia e Valacchia non erano da considerarsi province turche, ma Stati indipendenti, tenuti soltanto a pagare un tributo annuo alla Porta, come corrispettivo della difesa da essa assicurata in caso di bisogno.

La Camera aveva approvato a larga maggioranza l’azione del governo; era in corso il dibattito al Senato, il cui voto finale -prevedeva Fava -sarebbe stato meno favorevole, in quanto molti senatori erano legati a Kogalniceanu, estromesso dal governo nell’agosto 1876.64

Il Senato confermò comunque la fiducia al governo con 27 voti contro 12; si ebbero invece difficoltà per le dimissioni del ministro dei lavori pubblici, Sturdza, perché in disaccordo con il discorso di Bratianu alla Camera, giudicandolo troppo duro nei confronti della Turchia.

L’accusa di essere filo-turco era respinta da Sturdza, che si dichiarava disposto a protestare con la Porta, ma in termini più moderati. Sturdza in realtà assieme a Vernescu e Ionescu formava l’ala moderata della maggioranza, volta a fermare le tendenze filo-russe di Bratianu.

Questi da parte sua cercava un’intesa con l’opposizione formata dai conservatori, volendo renderli corresponsabili della politica del governo in quel momento tanto difficile, dialogando, assieme a Costantin Rosetti, con il conservatore Costaki Epureanu, ex presidente del consiglio. Fava riteneva però difficile un accordo fra i due, avendo essi posizioni troppo diverse, e prevedeva il ritiro delle dimissioni di Sturdza.65

Fu una doccia fredda per il governo romeno la dichiarazione dell’ambasciatore inglese a Costantinopoli, Elliot, di condividere l’opinione di Savfet pascià circa la condizione di provincia dell’impero turco attribuita alla Romania, mentre i rappresentanti diplomatici delle altre Potenze presso la Porta mantenevano un silenzio preoccupante. Ionescu informò invece Fava di un interessamento del governo di Berlino alla protesta romena, ritenuta fondata, e di una favorevole disposizione austriaca, peraltro ritenuta inverosimile dall’agente italiano.66

Il ministro turco degli Esteri cercava da parte sua di smorzare la polemica con Bucarest, insistendo nell’affermare che la definizioneprovincia privilegiata” non mutava i trattati esistenti su cui si basava la posizione internazionale della Romania, pur costituendo essa parte integrante dell’impero ottomano.

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Questa conferma dell’appartenenza a pieno titolo della Romania all’impero turco ed il carattere informale della comunicazione di Savfet  pascià scontentarono il governo romeno, spingendolo a chiedere una nota ufficiale di conferma dell’autonomia dei Principati Uniti di Moldavia Valacchia, in base alle antiche capitolazioni confermate dal Trattato e dalla Convenzione di Parigi nel 1856 e nel 1858.

Ionescu continuava a prospettare a Fava  il sostegno ottenuto dalle Potenze: a quello tedesco e austriaco si sarebbe aggiunto quello francese, secondo le assicurazioni date dall’agente di Romania a Parigi; notizie accolte con scetticismo da Fava, che lasciava al ministro romeno la responsabilità di quelle affermazioni.67

Restava sempre aperta la polemica fra Bucarest e Costantinopoli per il controverso significato da attribuire alla definizioneprovincia privilegiatariferita alla Romania; trovò invece una conclusione almeno temporanea il contrasto Bratianu-Sturdza sulle spiegazioni da chiedere alla Porta circa quella poco felice espressione. Sturdza dichiarò il suo pieno consenso sulla politica interna del governo da cui si era dimesso, manifestando invece la sua contrarietà alla politica estera di Bratianu; questi replicò sostenendo la necessità di trattare con la Russia per il passaggio delle sue truppe in caso di guerra con la Turchia, in cambio dell’impegno di rispettare l’integrità territoriale romena, poiché opporsi al colosso zarista avrebbe significato la catastrofe. Non fu convinto Sturdza da queste argomentazioni di Bratianu: a suo parere la Romania doveva mantenersi neutrale, in ossequio al Trattato di Parigi e se qualcuno non avesse rispettato quella neutralità, il governo romeno avrebbe dovuto affidare la sua causa ad una serie di proteste rivolte a tutte le Potenze garanti sollecitandone l’intervento; coerentemente Sturdza mantenne quindi le sue dimissioni, essendosi pronunciati a favore di Bratianu sia Carlo che la maggior parte dei parlamentari.

I tentativi di Bratianu di strappare alla Russia l’impegno a rispettare l’integrità territoriale della Romania in cambio del consenso a far passare le truppe russe ed a fornire un “concorso armato per debole che fossederivavano dal timore condiviso da tutti di un’annessione della Bessarabia da parte russa.68

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Timore ben fondato: circondato da un segreto a lungo rispettato, si era svolto nell’estate del 1876 un incontro a Reichstadt tra lo zar Alessandro II e l’imperatore austriaco Francesco Giuseppe per definire le rispettive zone di influenza nei Balcani. In tale occasione l’Austria aveva riconosciuto alla Russia il diritto di riavere la Bessarabia meridionale ceduta alla Moldavia nel 1856; questo accordo era stato poi confermato mediante la convenzione, pur essa segreta, stipulata a Budapest il 15 gennaio 1877, in base alla quale il governo di Vienna avrebbe assicurato di mantenersi neutrale in caso di una guerra russo-turca non considerando un “casus belli” il passaggio dell’esercito zarista attraverso la Romania; in cambio la Russia si impegnava a non estendere il teatro di guerra alla Serbia ed al Montenegro; una convenzione aggiuntiva aveva pure previsto la ripartizione dei territori europei dell’impero turco, in caso di una sua sconfitta; all’Austria sarebbero andate la Bosnia e l’Erzegovina mentre venivano confermati i diritti russi sulla Bessarabia. Questi accordi erano rimasti segreti, ma i timori per la sorte della Bessarabia si erano comunque diffusi attraverso fonti non ufficiali e Bratianu, quindi, non cessò di adoperarsi per scongiurare la perdita della Bessarabia, sulla cui sorte perdurò a lungo il silenzio dei governi di Vienna e San Pietroburgo: il 26 dicembre 1877, quando ormai la guerra russo-turca si avviava alla conclusione, Kogalniceanu, tornato ad essere ministro degli Esteri dall’aprile di quell’anno, chiedeva all’agente diplomatico austriaco in Romania se fosse possibile contare sull’Austria per salvare l’integrità territoriale della Romania. 69

Melegari era allarmato dalla contrapposizione tra Bratianu e Sturdza in politica estera illustrata da Fava nei suoi rapporti; il ministro italiano giudicavagravissima l’alternativa” in cui si dibattevano i politici Romeni.

Infatti, per Melegari era giustificata la posizione di Bratianu in considerazione del timore ispirato dalla Russia; d’altra parte l’atteggiamento di Sturdza era più conforme ai trattati internazionali  impegnativi per la Romania. Nell’imbarazzo della scelta, il ministro non prendeva posizione e confidava nella prudenza di Fava “perché dal suo linguaggio non si potesse  desumere propensione alcuna per l’uno piuttosto che per l’altro partito”. 70

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Questa scelta di non scegliere, caratteristica del governo di Roma, era già stata in precedenza sottolineata dall’ agente di Romania, Gheorghiu, dopo un suo colloquio con il presidente del Consiglio Depretis, cui riservava questo commento: “La politique du gouvernement italien s’est montrée passive et en expectative”.

Depretis si era infatti limitato a generiche dichiarazioni sulla volontà italiana di cooperare per il mantenimento della pace e per il miglioramento delle condizioni di vita dei cristiani in Oriente.71

La conferma delle dimissioni di Sturdza causò la crisi di governo e suscitò accese controversie tra i partiti: l’ala radicale del cosiddettopartito dei professori moldavi” e Ionescu premevano perché Sturdza fosse sostituito da un ministro con un diverso orientamento in politica estera; Jon Ghika, fino a quel momento sostenitore del governo, insisteva perché fosse accantonata la politica russofila sostenuta da Bratianu e dallo stesso Carlo.

Bratianu riuscì a formare un governo da cui fu escluso Vernescu,uno dei più decisi oppositori ad un accordo con la Russia; a sorpresa fu invece confermato ministro delle Finanze Sturdza, non meno di Vernescu contrario alla politica estera di Bratianu, autore della caduta del governo con le sue dimissioni. Ma Sturdza era stimato da tutti per le sue capacità in campo finanziario ed era ritenuto l’unico capace di risolvere i gravi problemi finanziari della Romania.

Dapprima riluttante, Sturdza alla fine accettò l’incarico, mantenendo però le sue posizioni in politica estera ed esigendo l’attuazione di un piano di economia per cui dovevano essere dimezzate le spese militari.

Fava si dimostrava scettico sull’accettazione di questo piano economico di Sturdza da parte di Carlo, anche se riconosceva essere quello l’unico mezzo per risanare il bilancio e porre fine alle “velleità belliche del passato”, facendo così prevalere la politica di neutralità.

La permanenza di Sturdza al governo era resa difficile dall’accanita opposizione di Kogalniceanu, sempre più deciso sostenitore dell’accordo con la Russia, per cui Fava dubitava che Sturdza avesse il tempo per attuare il suo piano economico, basato oltre che sulla riduzione delle spese militari sull’aumento delle imposte fondiarie e di quelle gravanti sulla vendita di beni fondiari, sulle licenze commerciali e sui biglietti ferroviari.

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A causa di questi contrasti il governo viveva di una vita stentata; già all’indomani della sua formazione cominciò a parlarsi di un suo rimpasto ed il ministro più a rischio non era però Sturdza , ma quello degli Affari Esteri, Ionescu, bersaglio, secondo Fava, di beghe locali e personalistiche.72

Nel campo della politica estera si affrontavano tre diverse posizioni, illustrate da Fava nel suo rapporto del 2 marzo 1877. Jon Ghika, sostenuto da Dimitrie Sturdza, espose le sue idee nell’opuscolo dal titolo “Un pensiero politico”, sostenendo la neutralità da mantenere in ogni evenienza. Se ci fosse stata un’invasione russa o turca, il governo avrebbe dovuto protestarealto e forte”, ritirandosi poi assieme al principe Carlo ed all’esercito nella più remota ed inaccessibile zona dei Carpazi, in attesa di poter riprendere il controllo del paese e svolgere una futura azione.

Si opponevano a questo piano Bratianu e Rosetti, decisi a sostenere l’accordo con la Russia; il loro giornaleRomanul” si chiedeva polemicamente in cosa potesse consistere “la futura azione” del governo ipotizzata da Ghika..

La terza posizione infine era quella dei conservatori capeggiati da Lascar Catargi; erano anch’essi per la neutralità, ma sostenevano la necessità di raccordare la politica estera della Romania con quella delle Potenze garanti  interessate alla sopravvivenza dello Stato romeno.

Si veniva comunque delineando la prevalenza delle posizioni di Bratianu e Rosetti e Fava faceva cenno di trattative segrete fra Russia e Romania per consentire il passaggio delle truppe russe; all’esercito romeno sarebbe spettato il compito di mantenere l’ordine pubblico, limitandosi a difendere la frontiera danubiana contro eventuali scorrerie di irregolari turchi.73

Queste trattative di cui Fava faceva cenno si erano realmente iniziate già da qualche tempo; da parte russa  il principale negoziatore fu un diplomatico di lungo corso, Aleksandr Ivanovic Nelidow, già consigliere d’ambasciata ed incaricato d’affari a Costantinopoli in assenza dell’ambasciatore,  destinato a divenire in seguito consigliere diplomatico del granduca Nicola comandante dell’esercito russo durante la guerra russo-turca del 1877-78. La carriera di Nelidow si concluse a Parigi dove fu ambasciatore dal 1907, dopo esserlo stato a Roma dal 1887.

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Lo stesso Nelidow espose in due lunghi articoli pubblicati sulla “Revue des Deux Mondes” del 1915 l’attività della diplomazia russa nella crisi balcanica sfociata nella guerra contro la Turchia, facendo pure luce sui negoziati da lui condotti a Bucarest con Bratianu nell’autunno del 1876. 74

Secondo la ricostruzione degli eventi fatta da Nelidow, l’ambasciatore russo a Costantinopoli, Ignatieff, avrebbe voluto sopire la rivolta scoppiata nell’estate del 1875 in Bosnia-Erzegovina per evitare il  riaprirsi della “questione d’Oriente”. A tal fine meditava di chiedere al sultano migliori condizioni di vita per i sudditi cristiani, da realizzare sotto il controllo della Russia. Si sarebbe così rinforzata l’influenza della Russia e quella sua personale, escludendo l’intervento delle altre nazioni.

Malgrado la disponibilità dimostrata dal sultano Abdul Aziz, Nelidow credeva poco alla opportunità del piano di Ignatieff poiché a suo parere le eventuali riforme concesse dalla Turchia non avrebbero soddisfatto gli insorti compromettendo così il prestigio della Russia.

Nelidow preparò quindi un suo piano generale d’azione, in vista di un conflitto da lui ritenuto inevitabile. Il piano prevedeva l’occupazione russa degli Stretti, Costantinopoli città libera sotto il protettorato russo, la creazione di Stati indipendenti in Bulgaria e Macedonia, aumenti territoriali per Serbia e Montenegro, la cessione alla Grecia dell’Epiro, della Tessaglia e delle isole del Mare Egeo ancora in mano turca.

Secondo la drastica cura dimagrante prevista dal diplomatico russo, l’impero turco doveva essere ridotto ai territori asiatici, cedendo però la Siria alla Francia; l’Egitto infine doveva divenire un possedimento inglese.

Ma Gorciakoff non approvò questo ambizioso piano di Nelidow ed ignorò pure la proposta di Ignatieff; preferì invece cercare un’intesa con l’Austria, affidandole l’iniziativa di presentare il 30 dicembre 1875 una nota alla Porta per chiedere riforme a favore dei cristiani, minacciando gravi conseguenze in caso di una loro mancata concessione; ma a quella minaccia non seguirono concrete azioni, per cui il governo turco non diede seguito alla richiesta austriaca.

Ma alla posizione attendista del governo russo si contrapponeva un’opinione pubblica sempre più favorevole  agli  insorti; inoltre, il governo russo non  era del tutto  consapevole  della  gravità  della

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situazione; per il vice ministro degli Esteri, il barone de Jomini, Ignatieff  esagerava l’importanza della rivolta delle popolazioni della Bosnia-Erzegovina, ritenuta un fuoco di paglia destinato ad essere presto spento dalle forze turche; affermazione contestata da Nelidow, a cui parere era insufficiente affidarsi alla nota austriaca per risolvere il problema.

Difatti nel maggio 1876 la rivolta si estese alla Bulgaria dove ci furono dure repressioni turche, mentre Romania e Serbia si agitavano per ottenere la piena indipendenza: gli agenti diplomatici della Serbia e della Romania a Costantinopoli, Magazinovic e Jon Ghika, seguivano con attenzione l’evolversi della situazione, mantenendosi in contatto con l’ambasciata russa.

A breve seguì la dichiarazione di guerra della Serbia alla Turchia (30 giugno 1876) e a due giorni di distanza quella del Montenegro.

Il prestigio di Ignatieff era indebolito dal mancato successo delle iniziative diplomatiche; la posizione dell’ambasciatore russo risultò pure scossa dalla detronizzazione nel maggio 1876 del sultano Abdul Aziz, di cui era amico, ad opera di Nudhut pascià, Ministro dell’interno divenuto poi capo del governo. Nelidow consigliò allora ad Ignatieff di incontrare lo zar per chiarire la situazione e minacciare le dimissioni se il sovrano non l’avesse sostenuto; Ignatieff non se la sentì però di compiere quel passo estremo per cui Nelidow l’accusò di aver avuto poco coraggio.

Il sultano Murad  V, nipote di Abdul Aziz detronizzato e presto soppresso, non regnò però a lungo: l’abuso di alcol e l’instabile equilibrio mentale portarono al 31 agosto 1876 alla sua incruenta sostituzione con Abdul Hamid, destinato a promulgare, d’intesa con Midhat pascià, la Costituzione del dicembre 1876, per mettere un freno alle pressioni europee per un nuovo ordine istituzionale; Costituzione rimasta in vigore per pochi mesi, anche se mai abrogata formalmente.

Alla Conferenza di Costantinopoli, in corso di svolgimento nel dicembre 1876, spettò il compito di richiedere migliori condizioni per i cristiani sudditi del sultano, mentre già si era stabilita una tregua per la guerra condotta contro la Turchia da Serbia e Montenegro, poste ormai in serie difficoltà per le sconfitte subite dai Turchi. L’intervento di Ignatieff fu decisivo per stabilire quella tregua necessaria per evitare l’annientamento della Serbia e del Montenegro; l’ambasciatore minacciò la rottura diplomatica se la Porta avesse rifiutato la tregua richiesta.

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A Nelidow spettò oltre alla gestione assieme ad Ignatieff dei difficili rapporti con il governo turco anche il compito non meno delicato, di cui si è già fatto cenno, di raggiungere un accordo con la Romania per il transito delle truppe russe, in vista di una guerra con la Turchia ritenuta ormai imminente.

Nel novembre 1876, alla vigilia della Conferenza di Costantinopoli, il diplomatico russo partì per Bucarest con tanta urgenza da non attendere l’arrivo delle sue credenziali da San Pietroburgo, munito soltanto di una lettera di Ignatieff per accreditarlo presso Bratianu.

Il presidente del consiglio romeno l’accolse cordialmente, ma non poté fare meno di eccepire l’insufficienza di una semplice lettera di presentazione dell’ambasciatore Ignatieff; poiché i risultati delle trattative dovevano essere sottoposti al principe Carlo ed al Parlamento, il negoziatore russo doveva essere munito di credenziali firmate quantomeno dal ministro degli Esteri; Bratianu accettò comunque di iniziare le trattative in attesa dell’arrivo di nuove credenziali da San Pietroburgo; le credenziali attese però non arrivarono e quindi gli accordi raggiunti nell’autunno del 1876 rimasero congelati fino all’aprile del 1877.

Al governo romeno erano note le mire russe sulla Bessarabia, anche se non era a conoscenza degli accordi austro-russi stabiliti a Reichstadt; Bratianu voleva quindi ottenere da Nelidow quelle garanzie sul rispetto dell’integrità territoriale romena, già richieste inutilmente nell’incontro avvenuto a Livadia nell’ottobre 1876 con lo zar e con Gorciakoff.

Nelidow ed il suo accompagnatore, il principe di origine valacca Michail Cantacuzeno, colonnello di Stato maggiore, avevano però ricevuto un preciso mandato: trattare esclusivamente il passaggio delle forze russe sul territorio romeno, senza addentrarsi in altri scottanti argomenti di natura politica.

Ma si rendeva ben conto Nelidow di non poter impedire ai Rumeni di conoscere a quali condizioni dovevano sottoscrivere il loro impegno; ebbe quindi buon gioco Bratianu  nell’affermare la necessità di chiarire il punto essenziale delle garanzie per la Bessarabia, poiché il Parlamento in mancanza di quel chiarimento, non avrebbe mai approvato l’accordo.

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I delegati russi alla fine convinsero Bratianu ad accettare una formulazione ambigua: senza impegnare espressamente la Russia a mettere da parte le rivendicazioni sulla Bessarabia, la bozza d’accordo stabiliva una generica garanzia dell’integrità territoriale romena contro gli eventuali pericoli derivanti dal passaggio delle truppe russe.

Bratianu continuò comunque a nutrire timori per le sorti della Bessarabia e chiese quindi di essere preavvisato per tempo dell’eventuale richiesta di cessione, per avere il tempo di preparare l’opinione pubblica molto ostile alla perdita di quel territorio; per vincere quell’ostilità  il premier romeno chiese pure compensi territoriali. Nelidow rispose in modo evasivo: se Bratianu aveva il presentimento di rinnovate richieste russe per la Bessarabia, avrebbe fatto bene a preparare subito l’opinione pubblica; in quanto ai compensi da richiedere eventualmente, se ne sarebbe potuto parlare a guerra finita.

Ma la maggior preoccupazione di Bratianu era la sorte che sarebbe spettata alla Romania in caso di una sconfitta russa; chiese pertanto al suo interlocutore un impegno della Russia, anche se sconfitta, a non abbandonare a se stessa la Romania. Circolava, inoltre, una voce particolarmente allarmante; amplificando e deformando gli accordi tra Alessandro II e Francesco Giuseppe, di cui nulla ancora si era saputo, si parlava di un’intesa austro-russa per spartirsi addirittura la Romania. Su questo punto almeno Nelidow diede una risposta chiara: pur non conoscendo l’esatto tenore dei colloqui fra i due sovrani, il diplomatico russo potè giurare a Bratianu di non avere mai sentito una parola relativa alla spartizione della Romania; e per rassicurare Bratianu sull’impegno russo a sostenere la Romania in ogni caso, Nelidow ricordò il precedente del Congresso di Parigi del 1856, dove la Russia, benché sconfitta nella guerra di Crimea, aveva sostenuto la causa dei Principati Danubiani.

La missione di Nelidow a Bucarest durò circa tre settimane e rimase segreta; la bozza di accordo fu resa nota soltanto al granduca Nicola, designato a dirigere le operazioni di guerra, ed al suo Stato Maggiore; non si arrivò per il momento a firmare l’accordo, poiché non erano poi pervenute da San Pietroburgo le credenziali per Nelidow; Bratianu non volle neanche siglare il testo dell’accordo; oltre tutto si attendeva l’esito della Conferenza di Costantinopoli: se si fossero raggiunti risultati positivi tali da scongiurare la guerra, l’accordo per il passaggio delle truppe russe sarebbe diventato superfluo.

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L’accordo raggiunto nei negoziati tra Bratianu e Nelidow prevedeva fra l’altro il pagamento da parte russa per i rifornimenti all’esercito russo assicurati dai Rumeni; il ministro russo delle finanze ebbe però da ridire sulle modalità di pagamento per cui a Bucarest  ripresero le trattative con Bratianu condotte dall’agente diplomatico di Russia, barone Stuart. La bozza subì anche una modifica nel preambolo politico rendendo più chiara, a richiesta di Bratianu, la garanzia russa per l’integrità territoriale romena, per cui Nelidow fu costretto ad ammettere, a guerra finita, le ragioni romene nel dolersi per la cessione della Bessarabia, imposta dalla Russia; anche la bozza d’accordo così revisionata rimase però priva della firma di entrambe le parti fino all’aprile 1877.

Nelidow, lasciata Bucarest a fine novembre 1876, si recò a Kiscineff per incontrare il granduca Nicola, di cui era stato nominato consigliere diplomatico. Il granduca si disse soddisfatto per l’intesa raggiunta con il governo romeno e si augurò il fallimento della Conferenza di Costantinopoli, in modo da potere iniziare la guerra già all’inizio dell’inverno, periodo più favorevole ai Russi più abituati dei Turchi ad affrontare il rigido clima invernale.

Ma le esitazioni del cancelliere russo Gorciakoff ed i timori del Ministro degli Esteri Schuvaloff fecero slittare l’inizio della guerra fino alla primavera del 1877, concedendo così alla Turchia tempo prezioso per i suoi preparativi.

Nel dicembre 1876 Nelidow rientrò a Costantinopoli, dove la Conferenza era ormai avviata al fallimento; la Porta respinse difatti la richiesta di porre sotto controllo europeo l’attuazione delle riforme, ritenendola lesiva della  sovranità turca. A metà gennaio del 1877 i delegati lasciarono la capitale turca; anche Ignatieff partì, lasciando al suo posto Nelidow come incaricato d’affari, per compiere il giro delle capitali europee al fine di stabilire intese per costringere la Turchia a .

Ignatieff confidava di ottenere almeno l’appoggio inglese, avendo stabilito con Lord Salisbury un buon rapporto nel corso della Conferenza di Costantinopoli, cui il politico inglese aveva preso parte come delegato assieme all’ambasciatore Elliot. Ma le speranze dell’ambasciatore russo furono deluse: nessuno, neanche lord Salisbury appoggiò il suo tentativo, per cui Ignatieff  per alcuni mesi sparì dalla scena politica, lasciando campo libero a Schuvaloff contrario alla guerra, sebbene l’opinione pubblica la reclamasse per venire in aiuto agli Slavi del Sud.

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La guerra sembrò allontanarsi non solo per il fallimento della missione di Ignatieff, ma anche per la buona prova data dall’assemblea parlamentare turca, istituita dalla Costituzione del dicembre 1876. Il Parlamento, in cui sedevano anche deputati Ebrei e cristiani, sotto la guida del presidente Ahmed Kefik effendi, anche lui contrario alla guerra e ben visto dal governo russo, lavorava infatti efficacemente. Kefik effendi ebbe l’incoraggiamento di Nelidow ed era sul punto di recarsi in Russia per una missione di pace; ma prevalse il partito della guerra. Al posto di Mehemet Ruchi divenne gran visir Edhem pascià, acceso sostenitore della guerra, sostenuto da Midhat pascià, ministro dell’interno ed uomo forte del governo, senza che Safvet  pascià, rimasto alla guida degli Esteri, riuscisse a contrastarli. I fautori della guerra diffusero pure documenti falsi, attestanti l’aiuto russo ai rivoltosi bulgari ed inutilmente Nelidow ne dimostrò la falsità.

Sembrava aprirsi uno spiraglio per la pace con l’arrivo a Costantinopoli dei delegati serbi e montenegrini venuti per stipulare un trattato di pace cui la Porta appariva ben disposta, da far seguire alla precaria tregua stabilita per le insistenze russe. Per venire incontro alla necessità della Turchia di avere tempo sufficiente per attuare le riforme, Schuvaloff a metà marzo del 1877 propose di dare un anno di tempo alla Porta. Nelidow si disse subito contrario alla proposta del ministro, facendo presente l’impossibilità di mantenere per un anno l’esercito sul piede di guerra: e smobilitare avrebbe allentato la pressione sul governo turco, necessaria perché desse effettivo seguito ai propositi riformatori enunciati nella Costituzione del dicembre 1876.

Gorciakoff non fu d’accordo con Nelidow, ma lo zar fu invece convinto dai suoi argomenti e decise quindi di porre fine agli indugi; a Nelidow pervenne quindi alla fine del marzo 1877 un telegramma cifrato di Gorciakoff per annunciare l’inizio della guerra per il 24 aprile; assieme al telegramma giunse a Nelidow la nota di rottura con la Porta, da consegnare all’immediata vigilia della guerra.

La situazione si aggravò per il fallimento delle trattative di pace con il Montenegro, le cui richieste territoriali furono respinte dalla Porta, nonostante l’intervento di Nelidow. Fallì pure l’estremo tentativo per scongiurare la guerra, messo in atto dall’ambasciatore britannico Layard arrivato in sostituzione di Elliot.

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Il diplomatico cercò inutilmente di convincere Nelidow  a non lasciare Costantinopoli subito dopo aver consegnato la nota di rottura, ma di chiedere una conferma telegrafica allo zar prima di partire. Ma ormai era troppo tardi e Nelidow rispose che dopo le prime vittorie russe lo stesso Layard avrebbe consigliato al governo turco di chiedere la pace.

E fu così che il 23 aprile 1877, il giorno precedente quello fissato per l’inizio della guerra, Nelidow lasciò la capitale turca.

Anche la Romania si era venuta preparando alla guerra: sul fiume Sireti si erano costruite fortificazioni per la difesa da eventuali attacchi di cannoniere turche ed era prevista la fornitura di cannoni di grosso calibro da parte russa per rafforzare le difese; molti ufficiali Rumeni avevano raggiunto l’esercito russo ed ufficiali russi, fra cui due generali, avevano ispezionato le fortezze romene.

C’era invece da fare poco affidamento su aiuti tedeschi: Fava osservava l’indifferenza di Bismarck alle sorti di un paese di cui era sovrano un Hohenzollern; solo il kaiser sembrava preoccuparsi della sorte di Carlo, augurandosi potesse salvare almeno la sua dignità personale in caso di un’invasione russa. Bismarck criticava Carlo perché a suo parere, “si era gettato in braccio al partito radicale”, critica condivisa da Fava, lieto della coincidenza del suo giudizio con quello del cancelliere germanico.75

A parere dell’agente diplomatico italiano c’era pure da contare poco sulla capacità dell’esercito romeno a resistere ad un attacco turco, in corso di preparazione con il concentramento di truppe a Viddino, sul Danubio. Si temeva cadessero in mano turca Kalazgh, caposaldo posto di fronte a Silistria, Calafat, in posizione dominante rispetto a Viddino, il ponte sul Sireth, per interrompere la linea ferroviaria tra Valacchia e Moldavia. Fava dipingeva un quadro catastrofico dell’esercito romeno: indisciplinati e poco istruiti gli ufficiali, in cui i soldati non avevano fiducia, scarsi gli armamenti; il console italiano prevedeva quindi una travolgente avanzata turca, non arginata dai Rumeni nemmeno per il tempo sufficiente per un intervento russo. In quella difficile situazione i ministri posero a disposizione del principe Carlo i loro portafogli, perché li assegnasse alle persone  ritenute     più     adatte  e chiesero   la   convocazione  di   un  gran Consiglio  formato  da    quanti

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avevano avuto incarichi di governo; Fava riteneva che Carlo non avrebbe comunque fatto a meno di Bratianu, con il quale si era pienamente riconciliato, in nome del comune sentimento filorusso, dopo i gravi contrasti avuti in precedenza. Secondo Fava Bratianu aveva insistito per la convocazione del gran Consiglio per condividere la responsabilità con altri, in particolare con Carlo.76

Il governo romeno tentò di evitare un’invasione turca, chiedendo all’Austria di adoperarsi in tal senso con la Porta.

Non risultava a Fava un rifiuto austriaco a tale richiesta; ma l’agente diplomatico italiano riteneva improbabile una rinuncia turca ad occupare vantaggiose posizioni strategiche in Romania.

Nella speranza di un successo della mediazione austriaca, il governo romeno non aveva ancora disposto il richiamo delle riserve; pur mantenendo formalmente la propria neutralità, la Romania-osservava Fava -aveva un diverso atteggiamento nei confronti della Turchia e della Russia: pronta ad opporsi alla prima sul Danubio, non faceva invece alcun preparativo antirusso sul Pruth: appariva chiaro a Fava a chi andassero le simpatie romene, pur se restava segreto l’accordo quasi concluso per il passaggio delle truppe russe.77

Sulle posizioni assunte dai componenti il gran consiglio, riunito  il 14 aprile 1877, Fava informava Melegari con il rapporto inviato il giorno successivo.

Ionescu, ministro degli Esteri, e Slaniceanu, ministro della Guerra, avevano insistito per mantenere la neutralità; ad essi si erano opposti Jon Bratianu, Kogalniceanu e Dimitrie Ghika, sostenuti dal principe Carlo, facendo presente l’inutilità di appellarsi ai trattati di fronte all’imminente rischio di un’invasione turca; astutamente Bratianu evitò di fare qualsiasi riferimento alle pretese russe sulla Bessarabia.

Per prendere tempo ed evitare ogni decisione immediata, gli avversari fecero presente a Bratianu la necessità di ottenere il consenso del Parlamento per far passare l’esercito russo sul territorio romeno; sarebbe stato contrario alla Costituzione fare a meno del voto del Parlamento; era inoltre incerta la disponibilità della Russia per concordare il transito delle sue truppe e si prospettava l’opportunità di chiedere consigli a Vienna su cosa fare.

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Bratianu replicò asserendo esservi indizi di una disponibilità russa a trattare (in effetti l’agente di Russia, Stuart, insisteva perché fosse alfine firmata la Convenzione per cui Nelidow aveva iniziato le trattative fin dal novembre 1876); il cancelliere austriaco Andrassy aveva dato una risposta evasiva alla richiesta romena di una mediazione con la Porta: Bratianu sorvolò sulle trattative condotte con le Potenze garanti e non volle far conoscere le sue posizioni attraverso la stampa, a differenza di Jon Ghika e Costaki Epureanu, favorevoli alla neutralità e desiderosi di rendere pubbliche le singole responsabilità dei componenti il gran consiglio, cui non erano stati invitati Lascar Catargi e gli altri ex ministri conservatori, sottoposti ad un processo ancora in corso perché imputati di malversazioni.

Il Gran Consiglio decise di mobilitare l’esercito, rinviando però la promulgazione del relativo decreto; in segno di dissenso Ionescu e Slaniceanu si dimisero dal governo e Fava pronosticò il ritorno di Kogalniceanu al Ministero degli Esteri.78

La profezia si avverò subito: già il 15 aprile Kogalniceanu tornò infatti a dirigere la politica estera della Romania ed il 18 informò l’agente diplomatico a Roma, perché lo portasse a conoscenza del governo italiano, del proposito turco di occupare tutta la Romania, Bucarest compresa, come sembrava confermato dal colloquio dell’agente diplomatico a Costantinopoli con Safvet pascià.

Kogalniceanu ricordava all’Italia ed alle altre Potenze garanti il corretto comportamento della Romania mantenutasi neutrale in ossequio ai consigli dei governi europei; questi non sembravano opporsi al passaggio dell’esercito russo, né il governo di Bucarest era in grado di impedirlo, per cui era ingiustificata ogni rappresaglia turca; se questa rappresaglia si fosse verificata senza che le Potenze garanti intervenissero per impedirla -concludeva Kogalniceanu - “nous serons forcés de prendre conseil de notre désespoir”.

Naturale corollario della nota era la richiesta urgente a Melegari di un intervento italiano presso la Porta, per evitare alla Romania gli orrori della guerra.79

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Il primo segretario dell’agenzia romena a Roma trasmise subito a Melegari la nota telegrafica di Kogalniceanu; Melegari confermò le simpatie italiane per la Romania, ma non si spinse oltre, ricordando il divieto opposto dall’articolo 22 del Trattato di Parigi all’intervento di una singola Potenza. Pertanto il governo italiano si sarebbe mantenuto in contatto con le altre Potenze e, presentandosiopportunità o modo”, avrebbe agito in conformità alle sue simpatie per la Romania.80

Il linguaggio diplomaticamente evasivo di Melegari non scoraggiò Kogalniceanu; il ministro romeno infatti tornò a chiedere un intervento italiano con un telegramma del 23 aprile, trasmesso a Melegari il 24. Kogalniceanu aggiungeva agli argomenti della sua precedente nota l’assicurazione che l’esercito romeno non avrebbe preso l’iniziativa di un’offensiva contro la Turchia, limitandosi a difendere la frontiera del Danubio, dove era richiesto l’invio di navi da guerra italiane, a difesa soprattutto di Braila e Galatz , centri commerciali e non postazioni militari, di grande interesse per l’Italia e le altre nazioni occidentali.81

Ma Melegari considerava ormai irrimediabilmente compromessa la situazione e quindi comunicava il 25 aprile a Fava di ritenere impossibile qualsiasi azione diplomatica, richiesta dal governo romeno.

La conclusione dal tono religiosamente ispirato era quasi un “requiem” per la Romania: “Ond’ è che a noi non rimane che far voti perché siano attenuati i mali di cui codesto gabinetto si trova giustamente preoccupato”.82

Ma non era solo Melegari ad eludere le richieste romene di aiuto; come segnalato da Fava nel suo rapporto del 20 aprile 1877, aveva “non poco accorato gli uomini politici” della Romania la dichiarazione ai Comuni del sottosegretario britannico agli Esteri, Burke, circa l’appartenenza della Moldavia e della Valacchia all’impero ottomano; dichiarazione giudicata un incoraggiamento alla Turchia per invadere il Principato, gettandolo nelle braccia della Russia e fornendo alla Porta un argomento per accusare la Romania di tradimento per non aver impedito alle forze russe il passaggio della frontiera del Pruth. Con tono risentito il giornale di RosettiRomanulrinfacciò il 21 aprile all’Inghilterra una costante avversione dimostrata alla Valacchia ed alla Moldavia sin dal Congresso di Parigi del 1856, opponendosi alla loro indipendenza; era questa la polemica conclusione: “I Rumeni non possono rassegnarsi a perire perché ad un ministro della regina piace di legarli ad un corpo  che la stessa nazione inglese dichiarò in putridità”.83

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Alla richiesta di Kogalniceanu per l’invio di navi da guerra italiane nel Danubio, a difesa di Galatz e Braila, si associarono il vice console italiano a Braila ed un altro italiano, il cavaliere Dell’Orso, direttore della succursale della Banca di Romania a Galatz, facendo presente la necessità di difendere i commercianti residenti. Fava faceva sue queste sollecitazioni, a seguito pure di un’esplicita richiesta di Kogalniceanu. Prima con un telegramma e poi con un rapporto l’agente diplomatico italiano aveva richiesto l’invio delle navi, pur non nascondendo gli eventuali rischi della loro presenza in una zona di operazioni belliche; non erano state inviate navi da altri paesi ed i prefetti di Braila e Galatz avevano chiesto agli stranieri presenti in quelle città di insistere con i rispettivi governi perché disponessero l’invio di navi da guerra.84

Ma questa richiesta corale non convinse Melegari; prima con un telegramma del 23 aprile, poi con un dispaccio del 3 maggio 1877 comunicò a Fava di ritenere l’invio delle navi non solo inutile, ma anzi possibile causa di nuove complicazioni. A titolo consolatorio Melegari esprimeva comunque “vivo rammarico… nello scorgere come siano travagliati, per le vicende della guerra attuale, paesi ove sono numerosi regii sudditi”; restava imprecisato se il rammarico del ministro fosse riservato ai “regii sudditi” ovvero fosse esteso alla popolazione locale.85

I voti ed il rammarico di Melegari non potevano certo arrestare il corso degli eventi: nella notte tra il 23 ed il 24 aprile 1877 i russi varcarono il Pruth, ancora prima che gli accordi alfine firmati da Kogalniceanu e dall’agente russo Stuart fossero ratificati dal Parlamento romeno.

Scoppiava così l’ennesimo conflitto tra Russia e Turchia; al ripetersi degli scontri fra i due Paesi era dedicato un articolo di G. Valbert sulla “Revue des Deux Mondes” , facendo un confronto fra la guerra del 1828 e quella allora in corso.

Notava l’autore come tutte le guerre (ne contava nove a partire dal ´700) fossero state iniziate dalla Russia, senza però arrivare ad un totale annientamento della Turchia, riuscendo questa a riprendersi dalle sconfitte non solo grazie al valore dei suoi sudditi, ma anche per l’intervento militare o diplomatico di altre Potenze, come era avvenuto nel 1791, nel 1822, nel 1853; ovvero per avvenimenti fortuiti quali l’epidemia di peste del 1774 e del 1829.

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Nel 1877 i liberali europei erano contrari alla Turchia, come era avvenuto nel 1828-29 quando tutte le simpatie erano per la Grecia; in entrambe le occasioni la Russia aveva previsto una sua rapida vittoria, ma invece  l’andamento della guerra era stato lungo difficoltoso. Rispetto al 1828 l’impero zarista si trovava però in una migliore situazione politica, senza dover temere il formarsi di una coalizione antirussa simile a quella creata per la guerra di Crimea: lo garantiva il patto cosiddetto dei tre imperatori,  stretto a Berlino nel settembre 1872 fra  il kaiser Guglielmo I , lo zar Alessandro II e l’imperatore d’Austria Francesco Giuseppe.

A differenza di quanto avvenuto nel 1853, le Potenze occidentali nel 1877 si limitavano a dare alla Turchia consigli, non aiuti concreti; l’Austria non aveva preso parte alla guerra a fianco della Russia, ma le aveva comunque garantito il non intervento, attuando, secondo l’espressione inglese, “a masterly inactivity”, cioè “una magistrale inattività”.

Il pronostico di Valbert era per una vittoria della Russia, grazie alle sue immense risorse; non senza malizia l’autore concludeva osservando come la Russia avesse iniziato sempre le sue guerre con la nobile motivazione di voler proteggere i cristiani d’Oriente, riuscendo però alla fine a ricavarne notevoli vantaggi.85bis

Proprio alla vigilia dell’inizio della guerra, il 23 aprile 1877 si svolse alla Camera italiana un dibattito sulla politica del governo per la questione d’Oriente.86

Visconti Venosta intervenne per  primo: nella sua interrogazione espresse “al Governo l’opportunità di qualche dichiarazione sulle condizioni attuali della politica italiana”, con particolare riferimento alla linea politica prefissata in vista del conflitto giudicato ormai imminente.

Secondo l’autorevole parlamentare l’unica politica conveniente per l’Italia era “una politica prudente, leale, scevra di ogni spirito di avventure”, tale da confermare “l’utilità per gli interessi europei della presenza e dell’azione morale di questo giovane Stato”.

Occorreva quindi smentire le voci riportate da autorevoli giornali europei circa la tendenza opportunistica del governo italiano a trarre profitto dal conflitto, schierandosi al fianco di una delle due parti contendenti; senza fare dichiarazioni troppo impegnative per non compromettere la sua libertà  d’azione, il  governo  avrebbe  dovuto limitarsi  ad  affermare la  consonanza  degli  interessi

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italiani con quelli europei, dichiarando la propria neutralità, poiché non era in gioco la sicurezza dell’Italia e smentendo l’esistenza di accordi segreti. Visconti Venosta non precisava con quale potenza si vociferava fossero stati contratti tali accordi, ma i sospetti circolati sulla stampa facevano riferimento alla Russia.

Ed a favore della Russia si schierava decisamente l’oratore successivo Fernando Petruccelli della Gattina, ironicamente polemico con le posizioni del ministro degli Esteri, giudicate troppo prudenti ed ambigue:”coll’onorevole Melegari non possiamo intenderci: egli mi troverà forse troppo cosacco; io l’accuso di essere più turco di Midhat pascià”. L’autore accusava il governo di essere andato a rimorchio della politica inglese ed austriaca, favorendo in tal modo la Turchia. Alla Russia Petruccelli attribuiva il merito di aver preso nella questione d’Oriente “una posizione logica e radicale”, dimostrando l’incompatibilità della Turchia con l’Europa civile, a differenza dell’Inghilterra per la quale l’impero ottomano era essenziale per l’equilibrio politico europeo e quindi da salvaguardare. Ma solo di recente si era venuta sostenendo l’intangibilità territoriale della Turchia, mutilata di molti suoi territori  in epoche precedenti.

Bisognava chiarire quale fosse la posizione italiana: “Tra le due teorie, quella della politica virile della Russia e quella dell’anemia amorfa dell’Inghilterra, onorevole Depretis, quale sarete voi per prescegliere?”; era l’interrogativo enfatico rivolto al presidente del Consiglio.

Esattamente agli antipodi dell’intervento di Petruccelli della Gattina si collocava quello del successivo oratore, l’ex garibaldino e cospiratore patriottico Benedetto Musolino.

Garibaldi aveva tuonato: “Il Turco deve andarsene a Brussa. Discese come il lupo passando il Bosforo, devastando, massacrando e stuprando87, ma di ben diverso avviso era il suo ex seguace.

Per Musolino infatti le rivolte nei Balcani non erano state causate da un preteso malgoverno ottomano, ma dagli intrighi della Russia, intesi a distruggere la Turchia, “per rivolgere dimani le sue ambizioni al resto dell’Asia e della stessa Europa”; si doveva quindi parlare di una “questione moscovitapiuttosto che di una “questione orientale”. Erainqualificabile” la politica dell’Europa nei confronti della Turchiaingiustamente attaccata”, costretta ad esercitare una legittima difesa; se la Russia fosse stata isolata, “non avrebbe osato continuare nella criminosa impresa, la Porta avrebbe immediatamente ridotto al dovere gli insorti erzegovinesi e bosniaci, che da principio e sempre furono assai pochi…”.

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Il governo turco aveva sempre garantito la parità dei diritti ancor prima della Costituzione del dicembre 1876, di cui l’Europa avrebbe dovuto dirsi soddisfatta, anziché continuare a chiedere riforme a favore degli Slavi, facendone una casta privilegiata, e pretendere “l’adozione di proposte che puzzano a mille miglia di sagrestia e di favoritismo di razza”.

I liberali italiani avrebbero quindi dovuto stare con il governo turco e non con il dispotismo rosso.

Ma l’ambizioso piano russo di fare del Mediterraneo un lago moscovita era destinato a fallire grazie all’intervento dell’Inghilterra; ad essa ed all’Austria doveva associarsi l’Italia per impedire la guerra; se questa fosse comunque scoppiata, il governo di Roma avrebbe dovutoagire perfettamente di concerto durante e dopo la guerra” con quelli di Londra e Vienna.

Nell’accesa filippica antirussa Musolino  coinvolgeva la Romania, accusata di non aver impedito l’afflusso attraverso il suo territorio dei “volontarirussi diretti in Serbia, pur avendo preso con la Porta l’impegno di fermarlo in cambio della neutralizzazione del tratto del Danubio al confine con la Serbia.

Ed un attacco alla Romania Musolino lo sferrava pure nel memorandum inviato a Disraeli per spingerlo ad intervenire a favore della Turchia nella guerra ormai scoppiata.88

L’ex garibaldino sollecitava l’ingresso in guerra dell’Inghilterra contro “la sombre ambition de la Russie”, a difesa degli interessi europei oltreché propri; criticava poi la pretesa russa di voler proteggere i cristiani dell’impero turco, mentre nell’impero zarista i cattolici erano oppressi, “sans parler des Israélites qui sont privés de tous les droits civils et politiques et traités comme un vil bétail”. 89

Le accuse rivolte ai Turchi di aver commesso atrocità contro i Bulgari insorti, erano poi ricambiate contro i Russi ed i Bulgari stessi, autori di barbarie contro i musulmani, arrostiti vivi allo spiedo; e se i Bulgari si erano macchiati di simili mostruosità, per Musolino i Romeni erano degli ingrati e dei traditori, resi audaci dall’appoggio tedesco; la Romania-affermava Musolino-sans un motif légitime de plainte envers la Porte n’aurait pas pu être trois fois rebelle sans les promesses, les excitations et les assurances venues de l’Allemagne encore plus que de la Russie”.90

Anche l’Austria aveva le sue responsabilità, per non aver neanche protestato “….lorsque la Roumanie, mettant le comble à sa déloyauté s’allia avec la Russie et se mit en campagne contre la Turquie…”.91

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I Romeni erano divenuti poco favorevoli alla guerra dopo l’imprevista resistenza turca ed il mancato successo fulmineo della Russia in cui avevano sperato; la Serbia per entrare in guerra aveva atteso la caduta di Plevna, quando alfine i Russi sembravano sul punto di prevalere; si chiedeva perciò Musolino: “ est donc cet élan patriotique, est cette lutte vràiment populaire qui révèle une volontè ferme de s’émanciper et de se constituer dans une nouvelle nationalité?”.92

A questa inerzia popolare in Serbia e Romania Musolino contrapponeva lo slancio patriottico dei sudditi turchi, anche di fede ebraica e cristiana, arruolatisi volontari. Per contro “dans les principautés vassalles de la Roumanie et de la Serbie on n’à jamais vu un seul volontaire,  la guerre a été exclusivement gouvernementale”.93

Affermazioni queste senz’altro contrarie alla verità storica: in Romania, passate le incertezze del primo momento, ci fu un’attiva partecipazione popolare alla guerra ed uno slancio patriottico di stampo risorgimentale.

Ma per Musolino i  Principati erano:”…une création hybride ; qui, loin de favoriser le progrès en Orient, le retarde indéfinitement,et même le rend impossible pour toujours. Ils nous font rire ceux qui parlent d’une Mission historique roumaine, d’une Mission historique serbe”.94

Si chiedeva l’ex garibaldino quali progressi avessero realizzato i Principati, pur avendo avuto dalla Porta piena libertà d’azione.

Pertanto arrivava a questa drastica affermazione: “…les principautés vassalles doivent disparaitre, et comme parties intégrantes de le Turquie elles doivent être administrées de la même façon que les autres provinces de l’empire”.95 Al massimo ai Principati poteva spettare l’autonomia amministrativa già assicurata dalla Costituzione del 1876.

Moldavia e Valacchia entrando a far parte a pieno titolo dello Stato turco, partecipando ai benefici economici riservati ad un grande impero destinato ad un brillante avvenire, dotate dei diritti civili e politici, rappresentate nel Parlamento ottomano come le altre province, “….béniraient le jour, cessant d’avoir une autonomie rachitique, orageuse et ignoble, elles se fondront dans la grande famille ottomane”.96

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Dopo aver auspicato la scomparsa dello Stato romeno ed il soffocamento delle aspirazioni nazionali della Serbia, Musolino  progettava un’alleanza anglo-turca rafforzata da volontari accorsi da tutto il mondo musulmano al richiamo della guerra santa proclamata dal Sultano nella sua qualità di Califfo e Commendatore dei Credenti.

Il memorandum di Musolino portava la data del dicembre 1877, quando la guerra volgeva ormai al termine, e riprendeva le stesse idee da lui espresse nel dibattito svoltosi alla Camera italiana il 23 aprile dello stesso anno, all’inizio cioè della guerra.

Ed in quel dibattito, ultimo oratore dopo Musolino era intervenuto l’onorevole Colonna di Cesarò, svolgendo un’interrogazione “sulle misure per tutelare in caso di guerra i connazionali in Oriente, e sugli accordi con le grandi Potenze europee per la neutralità della Romania”.

In quanto alle misure per tutelare gli Italiani in Oriente, Colonna di Cesarò non faceva parola della richiesta di inviare navi da guerra nel Danubio per difendere i connazionali residenti a Braila e Galatz, respinta da Melegari perché giudicata inutile o addirittura dannosa: probabilmente l’onorevole interrogante era all’oscuro di quella richiesta e del rifiuto di Melegari; si soffermava invece Colonna di Cesarò sullo status internazionale della Romania, priva di “una sanzione positiva della sua neutralità”, anche se questa era stata implicitamente riconosciuta dal Trattato di Parigi. Manifestava poi l’oratore il suo sconcerto per la dichiarazione ai Comuni di Burke, a cui parere ai Principati Danubiani non poteva essere riconosciuta la neutralità, in quanto essi erano parte integrante dell’intero Ottomano.

Notava poi Colonna di Cesarò come l’affermazione di Burke fosse contraddetta da un documento pubblicato nel “libro azzurrobritannico in cui si lodava la Romania per essersi mantenuta neutrale e lamentava che invece nell’ultimolibro verdeitaliano nessun documento facesse cenno alla neutralità romena: pure, l’agente italiano a Bucarest nel suo rapporto a Melegari del 22 novembre 1876 aveva ricordato l’impegno di Safvet pascià a rispettare la neutralità della Romania. 97

Deplorava pure l’interrogante l’estremo riserbo mantenuto da Melegari in ogni occasione sulla neutralità della Romania e chiedeva cosa si proponeva di fare il governo italiano in vista del probabile ed imminente sconfinamento delle truppe russe in Romania.

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Esaurita la serie delle interrogazioni con l’intervento di Colonna di Cesarò, fu la volta del ministro degli Esteri a rispondere agli interroganti. Melegari ci tenne anzitutto, replicando a Petruccelli della Gattina, a smentire di essere andato a rimorchio dell’Inghilterra: la politica estera italiana era stata sempre immune da influssi inglesi come da quelli russi, riscuotendo così consensi unanimi; cadeva così anche l’accusa di una preconcetta ostilità verso la Turchia, mossa da Musolino al governo. La Conferenza di Costantinopoli, per il cui esito positivo il governo italiano si era molto adoperato, non aveva purtroppo avuto risultati utili perché si era arenata nelle secche di sterili dispute. Smentiva poi il ministro le voci, riportate anche dall’autorevoleTimes”, di intese segrete italo-russe; alla Russia anzi si erano fatti presenti i rischi derivanti dall’eventuale occupazione dei territori turchi; c’erano state intese segrete con l’Inghilterra o con la Germania. A Visconti Venosta  poi Melegari assicurava il proseguimento della politica di neutralità fino ad allora praticata dal governo italiano. E in quanto all’accusa di essere più turco di Midhat pascià, rivoltagli da Petruccelli della Gattina, Melegari faceva osservare quanto importante fosse per l’equilibrio politico europeo il rispetto della integrità territoriale dell’impero ottomano.

Si soffermava infine Melegari sulla neutralità della Romania di cui si era occupato Colonna di Cesarò, chiedendo quale fosse l’impegno italiano a difenderla. Ricordava il ministro come molti considerassero i Principati Danubiani una provincia turca; la Porta aveva promesso di stabilire sul Danubio la sua linea di difesa, senza entrare nel territorio della Romania di cui comunque non aveva riconosciuto la neutralità; né l’Italia poteva agire da sola per difenderla, poiché a tal fine  occorreva un’azione comune di tutte le Potenze.

La conclusione di Melegari suonava come una rassegnata rinuncia a tutelare la neutralità della Romania: “E’ difficile, del resto, comprendere come, tra i due imperi, questo piccolo territorio possa conservarsi neutrale; perché in tal modo esso costituirebbe una barriera insuperabile stabilita tra la Russia e la Turchia, barriera che nessuna delle Potenze ha voluto riconoscere e sancire nei trattati”.

Ed a parere del ministro, lo stesso governo romeno aveva ormai rinunciato a mantenersi neutrale. Tale rinuncia, occorre dire, in effetti c’era stata: ma tormentata da mille dubbi e non per una libera scelta, ma perché imposta dal rifiuto di tutte le Potenze a garantire quella neutralità a lungo apparsa come l’unica ancora di salvezza per la Romania.

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I russi, giocando d’anticipo, avevano varcato il Pruth senza attendere la ratifica da parte del Parlamento romeno degli accordi appena firmati da Kogalniceanu e Stuart. In tali accordi non erano ancora del tutto chiariti il ruolo della Romania nella guerra e l’impegno russo per garantire la sua integrità territoriale. Inutilmente il principe Jon Ghika si era recato al quartiere generale russo di Kiscinev per fare chiarezza su quei punti di capitale importanza. Il comando russo non voleva riservare all’esercito romeno un ruolo attivo nella guerra, per non dare al governo di Bucarest argomenti per avanzare pretese a guerra conclusa.

Osservava Fava quanto fosse sfavorevole la situazione per la Romania, cui sarebbe convenuto mantenersi neutrale e quanto ne fosse amareggiato Carlo, al punto che erano circolate voci sul suo proposito di abdicare. Era poi considerato oltraggioso il silenzio sul principe nel manifesto del granduca Nicola diffuso al passaggio delle frontiere.

A complicare ancor più la situazione, Abdul Karim pascià, capo delle forze turche nella zona danubiana, aveva chiesto il sostegno dell’esercito romeno contro i Russi. Il governo romeno si appellò ancora alla sua neutralità con un comunicato, disponendo il ritiro delle guarnigioni di frontiera per evitare ogni loro contatto con le truppe russe, nei cui confronti i prefetti avrebbero dovuto agire come funzionari di polizia, a tutela delle popolazioni da ogni eventuale violenza.98

Alla richiesta di Abdul Karim pascià di un contributo romeno per resistere all’avanzata russa Kogalniceanu aveva risposto in modo evasivo, affermando la competenza del Parlamento per ogni decisione al riguardo. La Porta rinnovò la richiesta in modo ufficiale al più alto livello, con un telegramma del gran visir: a nome del sultano era ricordato l’articolo 26 del Trattato di Parigi per cui i principati di Moldavia Valacchia erano tenuti a sostenere le forze della Turchia.

D’urgenza era stato quindi convocato per il 26 aprile il Parlamento romeno. 99

Carlo nel suo messaggio al Parlamento sottolineò l’abbandono in cui la Romania era stata lasciata dalle Potenze e come la nazione potesse contare solo sulle sue forze, dopo esser stata costretta a rinunciare alla neutralità. Il principe esprimeva fiducia nell’impegno dello zar a rispettare i diritti della Romania e auspicava la fine di ogni contesa tra i partiti, accomunati nello sforzo di salvare il paese.100

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I soldati russi si comportavano correttamente, come il console italiano a Braila, Tesi, segnalava a Fava; si accampavano nelle campagne, entravano nelle città a piccoli gruppi, pagavano quanto veniva loro fornito.

Gli ufficiali si recavano a salutare i  prefetti, cui  il governo aveva dato disposizione di evitare con le forze russe ogni rapporto, affidato ai sindaci; il console annunciava inoltre l’arrivo di due cannoniere inglesi, le uniche navi da guerra giunte nel Danubio.101

Il passaggio della frontiera da parte russa, avvenuto ancor prima della ratifica da parte del Parlamento romeno dell’accordo da poco firmato e senza una preventiva comunicazione, aveva causato un notevole malumore nel principe Carlo e nel governo di Bucarest; il granduca Nicola volle quindi porvi riparo dichiarando non esser giunta tempestivamente una sua comunicazione per un banale disguido; inoltre, un inviato speciale del granduca, il principe Dolgoronski, arrivò a Bucarest qualche giorno dopo, nella notte fra il 27 e il 28 aprile, latore di un messaggio personale per Carlo, ufficialmente a titolo di riparazione per il precedente silenzio; in realtà, supponeva Fava, per consegnare la garanzia dello zar per l’integrità territoriale della Romania, su cui era continuata a persistere una certa confusione.

Tra Romania e Russia erano state stipulate due convenzioni: una tecnica di 26 articoli per regolare i rapporti dell’esercito russo con la popolazione romena ed una di natura politica, composta di 4 articoli, relativa appunto alle garanzie russe richieste dalla Romania a tutela della sua integrità territoriale. Entrambe le convenzioni portavano la data del 16 aprile, antecedente quindi il passaggio della frontiera, avvenuto il 24 aprile. Ma, secondo Fava, prima del giorno 24 era stata firmata soltanto la convenzione tecnica e pertanto la Russia aveva iniziato la guerra senza aver assunto alcun impegno politico con la Romania. Il governo romeno aveva insistito perché fosse firmata anche la convenzione politica e tale richiesta era stata sostenuta presso lo zar da un intervento personale del kaiser, sollecitato da Carlo; Dolgoronski, secondo Fava, sarebbe in realtà venuto a Bucarest appunto per consegnare la garanzia tanto a lungo attesa; di questa versione dei fatti Fava non si diceva del tutto sicuro, ma suo parere era attendibile per tutta una serie di coincidenze.102

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Entrambe le convenzioni, la tecnica e la politica, furono presentate al Parlamento per la ratifica il 28 aprile; la Camera diede la sua approvazione con 70 voti contro 25 ed il Senato con 41 voti contro 10. La convenzione politica così recitava: “Afin quaucun inconvénient ou danger ne résulte pour la Roumanie du fait du passage des troupes russes sur son territoire, le gouvernement de Sa Majesté l’Empereur de toutes les Russies s’engage à maintenir et à faire respecter les droits politiques de l’État Roumain tels quils résultent des lois intérieures et traités existants ainsi quà maintenir et à défendre l’integrité actuelle de la Roumanie”.103

Era una dichiarazione molto chiara ed impegnativa: non bastò tuttavia ad impedire che, a guerra finita, la sottile diplomazia russa trovasse il modo di aggirarla, sostenendo l’improbabile tesi che quell’impegno era rivolto contro i terzi e quindi la Russia poteva fare quanto in teoria  avrebbe dovuto impedire ad altri, avendo il diritto di reclamare l’annessione della Bessarabia.

Fava supponeva esistesse un terzo accordo segreto con la Russia perché la Romania divenisse un alleato a pieno titolo partecipando attivamente alla guerra; 104 contro tale eventualità Epureanu con il sostegno di Sturdza, Carp e Boerescu aveva presentato al Senato una mozione per impegnare il governo a proseguire in futuro la politica di neutralità; in realtà, a guerra  ormai iniziata era utopistico continuare a parlare di neutralità ed il Senato respinse la mozione; la Romania continuò comunque a restare ai margini delle azioni belliche, in quanto la Russia all’inizio rifiutò un suo ruolo attivo nella guerra, orgogliosamente sicura di poter fare a meno dell’aiuto di un piccolo paese per sconfiggere rapidamente la Turchia.

Kogalniceanu smentiva però decisamente a Fava ed agli altri agenti diplomatici la volontà romena di partecipare attivamente alla guerra divenendo alleati a pieno titolo della Russia, cui il governo romeno era legato solo dall’impegno a far passare sul proprio territorio le truppe dello zar; un analogo consenso, sottilizzava Kogalniceanu, non era stato dato alla Turchia per evitare che la Romania divenisse il teatro dello scontro fra i due eserciti. Kogalniceanu ribadì anzi la sua contrarietà ad un’alleanza formale con la Russia tale da comportare la partecipazione romena alla guerra; se Carlo l’avesse voluto, il ministro si sarebbe dimesso. Ma Fava credeva poco a tali affermazioni, essendo convinto della volontà di Carlo e di Bratianu di far partecipare l’esercito romeno all’offensiva antiturca, sperando così di acquistare titoli per ottenere la piena indipendenza.

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In tal caso, osservava con malizia Fava, si sarebbe visto se Kogalniceanu si sarebbe veramente dimesso, “ovvero, trincerandosi dietro la forza delle circostanze” avrebbe partecipato, magari suo malgrado, “ad una politica audace ed avventurosa”, dalle imprevedibili conseguenze.105

La Porta con una sua nota circolare del 2 maggio 1877 notificò alle Potenze la rottura delle relazioni diplomatiche con Bucarest e il governo romeno concentrò sul Danubio, a Calafat, gran parte delle sue forze (20.000 uomini sui  50.000 di cui disponeva), nell’intento, riteneva Fava, di provocare un attacco turco, ottenendo così un “casus belliutile per giustificare l’ingresso in guerra.106

Ma per qualche tempo ancora perdurò una situazione di stallo: la Russia continuò a negare alla Romania un’alleanza formale ed una piena partecipazione alla guerra, cui peraltro non era favorevole l’opinione pubblica romena, ostile pure ad una guerra semplicemente difensiva, ritenendo fosse il frutto di un’iniziativa personale di Carlo.107

Il comando russo fece al governo romeno la proposta di incorporare 25.000 militari del Principato nel suo esercito; il resto delle forze, al comando di Carlo, sarebbe rimasto nella piccola Valacchia, lontano dal territorio di scontro. La proposta fu respinta: Carlo rifiutò un ruolo marginale di scarso rilievo, poiché aspirava al comando dell’intero esercito romeno con un ruolo veramente impegnativo, facendo pure pressione su Rosetti per una formale dichiarazione di guerra alla Turchia e l’immediata proclamazione dell’indipendenza, a tutela della dignità del paese e di quella personale.

I contrasti russo-Rumeni, prevedeva Fava, si sarebbero appianati in occasione della visita del granduca Nicola  a Bucarest, prevista per il 14 maggio.108

In risposta alle sollecitazioni di Carlo Rosetti agiva perché fosse il Parlamento a decidere la dichiarazione di guerra alla Turchia e la proclamazione dell’indipendenza, in modo da offrire al governo una copertura politica necessaria per giustificare l’abbandono della neutralità e per vincere le resistenze di Kogalniceanu, almeno in apparenza contrario a tale eventualità, poiché preferiva attendere un moltiplicarsi delle scorrerie turche, motivazione utile per spiegare le ragioni dell’ingresso in guerra romeno.109

Il 9 maggio si verificò l’occasione tanto attesa per dare il via alla partecipazione della Romania alla guerra; ci fu un’interpellanza alla Camera per chiedere quali misure intendesse adottare il governo in risposta alle incursioni turche in territorio romeno ed alla sospensione dell’agente romeno a

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Costantinopoli dalle sue funzioni disposta dalla Porta. Kogalniceanu rispose affermando l’inesistenza di azioni romene tali da giustificare le provocazioni della Turchia, il cui comportamento  equivaleva ad una dichiarazione di guerra.

Il ministro presentò una mozione, approvata con 58 voti contro 29, in cui era attribuita alla Porta la responsabilità degli atti di guerra, rivolgendo un appello per l’intervento delle Potenze garanti dell’esistenza politica della Romania.110

Kogalniceanu volle poi chiarire la posizione romena inviando il 14 maggio 1877 una  nota all’agente diplomatico a Roma, Obedenare, per  ricordare il costante rispetto romeno della neutralità ed il rifiuto turco di qualsiasi concessione alla Romania. Questa, abbandonata dalle Potenze, era stata costretta a stipulare una convenzione per il passaggio delle truppe russe, negato invece a quelle turche per evitare che i due eserciti facessero del territorio romeno il loro campo di battaglia. L’ostilità della Porta, dimostrata dalle continue scorrerie e dalla sospensione dell’agente diplomatico romeno a Costantinopoli, aveva portato ad una guerra, imposta alla Romania dalla necessità di difendere le sue istituzioni e la sua stessa esistenza.111

Melegari accolse con un certo disappunto la notizia dell’accordo romeno con la Russia per il passaggio delle truppe, lamentando di non esserne stato informato in precedenza; ostentò poi un’olimpica indifferenza, comunicando a Fava di non aver fatto osservazioni ad Obedenare: “… trattandosi di fatti compiuti, e all’infuori di ogni nostra possibile azione, non avrei potuto che rinnovare le espressioni del rammarico da noi provato nello scorgere i danni e le molestie cui la Romania soggiace per la presente guerra”. 112

Al voto della Camera seguì quello del Senato, a conclusione del dibattito apertosi a seguito dell’interpellanza del senatore Falcoianu sugli attacchi turchi avvenuti senza una dichiarazione di guerra. Con 36 voti contro 7 ed uno astenuto fu approvata una mozione con la quale era ribadita la responsabilità turca delle operazioni di guerra ormai in corso. Boerescu evocò ancora una volta il fantasma della neutralità e Fava ne riassumeva così il pensiero: “Solamente provando che siamo e possiamo rimanere neutrali, che ripudiamo ogni velleità di confondere con le nostre le aspirazioni dei nostri potenti vicini - il riferimento era chiaramente rivolto ai Russi -, potremo indurre le Potenze a provvedere alle nostre sorti ed a largirci il loro appoggio”. Ricorrendo ad un tradizionale parallelo, Boerescu concludeva con l’auspicio che la Romania divenisse il Belgio dell’Europa orientale. 113

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La Camera ed il Senato avevano dato via libera alla guerra contro la Turchia, ma non si erano ancora espressi sull’indipendenza della Romania, oggetto di una campagna condotta da Rosetti sul suo giornaleRomanul”, verso cui Bratianu manteneva un certo distacco, per dare l’impressione di cedere alle pressioni popolari; Kogalniceanu era favorevole, ma non voleva agire con precipitazione.

Questo indugio di Kogalniceanu era criticato da Rosetti, giudicandolo prova di debolezza, e Fava da parte sua riteneva la prudenza di Kogalniceanu dettata da esigenze di partito, non volendo fare attribuire al rivale Bratianu il merito della proclamazione dell’indipendenza, di cui voleva apparire l’artefice avendo guadagnato alla Romania le simpatie delle Potenze grazie alla sua prudente calma.114

Il cammino verso la proclamazione dell’indipendenza era comunque inarrestabile: il 21 maggio 1877 entrambi i rami del Parlamento dichiararono con voto unanime l’indipendenza romena.

Lo stesso giorno Fava ne diede notizia a Melegari ed un telegramma di Kogalniceanu informò Obedenare il giorno successivo.115 Melegari si limitò a ringraziare l’agente diplomatico romeno venuto a dargli comunicazione dell’accaduto senza pronunciarsi nel merito dell’importante decisione presa dal Parlamento romeno, dato che non gli era stato richiesto di esprimere un parere. Fece comunque capire ad Obedenare di ritenere opportuno mantenere il suo riserbo, giudicando intempestiva una discussione sulla condizione giuridica della Romania: era un argomento da affrontare a guerra finita, al momento di stipulare il trattato di pace.116

L’avvenuta proclamazione dell’indipendenza romena era oggetto di una successiva nota di Kogalniceanu a Obedenare, in data 3 giugno 1877. Questa volta il ministro romeno non si limitò ad informare Melegari, ma chiese, se non un riconoscimento formale (gli era chiara la difficoltà per il governo italiano di compiere quel passo), quanto meno “un simple acquiescement à la ligne de conduite que nous avons suivie  e la garanzia di non costringere la Romania a riannodare i legami di dipendenza dalla Porta.

Kogalniceanu prometteva, in cambio di tale garanzia, la ripresa della neutralità, una volta finita la guerra.

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In definitiva, Kogalniceanu si attendeva dal governo di Roma una nuova prova di benevolenza, “présentée cette fois, tout au moins, sous la forme d’une promesse rassurante pour  l’avenir politique de la Roumanie”.117

Ma neanche questo nuovo passo romeno scalfì il riserbo di Melegari: il governo italiano come forse anche gli altri governi-fu la risposta data all’agente diplomatico di Romania-si riprometteva di esaminare la questione solo quando sarebbe giunto “il momento di regolare e riconoscere i risultati della guerra presente”.118

Il 22 maggio, giorno successivo a quello della proclamazione dell’indipendenza, era l’undicesimo anniversario dell’ascesa di Carlo al trono; l’evento fu celebrato in tono minore; l’unico fatto di rilievo fu l’arrivo a Bucarest del granduca Nicola, venuto dal quartiere generale di Ploiesti a Bucarest a porgere i suoi auguri a Carlo.119  Le difficoltà tra Carlo ed il granduca non erano state comunque risolte; era stato rifiutato di incorporare una larga parte dell’esercito romeno in quello russo ed il governo si era pure opposto al trasferimento del quartier generale del granduca da Ploiesti a Bucarest, ricordando l’impegno di non insediarsi nella capitale romena, sancito dall’articolo 18 della Convenzione tecnica. Alla fine Carlo aveva convinto il governo ad acconsentire, ma il trasferimento del quartiere generale russo era stato subordinato a tante condizioni da indurre il granduca Nicola a restare a Ploiesti.120

Il problema di fondo nei rapporti russo-Romeni era però costituito dall’ambigua posizione della Romania, cui il governo russo aveva rifiutato una formale alleanza perché al momento della firma delle due convenzioni, nell’aprile 1877, non c’era ancora stata la proclamazione dell’indipendenza romena ed un’alleanza poteva essere stipulata soltanto fra Stati sovrani. Inoltre, non tutti i politici Rumeni erano disposti ad impegnare il paese in una guerra spinta al di dei confini cui anche Gorciakoff era contrario; tra i politici ed i militari russi esistevano al riguardo pareri divergenti: contrari i primi, per non consentire alla Romania di acquistare sul campo di battaglia diritti da far poi valere a guerra conclusa; favorevoli invece i militari, compreso il granduca Nicola, resisi conto delle difficoltà di un conflitto destinato a durare a lungo, contrariamente alle troppo ottimistiche previsioni iniziali.

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Le divisioni tra i politici Romeni potevano riassumersi nelle opposte dichiarazioni fatte da Bratianu e Kogalniceanu; il presidente del consiglio in Parlamento aveva fatto cenno ad una “crociata” in Bulgaria, mentre invece il ministro degli Esteri si era detto contrario ad ogni avventura bellica, affermando di non ritenere necessaria un’alleanza con la Russia.

Fava dichiarava comunque in un rapporto a Melegari di non ritenere immutabile la posizione di Kogalniceanu, ricordando casi precedenti di “reminiscenze patriottiche del Ministro, di cui prevedeva il cedimento alla volontà irresistibile della nazione”.121

Bratianu aveva concepito per ottenere il riconoscimento dell’indipendenza romena da parte delle Potenze un piano basato su passi progressivi. Il primo avrebbe dovuto essere l’alleanza con la Russia; implicito riconoscimento della sovranità della Romania, condizione necessaria per contrarre l’alleanza. L’ostilità di Gorciakoff all’alleanza ed all’implicito riconoscimento dell’indipendenza romena aveva indotto Bratianu a limitare le azioni militari a semplici misure difensive. Gorciakoff aveva spiegato il suo rifiuto con il riguardo dovuto all’Austria, timorosa dell’attrazione esercitata da una Romania riconosciuta indipendente sui Valacchi e sui Moldavi delle province dell’impero asburgico.

Soltanto un accordo diretto tra il principe Carlo e lo zar avrebbe potuto superare le resistenze di Gorciakoff; in occasione della visita dello zar a Bucarest, venuto a ricambiare quella fattagli da Carlo al quartiere generale di Ploiesti, sia Rosetti, sindaco della capitale, che il metropolita di Valacchia nei loro discorsi di benvenuto avevano fatto insistenti accenni ad una possibile alleanza russo-romena; ma lo zar nel suo intervento ignorò quelle allusioni e si limitò a ringraziare per l’accoglienza ricevuta.122

Anche lo zar infatti condivideva la contrarietà a riconoscere l’indipendenza della Romania, stringendo con essa un’alleanza formale, cui si opponevano ragioni di politica internazionale.

Il cancelliere austriaco Andrassy aveva infatti chiaramente espresso il suo dissenso, dovuto non solo al timore di una Romania polo di attrazione per i Valacchi e per i Moldavi dell’impero austriaco; ma anche alla possibilità che la partecipazione della Romania alla guerra divenisse un esempio per la  Serbia e per la Bosnia-Erzegovina: territorio, occorre ricordare, ambito dal governo di Vienna cui era stato promesso con gli accordi austro-russi di Reichstadt e di Budapest.

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Lo zar faceva inoltre  della annessione della Bessarabia una questione di onore personale: fare della Romania  un’alleata avrebbe potuto significare fornirle argomenti per opporsi alla cessione di quel territorio.

Esistevano poi i motivi spiccioli di ripicche e risentimenti personali: il granduca Nicola era rimasto urtato dal rifiuto di incorporare nell’esercito russo parte di quello romeno e dalle difficoltà opposte al trasferimento del suo quartiere generale da Ploiesti a Bucarest. Da parte loro i Rumeni cominciavano a considerare troppo invadente la presenza dei russi; il marchese Seyssal di Sommariva, console italiano a Galatz, scriveva a Fava che i Romeni si chiedevano se passando dal dominio turco alla presenza russa “in fin dei conti essi  non faranno altro che cambiar di vassallaggio malgrado ogni contraria officiale apparenza”. 123

Le difficoltà opposte dalla Russia al riconoscimento dell’indipendenza della Romania ed alla stipula di un’alleanza con essa confermavano a Melegari l’opportunità del suo riserbo e della sua prudenza rispetto alle richieste romene, da lui pure consigliati a Fava.124

Ad accrescere le difficoltà e le preoccupazioni del governo romeno intervenne una recrudescenza della questione ebraica, pericolo latente e mai estinto per la credibilità romena di fronte all’opinione pubblica internazionale.

Nel maggio 1877 si verificò difatti un ennesimo episodio di antisemitismo, di per sé meno grave di quelli precedenti, ma preoccupante per la delicata situazione della Romania, su cui in quel momento era appuntata l’attenzione generale. Sede del nuovo incidente fu Darabani, località della Moldavia, dove tradizionalmente si verificano i più frequenti casi di violenza contro gli Ebrei. Un proprietario del luogo, il greco Cimara aveva un cattivo rapporto con la comunità ebraica e sua moglie organizzò contro di essa una spedizione punitiva affidata ai suoi servi; ci furono atti di violenza e saccheggi e molti Ebrei rimasero feriti; in quell’occasione le autorità romene intervennero con fermezza e la Cimara fu imprigionata per l’istigazione alla violenza.

Consapevole delle critiche che quei fatti avrebbero suscitato contro la Romania, Kogalniceanu volle prevenirle denunciandoli con una nota agli agenti diplomatici accreditati nelle capitali europee.

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Obedenare fu informato con un telegramma del 9 giugno 1877,  portato a conoscenza di Melegari già il giorno successivo. Il ministro romeno metteva in evidenza il pronto intervento delle autorità in difesa degli Ebrei, la nazionalità greca dei Cimara, i cui servi erano arnauti (cioè albanesi, secondo la denominazione turca); non c’erano quindi Romeni implicati nei disordini. Era già stata avviata un’inchiesta giudiziaria e Kogalniceanu prometteva severe punizioni per i colpevoli.125

L’episodio naturalmente non sfuggì all’attenzione delle comunità ebraiche e della stampa degli altri paesi; “L’Opinione” del 10 e del 16 giugno 1877 e “Il Diritto  dell’11 giugno pubblicarono la nota di Kogalniceanu a Obedenare. L’organo dell’Alliance Israélite Universelle, “Archives Israélites”, pubblicò la notizia sul numero del luglio, riportando anche l’opinione del giornale ufficioso romenoRomanul” sulla regia straniera dei disordini, organizzati per screditare la Romania.126

Il “Corriere Israelitico” di Trieste diede la notizia con grande risalto ed in chiave nettamente antiromena, forse anche a causa della posizione avversa alla Romania dell’Austria, cui Trieste apparteneva in quel tempo. Secondo il giornale triestino infatti gli aggressori degli Ebrei erano riusciti a fuggire grazie alla complicità dei gendarmi, il giudice non aveva ammesso testimoni favorevoli agli Ebrei ed aveva spinto la sua compiacenza verso l’imputata Cimara fino a chiedere per lei una nuova perizia medica, dopo che la prima perizia aveva attestato la compatibilità delle sue condizioni di salute con il regime carcerario. La signora era stata assistita da uno stuolo di avvocati, tra cui l’ex ministro Ionescu ed il deputato Cornea, ma alla fine non era riuscita ad evitare la condanna.127

Le comunità Israelitiche, oltre a denunciare sulla stampa le violenze antisemite in Romania, promossero pure interventi politici a livello governativo.

Samuel Toscano, presidente del comitato romano dell’Alliance Israélite Universelle, inviò a Melegari una lettera il 12 luglio 1877 per chiedere il suo intervento presso il governo di Bucarest, perché fosse posto rimedio alle violenze avvenute in Romania, “… paese che aspira a camminare alla testa delle popolazioni orientali” e per denunciare la nota di Kogalniceanu come un tentativo strumentale  messo in atto per prevenire l’indignazione dei paesi europei con la promessa di severe punizioni per i colpevoli. Ma Toscano si fidava poco di quell’impegno, considerati i precedenti casi di clamorose assoluzioni: a suo parere occorreva un rimedio decisivo come l’assicurare a tutti pari

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diritti, ponendo fine ad ogni discriminazione religiosa. Malgrado la sfiducia derivante dai poco incoraggianti precedenti, il presidente del comitato romano dell’ Alliance si augurava un intervento dei politici Rumeni più attenti a difendere “il progresso dell’onore della propria patria”.128

Melegari rispose prontamente a Toscano: con una sua lettera del 23 luglio gli comunicò di avere esposto a Obedenare le preoccupazioni italiane per i fatti avvenuti in Moldavia e gli confermò l’impegno del governo italiano per la difesa della libertà.129

La stampa italiana oltre ad occuparsi delle violenze antisemite in Romania dedicava ovviamente ampio spazio alle vicende politiche generali in Oriente ed a quelle particolari della Romania, in relazione alle vicende belliche in cui essa si trovava coinvolta.

“Il Diritto” del 10 aprile 1877 fu infatti interamente dedicato al “Libro Verdecontenente documenti relativi alla “questione d’Oriente”, pubblicato il 3 marzo dal Ministero degli Affari Esteri italiano.

Lo stesso giornale pubblicò il 18 aprile la nota circolare inviata agli agenti diplomatici il 16 da Kogalniceanu, appena tornato a dirigere il Ministero degli Esteri, per chiarire le finalità della sua politica: tutela degli interessi nazionali, difesa della pace e mantenimento della neutralità romena.

Al problema della neutralità era dedicato l’articolo di fondo non firmato del 24 aprile 1877, dal titolo “La situazione della Romania”, in cui si ricordava la prudente condotta del governo di Bucarest mantenutosi estraneo alla guerra mossa da Serbia e Montenegro alla Turchia, dimostratasi poi per nulla riconoscente alla Romania.

Questa avrebbe potuto conservarsi neutrale se le Potenze europee avessero costretto la Russia a limitare all’Asia il terreno di scontro con la Turchia.

Su “Il Diritto” dei giorni 22,24, 25 aprile si ricordavano i tentativi della Porta per ottenere la cooperazione della Romania, in quanto parte dell’impero Ottomano ed il risentimento romeno verso la Russia, a causa dell’ingresso delle sue truppe senza preavviso e prima della ratifica del Parlamento di Bucarest degli accordi appena firmati per autorizzare tale ingresso.

Pur senza esagerare i toni ed evitando di condannare la politica turca, “Il Diritto” si mostrava favorevole alla Russia ed alla Romania: il maggio 1877 nell’articolo intitolato “La Guerra” si definiva irreprensibile la condotta dei soldati russi in Romania.

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Il 7 maggio“Il Dirittopolemizzava con il “Journal des Débats” su cui il 30 aprile era apparsa una condanna della Romania accusata di non aver rispettato il trattato del 1856 autorizzando il passaggio delle truppe russe sul suo territorio. “Il Dirittocontrobatteva  quell’accusa ricordando lo stato di necessità in cui si era trovata la Romania, abbandonata dalle Potenze garanti e costretta quindi a venire a patti con la Russia.

Una velata ostilità verso la Romania la dimostrava invece “L’Opinione” del 22 febbraio 1877, ancor prima cioè dell’inizio della guerra, riportando la voce di un accordo russo-romeno per il transito sul territorio della Romania, ripresa dalla “Neue Freie Presse” di Vienna. “L’Opinioneriteneva attendibile la notizia, considerata la “sollecitudine sospetta con cui la Romania si vantò più volte di essere e di voler mantenersi neutrale”.

Il 2 marzo 1877 “L’Opinione” sotto il titolo “La situazione politicaanalizzava la situazione in Oriente, notando come le grandi Potenze preferissero ignorare le minacce di una imminente guerra tra Russia e Turchia ed altrettanto faceva la Romania: in caso di guerra “…Principe, ministero ed esercito si ritirerebbero in un angolo del paese e nasconderebbero la testa nella sabbia”, facendo finta di nulla.

Il giornale esprimeva comunque comprensione per le difficoltà da cui era afflitto il governo di Bucarest: “non si può biasimare la piccola Romania se vuole evitare il pericolo di rimanere schiacciata fra due nazioni”.

Meno comprensivo appariva il commento sulle trattative condotte dalla Porta con la Romania per assicurarsi il controllo di alcune località strategiche sul Danubio (“L’Opinione”, 13 aprile 1877Questione d’Oriente. Armamenti e preparativi di guerra”). Secondo il giornale il governo turco avrebbe fatto meglio a non fidarsi di quelle trattative, occupando direttamente quelle località.

Era pure ricordata la cessione della Bessarabia, fonte di molte preoccupazioni per la Romania, cui si diceva comunque sarebbero andati in compenso alcuni isolotti del Danubio, posseduti dalla Turchia; compenso ritenuto insufficiente dal governo di Bucarest ed oltretutto di dubbia realizzazione, poiché la Porta non sembrava propensa a cedere quei territori.

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“L’Opinione” del 19-20 marzo caldeggiava comunque quella soluzione scrivendo: “… sarebbe nell’interesse della pace generale non opporsi ad un simile trionfo della politica russa”; in tal modo vi sarebbe stato un duplice effetto positivo: la Russia avrebbe ottenuto un successo senza spargere sangue e la Turchia se la sarebbe cavata a buon mercato; ma sfuggiva al giornale come le aspirazioni russe andassero molto al di dell’acquisto della Bessarabia; l’obiettivo di fondo per il governo zarista era il predominio in Oriente, aprendosi la via al Mediterraneo e controllando le vie di comunicazione verso l’India.

Una notizia allarmante per Bucarest era quella riportata dalla “Kölnische Zeitung” il 15 aprile su “L’Opinione”: in realtà le mire russe erano rivolte all’annessione dell’intera Romania e non soltanto della Bessarabia in caso di vittoria. Il giornale notava l’esistenza di un forte partito filorusso in Romania, ignaro o incurante di quel pericolo, deciso a muovere guerra alla Turchia, trascurando l’ipotesi preferibile, quella della neutralità.

Ed ai politici Romeni, scandalizzati per l’affermazione di Burke sull’appartenenza della Moldavia e della Valacchia all’impero turco, “L’Opinionericordava come quella tesi  fosse stata sostenuta dai Romeni nel 1853, quando avevano considerato una violazione dei diritti della Turchia il passaggio del Pruth da parte delle forze russe; tesi allora condivisa dal ministro francese degli Esteri, Drouyn  de Lhuyss, e da quello britannico, Clarendon (27 aprile “La Romania rispetto alla Porta”).

Ma la Romania, affermava il giornale, divenuta russofila sembrava esser tornata alla condizione di protettorato russo stabilita nel 1829 dal trattato di Adrianopoli. La sottomissione romena alla Russia era confermata dalle ripetute proteste di Bucarest per la eventuale invasione turca; per contro soltanto dopo l’arrivo delle truppe russe  in Romania, avvenuto senza preavviso e senza attendere l’approvazione del Parlamento romeno, il principe Carlo aveva protestato (Bollettino politico,28 aprile 1877). La protesta del principe per “L’Opinioneera stata in realtà solo un contentino per l’opinione pubblica romena, irritata contro i russi, ed un tentativo di apparire di fronte all’Inghilterra ed alla Turchia una vittima della Russia e non un partner consenziente (Bollettino politico,23 aprile 1877).

Riscuoteva poi la piena approvazione del giornale la decisione turca di sospendere dalle sue funzioni l’agente di Romania a Costantinopoli: “Alle reticenze, ai procedimenti subdoli e alle semi dichiarazioni di guerra della Romania, la Porta risponde altamente e chiaramente”. (Bollettino politico,6 maggio 1877).

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Il giornale diretto da Giacomo Dina (di origine ebraica e da sempre mal disposto verso la Romania per le numerose violenze antisemite) concordava con l’accusa di slealtà verso la Porta mossa al governo di Bucarest dal “Journal des Débats”, ritenendo una semplice scusa la sua affermazione di essere stato costretto a schierarsi con la Russia perché abbandonato dalle Potenze (Bollettino politico,7 maggio 1877).

erano prese per buone le dichiarazioni di Carlo sulle violenze turche, tacendo su quelle russe, considerate semplici pretesti per giustificare lo stato di guerra creatosi con la Turchia (Bollettino politico, 10 maggio 1877).

Si associava ancora “L’Opinione” al “Journal des Débats” nell’affermare come la cosiddettamissione storica” della Romania consistesse nell’ambizioso progetto di creare uno Stato daco-romeno spogliando l’Austria della Transilvania, del Banato e della Bucovina, dove era indubbia la presenza di popolazioni romene, ma accanto a Slavi, Ungheresi e Tedeschi. Di queste ambizioni romene non si parlava in Europa, ma erano dimostrate anche dalle carte geografiche usate nelle scuole della Romania (Bollettino politico,15 maggio 1877).

Oltretutto, alla Romania mancavano i requisiti necessari per svolgere una “missione storica”: saggezza, profondità politica, rispetto dei consigli dati dall’Europa. (Bollettino politico,25 maggio 1877).

Veniva poi a galla il risentimento del giornale di Dina verso la Romania per le violenze contro gli Ebrei: gli Stati Uniti avevano presentato alla Porta una nota di protesta per le condizioni in cui versavano gli Israeliti, ma avrebbero fatto meglio a presentarla alla Romania, dove gli Ebrei stavano molto peggio che nell’impero turco (Bollettino politico, giugno 1877). Ed in effetti la Costituzione promulgata dal sultano nel dicembre 1876 aveva concesso ad  Ebrei ed Armeni uguali diritti civili e politici e quell’uguaglianza era pure stata posta dalla Turchia fra le condizioni per stipulare un trattato di pace con la Serbia, chiedendo al governo di Belgrado di stabilirla nella Costituzione.

Era denunciato da “L’Opinione” anche lo stato di soggezione della Romania nei confronti della Russia, così esprimendosi con ironico pessimismo: “Politicamente senza autorità e senza influenza, militarmente cacciata in seconda linea, sospettosa del nuovo protettore che essa ha accettato, incerta più che mai dell’avvenire…la Romania oggi non può che far voti per la prossima fine della guerra e per la partenza del grande esercito liberatore delle popolazioni cristiane in Oriente” (Bollettino politico, 29 giugno 1877).

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Pure ostile alla Romania ed alla Russia si dimostrò, oltre a “L’Opinione”,  la stampa cattolica; tra  una posizione filo russa ed una filo turca essa scelse una terza via, condannare entrambe le parti.

Se difatti la Turchia musulmana era invisa alla Chiesa di Roma, non lo era meno la Russia ortodossa, considerata scismatica ed altrettanto malvista era la Romania, pur essa ortodossa oltre che alleata della Russia.

“L’Unità Cattolica”, giornale di Torino, pubblicò il 10 maggio 1877 un  articolo dal titolo eloquente “Il conflitto turco-russo. Kogalniceanu, servo di due padroni”. Questa ingiuriosa definizione era ispirata dal discorso di Kogalniceanu alla Camera per dirsi contrario a promulgare l’indipendenza della Romania per non urtare la Turchia con la quale non esisteva uno stato di guerra. La deferenza del ministro verso la Portanotava il giornale cattolico - si era spinta fino a sostenere che Braila era stata bombardata per errore dai Turchi. Ma l’affermazione di Kogalniceanu avveniva in contemporanea con l’approvazione dell’accordo per il passaggio delle truppe russe da parte del Parlamento, per cui “L’Unità Cattolicacommentava acidamente: “Non si può essere più riguardoso e compiacente e nemmeno più ingenuo, giacché il ministro diceva queste parole mentre la Camera approvava quella certa convenzione tutta sua fattura, che da parte di uno Stato vassallo costituisce verso lo Stato sovrano un atto peggiore di una dichiarazione di guerra”.

Il governo romeno teneva i piedi in due staffe, destreggiandosi fra Russia e Turchia; ma, così facendo-concludeva “L’Unità Cattolica”- rischiava “… alla fine dei conti di ricevere in compenso le busse dei due contendenti”.

La posizione cattolica nei confronti di Russia e Turchia era chiarita al più alto livello, con il discorso tenuto da Pio IX il 5 maggio 1877 ai fedeli della Savoia, venuti in pellegrinaggio a Roma: “… una grande Potenza eterodossa mette in campo numerosi eserciti accompagnati da fulminanti artiglierie, e tutto questo per punire una potenza infedele, a cui si rimprovera di avere governato ingiustamente, opprimendo un gran numero dei suoi sudditi che appartengono ad una Potenza eterodossa. La mischia è già cominciata ed io non so quale delle due Potenze  resterà vincitrice.

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Solo ben so che sull’una di queste Potenze,che si dice ortodossa ed è  scismatica, pesa gravemente la mano di Dio per l’atroce persecuzione, continuata per tanti e tanti anni, e proseguita tuttavia contro i cattolici” (stralcio del discorso del Papa pubblicato su “L’Unità Cattolica” il 19 agosto 1877 nell’articoloPio nono, la guerra d’Oriente e le letture del principe Gortschakoff”).

Sulla persecuzione dei cattolici ad opera del governo russo il giornale tornava ancora, ricordando il divieto opposto al clero polacco per il culto della Vergine del Sacro Cuore, proclamataRegina Poloniae” dalla Chiesa di Roma. Ricordava inoltre “L’Unità Cattolica” il contributo dei religiosi polacchi alla causa nazionale, per cui nel 1863 sui 67.000 patrioti deportati si erano contati 400 sacerdoti e si erano avute 989 condanne a morte fra gli insorti: “E poi a Pietroburgo si parla di portare la libertà a Costantinopoli”, era il commento del giornale (30 agosto 1877, “Cronache estere. Russia  e Polonia”).

Sulle stesse posizioni si poneva “L’Osservatore Romano”. L’organo ufficiale della Santa Sede attribuiva alla Romania la responsabilità della guerra, avendo autorizzato il passaggio dell’esercito russo, mentre la Turchia aveva invece rispettato il territorio romeno, rinunciando ad occupare la posizione strategica di Kalafat sul Danubio (16 maggio 1877. Bollettino politico).

L’avversione dei cattolici per entrambe le parti in guerra era chiaramente manifestata, affermando come nel conflitto tra Russia e Turchiaragione e onestà vorrebbero che a nessuna delle due si augurasse vittoria. Nell’un canto infatti non è lecito ai cristiani di far voti per Maometto, né a chi ama la civiltà europea sarebbe colpa non meno grave invocare il successo del moscovita, il truce oppressore dei cattolici, il rappresentante dello Knout; l’ambizioso che, sotto il pretesto di proteggere i cristiani d’Oriente, mira ad estendere di colà il suo dispotismo su tutta l’Europa” (30 maggio 1877, “Le simpatie nella guerra d’Oriente”).

Ed alla Romania si rinfacciava di essere rimasta neutrale finché aveva avuto timore della Turchia; poi, forte dell’aiuto russo, aveva gettato la maschera cercando pretesti per far guerra alla Porta (2 giugno 1877, Bollettino politico). La stessa accusa era ripresa poco tempo dopo: Carlo -scriveva l’organo del Vaticano-“… dopo che si vede protetto dalle armi della Russia, non ha più nessun riguardo verso la Turchia; per lui i trattati sono come se non esistessero; esso non ha più doveri verso la Porta…” Metteva poi “L’Osservatore Romano” la Romania in guardia contro la Russia, di cui occorreva diffidare poiché non prendeva “… sotto la sua protezione piccoli Stati che per renderseli soggetti…” (  luglio 1877. Bollettino politico).

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In quest’ultima occasione il giornale cattolico, nonostante la sua proclamata equidistanza, sembrava più incline a simpatizzare con la Turchia musulmana piuttosto che con gli ortodossi russi e Romeni.

Una certa apertura di credito alla politica turca sembrava averla fatta in precedenza il giornale di Milano “La Perseveranza” nel suo “Commento politico generale” del 20 gennaio 1877, lodando l’atteggiamento conciliante della Porta verso la Romania nella controversia nata dagli articoli 1 e 7 della Costituzione turca promulgata nel dicembre 1876, ritenuti dal governo di Bucarest lesivi dell’indipendenza del Principato e della dignità personale di Carlo a causa della definizioneprovincia privilegiata” dell’impero turco attribuita a Moldavia e Valacchia. Il giornale non riteneva però possibile attendersi gratitudine da parte della Romania, di cui prevedeva l’autorizzazione al passaggio delle truppe russe, limitandosi a blande proteste formali. Se erano riconosciuti i torti del governo turco verso i Cristiani, era d’altra parte ricordata la persecuzione degli Ebrei in Romania: ”La condizione degli Ebrei in Oriente deve interessare non meno della condizione dei Cristiani le Potenze civili, se non vogliono essere accusate di adoperare due pesi e due misure”, affermava“La Perseveranza”, prevedendo con ottimismo un’intesa fra Romeni e Turchi: “Le trattative con questo Principato promettono bene e, se la Russia per ispirito di vendetta non arruffa la matassa, si riuscirà a dipanarla amichevolmente” (23 gennaio 1877, Commento politico generale).

Nel “Notiziario politico” del 21 febbraio “La Perseveranzasottolineava il pericolo rappresentato dal panslavismo anche per la Romania, riportando il giudizio del principe Jon Ghika,  agente diplomatico romeno a Costantinopoli, secondo il quale un accordo con la Russia avrebbe fatto della Romania uno Stato vassallo, in una condizione simile alla falsa indipendenza del Khanato di Crimea.

Si rallegrava il giornale milanese per la pace conclusa con la Serbia e per quella che il Montenegro sembrava disposto a stipulare (4 marzo 1877, Commento politico generale) e riconosceva le ragioni della Turchia per chiedere il ritiro dell’esercito russo dalla frontiera russo-romena sul Pruth: “… con questa spada di Damocle pendente sul capo, la Turchia non può né deliberareoperare” (6 marzo 1877, Commento politico generale).

Di supposte intenzioni pacifiche della Turchia “La Perseveranza” si faceva interprete scrivendo nel Commento politico generale del 14 marzo: “..mentre gli Stati di Europa deliberano sulle sorti della Turchia ed uno di essi-era evidente il riferimento alla Russia-le tien sospesa la spada sul capo, la Turchia, pur accelerando in silenzio i suoi armamenti, sembra tutta assorta in opere di pace e di riforma”.

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La difesa della Romania e dei suoi interessi era poi assunta da “La Perseveranza” nel respingere decisamente l’ipotesi della cessione della Bessarabia alla Russia di cui avevano parlato i giornali austriaci: “sarebbe curioso che l’innocente Rumenia finisse per pagare le spese della lite orientale, e le Potenze d’Europa celebrassero di ritorno della pace e dell’armonia, sgozzando ed imbandendo la pecora del poveruomo!”.

Sarebbe stato un compenso del tutto inadeguato dare alla Romania in cambio della Bessarabia alcuni isolotti del Danubio appartenenti alla Turchia, di cui occorreva fra l’altro accertare la disponibilità a tale cessione. Ma soprattutto occorreva chiedersi se le Potenze europee avrebbero accettato una frontiera russa spostata minacciosamente dal Pruth al Danubio (19 marzo 1877, Commento politico generale).

“La Perseveranzaaffermava pure i maggiori diritti turchi rispetto a quelli russi a spostare truppe in Romania, essendo questa una parte dell’impero Ottomano. Alla Russia poteva  riconoscersi soltanto il diritto del più forte e forse la Romania si sarebbe alleata con essa, ma -ammoniva il giornale -il governo romeno doveva stare attento a non commettere quell’errore, imparando “… a suo costo, che i deboli non possono divenire gli amici dei forti, ma ne restano i servi” (19 aprile 1877, Commento politico generale).

Era duro il commento riservato al discorso pronunciato alla Camera da Kogalniceanu per chiedere la ratifica delle convenzioni stipulate con la Russia. Il ministro si era detto contrario a proclamare subito l’indipendenza perché ciò avrebbe significato dichiarare guerra alla Porta e, per evitare ogni contrasto con questa, aveva pur affermato esser stato il frutto di un errore il bombardamento turco di Braila.

Anticipando di qualche giorno le affermazioni  de “L’Unità Cattolica” (10 maggio 1877, articolo “Il conflitto turco-russo, Kogalniceanu, servo di due padroni” già ricordato), “La Perseveranza” nel suo commento politico generale del 6 maggio accusava di doppiezza Kogalniceanu, poiché era un atto di guerra la convenzione di cui era stato artefice e di cui chiedeva la ratifica; le critiche a Kogalniceanu si concludevano con l’ammonizione, ripresa poi alla lettera da “l’Unità Cattolica”, a non dimenticare “che così fatti  servitori finiscono per ricevere le busse dell’uno e dell’altro”.

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La critica de “La Perseveranza” alla politica romena giudicata ambigua non risparmiava neanche il principe Carlo, dal cui discorso alla Camera traspariva evidente l’intenzione di schierarsi con la Russia.

Il giornale riconosceva trattarsi di una scelta obbligata, essendo la Russia la più forte. “Ma-aggiungeva “La Perseveranza”-sarebbe stato più dignitoso in lui farlo coraggiosamente, schiettamente, proclamando l’indipendenza della Romania e stipulando un’alleanza difensiva ed offensiva con lo zar”.

Il principe invece aveva insistito a proclamare una neutralità in cui nessuno credeva, provocando alla Romania la disistima dell’Europa (11 maggio 1877, Commento politico generale).

Non si capiva poi secondo il giornale milanese in cosa consistesse la missione storica di cui si vantava la Romania.

Era comprensibile la missione storica della Russia ed in minor misura quella della Serbia, collegata al panslavismo, una  missione civilizzatrice in Oriente poteva pure essere riconosciuta all’Austria.

“Ma -si chiedeva“La Perseveranza”- quale può essere il compito di codesti cinque  milioni di daco-latini, incastrati fra tre grandi Imperi, e non aventi affinità di sangue o di lingua con nessuna delle molte stirpi che li circondano? La loro esistenza è, per così dire,un capriccio della storia; i Rumeni somigliano ai massi erratici, di cui parlano i trattati di geologia”. La Romania era sempre stata il “campo di battaglia ed il servo dei vicini potenti”, procurando all’Europa molte preoccupazioni (14 maggio 1877, Commento politico generale).

Il memorandum inviato da Kogalniceanu agli agenti diplomatici perché chiarissero ai governi europei le ragioni dell’entrata in guerra della Romania era giudicato da “La Perseveranza” un cumulo di sofismi; la cattiva coscienza dei politici Romeni era dimostrata dalla loro stessa eccessiva loquacità; ma, concludeva con evidente disprezzo il giornale, l’Europa aveva “ben altro affare che occuparsi delle loro giustificazioni” (21 maggio 1877, Notizie politiche. Rumeania).

La stessa sprezzante noncuranza verso la Romania era dimostrata pure dal quotidiano fiorentino “La Nazione”, nel sottolineare l’assoluta impreparazione del principato ad entrare in guerra a causa delle sue difficili condizioni socio-economiche e finanziarie; lo Stato romeno era sempre andato avanti solo con i prestiti ed i Rumeni aspiravano solo ad impieghi pubblici, trascurando ogni iniziativa nel campo del commercio e dell’industria (10 gennaio 1877, Diario).

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Secondo “La Nazione” si era quasi giunti fra Turchia e  Romania ad un accordo, sfumato poi per i contrasti nati dagli articoli 1 e 7 della nuova Costituzione turca, da cui il governo di Bucarest si era sentito offeso per la definizione di “provincia privilegiatadata alla Romania; ironicamente il giornale fiorentino attribuiva a Midhat pascià, promotore della nuova Costituzione, il merito di aver risvegliato il sentimento nazionale rumeno; proponeva quindi ai Romeni di “porre monumentum aere perennius al genio politico di Midhat pascià, il Rigeneratore della Turchia” (12 gennaio 1877, articolo non firmato “Il conflitto turco-romeno”).

Nella lunga diatriba fra Romania e Turchia per l’interpretazione da dare ai contestati articoli 1 e 7 della Costituzione turca, “La Nazionecoglieva una significativa differenza di linguaggio: il ministro degli Esteri romeno Ionescu definivaRomania” quelli che per il suo omologo turco Safvet pascià erano i “Principati Uniti” (22 gennaio 1877, articolo non firmato con lo stesso titolo del precedente, “Il conflitto turco-rumeno” ).

“La Nazionedifendeva poi le ragioni della Romania, costretta a stipulare l’accordo con la Russia, contro il franceseJournal des Débats” e la “Neue Freie Presse” di Vienna. I due autorevoli giornali avevano criticato il governo di Budapest perché aveva dato via libera al passaggio delle truppe russe, negando invece tale possibilità a quelle turche, sebbene queste vi avessero maggior diritto, grazie alla sovranità della Porta su Moldavia e Valacchia: obiettava “La Nazione” come la fine di quella sovranità fosse appunto lo scopo principale della Romania (27 aprile 1877, Diario).

A quanti rimproveravano alla Romania il lungo indugio frapposto prima di chiarire la sua posizione, ponendo fine ad una neutralità ambigua, il giornale fiorentino ricordava poi la necessità di mantenere per l’esercito romeno la possibilità di un’azione autonoma, respingendo la pretesa russa di incorporarlo nelle proprie forze armate. Alla fine il governo romeno era riuscito ad eludere la richiesta russa e soltanto allora quindi aveva potuto assumere una posizione chiara (14 maggio 1877, Diario).

“La Nazionetornava poi sull’argomento criticando il lungo attendismo della Serbia, rimasta neutrale per molto più tempo della Romania: (5 luglio 1877, diario); dobbiamo ricordare infatti che la Serbia entrò in guerra soltanto nel dicembre 1877, quando la Turchia ormai stremata era prossima alla resa.

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Le truppe romene sarebbero divenute protagoniste coraggiose della guerra; un’eventuale loro azione era però accolta con disappunto dal comando russo, sia per ragioni politiche (una Romania vittoriosa avrebbe potuto avanzare poi richieste sgradite al governo zarista) che per ragioni militari (un’eventuale sconfitta romena a Viddino, primo obiettivo delle truppe di Bucarest, avrebbe costretto i russi a rallentare l’offensiva in Bulgaria per soccorrere i non graditi alleati).130

Anche i conservatori Rumeni si dimostrarono contrari ad un’ iniziativa militare al di del Danubio, considerandola una pericolosa avventura, e criticarono quindi Bratianu.131

L’esercito romeno comunque non passò subito il Danubio; secondo Fava quell’indugio era dovuto non solo alla contrarietà dei russi, ma anche al timore di subire una sconfitta; si preferì infatti attendere il trasferimento di una parte delle forze turche su altre posizioni, necessario per fronteggiare l’attacco dei russi.

Secondo alcune voci si cercò pure da parte romena di giungere ad un accordo con la Serbia: si parlò infatti di un incontro segreto di Bratianu con il leader serbo Ristitch a Turnu Severin (riferito, ma non confermato da Fava) per l’occupazione dei territori ottomani alla fine della guerra e per ottenere la partecipazione dei rispettivi governi alla Conferenza di pace.132

Fava attribuiva a Bratianu e Rosetti la volontà di sferrare un’offensiva al di del Danubio, mentre Carlo si mostrava più prudente, temendo una sconfitta giudicata molto probabile dall’agente italiano, considerata l’impreparazione dell’esercito romeno.

I due politici Rumeni erano pure responsabili di un piano inteso a screditare Carlo: se ci fosse stata una sconfitta, se ne sarebbe addossata la colpa al principe; se invece Carlo avesse impedito l’offensiva romena, sarebbe stato accusato di aver privato con la sua ignavia il paese di un importante successo.133

Venivano smentite nel frattempo le voci di un accordo serbo-romeno per un’azione bellica comune (che difatti non ci fu); un’ulteriore causa di indugio per l’offensiva romena fu la riluttanza della Russia ad assumere impegni con il governo di Bucarest sugli eventuali compensi da dargli in caso di vittoria; il governo russo lasciò quindi ai Romeni libertà di agire in territorio turco a proprio rischio e pericolo, rinviando le assicurazioni sui compensi ad una decisione da prendere con le altre Potenze dopo la fine della guerra.134

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A rallentare l’azione romena contribuirono pure i consigli di usare prudenza provenienti dall’estero a Bucarest, cui Kogalniceanu si mostrava particolarmente sensibile, mentre Bratianu invece era per una azione militare ritenuta l’unica possibilità per ottenere l’indipendenza. Da parte russa il granduca Nicola si diceva d’accordo per un intervento al di del Danubio delle forze romene solo se fossero state inquadrate nell’esercito zarista.135

Lo stesso granduca voleva confinare le truppe romene in compiti secondari, come presidiare la fortezza di Nicopoli, da poco conquistata, consentendo così l’impiego della guarnigione russa al fronte; o scortare i prigionieri turchi verso la Russia. Kogalniceanu confidava a Fava di poter accettare quelle richieste, purché ai soldati Romeni fossero affidati anche altri compiti e non solo quelli di presidio e di gendarmeria.

Da parte russa si confidava comunque di concludere entro breve tempo le operazioni di guerra, secondo l’ottimistica previsione del  barone de Jomini.136

Ma quell’ottimismo si dimostrò presto infondato: i turchi respinsero il 20 luglio l’attacco russo alla roccaforte di Plevna, presto divenuta famosa come simbolo della resistenza ottomana

Le forze romene, passando il Danubio il 29 luglio, presidiarono Nicopoli e la guarnigione russa fu avviata al fronte. 137

Ma Plevna continuò a resistere ed il 30 luglio i Russi subirono una nuova pesante sconfitta: 3 brigate su 9 furono distrutte e, fra morti e feriti, persero circa 10.000 uomini.138

Il comando russo ne fu sconvolto e addebitò la prima sconfitta riportata il 20 luglio al ritardo romeno nel dare il cambio alla guarnigione di Nicopoli per cui la guarnigione russa non aveva potuto partecipare all’offensiva. Le ripetute sconfitte convinsero Gorciakoff a non insistere nel rifiuto di una partecipazione delle forze romene all’offensiva, cui però continuarono ad opporsi altri politici russi, facendo forse a parere di Fava il gioco delle parti; Gorciakoff riconobbe con Fava la necessità di una più prudente conduzione della guerra, giudicando temeraria la strategia del granduca Nicola, forse ispirata da Ignatieff, ansioso di ottenere subito successi per mettere l’Europa di fronte al fatto compiuto di una sconfitta turca.

Gli attacchi russi a Plevna subirono un arresto e il granduca voleva attendere l’arrivo di rinforzi prima di sferrare una nuova offensiva, approfittando della inattività dei Turchi, anche loro in attesa di rinforzi.

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Nel frattempo si ebbe la mobilitazione romena: la divisione di presidio a Nicopoli, forte di 9000 uomini, si diresse a Plevna; una seconda divisione passò il Danubio ed una terza lo fece la settimana successiva, portando così a circa 26.000 uomini le forze romene destinate al fronte, mentre il principe Carlo, fissato a Islaz il suo quartiere generale, rimaneva a difendere la frontiera con altri 25.000 soldati; Fava dava notizia di questa dislocazione delle truppe romene e riferiva pure di un incontro di Bratianu con lo zar.139

Seguì un incontro di Carlo con il sovrano russo e con il granduca Nicola; secondo Fava il primo colloquio aveva stabilito soltanto accordi informali, perfezionati poi nel successivo; a seguito di questi incontri fu molto valorizzata la partecipazione romena alla guerra; Carlo assunse il comando del settore ovest del fronte al comando di forze congiunte romene e russe, per complessivi 60.000 uomini, avendo al suo fianco come capo di Stato Maggiore il generale russo Zotoff, mentre ad  altre truppe romene era affidato il presidio di Calafat e delle altre fortezze sul Danubio.140

Questo assetto delle forze russo-romene era stato preceduto da un’intensa attività politica; il 31 luglio il granduca Nicola aveva richiesto, implorato quasi, l’intervento romeno. L’altezzoso rifiuto di un contributo militare della Romania era ormai solo un ricordo, dopo l’accanita resistenza a Plevna delle forze turche comandate da  Osman pascià. Secondo Fréderic Damè Carlo e Bratianu ebbero il torto di non chiedere precise assicurazioni sulla sorte della Bessarabia alla  Russia, in quel momento disposta a qualsiasi concessione.

Ma per lo stesso Damè i Rumeni erano ormai convinti della irrinunciabilità delle pretese russe sulla Bessarabia, da compensare con la cessione della Dobrugia, cui, secondo quanto riferiva Kogalniceanu da Vienna, l’Austria non si sarebbe opposta.

Carlo avrebbe preferito avere il comando soltanto dell’esercito romeno, ma accettò quello di forze congiunte russo-romene (decisione criticata dal principe Carlo Antonio, suo padre, a cui parere si trattò di “un suicidio politico”).

L’esercito romeno era stato fino a quel momento circondato da una reputazione ben poco lusinghiera; a parte i frequenti giudizi negativi di Fava, già ricordati, si può citare la sprezzante definizione di “zingari cenciosidata dei soldati moldo-valacchi dal principe Emil Sayn Wittengestein nel 1861.

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Ma nel 1877 non erano state rinnovate soltanto le uniformi: determinati e combattivi, i soldati Romeni diedero davanti a Plevna tali prove di valore da far ricredere Fava sul loro conto.

Subendo  ingenti perdite, l’esercito romeno conquistò Grivitza, avamposto di Plevna di importanza fondamentale, passato di mano più volte nell’agosto 1877, ma alla fine rimasto ai Rumeni, pur continuando Plevna a resistere fino al dicembre successivo.

Fava riteneva frutto di un’imperizia strategica del comando russo le ripetute sconfitte e sottolineava “… la partecipazione diretta dei Rumeni alla guerra nelle critiche circostanze in cui versava l’armata imperiale, ed il valore con cui le truppe principesche combatterono per una causa a cui potevano restare estranee…”. Il comportamento valoroso dei Rumeni fu elogiato dallo zar e dopo la presa di Plevna nel dicembre 1877 ci fu uno scambio di onorificenze tra il sovrano russo e quello romeno.

Carlo fu insignito della Croce di San Giorgio ed allo zar fu conferito il gran cordone dell’ordine della Stella di Romania.

I Rumeni giudicarono l’accettazione dell’onorificenza da parte dello zar un importante atto politico con il quale si riconosceva l’indipendenza del principato.141

Prima di arrivare a quella felice conclusione i combattimenti davanti a Plevna si erano protratti per lunghi mesi con perdite altissime per entrambe le parti. Osman pascià aveva resistito nella vana attesa di rinforzi e di rifornimenti; ridotto allo stremo, si era rivolto al granduca Nicola dicendosi disposto alla resa ma, secondo il resoconto di Nicola Lazzero, inviato dell’ “Illustrazione Italiana”, “… il principe e generalissimo russo lo rimandò al principe Carlo di Romania che comandava il corpo di assedio. Il cavalleresco generale turco non volle arrendersi ad un vassallo del suo Signore, ad un ribelle, e preferì un’ultima disperata sortita. Questa avvenne il lunedì 10 dicembre…”.142

Il generale turco prese parte di persona alla sortita, restando ferito; si arrese allora ai Russi (rifiutando ancora una volta di farlo a Carlo) e lo stesso 10 dicembre 1877 cadde Plevna, dove il giorno successivo entrarono da trionfatori Carlo e lo zar; questi prima di partire promise la gratitudine della Russia per il sangue romeno copiosamente versato a Plevna, ma non rispose alla richiesta di Carlo per far partecipare la Romania alle trattative di pace con la Turchia.

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La Serbia si affrettò allora a correre in soccorso dei vincitori ed il 15 dicembre 1877 dichiarò alfine guerra alla Porta, giustificando il suo intervento con il mancato rispetto da parte turca della promessa di non perseguitare i profughi ritornati nell’impero ottomano dalla Serbia dove si erano rifugiati per sfuggire alla guerra.

Questo tardivo intervento serbo fu commentato duramente da “La Nazione”:affermava il giornale fiorentino che se la dichiarazione di guerra della Serbia fosse avvenuta prima della caduta di Plevna si sarebbe potuto “… ancora vedere in essa un po’ di nobiltà…”, ma a guerra quasi finita, “la notizia di quella risoluzione sarà accolta in tutta l’Europa con un senso che non sarà certo di ammirazione…” (16 dicembre 1877, Diario).

Prima della caduta di Plevna lo stesso giornale aveva dato notizia di contatti diplomatici tra le Potenze neutrali per un’iniziativa rivolta a por fine alla guerra; secondo un dispaccio da Berlino dell’agenzia di stampa francese Havas l’Italia avrebbe, con il sostegno inglese e tedesco, condotto la mediazione. L’Inghilterra avrebbe esercitato pressioni sulla Porta per indurla ad accettare (5 novembre 1877, Diario); ma il tentativo fallì sul nascere perchè sia la Russia che la Turchia rifiutarono subito la loro adesione (6 novembre 1877, Diario).

Sulla partecipazione romena all’offensiva condotta al di del Danubio non erano mancate sulla stampa italiana riserve ed ironie; “La Perseveranza” aveva giudicato l’iniziativa una prova del servilismo romeno nei confronti della Russia, scrivendo: “Eh, noi l’avevamo detto che i Rumeni si tiravano in casa non un alleato, ma un padrone! I fatti ci danno ragione” (30 agosto 1877, Commento politico generale).

Ed ancora lo stesso giornale ironizzava pesantemente sul ruolo effettivo della Romania in quella sanguinosa guerra, considerandola una mosca cocchiera; riprendeva difatti dal “Times” la frase attribuita ad un ufficiale romeno, rivolta ad un collega russo:”Soyez tranquilles, nous sommes ici” (“Tranquillizzatevi siamo qui noi”) e la commentava così “Non si può dare presunzione più ingenua di questi, e l’ufficiale moscovita deve essere rimasto stupefatto. Vedremo se codesti daco-latini sapranno far cose di poema degnissime e di storia ed insegnare ai russi la maniera di vincere i turchi” (4 settembre 1877, Commento politico generale).

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Ma di a poco, nel volgere di qualche giorno appena, “La Perseveranza” non poté fare a meno di dare notizia delle valorose prove dell’esercito romeno, determinanti per la vittoria riportata a Lofia, vicino Plevna (7 settembre 1877, Commento politico generale).

Ancora più positivo il commento de “La Perseveranzaespresso alla vigilia della caduta di Plevna.

In tono encomiastico, messa da parte ogni riserva, si affermava: “non si può negare che i Rumeni abbiano dato prova di saper difendere quell’indipendenza di cui domandano la ricognizione, e la parte che hanno presa in questa guerra è stata non solo gloriosa per la nazione romena, ma anche di grande utilità al potentissimo alleato. Oggi il soldato romeno è oggetto di ammirazione e di gratitudine per quei russi che in principio lo trattavano con alterigia mista a pietà.  I Rumeni hanno dimostrato di possedere pregevoli qualità politiche, civili e militari e l’Europa userebbe ingiustizia se non tenesse conto di loro nel componimento finale” (30 novembre 1877, Commento politico generale).

Non erano però mancanti momenti di scoraggiamento per i soldati Romeni, sottoposti ad una carneficina di fronte alle fortificazioni di Plevna. “La Nazioneriportò un dispaccio inviato da Vienna al “Times”, secondo il quale i militari Romeni avevano minacciato di ammutinarsi se fossero stati ancora costretti ad attacchi suicidi (6 novembre 1877, telegramma dell’agenzia Stefani).

Lo scoraggiamento fu superato ed  i Romeni si fecero ancora onore sui campi di battaglia; velenosamente “L’Osservatore Romano” aveva cercato di addensare ombre sul loro comportamento, riportando una supposta dichiarazione di Ignatieff secondo cui i soldati Romeni per due volte davanti a Plevna si erano dati alla fuga, rendendo necessario l’intervento di ufficiali russi per ristabilire la disciplina (7 ottobre 1877, Ultime notizie).

Se così fosse stato, sarebbe inspiegabile la larga distribuzione di Croci di San Giorgio ad ufficiali e soldati Rumeni fatta dallo zar in riconoscimento al loro valore (“La Perseveranza”,11 settembre 1877).

In odio alla Russia, “L’Unità Cattolicaaccentuava invece l’importanza dell’intervento romeno, scrivendo: “Chi avrebbe mai creduto che il grande esercito russo avrebbe avuto bisogno di 50.000 Rumeni non per vincere, ma per sostenersi?  E chi avrebbe creduto che lo zar, che aveva trattato con disprezzo la Serbia un anno fa, adesso la blandisce per avere un corpo ausiliario di cui anticipa le spese? Oh Pietro il grande, è questa la tua Russia?” (7 ottobre 1877, “Guerra d’Oriente. Il contegno della Russia”).

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Caduta Plevna, la guerra si protrasse per poco tempo. I Serbi riportarono facili vittorie contro i Turchi ormai esausti ed occuparono Niš il 9 gennaio 1878; l’esercito romeno strinse d’assedio Viddino ed il 24 gennaio conquistò i forti posti a difesa di quella città. I russi dilagarono nel territorio turco; il 16 gennaio occuparono Filippopoli in Bulgaria ed il 26 dello stesso mese il granduca Nicola conquistò Adrianopoli in Tracia, spingendosi a breve distanza da Costantinopoli.

Il 31 gennaio 1878  Russia e  Turchia conclusero a Karanlik i preliminari per l’armistizio; seguì il 2 febbraio l’entrata in guerra della Grecia, che, preso spunto dall’insurrezione di Creta, invase la Tessaglia.

In Romania  si ebbero manifestazioni di legittimo orgoglio per le dure prove superate e per il comportamento esemplare delle truppe: “Nei più modesti tuguri se ne ragiona con fierezza, il sentimento nazionale sorge ringiovanito e fortificato da questi avvenimenti…”, scriveva Fava nel suo rapporto a Depretis, Presidente del Consiglio e Ministro degli Affari Esteri.143

In una comunicazione fatta il 13 dicembre 1940 all’Accademia di Romania il generale R. Rosetti attestava il carattere popolare della guerra del 1877-78, cui le classi rurali fornirono una maggiore partecipazione, non solo prestando servizio nell’esercito, ma sostenendo pure notevoli sacrifici economici, con la fornitura di viveri e di bestiame, con l’alloggio delle truppe, i trasporti, i servizi di sorveglianza; prestazioni ammontanti a 136 milioni di lei, rapportati al valore della moneta romena nel 1940.

Per contro, affermava ancora Rosetti, secondo i documenti dell’epoca le classi agiate si sottrassero anche al tranquillo servizio di guardia civica; da sottolineare che la comunicazione era fatta nel 1940, quando erano ancora di da venire  le esaltazioni del proletariato, proprie del regime comunista instauratosi in Romania alla fine della seconda guerra mondiale.144

Di questo slancio patriottico furono partecipi attivamente anche gli Ebrei di Romania, il cui impegno non fu sempre ben accetto ai Rumeni. “Il Vessillo Israeliticocitava il caso di un gruppo di Ebrei chiamato alle armi e congedato da un capitano ancor prima di essere sottoposto alla visita medica, perché “nessun forestiero, e tantomeno nessun ebreo poteva essere più ammesso nell’armata Romena”.

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Il giornale riservava all’episodio questo commento: “Figurarsi l’avvilimento di quei vigorosi e coraggiosi che anelavano versare il sangue per la difesa della patria loro! Oh l’intolleranza e… l’ignoranza!”.

Ma quelle difficoltà non scoraggiarono gli Israeliti; ancora “Il Vessillo Israeliticoscriveva: “Si può dire non esservi un Israelita in Rumania che non accorra con la persona, o coi mezzi in pro della patria. Ecco come rispondono gli Ebrei ai Rumeni che li trattano così barbaramente!”.

Fra gli Ebrei accorsi a combattere si distinse Maurizio Brociner; da volontario fu nell’assedio di Plevna con il grado di sergente ed ottenne sul campo la promozione a sottotenente, unico ufficiale ebreo nell’esercito romeno.

Anche un giornale tradizionalmente ostile agli Ebrei, “La Roumanie libre”, riconobbe il patriottismo degli Ebrei scrivendo: “Noi ringraziamo gli Israeliti e li assicuriamo che il paese saprà esser loro riconoscente per i lodevoli sentimenti che hanno addimostrato”.

Ma non sempre il comportamento degli Ebrei riuscì gradito ai Rumeni; sempre “Il Vessillo Israeliticocommentava acremente le aspirazioni dell’indipendenza dei Romeni, anticipando l’orientamento politico destinato ad emergere nel futuro Congresso di Berlino, quando il riconoscimento dell’indipendenza della Romania fu subordinato alla concessione di pari diritti agli Ebrei: “questi principati che vogliono l’indipendenza, cominciano a dimostrare alle Potenze civili quanto degni ne siano colle barbarie che commettono”.

La polemica per il momento non ebbe un seguito e non venne meno l’impegno patriottico degli Israeliti Rumeni; un altro giornale degli Ebrei italiani, il “Corriere Israelitico”, calcolava esservi 2000 combattenti Ebrei nell’esercito romeno ed ammontare ad oltre un milione di franchi il frutto di una sottoscrizione  per le spese di guerra organizzata dalla comunità ebraica di Romania.

Ed ancora il “Corriere Israeliticodava notizia delle decorazioni conferite ad un medico ebreo, Corciu, capo di un’ambulanza operante sul campo di Plevna, ed a tre studenti di medicina suoi collaboratori, pur essi Ebrei.144bis

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Ma le simpatie ed i contributi dati dagli Ebrei erano equamente divisi fra gli opposti schieramenti; al patriottismo degli Ebrei di Romania facevano riscontro le iniziative prese dalla comunità ebraica di Smirne a favore della causa turca, ricordate dal periodico dell’Alliance Israélite Universelle, “Archives Israélites”: ci fu una sottoscrizione per le spese di guerra, si formò una compagnia di volontari Israeliti, il 22 maggio 1877 in tutte le sinagoghe di Smirne si pregò per la vittoria turca e successivamente un corteo si recò a pregare nel cimitero e rese omaggio al governatore, cantando un inno in lingua turca composto per l’occasione. Il gran rabbino ricordò le benemerenze del governo turco verso gli Ebrei e li invitò a dare il loro aiuto alla patria turca. Per gli “Archives Israélites” il principale merito turco era rappresentato dagli articoli 8,11,17 della Costituzione del dicembre 1876, con i quali l’islamismo era riconosciuto come religione di Stato, ma la libertà religiosa e l’uguaglianza dei diritti erano assicurate a tutti: “…les partisans du progrés n’ont plus rien à desirer, du moins en principe…”, era la conclusione dell’articolo, in cui all’evoluzione liberale della Turchia si univa la denuncia della grave situazione esistente in Romania per gli Ebrei.

Gli “Archives Israélites” si astenevano dal dare un giudizio apertamente favorevole ad una delle due parti contrapposte, affermando di non voler entrare nel merito delle questioni politiche causa della guerra russo-turca e di ritenere i lettori in grado di giudicare da sé stessi quali fossero le ragioni più fondate.

Ma era significativa delle simpatie della rivista parigina la critica rivolta alla Russia per la sua affermazione di aver mosso guerra alla Turchia per difendere i cristiani d’Oriente, dimenticando l’esistenza degli Israeliti in molti casi ancor più bisognosi dell’aiuto dell’Europa.

La scarsa benevolenza degli “Archives Israélites” per la Russia era confermata in un articolo successivo: l’affermazione russa di voler difendere i cristiani d’Oriente significava bandire una crociata, anacronistica nel secolo XIX.  Le comunità cristiane ed Israelitiche d’ Europa potevano prendere iniziative in difesa dei loro correligionari, ma uno Stato doveva essere laico e difendere i suoi sudditi senza far distinzioni di natura religiosa. Si potevano fare guerre per ragioni politiche nazionali, non per questioni religiose  riguardanti le coscienze dei singoli. Sfuggiva evidentemente agli “Archives Israélites” come il motivo religioso adottato dalla Russia fosse solo un pretesto per nobilitare la guerra, fatta in realtà per affermare l’egemonia zarista.145

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Lo slancio patriottico, non soltanto degli Ebrei, ma dell’intera popolazione, esisteva quindi in entrambi gli schieramenti, contrariamente all’asserzione fatta dall’onorevole Musolino nel suo memoriale a Disraeli, già ricordato: “….dans les principautés vassalles de la Roumanie et de la Serbie on n’a jamais vu un seul volontaire. La guerre a été exclusivement gouvernementale”.145bis

A differenza di Musolino, Fava rivide il suo giudizio sul patriottismo e sul valore militare dei Rumeni, su cui si era più volte espresso negativamente, dopo le prove da essi date nel corso di quella sanguinosa guerra. Quando questa non si era ancora conclusa, il 19 gennaio 1878 nel rapporto a Depretis già citato 145ter, Fava dava il dovuto riconoscimento al merito dei soldati Rumeni, ma esprimeva al contempo serie preoccupazioni per il futuro del paese, poiché era  in crisi il commercio interno ed estero, c’era una  grave penuria causata dall’abbandono delle campagne per il richiamo alle armi dei contadini, tanto da essere stata di fatto proibita l’esportazione dei cereali, principale prodotto agricolo, scarseggiante  anche per le requisizioni imposte per rifornire l’esercito rumeno e quello russo; a questo desolante quadro economico si univano i timori per la Bessarabia, reclamata più volte dai russi in modo informale e per cui si attendeva un’imminente richiesta ufficiale.

Secondo il console italiano a Galatz, Seyssel di Sommariva, i Rumeni si trovavano costretti a scegliere fra la Turchia “un padrone de jure, tollerante anziché no per i moldavi da molti anni” e la Russiaprobabile protettore, ossia padrone di fatto molto più difficile a contentare”.146

Nel tentativo di rafforzare la posizione internazionale della Romania sì da poter meglio resistere alle prevaricazioni russe, Kogalniceanu  si affrettò a chiedere il riconoscimento dell’indipendenza alle Potenze, pur nutrendo poche speranze di poterla ottenere. Fava spiegava la fretta di Kogalniceanu ad avanzare la richiesta con l’aspirazione romena ad ottenere il riconoscimento dell’indipendenza, anzitutto quello della Porta, grazie ad un’autonoma iniziativa romena e non per un intervento diplomatico della Russia.

A seguito di queste spiegazioni fornite dal console italiano Depretis inviò un dispaccio per confermare il riserbo mantenuto fino ad allora, esprimendo pure l’opinione che il passo romeno presso la Porta, avrebbe reso più difficile una favorevole posizione russa verso la Romania.147

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E difatti  l’atteggiamento russo si dimostrò ben poco amichevole; Ignatieff arrivò a Bucarest a fine gennaio del 1878, latore di una lettera autografa dello zar per Carlo: era la tanto temuta richiesta ufficiale della Bessarabia, in cambio della quale si offriva la Dobrugia, come era stato anticipato da voci ufficiose. Ignatieff esponeva le ragioni di prestigio per cui Alessandro II faceva della cessione della Bessarabia una questione personale; riteneva lo zar di doverlo alla memoria di suo padre Nicola I, umiliato dalla perdita di quel territorio imposto con il Trattato di Parigi del 1856: era una considerazione anacronistica, poiché Nicola I era morto nel 1855 prima del Trattato.

Senza usare mezzi termini  Ignatieff definì conveniente  per la Romania accettare con le buone quella richiesta, per non inimicarsi la grande Russia a causa di un piccolo territorio, privo fra l’altro di un porto. Bucarest avrebbe guadagnato con l’acquisto della Dobrugia un territorio con una superficie ed una popolazione doppie rispetto alla Bessarabia e con un reddito quadruplo; inoltre la

Dobrugia disponeva di due porti, Sulima  e Kustengé. Lo scambio dei territori si sarebbe svolto con un trattato internazionale, da farsi dopo la proclamazione dell’indipendenza romena per cui il principato sarebbe divenuto un interlocutore valido in base alle norme di diritto internazionale.

Ignatieff  portava al colmo l’umiliazione per la Romania rimproverandole di non avere preparato per tempo l’opinione pubblica alla cessione della Bessarabia di cui si era più volte fatto cenno in precedenza.

Fava definìcomminatorio” il linguaggio di Ignatieff, la cui durezza dipendeva a suo parere dall’irritazione russa per la missione del Ministro delle Finanze Campineanu a Berlino e per quella del principe Jon Ghika a Londra nel tentativo di ottenere un intervento tedesco ed inglese che dissuadesse  la Russia dall’insistere nelle sue richieste per la Bessarabia.

L’estrema beffa per la Romania era rappresentata infine dalla proposta di Ignatieff di farsi rappresentare dalla delegazione russa al Congresso della pace, cui il governo romeno non avrebbe potuto partecipare per il veto della Turchia contraria ad ammettere alle trattative un paese considerato ancora suo vassallo. Per indurre il governo di Bucarest a bere l’amaro calice Ignatieff promise di far inserire nelle condizioni imposte alla Turchia un’indennità di guerra per la Romania e la demolizione delle fortezze sul Danubio.148

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Incuranti degli avvertimenti di Ignatieff, la Camera ed il Senato di Bucarest il 7 febbraio 1878 approvarono unanimi la mozione presentata da Dimitrie Ghika con cui si protestava e si rifiutava qualsiasi compenso territoriale o di altra natura per la cessione di qualsiasi parte della Romania.

Kogalniceanu informò lo stesso giorno 7 febbraio l’agente romeno a Roma, Obedenare, di questa risoluzione del parlamento romeno e con la successiva nota del 9 marzo volle chiarire l’importanza della Bessarabia per l’economia romena e per la libertà di navigazione sul Danubio, destinata a divenire illusoria se la Russia si fosse inserita sulla riva sinistra del fiume. Inoltre le condizioni economiche della Bessarabia erano decadute quando l’intera regione era passata alla Russia con il Trattato di Bucarest del 1812 e con quello di Adrianopoli del 1829; si era avuta una ripresa soltanto quando con il Trattato di Parigi del 1856 la parte meridionale della Bessarabia era tornata alla Romania, di cui per antica tradizione aveva in precedenza aveva fatto parte. Perdere quel territorio avrebbe esasperato il sentimento nazionale dei Rumeni e turbato quindi la pace in Oriente. 149

Ma la fierezza romena non trovò l’appoggio dei governi europei, poiché fallirono le missioni già ricordate a Berlino e Londra. Depretis informò Fava della contrarietà del governo tedesco ad appoggiare la Romania nella questione della Bessarabia, pur essendo Carlo legato al kaiser da vincoli di parentela. Dello stesso tenore erano le dichiarazioni dell’agente diplomatico tedesco a Bucarest: la casa reale di Germania non poteva urtarsi con la Russia per sostenere il possesso romeno della Bessarabia; erano inutili le resistenze romene e controproducenti  le manifestazioni antirusse. Il diplomatico tedesco condannava perciò la politica di Bucarest: “Il contegno adottato dai Rumeni in quest’occasione fu così inopportuno che… la Romania potrebbe fino perdere non solo la Bessarabia”, ma anche ogni eventuale compenso.150

Ignatieff  manteneva la pressione sul governo romeno assicurando l’esistenza in Bessarabia di un forte malcontento per la cattiva amministrazione della Romania; inoltre, nella parte del territorio governata da Bucarest si stampavano scritti clandestini dal contenuto sovversivo, poi  diffusi in Russia. Lo stesso avveniva per lo spaccio di moneta falsa in Russia organizzato nella zona romena della Bessarabia, divenuta un rifugio per i malfattori provenienti dall’impero zarista. Inoltre erano incomprensibili  le resistenze romene alle richieste russe, appoggiate dall’Europa, né era da trascurarsi la preferenza delle popolazioni per passare sotto il governo russo.

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Questa affermazione contrastava con quanto Kogalniceanu sosteneva nel suo dispaccio a Obedenare del 9 marzo, prima ricordato, ma era confermata dal console italiano a Galatz, per il quale la parte della Bessarabia ceduta alla Moldavia nel 1856 “negli ultimi vent’anni da paese agiato e fiorente divenne sotto il regime di Romania povero, rifinito di forze, e inerte”.

Pertanto gli abitanti rimpiangevano il governo russo e ”…se un plebiscito avesse luogo fra i Bessarabi stati staccati dalla Russia, essi non voterebbero per restare Rumeni”.

Si attribuiva alla Russia il proposito di realizzare importanti opere pubbliche nel paese, come  migliorare il canale di Kilia per renderlo una via di comunicazione preferibile ai canali di Sulima e San Giorgio; si parlava pure della creazione tra la foce del  Pruth ed il canale di Kilia di porti franchi, particolarmente utili dopo la soppressione del porto franco di Galatz, disposto con la legge del 13 gennaio 1878. 151

Malgrado tutto, si moltiplicavano gli sforzi Rumeni per conservare la Bessarabia; Fava difatti segnalò a Depretis il probabile invio di un messaggio personale di Carlo ai sovrani d’Europa per chiedere il loro sostegno contro la Russia. Era l’ultima estrema risorsa cui ricorrere, dopo il voto del Parlamento, le note di Kogalniceanu, le manifestazioni popolari. Il fallimento di quel tentativo avrebbe però screditato Carlo, obbligandolo a rinunciare al trono ed il paese sarebbe piombato nel caos. Appunto tale eventualità, temuta in Europa, avrebbe potuto favorire l’esito: ma era un gioco d’azzardo, molto rischioso per la Romania e si rinunciò quindi all’intervento del principe.152

Di una abdicazione di Carlo si era parlato in una tumultuosa seduta segreta della Camera, convocata per discutere la richiesta russa della Bessarabia.

Se Carlo, pur essendo parente del kaiser, non riusciva ad avere l’appoggio di Berlino più di quanto avrebbe potuto un principe indigeno, tanto valeva che abdicasse, si era detto in quella occasione.153

Non ci fu alcun concreto seguito a quei discorsi, frutto di un’esasperata disperazione e Kogalniceanu da parte sua, oltre a chiedere l’appoggio dei governi europei contro la Russia, insisteva nel chiedere ad essi il riconoscimento dell’indipendenza della Romania, ricordando con la sua nota del 15 febbraio 1878 di aver avanzato quella richiesta fin dal 3 giugno 1877 non per ottenere un’immediata risposta positiva, ma soltanto perché i governi decidessero favorevolmente al momento opportuno, una  volta finita la guerra; quel momento era alfine arrivato e quindi il ministro romeno rinnovava la richiesta.

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Ma era una vana speranza ottenere l’appoggio diplomatico dei governi europei; si era contato sulla tradizionale rivalità dell’Austria con la Russia per ottenere un aiuto per conservare la Bessarabia; ma Vienna non si prestò e risultò pure infondata la voce di una promessa di lord Derby a Jon Ghika di opporsi alla richiesta russa  in seno alla Conferenza di pace.154

Il governo italiano si mostrò interessato agli accenni fatti dal console a Galatz circa il malcontento diffuso in Bessarabia dovuto al malgoverno romeno e con un dispaccio del conte  Tornielli, segretario generale degli Esteri, chiese a Fava  di precisare a quale governo, il russo o il romeno, andassero  le simpatie di quella popolazione.

Fava confermò le asserzioni del console Seyssel di Sommariva, corrispondenti alle notizie da lui raccolte fin dal suo arrivo a Bucarest; erano fondate le lamentele contro il governo di Bucarest accusato di avere sempre  trascurato gli interessi della Bessarabia, dove c’erano quindi state poche manifestazioni contro il passaggio alla Russia, che sarebbe stato approvato se si fosse svolta una consultazione popolare.

L’agente diplomatico italiano differenziava la sua posizione rispetto a quella del console a Galatz solo su di un punto, la realizzazione di grandi opere pubbliche da parte della Russia dopo l’eventuale acquisto della regione, ritenendola poco credibile.

Seyssel di Sommariva il 4 marzo 1878 inviò un suo rapporto sui precedenti storici e sulla situazione attuale della Bessarabia. La regione era stata per antica tradizione un territorio della Moldavia, come dimostrava la capitolazione stipulata con la Porta nel 1393 dal voivoda Mircea il vecchio, definito il padrone dei territori posti su entrambe le rive del Danubio; asserzione confermata poi da documenti successivi.

La maggioranza della popolazione era moldava per la lingua, gli usi ed i costumi. C’erano state successive immigrazioni di Russi, Tartari e Bulgari, ma i Moldavi erano rimasti i più numerosi, costituendo però lo strato inferiore della popolazione, perché meno intelligenti ed attivi dei Russi e dei Bulgari, la cui simpatia per la Russia era facilmente comprensibile. Ma quella simpatia era condivisa dai  Moldavi  della Bessarabia, perché essi -secondo il console italiano a Galatz -erano dei primitivi indifferenti alla libertà, interessati soltanto a far progredire l’agricoltura ed alla realizzazione di opere pubbliche, per cui confidavano nella Russia; questa poteva pure contare sull’appoggio del clero locale, grato per il costante appoggio dato alla Chiesa ortodossa dal governo zarista.155

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Quella della Bessarabia si presentava quindi con una questione ingarbugliata; nell’approssimarsi della Conferenza di pace si venivano precisando le posizioni degli uomini politici Rumeni.

Bratianu restava il più deciso oppositore alla cessione della Bessarabia, dimostrandosi incurante dei rischi che tale opposizione comportava ad una Romania isolata sul piano diplomatico e certo non in grado di resistere da sola alla Russia; coltivava la speranza di un sostegno inglese (che poi non ci fu), alimentata dalla permanenza della flotta britannica all’ingresso del Bosforo.

L’intransigenza di Bratianu è stata giudicata negativamente da Frédéric Damé, ricordando il precedente di Cavour, disposto a sacrificare Nizza e Savoia cedendole alla Francia poiché quella dolorosa perdita era il prezzo necessario per realizzare l’unità e l’indipendenza italiana; Bratianu invece non dimostrò di avere la duttilità politica e l’avveduta lungimiranza dello statista piemontese, irrigidendosi in un braccio di ferro con la Russia, lusinghiero per l’orgoglio nazionale romeno, ma sterile di risultati.156

Più avveduto il comportamento di Kogalniceanu; pur opponendosi alla cessione della Bessarabia, adoperava toni più moderati, evitando uno scontro frontale con la Russia. Era difatti convinto in cuor suo dell’inutilità di una resistenza ad oltranza alle richieste russe e lealmente ammetteva pure di essere stato informato delle mire russe sulla Bessarabia da Gorciakoff all’inizio della guerra nella primavera del 1877, senza però dare troppo peso a quelle dichiarazioni, ritenute una pura ipotesi.

Anche il principe Carlo cercava di contenere l’irruenza di Bratianu, pure se ufficialmente continuava a sostenerlo; alla prudenza di Carlo non erano estranei i consigli del padre; il principe Carlo Antonio gli scrisse infatti il 20 febbraio 1878, facendo presente l’opportunità di accettare la proposta russa, dato l’isolamento diplomatico della Romania, a condizione di comprendere Costanza nel territorio della Dobrugia offerto in cambio della Bessarabia e di demolire le fortezze turche sul Danubio, pericolo costante per la sicurezza della Romania. Carlo fece comunque un ultimo tentativo ed il 25 febbraio 1878 scrisse al principe ereditario di Germania, il futuro  Federico III, per chiedere l’appoggio tedesco nella vertenza con la Russia, lamentando il mancato rispetto dell’integrità territoriale romena, garantita dalla Convenzione dell’aprile 1877; era poi accusato di ingratitudine il governo russo, dimentico del prezioso aiuto fornito dalla Romania nel momento di maggior pericolo, dopo le sconfitte subite a Plevna.

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Ma si trattava di una battaglia di retroguardia e Carlo si convinse presto dell’inutilità dei suoi sforzi, come era confermato dal sostegno dato a Kogalniceanu in opposizione a Bratianu.

I due erano divisi da un’accesa rivalità e Bratianu arrivò a chiedere a Carlo di nominare un nuovo Ministro degli Esteri al posto di Kogalniceanu, cui rimproverava di aver firmato gli accordi con la Russia nell’aprile 1877. Carlo obiettò che Kogalniceanu, nominato Ministro degli Esteri solo da qualche giorno, nell’aprile 1877 si era limitato a firmare gli accordi già stabiliti dallo stesso Bratianu, da considerarsi quindi il vero responsabile degli impegni assunti con la Russia, fidando poco accortamente nelle promesse e garanzie del governo di San Pietroburgo. Ma ancora nel marzo 1878 continuò un’intensa attività diplomatica romena per ottenere l’appoggio dei governi europei: l’ex ministro delle Finanze, Sturdza, si recò in missione a Vienna e Budapest, Jon Ghika tornò a Londra e Parigi, era previsto l’invio di Ionescu a Roma.156bis

Tutto inutile: con un annesso cifrato al dispaccio del 10 marzo 1878 Depretis  comunicava a Fava un rapporto dell’ambasciatore italiano a Vienna sul fallimento della missione Sturdza.157

“La Perseveranzadedicò alla difficile situazione romena un articolo, unendo alla riprovazione dell’ingratitudine russa il sarcasmo per l’ingenuità dimostrata dalla Romania: “Il Principato s’avvede oggi quanto sia dannoso ai vasi di creta camminare coi vasi di ferro. Dopo aver reso alla potente amica i più segnalati servigi; dopo averle fatto ponte del suo corpo e del suo territorio base di operazione, magazzino e spedale; dopo d’aver unito il proprio all’esercito invasore e contribuito ai successi moscoviti in Bulgaria, la Rumania sta per essere compensata colla perdita d’una provincia” (5 febbraio 1878, Commento politico generale).

Priva di punte sarcastiche, ma comunque contraria alla Romania era la posizione de “L’Opinione” sulla Bessarabia. Il giornale negava infatti al governo di Bucarest la possibilità di appellarsi al Trattato di Parigi per difendere l’integrità della Romania: l’alleanza stabilita con la Russia aveva difatti contribuito a distruggere quel trattato. Si chiedeva  “L’Opinione” come la Russia avrebbe compensato la Romania per i sacrifici sostenuti con la guerra e come avrebbe rispettato la convenzione dell’aprile 1877 con cui aveva garantito il rispetto del territorio romeno.

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Il giornale ipotizzava l’esistenza di un accordo segreto russo-romeno con cui fosse ampiamente compensata la perdita della Bessarabia e ricordava l’accordo stabilito fra Cavour e Napoleone III nel 1859 per la cessione di Nizza e Savoia in cambio dell’alleanza francese contro l’Austria: “… tutt’al più potranno ammettere che il signor Bratianu, aspirando ad essere il Cavour della Romania, e carezzando vastissimi disegni a beneficio del suo paese e del suo principe, abbia separatamente pattuito col governo di Pietroburgo una clausola per l’amputazione di una parte del territorio romeno”. (10 febbraio 1878, Bollettino politico)

Tale ipotetico (ed inesistente) accordo avrebbe quindi giustificato le pretese russe per la Bessarabia. “L’Opinione” aveva fatto parzialmente suo un argomento usato dalla diplomazia russa per negare alla Romania il diritto di invocare il Trattato di Parigi a difesa della sua integrità territoriale. Secondo il giornale italiano l’accordo russo-romeno dell’aprile 1877 aveva dato un colpo mortale a quel trattato; per il governo russo ancor prima il trattato era stato vanificato dalla sua violazione da parte della Romania, nata dalla illegittima unione della Moldavia della Valacchia contraria alle disposizioni concordate a Parigi nel 1856: non si poteva quindi il governo romeno appellare ad un documento ormai privato di ogni valore. Ed in quanto alle garanzie per l’integrità territoriale romena, date con la Convenzione dell’aprile 1877, esse erano state date contro le eventuali minacce della Turchia e non erano riferite alla Bessarabia di cui sarebbe stato intempestivo occuparsi in quel momento.158

Dalle segrete stanze della diplomazia questa argomentazione della diplomazia russa era uscita, venendo resa pubblica con un articolo a firma di “Un russe”, apparso il 6 marzo 1878 sul giornaleNord” di Bruxelles, finanziato dal governo zarista di cui rispecchiava le posizioni.

L’articolo del “Nordsuscitò la replica affidata ad un opuscolo, il cui autore si celava dietro lo pseudonimo “Un paysan du Danube”. L’ignoto si opponeva alla tesi di un illegittimo possesso  della Bessarabia, in quanto ceduta nel 1856 alla Moldavia e non alla Romania (allora inesistente); nei giorni di Plevna il giornale filo russo non aveva rimproverato ai Rumeni la violazione del Trattato di Parigi; allora la Russia aveva invocato l’aiuto della Romania, accorsa generosamente in suo aiuto, senza cautelarsi chiedendo gli abitualichiffons de papier”.

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Inoltre il Trattato di Parigi non imponeva una permanente divisione della Moldavia e della Valacchia; ma noi dobbiamo osservare  in proposito che il Trattato e la successiva Convenzione prevedevano due principi, due parlamenti, due governi: era quindi affermata chiaramente la separazione dei due principati ed unificarli era stata un’evidente forzatura.

“Un paysan du Danubeinfine riteneva ingiusta l’accusa rivolta alla Romania di aizzare l’Europa contro la Russia; il governo di Bucarest aveva il diritto di consultare i governi delle Potenze garanti, suoi naturali consiglieri.159

 Ma le accuse rivolte alla Romania dal “Nord” non restarono isolate; ne furono mosse ancora altre a qualche distanza di tempo, nel 1880, quando la questione della Bessarabia era già stata risolta assegnandola  alla Russia; ad “Un paysan du Danube” si oppose l’opera “La Roumanie 13-25 avril 1877” di tal Michel Anagnosti. L’autore esaltava i supposti benefici apportati alla Romania nel corso della storia dagli interventi russi; i Principati si erano avviati verso il progresso grazie al Regolamento organico voluto dal “mémorable général Kisseleff”, nel cui preambolo già era affermata in linea di principio l’unione di Moldavia e Valacchia, di cui l’uniformità legislativa stabilita da quel Regolamento costituiva un’ indispensabile premessa.

La Russia, secondo l’autore, si era sempre comportata con magnanimità nei confronti della Romania, astenendosi da ogni ingerenza nella sua vita interna, richiamando di continuo, dal trattato di Kainardj del 1774 a quello di Adrianopoli del 1829, la Porta al rispetto dei diritti promessi ai Principati con gli “hatti cherifs” dei sultani.

Il governo russo aveva pure dato prova del suo disinteresse rinunciando nel 1829 all’offerta della Moldavia e della Valacchia fatte dalla Turchia al posto dell’indennità di guerra richiestale.

Nella storia dei Principati successiva al Trattato di Adrianopoli Anagnosti  vedeva solo corruzione e decadenza: Cuza era definito un principe da operetta, uscito dalle sale di biliardo di Galatz per essere innalzato al trono. Carlo era arrivato di nascosto come un malvivente e si era arricchito spogliando il paese, colpevole pure per aver concesso nel 1866 il diritto di voto ad una massa di straccioni.

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Era stata una prova di incoscienza aver insistito nel tentativo di mantenere la neutralità con le forze turche schierate alla frontiera, pronte all’invasione. Ma alla fine si era raggiunto l’accordo con la Russia, la cui ratifica era stata colpevolmente ritardata dal Parlamento romeno (l’autore rovesciava così la situazione: secondo lui non era stata la Russia ad anticipare scorrettamente il passaggio della frontiera, ma il Parlamento romeno ad indugiare troppo prima di autorizzarlo).

Con tono soddisfatto a proposito del passaggio russo attraverso la  Romania Anagnosti constatava: “La Russie, qui a pris à tâche la défense de l’humanité et de la justice, qui revient sur le théâtre de sa séculaire et bienfaisante action, traverse un pays qui lui doit son existence”.

Ed alla fine si sarebbe giunti alla resa dei conti con la perfida Albione, l’Inghilterra responsabile occulta con i suoi intrighi dei mali della Romania, “vile et trâitreuse Puissance, laquelle, à titre de liberté, a replacé un pays émancipé  dans une profonde servitude”.

Una spiegazione dei poco condivisibili giudizi dell’ Anagnosti può trovarsi forse nella sua cittadinanza russa e nella sua rivelazione di aver soggiornato per nove anni in manicomio, dopo essere stato spogliato dei suoi beni; ma, intervento divino o sua potenza iettatoria, i due presidenti del tribunale autori di quella condanna, avevano ricevuto un giusto castigo: uno era diventato cieco, l’altro era stato assassinato.160

Tra i giornali italiani più favorevoli alla causa romena fu “Il Diritto”, ospitando due articoli di Obedenare, pubblicato però il primo anonimo, il secondo siglato Y., entrambi con il titoloAntichi trattati della Rumania con la Turchia” (5 e 6 gennaio 1878).

L’agente diplomatico romeno sosteneva che la Romania aveva di fatto raggiunta l’indipendenza, poiché disponeva già di un esercito, di un’amministrazione pubblica, di una diplomazia, distinti da quelli della Turchia; negava che il pagamento annuo di 900.000 franchi alla Turchia fosse un tributo, trattandosi solo di un compenso per la difesa assicurata dalla Porta contro eventuali attacchi.

Era quindi improprio parlare di una sovranità del Sultano sui Principati, mai stati oggetto di una conquista turca. La Romania era quindi autonoma, come riconosciuto dagli antichi trattati, le “capitolazioni”, stipulati con la  Porta dai Principi di Moldavia e Valacchia; essa aveva quindi il diritto di stipulare con la Russia una convenzione per il passaggio dell’esercito dello zar; ed oltretutto, la Romania non avrebbe potuto opporsi con la forza alla Russia.

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Pertanto l’accordo russo-romeno non poteva esser considerato un tradimento nei confronti della Turchia, la cui pretesa sovranità sui Principati era solo un titolo onorifico privo di un reale contenuto.

Il sultano, concludeva ironicamente Obedenare, poteva dirsi sovrano dei Principati come il re di Napoli era pure re di Gerusalemme ed il re d’Inghilterra si era pure a lungo fregiato del titolo di re di Francia.

“Il Dirittotornò ancora sull’indipendenza della Romania con un successivo articolo, affermando che uno Stato romeno indipendente non avrebbe accampato pretese egemoniche sui paesi vicini. Non avrebbe infatti conteso alla Grecia il predominio sui mari, mentre i Greci cercavano di soggiogare le minoranze romene e bulgare presenti nel loro territorio, imponendo l’uso della lingua greca. “I Rumeni, invece, senza alcuno sforzo, senza pressione, colla dolcezza rumanizzano i serbi ed i bulgari”, osservava l’ignoto autore dell’articolo, cui però sfuggiva che “rumanizzare” seppure con la dolcezza Serbi e Bulgari significava privarli della loro identità nazionale, al pari di quanto facevano i Greci con le minoranze bulgare e romene.

Per contro, continuava “Il Diritto”, la Romania avrebbe aiutato con pacifici mezzi culturali i Rumeni della Turchia, dell’Epiro e della Macedonia a conservare la loro identità latina (12 febbraio 1878, articolo non firmatoCaratteri della razza rumena”).

Veniva così affermata dal giornale una missione culturale romena in Oriente; quell’affermazione non si traduceva comunque in un preciso impegno politico italiano a sostenere la Romania.

Ma il mondo politico romeno non era turbato solo dalla questione della Bessarabia, un’ altra contesa territoriale, seppure di minore importanza, preoccupava il governo di Bucarest.

L’antagonista della Romania era in questo caso la Serbia; pur non avendo partecipato all’assedio ed alla conquista di Viddino, frutto soltanto dell’impegno militare romeno, il governo di Belgrado rivendicava il possesso di quella città, notevole porto fluviale sulla Topolovica, alla confluenza con il Danubio.

Si creò pertanto una notevole tensione tra Belgrado e Bucarest; ma, come spesso accade, fra due litiganti è un terzo a godere e la città rimase alla Bulgaria.

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Nella difficile situazione in cui si trovava, pressato dalla Russia  implacabile nell’esigere la cessione della Bessarabia, abbandonato dai governi europei restii ad andare oltre, nel migliore dei casi, a poco concludenti dichiarazioni di simpatia, il governo romeno si aggrappava ad ogni seppur minimo appiglio che potesse rappresentare un segno di considerazione, si trattasse pure soltanto di un riguardo protocollare.

Fu questo il caso della missione a Bucarest di Domenico Farini, autorevole parlamentare destinato a divenire presidente della Camera poco tempo dopo il suo viaggio in Romania.

Morto Vittorio Emanuele II all’inizio del 1878, inviati speciali del governo italiano comunicarono ai più importanti governi d’Europa l’avvento al trono di Umberto I.

L’agente diplomatico di Romania a Roma, Obedenare, informò Kogalniceanu di aver colto l’occasione di un colloquio con Francesco Crispi,  Ministro dell’Interno, per dirgli di aver fatto presente a Cesare Correnti, suo grande amico personale oltre che della Romania, la speranza di un inviato anche a Bucarest per notificare la recente successione al trono italiano; era sottintesa l’importanza per la Romania di quella missione, in quanto sarebbe stata un implicito riconoscimento della sua indipendenza.

Crispi aveva confermato le simpatie italiane per la Romania, ma aveva pure sostenuto la necessità di agire con prudenza, per evitare reazioni negative in Europa, dannose per la Romania, dal momento che solo la Russia aveva per il momento riconosciuta l’indipendenza romena.

Obedenare replicò che il kaiser aveva implicitamente riconosciuto lo Stato romeno, congratulandosi con Carlo per il valore dei combattenti della Romania. Al che Crispi risposte  che il kaiser si era rivolto a Carlo in qualità di parente e  Obedenare, ricorrendo ad una mozione degli affetti, fece allora presenti i vincoli di parentela tra le due nazioni latine, l’Italia e la Romania, chiedendo se il suo paese sarebbe stato ammesso a partecipare all’imminente Congresso internazionale indetto per stabilire le condizioni per la pace.

Crispi promise l’appoggio a tale aspirazione romena e a quel punto Obedenare, fattosi audace, espresse la speranza in un riconoscimento dell’indipendenza della Romania all’inizio del Congresso stesso, di modo che il governo di Bucarest potesse parteciparvi a pieno titolo.

L’agente romeno a conclusione del suo rapporto si mostrava poco fiducioso in una missione speciale per comunicare a Bucarest l’avvento al trono di Umberto I, ritenendo che l’incarico sarebbe stato affidato al barone Fava, rappresentante dell’Italia in Romania.161

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Ma contrariamente a quella pessimistica previsione, il governo italiano affidò invece la comunicazione a Domenico Farini in qualità di inviato speciale, accolto a Bucarest nel marzo 1878 con grandi onori e viva soddisfazione del governo romeno, lusingato per aver condiviso con le grandi Potenze il riguardo di un inviato speciale. Nei colloqui avuti da Farini a Bucarest si parlò in via riservata della partecipazione della Romania al Congresso, ma il governo italiano si sforzò di declassare la missione di Farini ad un semplice atto di cortesia, spiegando essere l’incarico affidatogli limitato a ringraziare il principe Carlo per la missione di Balascianu, venuto a Roma per congratularsi dell’ascesa al trono di Umberto I.

Il segretario generale del Ministero degli Esteri, Tornielli, in una lettera personale all’ambasciatore italiano a Vienna, di Robilant, si augurava che il governo austriaco non si dispiacesse per l’incarico affidato a Farini, dettato dalla necessità di ringraziare per il gesto di cortesia compiuto dalla Romania con l’invio di Balascianu; la lettera di Umberto I affidata a Farini era stata compilata con attenzione per non darle il tono di una comunicazione ufficiale.

Si esprimeva così Tornielli: “Per non dare alcun appiglio anche alle coscienze diplomatiche più timorate, nella lettera del nostro Re al Principe Carlo si è evitato tutto ciò che avrebbe potuto dare a tale missione i caratteri di annunzio ufficiale dell’avvenimento al trono… Il mandare a ringraziare era questione di convenienza e il meno che si può fare anche con i piccoli è di esseri civili ed educati. Forse questo non piace a Vienna e a Pesth, ma in tal caso siamo proprio noi obbligati di prendere codesti signori per modello di cortesia ed educazione?”.162

Ma questi aspetti protocollari non potevano certo costituire il cuore del problema, anche se ad essi si aggrappava il governo romeno nel tentativo di rafforzare la sua posizione.

La questione essenziale cui Bucarest dedicava maggiore attenzione era la sua esclusione dalle trattative fra Russia e Turchia, concluse con l’armistizio di Santo Stefano, con la prospettiva di non essere neanche ammessa in seguito alla Conferenza di pace e di non poter quindi sostenere i propri diritti.

Quando il granduca Nicola aveva iniziato con la Turchia a Kazanlik i primi contatti per l’armistizio nel gennaio 1878, il governo romeno chiese di partecipare e, senza attendere la risposta russa, inviò un suo delegato, il colonnello Arion, per prendere parte alle trattative, presentando queste richieste:

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1)      occupazione della riva destra del Danubio, comprese le fortezze di Viddino, Nicopoli, Rahova, da trattenere in pegno fino al pagamento di un’indennità di 100 milioni di franchi;

2)      distruzione di queste fortezze dopo il pagamento dell’indennità;

3)      cessione di tutto il delta del Danubio, compreso il braccio di San Giorgio;

4)      riconoscimento formale dell’indipendenza della Romania.

Le richieste ricalcavano quelle del memoriale di Kogalniceanu, fatta eccezione per il pagamento dell’indennità di guerra e la distruzione delle fortezze turche lungo la riva destra danubiana.

Ma Arion non fu ammesso alle trattative e la Russia continuò da sola i negoziati, conclusi con un protocollo per i preliminari di pace ed una convenzione d’armistizio che stabiliva le condizioni tecniche necessarie per la fine delle ostilità; entrambi i documenti furono firmati il 31 gennaio 1878 ad Adrianopoli.163

Il protocollo, firmato dal granduca Nicola, da Server pascià, per il Ministero degli Esteri turco e da Namik pascià, ministro della lista civile del sultano, stabiliva le seguenti condizioni, formulate dal delegato russo ed accettate da quelli turchi:

1)      costituzione di un Principato autonomo di Bulgaria, tributario della Porta, entro i confini dei territori abitati da popolazioni in maggioranza bulgare e comunque non meno estesi di quelli indicati dalla Conferenza di Costantinopoli del dicembre 1876-gennaio 1877, con un governo nazionale formato da cristiani ed un proprio esercito, restando vietata la presenza di truppe turche;

      2) assegnazione al Montenegro dei territori occupati nel corso della guerra;

3)      indipendenza per la Romania e per la Serbia, con aumenti territoriali da definire per la Romania e rettifica delle frontiere per la Serbia;

4)      amministrazione autonoma per le province cristiane della Turchia europea;

5)      indennità di guerra alla Russia, costituita da cessioni territoriali e da pagamenti; la tutela degli interessi russi nella zona del Bosforo e dei Dardanelli  sarebbe stata stabilita da futuri accordi tra lo zar ed il sultano.

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Dopo la firma del protocollo per i preliminari di pace e della convenzione per l’armistizio sarebbero state sospese le ostilità da parte degli eserciti turco, russo, romeno, serbo e montenegrino; la Porta oltre a cessare i combattimenti, si impegnava ad evacuare le fortezze di Viddino, Rusciak, Silistria in Europa e la fortezza di Erzerum in Asia.

La convenzione per l’armistizio regolava gli aspetti tecnici e fu quindi sottoscritta da militari; per la Russia firmarono il generale Nepokoitriski, aiutante di campo generale e capo dello Stato maggiore generale, ed il suo vice, il maggior generale Levitski; per la Turchia Nedjab pascià, generale di divisione, e Osman pascià, generale di brigata.

La Convenzione stabiliva le posizioni delle truppe e le località da evacuare da parte turca; oltre che dalle fortezze indicate nel protocollo per i preliminari di pace, le forze turche avrebbero dovuto ritirarsi pure da Belgradjik, Bazgrad, Hadji-Oglan-Bazardjik.

Una convenzione a parte fu stabilita il 23 febbraio 1878 fra Izzet pascià ed il generale Falcoianu, a nome e per conto del capo di stato maggiore romeno generale Manu, per regolare il passaggio alle forze romene di Viddin e di Belgradjik.164 La partecipazione romena agli accordi fu limitata a questo aspetto marginale.

Il documento finale fu il trattato di pace firmato il 3 marzo (15 marzo secondo il calendario gregoriano) 1878 a Yesikoi, sobborgo di Costantinopoli, meglio noto come Santo Stefano; il trattato riprendeva e sviluppava i punti già fissati dal protocollo di Adrianopoli.165

Per la Russia firmarono il conte generale Nicola Ignatieff, ambasciatore a Costantinopoli ed il consigliere di Stato, vice di Ignatieff a Costantinopoli, Alessandro Nelidow, già consigliere diplomatico del granduca Nicola nel corso della guerra; per la Turchia firmarono Savfet pascià, ministro degli Affari Esteri, e Sadullah bey, ambasciatore a Berlino.

Con l’articolo 1 era rettificata la frontiera tra Turchia e Montenegro, cui andavano i territori occupati durante la guerra; era pure regolata la navigazione sul fiume Boyana, aperta al Montenegro, cui erano pure assegnati i porti di Antivari e Dulcigno  sull’Adriatico.

L’articolo 2 riconosceva l’indipendenza del Montenegro e l’articolo 3 quella  della Serbia, a cui vantaggio era pure disposta una rettifica della frontiera.

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L’articolo 5 così recitava: “La Sublime Porte reconnaît l’indépendance de la Roumanie, qui fera valoir ses droits à une indemnité à débattre entre les deux parties ; jusquà la conclusion d’un traité direct entre la Turquie et la Roumanie, les sujets roumains jouiront en Turquie de tous les droits garantis aux sujets des autres puissances européennes”.166

La Russia scaricava così sulla Romania le pratiche per ottenere l’indennità, senza stabilire alcuna garanzia per il pagamento, che perciò non avvenne.

Fondamentali gli articoli 6 e 7: la Bulgaria  diveniva un principato autonomo tenuto a pagare un tributo annuo alla Porta (era la condizione già riservata a Moldavia e Valacchia nel 1856 con il Trattato di Parigi). Il nuovo Stato bulgaro avrebbe avuto un governo con ministri cristiani e ne erano fissate a titolo indicativo le frontiere, come base della loro definitiva determinazione. Il sovrano sarebbe stato eletto dai corpi amministrativi e non poteva essere scelto un membro di una dinastia regnante in Europa. La futura organizzazione amministrativa sarebbe stata decisa da un’assemblea di notabili, cui doveva servire da modello l’amministrazione stabilita per i Principati Danubiani nel 1830 dopo il trattato russo-turco di Adrianopoli del 1829; un commissario russo ed uno turco avrebbero seguito i lavori di quell’assemblea.

L’articolo 8 stabiliva la permanenza in Bulgaria per due anni di un contingente militare russo forte di non più di 50.000 uomini; le altre truppe russe sarebbero tornate in patria via mare, partendo dai porti di Varna e Burgos, ovvero via terra attraversando la Romania: disposizione, quest’ultima, destinata ad alimentare nuove polemiche fra i governi di Bucarest e di San Pietroburgo.

Riguardava ancora la Bulgaria l’articolo 10, per cui ne era consentito il transito da parte di truppe turche dirette verso territori posti al di di quel Principato.

L’articolo 12 disponeva la distruzione delle fortezze turche sul Danubio e ne vietava la ricostruzione. Era una misura di grande interesse per la sicurezza della Romania, come lo era il divieto della presenza di navi da guerra di qualsiasi nazionalità nel tratto del Danubio compreso fra Romania, Serbia e Bulgaria, fatta eccezione per  gli stazionari abitualmente mantenuti ivi dalle Potenze europee e per i battelli della polizia fluviale e della dogana.

Con l’articolo 15 si stabiliva l’applicazione a Creta del Regolamento organico stabilito dalla Turchia nel 1868, ma di fatto non entrato in vigore; un analogo Regolamento doveva essere stabilito per l’Epiro e per la Tessaglia, rimaste province greche dell’impero ottomano.

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Incideva profondamente nell’interesse della Romania l’articolo 19; la Russia chiedeva alla Turchia il pagamento a vario titolo di un miliardo e 410 milioni di rubli.

Ma lo stesso governo russo riconosceva l’impossibilità per la Turchia di pagare quella ingente somma, di cui era quindi stabilita la diminuzione di un miliardo e 100 milioni, in cambio della cessione del sangiaccato di Tulcea, delle isole del delta danubiano e dell’isola danubiana dei Serpenti, oltre che delle città di Axdaham, Kars, Batum, Bayazut poste in Asia.

L’articolo prevedeva però la rinuncia russa a Tulcea ed alle isole danubiane con questa formulazione destinata a suscitare polemiche infinite con la Romania: “Ne désirant pas s’annexer ce territoire  et les îles du Delta, la Russie se réserve la faculté de les échanger contre la partie de la Bessarabie détachée par le traité de 1856 et limitée au midi par le thalveg du bras de Kilia et l’embouchure du Stary-Stamboul. La question du partage des eaux et des pêcheries devra être réglée par une commission russo-roumaine dans l’espace d’une année auprès la ratification du traité de paix”.167

Si concretizzava così il rischio tanto temuto dalla Romania: la cessione forzata di quella Bessarabia divenuta un simbolo dell’orgoglio nazionale, prima ancora che un interesse territoriale. E questa pretesa russa era avanzata nel peggiore dei modi, nel quadro di un accordo con un altro Stato, divenendo la Bessarabia oggetto di uno scambio mai concordato con la Romania.

La Bessarabia era destinata così a divenire un argomento di interesse europeo, complicatosi  poi con l’offerta russa alla Romania della Dobrugia in cambio della Bessarabia; alla Dobrugia, abitata in buona parte da Bulgari, era difatti pure interessata la Bulgaria e ne nacque perciò un contenzioso destinato a durare fino alle guerre balcaniche degli inizi del ´900.

L’articolo 24 infine regolava la fondamentale questione del diritto delle navi mercantili di ogni nazionalità di passare attraverso il Bosforo ed i Dardanelli in tempo di pace; in tempo di guerra tale diritto era assicurato ai mercantili di paesi neutrali provenienti da porti russi, per cui era vietato alla Turchia stabilire blocchi navali negli Stretti.

Il Trattato di Santo Stefano fu ratificato a San Pietroburgo il 17 marzo 1878, malgrado i timori ed i risentimenti da esso suscitati nei governi di Vienna e di Londra. La Francia si mantenne più cauta; pur condividendo quelle preoccupazioni, non voleva suscitare reazioni russe a causa di un linguaggio troppo rude simile a quello usato dalla diplomazia britannica.

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Fin dal gennaio 1878, quando non erano ancora iniziate le trattative della Russia con la Turchia, il ministro francese degli Affari Esteri, Waddington,  aveva sottolineato all’ambasciatore a Londra, marchese d’Harcourt, l’opportunità di un linguaggio misurato nei confronti della Russia da parte del Foreign Office: “…on évite soit dans l’attitude, soit dans le langage, tout ce qui pourrait paraître de la hauteur ou de la défiance”.

E da parte sua l’ambasciatore russo a Londra, Schuvaloff, esprimeva  il 29 gennaio le sue preoccupazioni per le conseguenze di un contegno poco prudente del governo di San Pietroburgo, come d’Harcourt informava Waddington; le preoccupazioni di Schuvaloff riguardavano soprattutto i rapporti con l’Austria.

E l’Austria difatti, ancor prima del trattato di Santo Stefano, si era dimostrata risentita per eventuali trattative fra Russia e Turchia, tali da alterare le condizioni stabilite dai trattati esistenti; se ciò si fosse verificato, aveva confidato l’ambasciatore austriaco a Costantinopoli all’incaricato d’affari francese, Moüy, Vienna avrebbe fatto valere i suoi diritti. Ancora più esplicita, nella sua durezza, secondo il rapporto inviato il 15 gennaio a Parigi dallo stesso Moüy, era stata la reazione inglese: “…dans le cas des pourparlers directes aboutiraient à des résultats qui porteraient attente aux traités de 1856 et de 1871, le Cabinet de Londres considèrerait les arrangements pris comme nuls et non avenus”.167bis

Si tentava comunque già in quei giorni di risolvere i contrasti di Londra e Vienna con San Pietroburgo; ma quei tentativi apparivano incerti e contraddittori: de Saint Vallier, ambasciatore di Francia a Berlino, segnalava difatti l’ostilità del ministro tedesco degli Affari Esteri, von Bulow, ad un Congresso europeo sul trattato di pace russo-turco, ancora da concludere; anche la Russia, secondo de Saint Vallier, sarebbe stata contraria al Congresso,  temendo potesse incrinare il “patto dei tre imperatori”, fino a quel momento chiave di volta della politica estera russa, tedesca ed austriaca.

Favorevole al Congresso e disposto a parteciparvi si mostrava invece il governo italiano; Depretis affermava all’ambasciatore francese a Roma, de Noailles, di esser preoccupato per la situazione in Oriente e di ritenere la questione degli Stretti la più importante fra tutte.

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Contrariamente alle informazioni dell’ambasciatore de Saint Vallier sulla contrarietà della Russia al Congresso, Waddington comunicava allo stesso di avere appreso dal principe Orloff, ambasciatore russo a Parigi, la disponibilità del cancelliere russo Gorciakoff a partecipare ad un Congresso, “dans lequel il jouerait un rôle important et nous ne pouvons pas nous en étonner, puisque ce Congrés serait appelé à défaire en grande partie l’oeuvre de celui de Paris”. Prendeva atto di quella comunicazione l’ambasciatore de Saint Vallier telegrafando al Ministro il consenso tedesco al Congresso, se Austria, Inghilterra e  Russia fossero pure state d’accordo.

L’Austria accordava a sua volta il consenso a tenere il Congresso con un passo ufficiale del suo ambasciatore a Berlino, conte Karolyi, latore di un invito al governo tedesco per una Conferenza da tenersi al più presto a Vienna. L’ambasciatore britannico a Berlino, sir Odo Russel, comunicava che de Saint Vallier da parte sua si diceva convinto dell’accettazione di Vienna come sede del Congresso, cui  il governo austriaco teneva molto.

Fu pronta l’adesione della Francia, mentre l’ambasciatore russo Orloff faceva presente la preferenza di Gorciakoff per una sede meno caratterizzata politicamente di Vienna, come Ginevra o Losanna. Se la scelta fosse caduta su una di queste città, il cancelliere russo avrebbe probabilmente partecipato di persona al Congresso, disposto anche a presiederlo. Sulla preferenza di Gorciakoff per una sede diversa da Vienna si dichiarò d’accordo il ministro tedesco degli Esteri, von Bulow, per non scontentare il governo russo da cui sarebbe dipeso in gran parte il successo del Congresso.168

Ma le indecisioni non riguardavano soltanto la sede, esisteva pure incertezza sul tipo di iniziativa da prendere: doveva trattarsi di una Conferenza o di un più impegnativo Congresso? Pesava inoltre la riserva inglese sull’opportunità dell’iniziativa, si trattasse di Conferenza o Congresso. Londra infatti era allarmata non solo per le novità introdotte con il trattato di Santo Stefano per cui era alterato l’equilibrio politico in Oriente, ma anche per i movimenti delle truppe russe di occupazione in Turchia. Lord Derby, titolare del Foreign Office, il 13 febbraio 1878 comunicò all’ambasciatore Schuvaloff che l’eventuale occupazione russa di Gallipoli sarebbe stata considerata

una minaccia per la flotta britannica nel mar Egeo e l’Inghilterra si sarebbe quindi opposta. Schuvaloff si trincerò dietro l’attesa di comunicazioni da parte del suo governo; le comunicazioni, dal contenuto rassicurante circa i propositi russi, arrivarono celermente il 18 febbraio ed il 19 lord Derby ne prese atto con soddisfazione.

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L’Inghilterra nel frattempo non era rimasta inattiva ed aveva mostrato i muscoli facendo spostare nei Dardanelli le sue navi dalla base di Besida in Anatolia;  la mossa inglese destò grande emozione a San Pietroburgo non meno che a Londra e l’ambasciatore francese presso lo zar, generale Le Flò, affermò la necessità di una Conferenza per salvare la pace, anche se in linea di massima non era favorevole alle conferenze.168bis

Divenne determinante a questo punto il ruolo della Germania; Bismarck  intervenne per mediare, preoccupato della possibile caduta del governo austriaco; Andrassy infatti si trovava in serie difficoltàpar la conduite hautaine et les prétentions leonines du Cabinet de Petersburg”. Il cancelliere tedesco voleva quindi richiamare Gorciakoff alla moderazione e trovava particolarmente preoccupante la formazione di uno Stato bulgaro tanto esteso, predestinato a divenire un satellite della Russia; un analogo appello personale del kaiser allo zar perché non abusasse della vittoria sarebbe stato sollecitato dallo stesso Bismarck. Il cancelliere tedesco voleva vedere soddisfatte le richieste russe; non gli dispiacevano del tutto le difficoltà di Andrassy, ma voleva comunque impedirne la caduta, sia per la docilità sempre dimostratagli dal cancelliere austriaco, sia perché una crisi del governo austriaco poteva compromettere “l’alleanza dei tre imperatori”, la cui conservazione era ai suoi occhi l’obiettivo fondamentale.

Bismarck inoltre diffidava delle reali intenzioni di Gorciakoff e dubitava della sua volontà di tenere la Conferenza: le difficoltà da lui fatte per la scelta della sede e della data in cui organizzarlo, le esitazioni sull’opportunità di organizzare una Conferenza o un Congresso erano agli occhi di Bismarck pretesti per sabotare la Conferenza ovvero convocarlalorsquon aura reglé les questions essentielles dans un tête-à-tête commune avec la Turquie et quon n’aura plus qu’une formalité d’enregistrement à proposer à l’Europe”.

La Conferenza sarebbe stata così ridotta ad un atto notarile, ad una semplice presa d’atto da parte dell’Europa  delle decisioni già prese da Russia e Turchia.

Notava pure Bismarck come la vittoria non avesse in definitiva aumentato l’influenza russa in Oriente; prima della guerra i Principati Danubiani avevano cercato l’appoggio russo contro la Turchia e Ignatieff aveva controllato tutti gli Slavi cristiani nei Balcani; appena conclusa la guerra, erano sorte difficoltà per la Russia con la Romania e con la Serbia.

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I sospetti del diffidente Bismarck  furono poi fugati dal venir meno delle riserve opposte dall’Austria e dalla Russia, decise alla fine a far svolgere a Berlino il Congresso, presieduto dal cancelliere tedesco, secondo la consolidata tradizione di affidare la presidenza di un incontro internazionale al capo del governo del paese ospitante.

Anche la Francia aveva accettato di partecipare al Congresso, ponendo però una precisa condizione, come Waddington dichiarava in una circolare agli ambasciatori francesi accreditati nelle più importanti capitali: il Congresso doveva trattare soltanto i problemi nati dalla guerra russo-turca. Questa posizione francese era stata esposta direttamente all’ambasciatore austriaco a Parigi, citando come esempio l’esclusione dell’Egitto dall’agenda dei lavori; nella circolare inviata agli ambasciatori francesi Waddington  dichiarava che anche la Siria ed i Luoghi Santi dovevano essere esclusi dalle discussioni congressuali.

Questa posizione francese preoccupò il governo tedesco, ma de Saint Vallier rassicurò von Bulow affermando non trattarsi di un pretesto per sabotare il Congresso.

Non erano però finite le difficoltà: concordate la sede e la data, deciso doversi trattare di un Congresso e non di una Conferenza, restava ancora da sciogliere un nodo: chi avrebbe avuto diritto di partecipare al Congresso? Il vice ministro degli Esteri russo, De Giers, respinse subito la proposta inglese di ammettere la partecipazione della Grecia perché non esistevano precedenti in merito. In realtà il governo russo bocciò la proposta inglese perché temeva analoghe richieste da parte della Serbia e della Romania; quest’ultima avrebbe sicuramente approfittato della sua partecipazione al Congresso per sollevare la questione della Bessarabia.

Il tentativo inglese di far partecipare la Grecia dispiacque alla Germania; il kaiser si mostrava preoccupato per un probabile fallimento del Congresso, accusando il governo di Londra di esserne responsabile con la sua inopportuna richiesta; ne pagò le spese l’ambasciatore inglese a Berlino, sir Odo Russel, che venne circondato da una freddezza generale.

Ma questa ostilità non impedì un grave passo da parte del nuovo ministro degli Esteri britannico, lord Salisbury, succeduto a lord Derby, dimessosi perché contrario all’invio di truppe indiane a Malta, pronte ad intervenire in caso di un conflitto con la Russia.

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La nomina del nuovo responsabile del Foreign Office fu salutata con favore, in quanto ritenuto più energico del suo predecessore. 169

E di questa sua energia lord Salisbury diede subito una prova eloquente, inviando al governo russo il aprile 1878 una nota che suonò quasi come uno squillo di guerra. Il ministro inglese esprimeva serie preoccupazioni per le conseguenze del Trattato di Santo Stefano, grazie al quale era cresciuta a dismisura l’influenza russa in Oriente. Principale motivo di preoccupazione per lord Salisbury era la creazione di uno Stato bulgaro esteso fino al Mar Nero e con uno sbocco pure sul Mare Egeo, includendovi anche territori con popolazione in maggioranza di nazionalità greca o di religione musulmana. La Bulgaria -prevedeva il ministro inglese -sarebbe divenuta uno strumento del governo russo, la cui posizione in Oriente risultava poi ulteriormente rafforzata dall’acquisto del porto di Batum nel Mar Nero, dalla cessione della Bessarabia imposta alla Romania, dalle posizioni ottenute in Armenia; anche l’Epiro e la Tessaglia per cui con il Trattato di Santo Stefano era stato richiesto un regolamento organico analogo a quello redatto per Creta nel 1868, sembravano destinati a rientrare nella sfera di influenza russa.

Ed infine la nota britannica formulava riserve sull’entità dell’indennizzo richiesto alla Turchia, giudicandolo  eccessivo.169bis

Non si fece attendere molto la replica russa: il 9 aprile (28 marzo secondo il calendario giuliano) Gorciakoff rispose alla nota britannica, riservando particolare attenzione al problema della Bulgaria, principale motivo di preoccupazione per il governo di Londra.170

Il cancelliere russo sosteneva non trattarsi di uno Stato creato ex novo; la Bulgaria non era una creazione artificiale russa, la Conferenza di Costantinopoli ne aveva già prevista la formazione, seppure divisa in due province: soluzione ormai superata dopo l’esito vittorioso della guerra contro la Turchia. In ogni caso, aggiungeva Gorciakoff con tono conciliante, il Trattato di Santo Stefano non risolveva definitivamente la questione, ma fissava soltanto dei principi; né la Bulgaria poteva ritenersi un satellite della Russia, trattandosi di un’operazione analoga a quella compiuta per la Moldavia e la Valacchia nel 1830;  per rassicurare lord Salisbury Gorciakoff specificava: “… si la Moldo-Valachie, qui doit son existence à la Russie et qui lui est  limitrophe, a su se rendre parfaitement indépendante d’elle, à plus forte raison doit-on compter sur le même résultat pour la Bulgarie,  dont le territoire sera séparé de la Russie dans l’événtualité prevue d’une cession de la Dobrudje à la Roumanie”.

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Era questo un accenno astuto per convincere lord Salisbury della convenienza dello scambio Bessarabia-Dobrugia, eliminando così una continuità territoriale fra Russia e Bulgaria che avrebbe aumentato le preoccupazioni inglesi; ma ancora una volta il governo russo ipotecava il futuro, anticipando una situazione ancora da definire quale era lo scambio Bessarabia-Dobrugia, usando lo stesso procedimento adottato nell’articolo 19 del Trattato di Santo Stefano.

Ulteriori rassicurazioni erano date da Gorciakoff affermando la possibilità di un ritiro delle truppe russe rimaste in Bulgaria ancor prima del termine di due anni indicato nell’articolo 8 del Trattato di Santo Stefano; veniva pure garantito il rispetto delle minoranze inglobate nel territorio dello Stato bulgaro, cui già la Conferenza di Costantinopoli aveva assicurato il possesso di porti sul Mar Nero; ed in quanto ai porti sull’Egeo previsti per la Bulgaria dal Trattato di Santo Stefano essi avrebbero garantito uno sviluppo commerciale di cui l’Inghilterra avrebbe beneficiato ancor più della Russia.

Il sovrano della Bulgaria non sarebbe stato una creatura della Russia; non l’avrebbe infatti scelto il governo dello zar, ma sarebbe stato liberamente eletto dai consigli amministrativi del Principato, confermato dalla Porta e sottoposto al gradimento dell’Europa. Il compito di definire l’organizzazione amministrativa dello Stato era affidato ad un’assemblea di notabili, che l’avrebbero svolto senza ingerenza della Russia: al commissario russo come a quello turco, previsti dal Trattato di Santo Stefano, sarebbe spettata solo una funzione di controllo sulla regolarità dei lavori.

Si dichiarava poi stupito Gorciakoff per l’accusa di un’ingerenza russa in Epiro e Tessaglia: la Russia si era limitata a chiedere alla Porta migliori istituzioni per quelle regioni, modellate sul regolamento organico per Creta, disposto dalla Turchia nel 1868 sulla base di suggerimenti europei; se la Russia non avesse avanzato quella richiesta sarebbe stata accusata di occuparsi solo degli Slavi, ignorando le esigenze dei Greci.

La richiesta della Bessarabia era giustificata, in quanto “la retrocession de la Bessarabie roumaine ne serait qu’un retour à un ordre de choses modifié, il y a 22 ans, pour des motifs qui n’ont plus ni raison d’être, ni titre légal, ni même de pretexte, depuis que la liberté de navigation du Danube a été placée sous le contrôle et la garantie d’une commission internationale, et surtout du moment la Roumanie proclame son indépendance, et l’Europe semble se disposer à la reconnaître”.171

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Inoltre non era richiesta la cessione dell’intera zona della Bessarabia ceduta nel 1856 alla Romania, cui in compenso sarebbe andato pure il delta danubiano.

Era poi minimizzata l’importanza delle posizioni in Armenia, da giovare solo a scopi difensivi.

Ed ancora l’indennità chiesta alla Turchia, lungi dall’essere eccessiva, non compensava adeguatamente i danni subiti dalla Russia e non ne era stato richiesto il pagamento immediato per non danneggiare i creditori della Turchia, fra i quali si trovava l’Inghilterra stessa.

Ed infine non si poteva imputare al Trattato di Santo Stefano la violazione del Trattato di Parigi del 1856, già non rispettato in più occasioni e da più parti: la Turchia difatti non aveva mantenuto l’impegno per la tutela dei suoi sudditi cristiani; la Moldavia e la Valacchia si erano unite in un  solo Stato, pur essendo previsti due Stati distinti e separati; la Francia aveva occupato la Siria; la Conferenza di Costantinopoli era stata un’ingerenza negli affari interni della Turchia, contraria alle indicazioni del 1856; la stoccata finale era riservata a Londra, accusata di aver commesso un arbitrio inviando la sua flotta negli Stretti.

Il tono complessivo della nota russa non era meno duro di quello della nota  inglese, anche se a tratti Gorciakoff aveva cercato di smorzare la polemica dando assicurazioni al governo britannico.

La pace dell’Europa sembrava quindi a rischio, apparendo probabile uno scontro fra l’impero inglese e quello russo. Su questa eventualità faceva affidamento Bratianu, confidando nel potente appoggio dell’Inghilterra, se questa avesse fatto guerra alla Russia, per non esser costretto a cedere la Bessarabia; a fine marzo 1878 inoltre il ministro romeno si era recato a Vienna e Berlino per sollecitare ancora una volta l’aiuto di quei governi contro la Russia.

Ma a Vienna si recò pure Ignatieff e l’ambasciatore russo a Londra, Schuvaloff, si attivò per una soluzione pacifica del contrasto. Fu così raggiunto un accordo di compromesso, sancito dal memorandum firmato a Londra il 30 maggio 1878 da lord  Salisbury e da Schuvaloff. Gli altri governi e l’opinione pubblica europea conobbero quell’importante documento non attraverso atti ufficiali, ma grazie ad un’indiscrezione giornalistica, probabilmente favorita dallo stesso governo britannico, venendo il memorandum  pubblicato dal giornale ingleseThe Globe”.172

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Secondo quanto riportava  “Il Diritto” del 22 giugno 1878 (“Il memorandum del Globearticolo non firmato),un autorevole organo di stampa vicino agli ambienti ufficiali inglesi, l’ “Evening Standard”, aveva confermato l’autenticità del testo pubblicato da “ The Globe”; “Il Dirittodeplorava lo scarso appoggio dato da Londra alla Romania per la Bessarabia, affermando in tono perentorio: “La  giustizia chiede imperiosamente all’Inghilterra la sua protezione per la Romania”.

L’autenticità del documento apparso su “The Globeera invece negata in parte dal viceministro degli Esteri russo De Giers, in una conversazione avuta all’inizio del giugno 1878 con l’ambasciatore italiano Costantino Nigra; su quel testo il governo di Pietroburgo non avrebbe rilasciato dichiarazioni ufficiali per non creare nuove difficoltà con gli altri governi, la cui libertà d’azione in seno al Congresso non sarebbe stata comunque limitata dal memorandum anglo-russo, secondo quanto affermava De Giers. Se le difficoltà tra Russia ed Inghilterra sembravano appianarsi, in cambio ne permanevano altre con la Turchia, derivanti da rifiuto della Porta di sgomberare Varna e Schumla, per cui il comando russo non era disposto a fare arretrare le proprie truppe lasciando alle sue spalle le due fortezze in mano turca.

Ma, tutto sommato, De Giers si mostrava ottimista, confidando a Nigra l’esistenza di negoziati sotto l’auspicio della Germania per un ritiro simultaneo della flotta inglese dai Dardanelli e dell’esercito russo dai dintorni di Costantinopoli; pertanto, concludeva il vice ministro russo, alla fine, nonostante tutto, il Congresso si sarebbe tenuto.

L’ottimismo di De Giers era fondato: già da alcuni giorni, infatti come de Saint Vallier telegrafava da Berlino a Waddington il 25 maggio, il governo tedesco stava preparando gli inviti ufficiali per il Congresso; prima di inviarli von Bulow aveva chiesto il consenso francese per la formula adottata, su cui Austria e Russia avevano espresso parere favorevole. L’ambasciatore francese trasmise quindi il testo dell’invito, in cui era indicato l’argomento del Congresso, la discussione sul Trattato di Santo Stefano, con questa importante precisazione: “Le Gouvernement de Sa Majesté en faisant cette invitation au Gouvernemententend que, en l’acceptant, le Gouvernementconsent à admettre et à parteciper a la libre discussion de la totalité du contenu du Traité de San Stefano”.

La data proposta per l’inizio del Congresso era l’11 giugno 1878.172bis

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In un primo momento la Russia aveva rifiutato di sottoporre l’intero trattato di Santo Stefano all’esame delle Potenze, per evitare che fossero compromessi gli importanti risultati da essa raggiunti. L’invito rivolto dalla Germania ai governi europei aveva quindi l’apparenza di una sconfitta diplomatica per il governo di San Pietroburgo con quella precisazione che in seno al Congresso si sarebbe discusso liberamente tutto il trattato; ma ormai con l’accordo anglo-russo del 30 maggio 1878 i nodi più importanti erano stati sciolti. Si erano rivisti i confini della Bulgaria, riducendo molto il suo territorio; la Russia aveva cercato di salvare la faccia con la riserva di riesaminare la questione in seno al futuro Congresso, ma aveva dichiarato di non opporsi alla posizione che l’Inghilterra avrebbe assunto in via definitiva ed erano stati sottratti alla Bulgaria i porti sul mar Egeo ed i  territori popolati da altre etnie.

Il principato di Bulgaria politicamente autonomo era stato limitato alla zona posta a nord dei Balcani; la parte a sud avrebbe avuto soltanto un’autonomia amministrativa, prendendo il nome di Rumelia.

Era stato mantenuto il divieto di guarnigioni turche stabili sul territorio bulgaro, ma la Russia non si sarebbe opposta ad un’eventuale decisione del Congresso favorevole ad un intervento turco in caso di una rivolta o di un’invasione della Bulgaria; l’Inghilterra inoltre si era riservata di chiedere al Congresso di autorizzare lo schieramento di forze turche ai confini con la Bulgaria.

Infine, l’indennità di guerra richiesta dalla Russia alla Turchia non avrebbe dovuto compromettere i crediti vantati dall’Inghilterra.

Fin qui l’accordo era sbilanciato a favore dell’Inghilterra; ma la Russia si rifaceva a spese della Romania, poiché l’articolo 11 così recitava:

“Le gouvernement de Sa Majesté Britannique croirait devoir constater son profond regret pour le cas la Russie insisterait définitivement sur la rétrocession de la Bessarabie. Comme il est cependant suffisament établi que les autres Signataires du Traité de Paris ne sont pas prêts à soutenir par les armes la délimitation de la Roumanie, stipulée dans ce Traité, l’Angleterre ne se trouve pas assez immédiatement interessée dans cette question pour quelle soit autorisée à encourir seule la responsabilité de s’opposer au changement proposé, et ainsi elle s’engage à ne pas contester la decision en ce sens”.173

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I giri di frase, le affettate espressioni di rincrescimento, i verbi al condizionale non bastavano a nascondere la cruda verità: il governo inglese lasciava libertà d’azione a quello russo ed abbandonava la Romania alla sua sorte. Non c’era quindi più nulla da fare per conservare la Bessarabia, ma gli interessi inglesi erano stati magistralmente garantiti; non era stato da meno Bismarck, prendendo posizione a favore della Russia ancor prima del duello Salisbury-Gorciakoff, all’inizio del marzo 1878, avendo come primo obiettivo mantenere buoni rapporti con il governo dello zar. 174

Anche l’Austria aveva voltato le spalle alla Romania, venuta a trovarsi in un completo isolamento politico, nonostante il tentativo compiuto da Bratianu con il suo viaggio a Vienna e Berlino tra la fine del marzo e l’inizio dell’aprile 1878.175

A Vienna  Bratianu aveva inutilmente ricordato come nel 1856 fosse stata l’Austria a proporre la cessione alla Moldavia di una parte della Bessarabia, per tenere la Russia lontana dal Danubio.

A Berlino  il ministro romeno aveva fatto leva sulla teoria del Danubio fiume tedesco ed aveva tentato di stabilire “une sorte de solidarité entre les intérêts du Souverain de la Roumanie et ceux de la dynastie des Hohenzollern”:  fallì anche questa missione e Bismark anziché dare ascolto a Bratianu, lo rimproverò per la sua opposizione alle richieste russe.176

Ancora più duro si dimostrò Gorciakoff; secondo quanto riferito da Kogalniceanu a Fava,  il politico russo minacciò all’agente diplomatico romeno, Jon Ghika, di occupare la Bessarabia dopo aver disarmato l’esercito romeno, se Bucarest non avesse smesso la sua opposizione. Carlo replicò fieramente che il valoroso esercito di Plevna poteva essere distrutto, ma non disarmato. Lo zar corse ai ripari inviando un telegramma a Carlo per attestargli la sua simpatia, ma allo stesso tempo deplorava la resistenza del governo romeno alle richieste russe per la Bessarabia.177

I tentativi di Kogalniceanu per ottenere solidarietà si rivolsero anche all’Italia; il ministro inviò il 28 marzo 1878 una nota all’agente diplomatico di Romania a Roma, chiedendogli di sollecitare il governo italiano a sostenere il diritto di Bucarest a partecipare al Congresso, anche se l’indipendenza romena non era stata ancora riconosciuta.

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Kogalniceanu precisava che la partecipazione della Romania si sarebbe limitata alle questioni di suo interesse, quali la cessione della Bessarabia ed il transito sul suo territorio delle truppe russe di ritorno dalla Bulgaria, il pagamento da parte turca dell’indennità di guerra per cui sarebbero potute valere da pegno le fortezze turche sul Danubio, assegnandole alla Romania piuttosto che alla Bulgaria. Faceva presente Kogalniceanu che il passaggio delle truppe russe doveva essere regolato da un accordo bilaterale tra Russia e Romania e non con un articolo del trattato di Santo Stefano, alla cui stipula il governo romeno non aveva partecipato.

In quanto alla cessione della Bessarabia era una questione di interesse europeo e non solo romeno, poiché quel territorio era stato assegnato alla Moldavia con un trattato internazionale, il Trattato di Parigi del 1856;  per modificarne le disposizioni occorreva quindi l’intervento di tutte le Potenze firmatarie di quel trattato.

E l’indipendenza della Romania, anche se non ancora riconosciuta dai governi europei, esisteva da secoli essendo basata sulle antiche capitolazioni della Moldavia e della Valacchia con la Porta, confermate dal Trattato e dalla Convenzione di Parigi.178

Erano poi assidue le proteste inviate alla Russia da Bratianu: una sua nota del 5 aprile 1878 lamentava l’esclusione del governo romeno dalle trattative conclusesi con il Trattato di Santo Stefano ed accusava la Russia di ingratitudine verso la Romania: alla Serbia ed al Montenegro erano stati assegnati territori ed era stato precisato l’ammontare dell’indennità di guerra ad essi dovuta dalla Turchia, mentre la Romania avrebbe dovuto condurre da sola le difficili trattative con la Porta.

La protesta di Kogalniceanu si concludeva negando la validità per la Romania del Trattato di Santo Stefano, “…qui a été conclu sans nous, contre nous et à notre détriment…” e contro il quale la Romania si sarebbe appellata alle Potenze garanti.

A pochi giorni di distanza, il 17 aprile, Kogalniceanu inviò una seconda nota di protesta alla Russia, trasmettendone copia per conoscenza all’agente diplomatico in Italia, perché con l’acquisto della Bessarabia il governo russo avrebbe controllato entrambe le rive del Danubio, compromettendo la libertà di navigazione.179

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Nonostante le proteste il governo romeno si rassegnò al nuovo passaggio delle truppe russe sul suo territorio, deciso dalla Russia senza neanche consultare Bucarest; il 13 aprile 1878 Bratianu, nella sua duplice veste di presidente del Consiglio e di ministro dell’Interno, inviò una circolare ai prefetti ricordando l’obbligo per le autorità locali di prestare assistenza per il transito delle forze russe, essendo tuttora in vigore e quindi applicabile la convenzione del 16 aprile 1877 per il trasferimento attraverso il territorio romeno dell’esercito zarista diretto al fronte di guerra in Bulgaria.180

Il governo italiano accolse con indifferenza le note di Kogalniceanu; nel suo dispaccio a Fava del 6 aprile il Ministro degli Esteri Corti accusava ricevuta della nota romena del 28 marzo 1878, affermando di non avere avuto occasione “… di enunciare osservazione alcuna circa il merito delle questioni…”.

Il segretario generale del Ministero degli Esteri, Tornielli, ripeteva la stessa affermazione nel suo dispaccio a Fava  del 20 maggio 1878; comunicava di aver ricevuto la nota di Kogalniceanu dell’11 aprile con allegata copia della protesta inviata il 5 aprile a San Pietroburgo e la successiva nota del ministro romeno in data 17 aprile, dichiarando: “… non ebbi occasione di fare osservazione alcuna quando il signor Obedenare mi rimetteva quei tre documenti…”.181

Ma all’indifferenza ostentata con il diplomatico romeno per sottrarsi alle sue pressanti richieste corrispondeva però la maggiore disponibilità a riconoscere le ragioni della Romania manifestata nelle comunicazioni del governo italiano ai suoi rappresentanti all’Estero.

Il 24 febbraio 1878 infatti Depretis, presidente del Consiglio e ministro degli Esteri, aveva inviato un telegramma circolare all’ambasciatore a Vienna ed agli incaricati di affari a Berlino, Londra e Parigi, incaricandoli di sondare le posizioni di quei governi circa il riconoscimento dell’indipendenza della Romania e la sua partecipazione al Congresso. Le richieste in tal senso avanzate dalla Romania erano da Depretis ritenute legittime dopo le prove di valore da essa fornite nel corso della guerra; scriveva il ministro: “…la Roumanie a tenu bravement sa place sur les champs de bataille et elle peut prétendre à la reconnaissance de son  indépendance…”.

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L’ambasciatore di Robilant rispose a Depretis di aver avuto la sensazione di una certa disponibilità austriaca nel corso di un colloquio con un diplomatico, il barone Orczy, mantenendosi comunque piuttosto riservato.

Alla sensazione dell’ambasciatore italiano non corrisposte però un appoggio di Vienna alla Romania nel corso del Congresso.

Molto più drastico si dimostrò de Launay; rientrato a Berlino, inviò a Depretis un rapporto in cui faceva sue le ragioni della Russia, poiché la richiesta della Bessarabia non era un attentato all’integrità territoriale romena; il trattato del 1856 riconosceva l’esistenza della Moldavia e della Valacchia, non della Romania, formatasi dall’unione delle due regioni in violazione di quel trattato. Inoltre, il governo russo non aveva mai fatto un mistero delle sue mire sulla Bessarabia, pertanto non poteva riferirsi a questa la garanzia dell’integrità territoriale romena assicurata dalla convenzione del 16 aprile 1877, rivolta soltanto a difendere la Romania da attacchi e rivendicazioni territoriali della Turchia.

Più confortanti  per la Romania erano le notizie da Londra: all’ambasciatore Menabrea Lord Derby aveva detto di considerare ormai un fatto compiuto l’indipendenza romena, ma di non volerla però riconoscere prima del Congresso.

Ed anche il governo di Parigi, secondo quanto l’incaricato d’affari Ressman comunicava, non intendeva per il momento riconoscere l’indipendenza della Romania, su cui doveva essere il Congresso a pronunciarsi; Waddington però riteneva opportuno far partecipare al Congresso i delegati Rumeni e greci per sostenere le ragioni dei loro paesi.182

Le intemperanze verbali e l’intransigenza dei politici Rumeni non giovavano però alla loro causa; il cancelliere austriaco Andrassy aveva riconosciuto le loro ragioni all’inizio della controversia tra Bucarest e San Pietroburgo per il trattato di Santo Stefano; ma trovò poi esagerato voler negare il passaggio alle truppe russe di ritorno in patria dalla Bulgaria, affermando: “…les Roumains me semblent vouloir se faire violer et bien, si ça leur arrivera, ce sera parce quils l’auront voulu…”.183

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La necessaria prudenza diplomatica induceva il governo italiano a smorzare i toni nell’esprimere ufficialmente la sua simpatia per la Romania; una maggiore libertà e chiarezza di linguaggio era propria invece dei pubblicisti e commentatori politici dell’epoca.

Enrico Croce, che a Bucarest diresse il giornale “La Voce d’Italia” ed a Milano “La Lombardia”, ricordava nel saggio “La Romania davanti all’Europa” il tardivo riconoscimento da parte delle Potenze europee dell’importanza della Romania come bastione contro l’espansionismo russo; nel 1856 a Parigi c’era stata una soluzione parziale ricongiungendo alla Moldavia la parte meridionale della Bessarabia. Secondo Croce si sarebbe invece dovuto attribuire alla Moldavia l’intera Bessarabia, fino al Dniester, compiendo così un atto di riparazione poiché la Russia, con l’annessione di quel territorio grazie al trattato di Ackermaun imposto alla Turchia nel 1812, aveva mutilato il principato di circa il 50% del suo territorio.

La Romania, ricostituita in modo incompleto con il Trattato di Parigi, era rimasta soggetta ad un’ambigua dipendenza dalla Porta, dopo essere stata spogliata nel corso della storia di molti territori popolati da Romeni.

L’Austria si era impadronita della Transilvania nel 1699 con il Trattato di Carlowitz; nel 1718 aveva avuto il Banato con il Trattato di Passarowitz e nel 1775 la Bucovina con il Trattato di Sistov.

Per affermare il suo dominio in quei territori il governo austriaco aveva alterato la toponomastica esistente, per cui Braşov  era divenuta Kronstadt, Sibiu Hermanstadt, Timişoara Temesvar,  Chisinau Kisineu.

Allo stesso modo in Italia Bressanone era stata ribattezzata Brixen e Bolzano Bozen.

Non soltanto dall’Austria i Romeni si erano sempre dovuti guardare: nel 1848 gli Ungheresi avevano fatto strage dei Valacchi della Transilvania e del Banato, pur essendo loro interesse di intendersi con i Romeni contro Slavi e Tedeschi; i Romeni della Macedonia, dell’Epiro, della Tessaglia, dell’Albania, della Tracia contavano fra i loro nemici non solo i Turchi, ma anche il clero greco, ostile all’uso della lingua romena nella liturgia.

Per contro Italia e Romania erano legate da forti affinità storiche, derivanti non soltanto dalla comune origine latina, ma anche dall’avversione all’Austria, di cui entrambi avevano sofferto la dispotica dominazione.184

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Edoardo Gioia, autore della “Lettera a Minghetti” del 1875 con cui aveva sostenuto l’opportunità di stipulare un accordo commerciale con la Romania, tornò ad occuparsi di quel paese a lui tanto caro pubblicando nel 1878 un’altra lettera aperta a Benedetto Cairoli sulla questione d’Oriente e l’imminente Congresso per la pace.

Gioia ricordava la neutralità della Romania durante la guerra mossa alla Turchia da Serbia e Montenegro, “nonostante l’ansiosa aspettazione dei Cristiani della Turchia e le sollecitazioni di Belgrado”, ascoltando i “pressanti suggerimenti delle Potenze garanti”. Il prudente comportamento romeno aveva fatto credere che, qualunque fosse stato l’esito della guerra, la Romania avrebbe potuto “con grande probabilità di buon successo, presentarsi come creditrice e reclamare quanto… dovuto ai suoi sacrifici, alla sua moderazione ed alla sua deferenza ai voti delle grandi Potenze”.

Speranze poi deluse; allo stesso modo era stata prima disattesa la richiesta di garantire la neutralità romena, respinta da lord Salisbury alla Conferenza di Costantinopoli perché quella garanzia avrebbe modificato il Trattato di Parigi. Ed inoltre, secondo il politico inglese, una  nuova garanzia concessa nel 1876 non avrebbe avuto efficacia maggiore di quella accordata nel 1856. L’unica garanzia effettiva sarebbe stata considerare un “casus belli” la violazione della neutralità romena: ma le Potenze sia nel 1856 che nel 1876 non volevano esser coinvolte in una guerra per tutelare la Romania. Questo paese, aveva affermato lord Salisbury, per sua disgrazia era la via d’accesso più diretta per un attacco russo alla Turchia e quindi le ragioni dei militari sarebbero sempre prevalse su qualsiasi impegno preso con un trattato.

La sola possibilità per la Romania era contare su una propria forza in grado di funzionare da deterrente per chi non avesse rispettato la sua neutralità. Nel 1853 l’occupazione russa della Moldavia e della Valacchia era stata il motivo scatenante la guerra, ma nel 1877 nessuno reagì quando i Russi varcarono il Pruth.

I Rumeni avevano motivo di dolersi del  disinteresse dell’Europa, oltre che  degli articoli 1 e 7 della Costituzione turca del dicembre 1876, secondo i quali i Principati di Moldavia e  Valacchia altro non erano che province dell’impero ottomano, venendo così Carlo assimilato ad un pascià governatore di una provincia.

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Nel suo appello alle Potenze del 22 aprile 1877 Kogalniceanu aveva fatto presente lo stato di necessità in cui si trovava la Romania, rimasta neutrale finché era stato possibile ma costretta alla fine a consentire il passaggio dei russi. In un primo momento non c’era stata un’alleanza formale con la Russia ed una partecipazione attiva alla guerra; ma in seguito l’andamento negativo della guerra aveva spinto il governo russo a chiedere il contributo militare romeno, prima orgogliosamente rifiutato. La generosa partecipazione romena alla guerra non aveva però impedito cocenti delusioni, l’esclusione del governo di Bucarest dalle trattative di pace con la Turchia e la pressante richiesta russa di procedere ad uno scambio tra Bessarabia e Dobrugia.

La Romania nel corso della sua storia aveva sempre saputo superare i momenti difficili: nel 1857 era stata richiesta l’indipendenza e l’unità di Moldavia Valacchia, attuate nel 1859 con la duplice elezione di Cuza; nel 1866 il paese era stato unito nella scelta di Carlo come sovrano dei Principati, nonostante l’ostilità di alcune Potenze. E così nel 1878 tutti i Romeni si opponevano alla cessione della Bessarabia e disconoscevano il Trattato di Santo Stefano, stipulato dalla Russia alle loro spalle, lamentando pure il carattereplatonico” dell’indennità di guerra che la Turchia avrebbe dovuto pagare, senza però che il trattato prevedesse sanzioni in caso di mancato pagamento.

Gioia analizzava poi le critiche britanniche al trattato russo-turco di Santo Stefano, fonte di preoccupazioni anche per il cancelliere austriaco Andrassy poiché era profondamente alterato l’equilibrio politico in Oriente con la creazione dello Stato bulgaro e veniva pure messa a rischio la libertà di navigazione sul Danubio; anche la Francia nutriva preoccupazioni per tali notizie e, desiderosa di mantenere la pace, aveva aderito alla proposta di Bismarck di risolvere i problemi con un Congresso, esigendo però che in quella sede non si trattasse del Libano, dell’Egitto e dei Luoghi Santi.

Era prevista la partecipazione al Congresso dei governi firmatari del Trattato di Parigi, ma Gioia sosteneva il diritto della Grecia, del Montenegro, della Serbia e della Romania a parteciparvi, poiché si sarebbero trattati argomenti di loro interesse. Inoltre Gioia proponeva l’estensione dell’invito alle comunità ebraiche e cristiane dell’Oriente, poiché, oltre alle questioni territoriali, dovevano essere pure definiti i diritti delle minoranze etniche e religiose.

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Codesta domanda-riconosceva l’autore -può sembrare un’innovazione; ma dessa è nella tendenza dell’epoca nostra… fu considerata difatti un progresso la decisione di consultare le popolazioni di Moldavia e Valacchia presa nel 1856: sarebbe un nuovo progresso l’ammettere oggi i rappresentanti degli interessati a discutere le loro proprie questioni dinanzi al Congresso”.

Riteneva Gioia una follia  il proposito romeno di opporsi anche con le armi alla cessione della Bessarabia; affrontare da soli il colosso russo non offriva alcuna possibilità di successo e-osservava realisticamente l’autore-“… il suicidio non è permesso ad un popolo più di quello che non lo sia ad un individuo”.

Per Gioia  Napoleone III aveva sbagliato nel 1856 a non insistere perché l’intera Bessarabia, fino al Dniester,  fosse ceduta alla Moldavia dalla Russia; e nel 1878 i governi europei non dovevano ripetere un errore ed una ingiustizia accogliendo le pretese russe sulla Bessarabia.

Sarebbe stato pure ingiusto dare in cambio della Bessarabia alla Romania la Dobrugia, su cui la Bulgaria poteva vantare dei diritti essendo quella regione abitata da numerosi Bulgari.

Era invece un atto di  giustizia assegnare alla Romania le Bocche del Danubio, date ad essa nel 1856 e subito passate alla Turchia con il trattato del gennaio 1857.

Veniva infine trattata ampiamente da Gioia la condizione degli Israeliti in Oriente, spesso discriminati per la gelosia dei commercianti desiderosi di sbarazzarsi della loro scomoda concorrenza.

In Serbia si erano alternati periodi di tolleranza e altri in cui invece gli Ebrei erano stati perseguitati. In Moldavia e Valacchia, prima della loro unificazione, si era distinto fra Ebrei indigeni, nati in quei Principati e da tempo residenti, e quelli stranieri, immigrati  da recente.

Invece dopo l’unificazione tutti gli Ebrei furono considerati stranieri, con una decisione ritenuta illogica da Gioia. Doveva quindi essere sancita nella Costituzione della Romania come in quelle degli altri Stati la parità dei diritti senza alcuna discriminazione religiosa: porre fine all’antisemitismo avrebbe procurato alla Romania molte simpatie, preziose per opporsi alle pretese russe sulla Bessarabia.

In diverse occasioni il governo romeno aveva promesso di risolvere di propria iniziativa la questione ebraica: il Congresso era l’occasione buona per mantenere quella promessa.

Dimostrando accortezza politica i Bulgari avevano inviato ai governi europei una memoria per dimostrare l’inesistenza dell’antisemitismo nel loro paese.

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Il Congresso doveva stabilire norme precise, ad evitare che i principi di libertà ed uguaglianza restassero inapplicati. A ragione-affermava l’autore-si erano mobilitati i comitati Israelitici italiani e di altri paesi per chiedere precise garanzie per i loro correligionari inserendo appunto i principi di libertà ed uguaglianza nelle Costituzioni  dei paesi di nuova indipendenza e autonomia; e questi paesi non potevano risentirsi per quella richiesta considerandola un’ingerenza: dovevano infatti rispettare i principi in base ai quali chiedevano il riconoscimento della loro indipendenza. Né si poteva accettare che i cristiani opprimessero i seguaci di altre religioni, fossero essi musulmani o Ebrei, dopo aver mosso guerra alla Turchia per difendere i cristiani.185

Per analizzare i problemi dell’attualità Ruggero Bonghi in un articolo sulla “Nuova Antologia” del maggio 1877 aveva invece scavato nel passato, risalendo fino al Trattato di Adrianopoli del 1829,grazie al quale la Russia aveva riaffermato il suo tradizionale protettorato sui Principati Danubiani, favorito anche dalla comune fede ortodossa.

Questo particolare rapporto della Russia con la Moldavia e la Valacchia poteva pure incrinarsi, osservava Bonghi, a causa della diffusione di “principi liberali rivoluzionari” e pertanto il governo zarista si era sempre interessato alle vicende politiche interne dell’impero ottomano, prendendo “un’attitudine esplicita, logica, vigorosa”, mentre gli altri Stati esitavano sul da farsi e non assumevano perciò posizioni chiare.

La Turchia era stata indebolita dalla sua incapacità di far rispettare il Trattato di Parigi, per cui contro la sua volontà c’era stata l’unificazione dei Principati Danubiani. Il trattato fu progressivamente svuotato ed un colpo mortale gli fu inferto dalla dichiarazione con cui il 19 ottobre 1870 la Russia dichiarò di non riconoscerlo più valido assieme all’annessa convenzione, in quanto limitava la sua sovranità nel Mar Nero.

Con la Conferenza di Londra del 1870 si erano soddisfatte le richieste della Russia, rivedendo in senso a lei più favorevole la convenzione sulla navigazione nel Mar Nero e negli Stretti, ma le altre parti del trattato non furono riviste in quella occasione; furono invece messe in crisi alcuni anni dopo, quando il 13 maggio 1876 a Berlino, Russia, Germania ed Austria firmarono un documento critico nei confronti della Turchia, accusata di governare male le province cristiane del suo impero, sempre più malcontente  della  Porta: e difatti  pochi  mesi dopo, nell’agosto dello stesso anno 1876,

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scoppiò la rivolta nella Bosnia-Erzegovina, anche se il documento firmato a Berlino avrebbe dovuto rassicurare i malcontenti sulla possibilità di ottenere pacificamente le riforme desiderate; il memorandum del maggio 1876 aveva avuto l’adesione di Francia ed  Italia , solo l’Inghilterra si era astenuta dal farlo, non volendo indebolire la situazione della Turchia; ma questa larga adesione non fu giudicata una sufficiente garanzia dai rivoltosi e l’esempio della Bosnia-Erzegovina pertanto fu seguito dalla Bulgaria, la cui insurrezione fu duramente repressa dal governo turco, per cui Serbia e Montenegro dichiararono guerra alla Porta.

Intervenne allora il governo di Londra cercando di giungere ad una conclusione pacifica con la Conferenza internazionale organizzata a Costantinopoli nel dicembre 1876, conclusasi il 20 gennaio del 1877 con un fallimento, sebbene il Sultano avesse concesso con la Costituzione del dicembre 1876 misure liberali per i non musulmani. I partecipanti alla Conferenza di Costantinopoli dopo la sua chiusura continuarono i loro lavori a Londra, dove fu pubblicato il 31 marzo 1877 un protocollo con nuove richieste, respinte dalla Porta. La Russia si era venuta preparando alla guerra cercando un’intesa con la Romania ed il rifiuto turco alle richieste del protocollo di Londra diede la spinta definitiva allo scoppio delle ostilità, iniziatesi il 22 aprile 1877.

A guerra iniziata Bonghi tornò ad occuparsi della “questione d’Oriente” con un  secondo articolo pubblicato sempre sulla “Nuova Antologia” nel settembre 1877, quando era viva la preoccupazione per le vittorie turche sui russi riportate a Plevna nell’agosto precedente.

Ferocemente antiturco era il commento di Bonghi: “E s’è visto di sanguinare le piaghe di popoli, cui le reminiscenze vecchie della storia loro, e l’eccitazioni recenti dello scontro sommuovono del pari contro una stirpe barbara, che sta loro sul collo da meglio di quattro secoli; ed è corso un brivido per le ossa al pensiero di rinnovati strazi, onde sarebbe stata causa per essi un risveglio così inaspettato di forza ne’  loro padroni”.

Bonghi faceva poi questa previsione, nel caso di una vittoria finale della Turchia: “… la Russia andrebbe incontro a difficili prove nell’interno suo più corroso che non pare da partiti violenti e sovversivi; ma  la Turchia continuerebbe ad essere tanto straziata  quanto ora, dalle molte, dalle troppe discordie dei suoi popoli, e dalla chiara e fondamentale imbecillità civile dei Musulmani”.

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Tuttavia l’Inghilterra continuava a sostenere la Turchia, considerando la Russia una minaccia per i suoi interessi in Asia.

Bonghi non considerava l’indipendenza di Bulgari, Greci, Armeni, Slavi del Sud un’affermazione dell’influenza russa su di essi. L’indipendenza di quei popoli era una necessità storica e la Romania di fatto l’aveva già realizzata; annotava l’autore: “La condizione, nella quale sono oggi i Principati Danubiani, è sostanzialmente quella di una intera indipendenza, cui non manca se non una ricognizione”. Indipendenza, quella romena, conquistata senza l’aiuto delle Potenze occidentali; soltanto la Russia si era sempre interessata dei Principati, a partire dal Trattato di Kainardj imposto alla Turchia nel 1774.

I Romeni, favorevole alla guerra contro la Turchia, avevano acconsentito al passaggio delle truppe russe.

Con quella guerra la Russia voleva abbattere il potere della Porta in Oriente, ma non per questo accettava la creazione sulle rovine dell’impero ottomano di “… piccole repubbliche, nelle quali i Kossuth ed i Mazzini spadroneggerebbero…”, come lo zar Nicola I aveva dichiarato nel 1854 all’ammiraglio inglese lord Seymour.

Ma Alessandro II non si era reso conto che innalzare la Bosnia e l’Erzegovina dalla condizione di provincia dell’impero Ottomano a quella di Stati vassalli e tributari della Porta significava far compiere loro un passo verso l’indipendenza.

In definitiva, concludeva Bonghi, la politica russa, seppur soggetta ad esitazioni ed oscillazioni, era stata più favorevole all’indipendenza dei popoli cristiani d’Oriente di quella degli altri Stati europei; ne erano quindi derivate le maggiori simpatie riscosse dai Russi presso i cristiani dei paesi orientali.186

La “questione d’Oriente”, oltre ad interessare i commentatori politici e l’attività diplomatica italiana, fu pure oggetto di un dibattito svoltosi alla Camera dei Deputati nei giorni 8 e  9 aprile 1878 per discutere le interpellanze e le interrogazioni presentate su quell’argomento.

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Fu discussa per prima l’interpellanza presentata dall’onorevole Miceli per conoscere quale fosse la politica del governo su quella importante questione. L’interrogante esprimeva timori per una possibile guerra tra Russia ed Inghilterra, essendosi conclusa con il Trattato di Santo Stefano soltanto una prima fase della storica vicenda, per cui era richiesta da tutti una “soluzione logica e giusta”.

Miceli trovava in generale fondate le critiche al Trattato, poiché la Russia non poteva arrogarsi il diritto di decidere da sola quali questioni fossero di suo esclusivo interesse e quali invece riguardassero anche altri paesi: l’intera Europa e non la sola Inghilterra era contraria a tale posizione russa.

Era pure criticata la Russia perché si era preoccupata di far includere nel trattato i vantaggi ottenuti con la guerra, trascurando di far riconoscere l’indipendenza dei popoli cristiani soggetti alla Porta, anche se aveva asserito di fare la guerra in loro difesa.  Apprezzava la posizione di neutralità presa dal governo italiano, ma occorreva essere pronti all’eventualità di una nuova guerra; per scongiurarla era necessario sostenere le varie nazionalità presenti nei Balcani, liberate dal giogo ottomano, destinato a scomparire completamente data l’inutilità dei tentativi di rianimarlo ed a cui l’Europa doveva opporsi non meno che all’onnipotenza della Russia.

Miceli ricordava di avere già condannato in precedenza l’inerzia dell’Europa nei confronti dell’impero turco, per cui la difesa dei cristiani in Oriente era stata assicurata dalla sola Russia; le stragi commesse dai turchi in Bulgaria erano “… la prova dell’assoluta incompatibilità del governo ottomano con una tollerabile esistenza delle province cristiane a lui soggette…”; e-aggiungeva l’onorevole Miceli-“… tra l’Europa inerte e sonnolenta, la Russia sveglia ed ardita, io non esiterei a decidermi per la Russia”.

L’Europa doveva però vigilare perché la Russia non rinnegasse gli ideali di libertà per i quali asseriva di aver fatto una guerra in cui non avevano osato intervenire l’Austria e l’Inghilterra, pur se esse sostenevano “un programma che ripugnava alla coscienza del mondo, l’integrità dell’impero ottomano”.

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Ma se era dannoso assicurare la sopravvivenza di quell’impero, altrettanto negativa sarebbe stata la conquista di Costantinopoli da parte della Russia, lasciarle il controllo delle vie commerciali verso l’Asia, non opporsi al dilagare del panslavismo; i rapporti fra le nazioni-affermava ancora Miceli-dovevano fondarsi sugli “scambievoli interessi morali e materiali”, non sull’appartenenza ad una data razza in lotta con le altre. La razza si sarebbe sostituita alla nazionalità,con gravi conseguenze: “La onnipotenza russa, intronizzata a Costantinopoli, ed avente per sua base giuridica la organizzazione della razza slava sotto un solo governo, sarebbe un fatto mostruoso, e non può che essere impedito dalle nazioni civili”.

Era pure considerata pericolosa la nascita di una Bulgaria satellite della Russia, per cui sarebbe divenuta illusoria l’indipendenza della Romania, della Serbia e del Montenegro, ridotti a condizioni di vita peggiori di quelle esistenti sotto la Turchia.

Tale pericolo poteva essere scongiurato da una federazione della Grecia, della Serbia, del Montenegro e della Romania, cui avrebbe potuto aderire anche una Bulgaria sottratta all’egemonia russa; era questa la conclusione cui arrivava l’onorevole Miceli.

Di tutt’altro tenore la successiva interpellanza presentata dall’onorevole Benedetto Musolino per sapere se nel prossimo Congresso per la pace l’Italia avrebbe agito per mantenere l’equilibrio politico garantito dal Trattato di Parigi del 1856completamente distrutto o seriamente compromesso” dal Trattato di Santo Stefano.

L’interrogante confermava tutta la sua simpatia per la Turchia, costretta a soccombere dopo una  eroica difesa di fronte alla Russia ed a subire il Trattato di Santo Stefano nocivo anche all’Europa perché sconvolgeva “tutte le garanzie di libertà commerciale, di equilibrio politico e di conservazione nazionaleassicurate dal Trattato di Parigi stipulato per arginare un panslavismo preoccupante non solo per la Porta ma anche per l’Austria e la Germania, che contavano pure esse sudditi slavi. Il movimento panslavista era rafforzato dall’appoggio della Chiesa ortodossa e sarebbe stato favorito da un indebolimento dell’impero ottomano.

La minaccia panslavista era destinata ad aumentare a causa della notevole crescita demografica della Russia, passata dai 10 milioni di  abitanti esistenti al tempo di Pietro il  Grande agli 87 milioni

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del 1870, destinati a divenire 200 milioni entro 50 anni, per cui la Russia avrebbe potuto mettere in campo un esercito di 10-12 milioni di uomini; inoltre, se in Russia si fosse sostituito al regime zarista un governo repubblicano con tendenze sociali, tutti gli internazionalisti del mondo l’avrebbero appoggiata.

Il Trattato di Parigi aveva impedito l’ingresso della Russia nel Mediterraneo ed il suo controllo delle vie commerciali verso l’Asia; il Trattato di Santo Stefano invece non era “altro che la presa di possesso preventiva, per opera della Russia, di una parte dell’impero ottomano, come preparazione alla presa di possesso dell’altra parte. La Bulgaria, più che uno Stato vassallo, era destinata a divenire una provincia della Russia, ed un  Battemberg , nipote dello zar, ne sarebbe divenuto il sovrano.187

I porti bulgari sull’Egeo e quello di Antipari sull’Adriatico, dato al Montenegro, sarebbero divenuti basi russe e la progressiva spoliazione della Turchia avrebbe portato la Russia a rivendicare anche territori nordafricani vassalli della Turchia, come l’Egitto e la Tunisia, o che lo erano stati un tempo, come l’Algeria: dimenticava l’onorevole Musolino il non trascurabile particolare che l’Algeria da circa mezzo secolo era divenuta un dipartimento metropolitano della Francia.

Bisognava quindi restaurare la situazione assicurata dal Trattato di Parigi e la Russia non si sarebbe potuta opporre, trovandosi isolata; la Germania difatti le aveva dimostrata benevolenza, ma non avrebbe sicuramente rischiato una guerra per appoggiare le pretese russe. L’Italia, per rassicurare il governo di Vienna timoroso di un suo attacco e perciò esitante a stringere un’alleanza con l’Inghilterra, doveva uscire dalla sua ambigua neutralità e legarsi in un’alleanza antirussa con l’Austria e l’Inghilterra. A quanti erano contrari ad un’alleanza italo-austriaca perché memori dei lunghi contrasti risorgimentali Musolino obiettava: “… le piccole divergenze territoriali che possono esistere tra noi e la potente nostra vicina sono una miseria, un vero nonnulla, a fronte della grande causa che deve collegarci”.

Liquidate così le aspirazioni irredentistiche italiane, Musolino passava poi a contestare la pretesa generosità dimostrata dalla Russia a guerra finita; il governo dello zar si era dimostrato generoso solo nei confronti della Bulgaria, negando il principio di nazionalità poiché le erano state assegnate la Rumelia, popolata da una maggioranza musulmana, e la Macedonia, con una popolazione e maggioranza greca.

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Alla Serbia era toccato solo un esiguo lembo di terra ed alla Romania si voleva “togliere la Bessarabia, abitata tutta da Romeni puro sangue per darle in cambio la Dobrugia, popolata da tartari, circassi, zingari ed Israeliti, e poi  paese essenzialmente pestilenziale, in cui creperebbero le stesse ranocchie”.

Ma l’Oriente in futuro doveva, secondo Musolino, essere russo o turco; non c’era possibilità di mantenervi piccoli Stati e Musolino riteneva preferibile l’elemento maomettano perché più numeroso ed energico, oltre ad essere “il più docile, disciplinato e governabile, e perché, dicasi pure, il più morale ed onesto”.

Musolino rendeva poi un omaggio di maniera al principio di nazionalità da lui negato con la prospettiva di un Oriente tutto turco o russo; principio da non considerarsi però un dogma assoluto: “il principio di nazionalità è senza dubbio rispettabile  ugualmente per tutti i popoli grandi e piccoli; ma va pure soggetto nell’applicazione alle ragioni di interesse generale”. Non conveniva dunque costituire nazioni microscopiche, destinate a durare poco ed a turbare la vita delle altre nobili e grandi nazioni europee; il principio di nazionalità doveva essere non un fine, ma un mezzo  per assicurare la felicità dei popoli.

Solo il ritorno alla situazione creata con il Trattato di Parigi poteva assicurare la pace in Oriente, da mantenere anche dichiarando la neutralità di tutte le province dell’impero ottomano.

Il succo del suo intervento Musolino lo condensava in una mozione con cui si chiedeva che il governo italiano, insieme a quello austriaco ed a quello inglese, agisse in seno al Congresso per il ripristino del Trattato di Parigi del 1856, per la dichiarazione della neutralità di tutti i territori ottomani sia in Asia che in Europa, considerandosi la Costituzione turca promulgata nel dicembre 1876 una garanzia sufficiente per le popolazioni cristiane dell’Oriente.188

Il dibattito proseguì nel giorno seguente con l’interrogazione di Visconti Venosta sulla politica del governo negli affari di Oriente.

Lo statista, principale artefice della politica estera dei precedenti governi della Destra, non si nascondeva i pericoli di una nuova guerra ed auspicava un’azione italiana per mantenere la pace; riconosceva i diritti della Russia, da conciliare però con la pace e la sicurezza dell’Europa e con il diritto   delle   nazioni   dell’Oriente.  Malgrado  la  sua   lunga  ed  ormai  inarrestabile  decadenza

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l’impero ottomano continuava ad essere un elemento fondamentale per l’equilibrio politico europeo, ma bisognava tener presenti i nuovi equilibri in corso di formazione dopo la recente guerra. L’Italia, amica dei popoli orientali, alla Conferenza di Londra del 1871 si era adoperata perché il controllo degli Stretti non fosse affidato ad una sola grande Potenza; la situazione era poi precipitata con la guerra del 1877-78; erano legittime le rivendicazioni della Russia, che doveva però rendersi conto di aver bisogno del consenso europeo per soddisfarle. Tra le novità inevitabili Visconti Venosta poneva la creazione di una Bulgaria autonoma, seppur vassalla della Turchia; ne andavano però definiti i confini, l’organizzazione interna, lo status internazionale.

L’intervento di Visconti Venosta, breve ma denso di idee, si concludeva con l’invito ad un impegno dell’Italia, la cui influenza nel Mediterraneo era una costante tradizione, a sostenere la Grecia, cui spettava di diritto un posto nel consesso delle nazioni europee.

Il successivo autore, l’onorevole Pandolfi, illustrò la sua interpellanza sulla politica italiana nella questione d’Oriente, ritenendo, pur senza arrivare alle affermazioni estreme di Musolino, causa di gravi perturbazioni politiche il principio di nazionalità, se considerato un dogma cui sacrificare tutto. Si dimostrava quindi preoccupato per il grave indebolimento dell’impero turco in Asia e la sua quasi completa distruzione in Europa.

La Bulgaria poteva divenire una pedina della Russia assicurandole il controllo degli Stretti e il dominio del Mediterraneo; contro quelle minacce Grecia e Romania rappresentavano una barriera; erano “insostenibili pretese”, offensive per la Romania, quelle avanzate dalla Russia sulla Bessarabia: ma più dello zar e del governo russo Pandolfi affermava di temere gli 80 milioni di Russi che volevano slavizzare il mondo.

Pandolfi proponeva come obiettivo dell’Italia e dell’intera Europa aiutare la Turchia a riprendersi dopo la sconfitta ed a riacquistare influenza “… nella sua patria naturale: in Asia!”; occorreva pure sostenere la Romania e l’Ungheria assediate da una marea slava: difatti “… il giorno in cui le foci del Danubio fossero in possesso dei Russi, la Romania resterebbe carcerata e l’Ungheria compressa…”.

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Era quindi stata provvidenziale l’opposizione austriaca al disegno panslavista russo.

Terzo ed ultimo protagonista di quel dibattito fu l’onorevole Cavallotti, la cui interrogazione era dedicata alla politica estera del governo rispetto alla questione d’Oriente ed ai rapporti con l’impero austro-ungarico.

L’autore dichiarò essersi aggravata la questione d’Oriente dopo il Trattato di Santo Stefano “…dacchè al posto di un malato di cui l’Europa assisteva pietosa al capezzale sottentra un atleta robusto, con il quale l’Europa avrà a fare i conti”.

A fronte dell’agitazione diffusasi in tutta l’Europa, solo l’Italia era rimasta inerte, a parere di Cavallotti. La circolare diramata da Salisbury il aprile era quasi come una dichiarazione di guerra alla Russia, eccitandone l’orgoglio nazionalista per cui la stampa di Pietroburgo aveva negato la possibilità per la Russia di cedere. Sembrava quindi approssimarsi una guerra anglo-russa, di fronte alla quale eventualità l’Italia non poteva continuare nella sua inerziabandire, come avrebbe voluto Musolino, una crociata per tornare al Trattato di Parigi.

Fino a quel momento solo l’Inghilterra aveva preso chiaramente posizione contro il Trattato di Santo Stefano, ma se fosse rimasta sola nella sua opposizione, la Russia non avrebbe rinunciato agli obiettivi da lungo tempo prefissati e finalmente raggiunti con il Trattato di Santo Stefano.

L’Italia quindi doveva unirsi all’Austria ed all’Inghilterra per opporsi alla Russia e non tentare una mediazione destinata a rafforzare il governo di San Pietroburgo.

Come già aveva fatto Musolino, anche Cavallotti sentiva la necessità di giustificare la proposta di un’alleanza con l’Austria, tanto a lungo aborrita dai patrioti italiani, ma lo faceva con più accortezza, senza dare un calcio all’irredentismo, trovando le ragioni di quell’alleanza in una profonda mutazione dell’impero austriaco: “… certo l’Austria odierna che appoggia e difende i Rumeni, non somiglia all’Austria di Metternich…”.

La Romania era stata sacrificata dalla Russia ai propri interessi, mentre la Bulgaria era stata favorita, assegnandole territori dove vivevano circa un milione di greci; la Serbia si era accresciuta di un territorio con circa 200 mila abitanti ed il Montenegro, rimasto piccolo quanto il ducato di Parma, aveva avuto un aumento di popolazione di 40-50 mila abitanti ed in più un porto sull’Adriatico, di grande utilità per la Russia per farne una propria base.

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Decisamente il peggio era toccato alla Romania: “… fresca ancora della battaglia di Plevna, del sangue versato, dei sacrifici durati, per poco non ci perde nel cambio, ed ha anche la consolazione di sentirsi minacciare il disarmo del suo esercito…”.

La Russia aveva preferito mantenere in vita una Turchia indebolita, facile da controllare, anziché distruggerla come avrebbe potuto, poiché la preferiva a nuovi Stati in grado di ostacolare la sua avanzata nei Balcani: era la linea politica consigliata nel 1830 dal cancelliere russo Nesselrode in una lettera al granduca Costantino.

Già Napoleone nel “Memoriale di Sant’Elena” aveva messo in guardia l’Inghilterra, prevedendo la conquista russa di Costantinopoli, da cui sarebbe derivato il dominio del Mediterraneo ed una grave minaccia per l’India. Secondo Cavallotti l’Italia aveva due possibilità: allearsi con l’Austria e l’Inghilterra ovvero stare con Germania e Russia; considerava però corrispondente agli interessi italiani la prima di quelle due possibilità.

Giudicava poi Cavallotti irrealizzabile una confederazione degli Staterelli slavi, oltreché pericolosa, perché destinata a divenire uno strumento della Russia. La Serbia si fregiava orgogliosamente del titolo di “Piemonte dei Balcani”, ma il suo prestigio era tanto scarso che il suo appello non era stato raccolto dagli altri popoli slavi, mentre tanti italiani avevano risposto a quello del Piemonte.

Era più realistico pensare ad uno Stato slavo confederato con l’Austria, come lo era già l’Ungheria. Alla realizzazione di questo piano, l’unico capace di fermare l’avanzata russa nei Balcani, dovevano collaborare di comune accordo l’Italia e l’Austria, in vista del comune interesse.

Esaurita la serie delle interrogazioni e delle interpellanze, toccò al Ministro degli Esteri Corti rispondere agli oratori intervenuti.

A Cavallotti Corti fece presente che era in corso il riarmo dell’Inghilterra, decisa ad un intervento militare, mentre  l’Italia invece riteneva preferibile continuare a negoziare sulla base dei Trattati esistenti.

Né il ministro riteneva possibile, come aveva consigliato Musolino,un ritorno al Trattato del 1856, da considerarsi ormai superato; ed il governo italiano avrebbe appoggiato la causa delle nazioni cui l’Italia era legata da una tradizionale amicizia (non era citata la Romania, ma era chiaro il riferimento ad essa).

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Nella sua controreplica l’onorevole Miceli espresse la sua fiducia nel governo, al cui senno ed al cui patriottismo si affidava: si dichiarò pure soddisfatto per l’impegno del governo ad appoggiare il diritto delle nazionalità a costituirsi.

Si dichiarò invece insoddisfatto Musolino, poiché trovava contraddittoria la risposta di Corti: non si poteva affermare la continuazione dei negoziati in base ai Trattati esistenti ed al tempo stesso promettere di sostenere le aspirazioni nazionali, contrarie a quei Trattati.

Manteneva quindi la mozione proposta, chiedendo in quale data sarebbe stata discussa.

Breve ed essenziale la controreplica di Visconti Venosta: prendeva atto delle dichiarazioni del governo, senza chiedere altre spiegazioni.

L’onorevole Pandolfi si associò a Miceli e Visconti Venosta nel non richiedere ulteriori chiarimenti; confidava nel patriottismo del governo, anche se le dichiarazioni di Corti non erano state molto esplicite.

Da ultimo prese la parola l’onorevole Cavallotti: come Musolino, anche lui giudicava contraddittorio voler negoziare in base ai Trattati esistenti ed al tempo stesso promette appoggio al principio di nazionalità, disconosciuto da quei Trattati. Ma prendeva volentieri atto di quell’appoggio promesso dal ministro, ricordando che la nazionalità italiana si era affermata infrangendo il Trattato di Vienna del 1815: ancora una volta la spinta nazionalista poteva travolgere gli strumenti diplomatici.

A conclusione della seduta Domenico Farini, Presidente della Camera, dava lettura della mozione presentata da Musolino, ma questi, cambiando bruscamente e senza motivazioni la sua posizione, dichiarò di ritirarla.189

Il governo italiano seguì assiduamente l’evolversi degli eventi legati alla “questione d’Oriente”, sia sotto la direzione di Depretis che quella successiva di Benedetto Cairoli, che resse pure per due giorni ad interim, dal 24 al 26 marzo 1878, il ministero degli Esteri, affidato poi ad un diplomatico navigato quale era il conte Luigi Corti,  particolarmente esperto delle vicende orientali in quanto era stato da ultimo rappresentante dell’Italia  a Costantinopoli.

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Corti  si trovò al centro della scena politica in occasione del Consiglio dei Ministri del 7 giugno 1878, convocato per decidere la linea da seguire e chi avrebbe dovuto rappresentare l’Italia nell’ormai imminente Congresso di Berlino, il cui inizio era slittato al 13 giugno dal giorno 11 dello stesso mese previsto negli inviti preparati dal governo tedesco organizzatore di quell’incontro.

Non fu una discussione tranquilla quella svoltasi nel Consiglio dei Ministri del 7 giugno. Corti si scontrò apertamente con il presidente Cairoli, descrivendo quel contrasto in un suo appunto autografo.

L’intervento iniziale di Cairoli fu dedicato all’occupazione austriaca della Bosnia-Erzegovina, ritenuta ormai da tutti molto probabile e dannosa per gli interessi italiani. Corti replicò e criticò aspramente Cairoli perché aveva immiserito la “questione d’Orienteconsiderando solo gli interessi italiani: con il trattato di Santo Stefano l’Europa era sull’orlo di una nuova guerra tra Russia ed Inghilterra, con il governo tedesco in veste di paciere e di organizzatore di un Congresso destinato a trovare una soluzione pacifica; era la prima grande iniziativa internazionale cui era stata invitata l’Italia unita (per la verità si deve osservare che già nel 1871, ad unità raggiunta e con Roma capitale, l’Italia aveva partecipato alla Conferenza di Londra, indetta a richiesta russa per rivedere le norme del trattato di Parigi del 1856 relative alla navigazione nel Mar Nero e negli Stretti). Corti giudicava un fatto secondario la prevista occupazione della Bosnia-Erzegovina, giustificata dall’Austria con la necessità di proteggere 150.000 profughi in procinto di farvi ritorno dalla Serbia dove si erano rifugiati per sfuggire alle violenze turche.

Ed inoltre l’occupazione austriaca della Bosnia-Erzegovina presentava pure aspetti positivi, in quanto bilanciava la presenza russa in Bulgaria; l’Italia non aveva protestato contro l’occupazione russa dal Baltico al Mar Nero e non poteva risentirsi poi per la presenza di 20 o 30.000 soldati austriaci nella Bosnia-Erzegovina.

sembrava pertinente, secondo Corti, il richiamo al precedente del 1856, quando Cavour al Congresso di Parigi aveva protestato contro l’Austria, responsabile di aver violato gli accordi con l’occupazione di Piacenza e della Romagna, frutto di un’iniziativa non concordata con altre Potenze; l’occupazione austriaca della Bosnia-Erzegovina si sarebbe invece svolta con l’approvazione francese e inglese. Non poteva quindi l’Italia suscitare nuovi contrasti in seno al Congresso anziché adoperarsi per la pace e, preoccupata soltanto degli interessi propri, chiedere un risarcimento perché l’Austria occupava la Bosnia-Erzegovina.

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“La prima volta che l’Italia unita ha a presentarsi dinanzi ad un Congresso di grandi Potenze avrà a presentarsi come Potenza mendicante?”, tuonava Corti ponendosi quell’interrogativo retorico.

Come aveva fatto Cavour nel 1856, Corti chiese, a scanso di equivoci e di sue responsabilità individuali, di avere dal consiglio dei ministri precise istruzioni scritte, proponendo un testo da lui stesso formulato e ponendo una perentoria alternativa: era da decidere se l’Italia dovessepresentarsi come elemento d’ordine, di concordia e di pace, oppure come sollecitatrice di speciali favori”. Nel primo caso-affermava il ministro-io sono disposto ad assumere l’incarico” (cioè di essere delegato al Congresso di Berlino); “nel secondo non solo non assumerei l’incarico, ma avrei a rassegnare il portafoglio”.

Cairoli incassò e si limitò a dire poche parole per chiarire il senso del suo intervento.

Il Consiglio dei Ministri approvò il testo delle istruzioni presentato da Corti per fissare la linea politica da seguire al Congresso, cui furono delegati lo stesso Corti e l’ambasciatore a Berlino, de Launay.

E a de Launay Corti  si affrettò ad inviare lo stesso 7 giugno un dispaccio in cui erano esposte le direttive per il Congresso. Il compito fondamentale affidato ai delegati era la conferma della missione di pace dell’Italia, cercando di trovare un accordo sul controverso Trattato di Santo Stefano.

Doveva esser mantenuto in Oriente  l’equilibrio politico, evitando la supremazia di una sola Potenza perché avrebbe compromesso la libertà di commercio e di navigazione; dovevano essere mantenuti i poteri giudiziari dei vari consoli sui rispettivi concittadini, in quanto l’amministrazione ottomana della giustizia, malgrado la nuova Costituzione del 1876, era poco affidabile.

Doveva poi essere chiarito se in Bosnia-Erzegovina ci sarebbe stata soltanto una temporanea occupazione austriaca ovvero si sarebbe trattato di una annessione; nel secondo caso, i delegati avrebbero dovuto valutare l’opportunità di chiedere compensi per l’Italia.

La cessione al Montenegro del porto di Antipari, prevista dal trattato di Santo Stefano, era sgradita all’Austria, ma non preoccupava l’Italia; i delegati italiani avrebbero dovuto favorire un accordo fra le parti.

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Molto più difficile sarebbe stato arrivare ad un accordo sulla formazione dello Stato bulgaro, fonte di gravi preoccupazioni per l’Austria e per l’Inghilterra: il compito dei delegati italiani doveva consistere soprattutto nel tutelare i diritti delle minoranze inglobate nel territorio della Bulgaria e nell’ “assicurare alla Turchia condizioni possibili e ragionevoli di esistenza”.

Andavano pure difesi gli interessi della Grecia ed in quanto alla Romania si prescriveva: “Quando si presenterà la questione della cessione della Bessarabia alla Russia, i plenipotenziari avrebbero ad adoperarsi perché si stabilisca fra le Potenze interessate un accordo che sia per soddisfare i reclami della Romania. Ne è d’uopo  aggiungere che l’Italia è pronta a riconoscere fin d’ora l’indipendenza di questa”.190

Cairoli  riprese alla lettera queste istruzioni sulla Bessarabia predisposte da Corti, esponendole così nella comunicazione inviata ai delegati italiani il 13 giugno, giorno di apertura del Congresso: Corti e de Launay avrebbero dovutoadoperarsi perché si stabilisca fra le Potenze interessate un accordo che sia per soddisfare i reclami della Rumania , è d’uopo aggiungere che l’Italia è pronta a riconoscere fin d’ora l’indipendenza di questa”.191

Fra i delegati al Congresso spiccava la presenza di quattro capi di Governo: oltre a Bismarck, cui spettò la presidenza del Congresso, presero parte ai lavori il cancelliere russo Gorciakoff; Disraeli, divenuto nel 1876 conte di Beaconsfield, primo ministro del governo britannico e primo lord del Tesoro; il cancelliere austriaco Andrassy. Italia Francia erano rappresentate dai rispettivi ministri degli Esteri, Corti e Waddington; erano pure presenti in qualità di secondi delegati il ministro tedesco degli Esteri, von Bulow, e lord Salisbury, titolare del Foreign Office.

Di tono minore la rappresentanza della Turchia, affidata inizialmente soltanto all’ambasciatore a Berlino, Sadullah bey, cui in seguito si unirono Caratheodory pascià, sottosegretario agli Esteri ed il maresciallo Mehmet Alì pascià.

Ma vi fu un ottavo partecipante, influente anche se non ufficiale, al Congresso di Berlino: l’Alliance Israélite Universelle, i cui delegati seguirono assiduamente i lavori, pur non partecipandovi.

Ancor prima dell’inizio del Congresso si erano mobilitate le organizzazioni ebraiche di molti paesi, oltre all’Alliance con i suoi comitati sparsi un po’ ovunque: l’ “Anglo Jewish Association”, la “Israelitsche Allianz  di Vienna, il “Comité Roumain” di Berlino, il “Board of Delegates of American Israelitescondussero un’intensa campagna di sensibilizzazione politica, coinvolgendo

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anche i rappresentanti diplomatici dei paesi non partecipanti al Congresso di Berlino: fu questo, ad esempio, il caso dell’ambasciatore degli Stati Uniti d’America a Vienna, John A. Kanon, che il 5 giugno 1878 chiese al Segretario di Stato Ewarts di intervenire perché il Congresso riconoscesse l’indipendenza della Romania soltanto se fossero stati assicurati i diritti degli Ebrei in quel paese.

L’ “Alliance Israélite Universelleinviò un memoriale al Congresso per illustrare le condizioni di vita e le richieste degli Ebrei di Romania e fu presentato il 13 giugno 1878 un altro memoriale opera di sir Moses Montefiore, presidente del “London Commitee of Deputies of the British Jews”, e di Henry de Worms, presidente dell’ “Anglo Jewish Association”.

Può stupire l’assenza di organizzazioni ebraiche romene in questa mobilitazione generale; queste anzi non si limitarono al silenzio, ma si spinsero oltre: la confraternita Zion rifiutò di inviare a Berlino una sua delegazione per chiedere la concessione dei diritti agli Ebrei, sostenendo trattarsi di un problema interno romeno; per lo stesso motivo un gruppo di Ebrei romeni si recò a Berlino non per sollecitare la propria emancipazione, ma al contrario per chiedere alle organizzazioni Israelitiche degli altri paesi di desistere dalla loro attività a favore della causa ebraica.

Era la posizione del governo romeno: trattandosi di un affare interno romeno, era illecita ogni ingerenza straniera; e non mancarono certo ai rappresentanti del potere a Bucarest mezzi molto convincenti per fare accettare questa tesi agli spauriti membri delle comunità ebraiche romene.191bis

All’attenzione del mondo ebraico non era infatti sfuggita l’importanza dei congressi internazionali per farne una tribuna da cui difendere la causa degli Israeliti. Su proposta della “Anglo Jewish Association”,  l’ “Alliance Israélite Universelle” già l’11 dicembre 1876 aveva organizzato a Parigi una riunione per studiare le misure necessarie per difendere gli Ebrei in Serbia e soprattutto in Romania, dove più accanita era la loro persecuzione. Quella riunione si era svolta in coincidenza con l’apertura della Conferenza di Costantinopoli (dicembre 1876-gennaio 1877), cui fu presentato il memoriale preparato a Parigi.

Latore del documento era stato Charles Netter, membro del comitato centrale dell’ “Alliance Israélite Universelle”. Questo testo non poté essere esaminato dalla Conferenza, giunta rapidamente alla conclusione, senza che vi fosse stato il tempo di occuparsi della questione ebraica, cui si erano

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già dichiarati favorevoli molti esponenti politici europei di primo piano, quali lord Derby, titolare del Foreign Office, come riportato dal “Daily Telegraph” del 29 dicembre 1876; si erano pure espressi a favore il duca  il duca Decazes, ministro francese degli Esteri con una lettera a Crémieux del 29 dicembre 1876, von Bulow, ministro degli Esteri tedesco, con una lettera ai delegati tedeschi all’incontro promosso a Parigi l’11 dicembre 1876 dall’ “Alliance Israélite Universelle”, Kristeller e Goldschimdt; il rappresentante Usa presso la Porta, Horace Maynard, con una lettera inviata ad uno dei partecipanti al suddetto incontro, Saligman.192

Largo di promesse di appoggio era stato pure il ministro degli Esteri italiano, Melegari, incontrando una delegazione del comitato italiano dell’ “Alliance” , guidata da Samuele Alatri, come riportato su “L’Opinione” del gennaio 1877.

Esistevano quindi tutte le premesse perché la questione ebraica divenisse uno degli argomenti centrali di discussione a Berlino, sotto l’accorta regia dell’ “Alliance Israélite Universelle”.

Già nel marzo 1878 gli “Archives Israélitessmentivano la notizia di una promessa fatta dal presidente italiano Depretis al ministro romeno Balascianu, venuto a Roma per i funerali di Vittorio Emanuele II, di appoggiare il governo romeno sulla questione ebraica in Romania.

E già prima, in una corrispondenza da Bucarest in data 15 febbraio 1878, l’organo dell’ “Alliance  esprimeva la speranza di un appoggio dei generosi e potenti Ebrei stranieri, di quelli parigini in particolare, perché fosse risolta la questione degli Ebrei di Romania in occasione del Congresso di cui sembrava allora dovesse esser Baden la sede.

Ed ancora in aprile si ricordava la promessa fatta il 28 febbraio da von Bulow a nome di Bismarck di sostenere nel Congresso la causa degli Ebrei.

Ma la fiducia in questa promessa di von Bulow vacillò quando circolarono notizie sulla stipula di un accordo commerciale tra Romania e Germania, per cui sembrava  il governo di Berlino essere disposto a sacrificare i diritti degli Ebrei ai propri interessi economici. Lo stesso dubbio si manifestò sulle intenzioni italiane, temendo fossero messe nel dimenticatoio le promesse fatte da Melegari al deputato ebreo Samuel Alatri. Pertanto, concludevano gli “Archives” : “…l’unique espoir est en Dieu d’abord, et ensuite dans la noble et généreuse France. C’est par cette nation magnanime, unie avec la puissante Angleterre, que nous espérons être sauvés”.

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Ma notizie rassicuranti sulla posizione italiana giunsero poi con un articolo da Ferrara, a firma di Leone Ravenna, pubblicato sempre sugli “Archives” il 15 maggio 1878: Cairoli aveva confermato le simpatie del governo italiano ad una delegazione delle comunità ebraiche di Roma, Ferrara, Padova, ed aveva risposto favorevolmente ad un appello rivoltogli dalla comunità di Torino perché il governo italiano appoggiasse in seno al Congresso le richieste degli Ebrei.

Già il 21 aprile 1878 “L’Opinione” si era augurata un’intesa dell’Italia con Francia ed Inghilterra per un appoggio alle rivendicazioni Israelitiche; Corti aveva promesso questo appoggio con una lettera del 6 aprile 1878 inviata a Flaminio Servi, direttore de “Il Vessillo  Israelitico”.

E si moltiplicavano le dichiarazioni a favore della causa ebraica: gli “Archives Israélites” del luglio 1878, a Congresso già avviato alla conclusione, riportavano l’affermazione della “Gazzette de l’Allemagne du Nord  del 16 giugno circa la necessità di evitare di sostituire all’oppressione islamica dei cristiani l’oppressione di altre religioni, quali esse fossero, la musulmana o l’ebraica. Lo stesso numero degli “Archives Israélitesdava la notizia che per seguire i lavori del Congresso era giunto a Berlino il gran rabbino di Francia Kann, venuto ad affiancarsi ai delegati dell’“Alliance Israélite Universelle”, poiché Crémieux  era trattenuto a  Parigi da ragioni di salute.193

Ma, nonostante tutto, contro gli Israeliti persistevano ostilità e pregiudizi anche in Francia, nella “nobile e generosanazione dalla quale soltanto, secondo gli “Archives Israélites”, gli Ebrei potevano attendersi la salvezza. Proprio nell’anno del Congresso era infatti dato alle stampe a Parigi il volume di due autori francesi, A. Beaure e H. Mathorel, sulle condizioni sociali e politiche della Romania, in cui la questione ebraica era dipinta a tinte fosche, giustificando in pieno la condotta politica del governo di Bucarest.

Secondo gli autori non esisteva in Romania un antisemitismo di natura religiosa; gli Ebrei erano completamente liberi, non erano confinati nel ghetto esisteva per essi il coprifuoco, potevano sposare persone di altre razze, accedere alla scuola ed agli impieghi pubblici.

Gli inconvenienti lamentati nascevano da responsabilità degli Ebrei stessi: “Si le juif de Roumanie est sordide, c’est qu’il le veut”, sentenziavano gli autori.

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Per loro scelta gli Ebrei vivevano in quartieri speciali, riconoscibili dal degrado, ed erano sempre essi stessi a rifiutare i matrimoni misti. La loro arretratezza era dimostrata dalla totale ignoranza: “Cette  race si  vivace, si forte, si  intelligente  en  d’autres   pays,  n’à  pas   encore produit en Roumanie un homme de valeur”. Vivevano da parassiti, sfruttando con l’usura i Romeni, non producevano nulla e, colpa ancora più grave, minavano la sicurezza nazionale con trame occulte a vantaggio di Potenze straniere interessate ad occupare la Romania: “Les juifs polonais et russes jouent en Roumanie un rôle politique qui déplaît aux habitants, et malheuresement le costume et les accessoires ne rendent pas le rôle plus supportable”.

 Pertanto, era questa la conclusione, “les Roumains peuvent dire que les israélites sont en butte aux persécutions dont ils se plaignent non comme israélites, mais comme agents occultes et opiniâtres de convoitises étrangères”.

Un’accusa ricorrente, dura a morire, faceva degli Ebrei l’avanguardia di un pangermanesimo avanzante, se essi provenivano dall’Austria, ma questa vecchia accusa, come tutte le altre rivolte agli Ebrei, non poté impedire l’affermazione in seno al Congresso dei principi di libertà ed uguaglianza.194

Corti con la sua lettera del 6 aprile 1878 aveva promesso a Flaminio Servi di sostenere nel Congresso le ragioni degli Ebrei di Romania; al tempo stesso non lesinava promesse all’agente romeno a Roma, Obedenare; questi ai primi di giugno gli aveva espresso la speranza di un pronto riconoscimento dell’indipendenza romena già nella prima seduta del Congresso, sì da  consentire al governo di Bucarest una partecipazione a pieno titolo alle sedute successive, con voto deliberativo sulle questioni riguardanti i Principati. Corti gli aveva dichiarato di condividere quella speranza, suggerendo di far presentare la richiesta da qualche grande Potenza, come aveva fatto, seppur con scarsa fortuna fino a quel momento, l’Inghilterra per l’ammissione della Grecia.

Già in precedenza Obedenare aveva chiesto che fosse proprio l’Italia a presentare la richiesta di ammissione della Romania e Corti, pur promettendo l’appoggio del governo di Roma, aveva affermato l’inopportunità di avanzare quella richiesta senza averla prima concordata con le altre Potenze; sarebbe stato preferibile far presentare la proposta dalla Porta, lasciando così alla Russia meno possibilità di opporsi.

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In caso di rifiuto turco a compiere quel passo, aveva detto Corti, sarebbe stata l’Italia farlo, ma solo dopo aver consultato le altre Potenze.195

Non si affidava soltanto a contatti diplomatici l’azione del governo romeno per una soluzione pacifica del problema della Bessarabia; negli stessi giorni del colloquio di Obedenare con Corti, il governo di Bucarest spronava il governo di Vienna a non lasciare la Russia padrona delle Bocche del Danubio, anche a costo di farle guerra, sperando di evitare in tal caso la cessione della Bessarabia. I tentativi romeni non ebbero però successo e Kogalniceanu lamentò l’ambiguità di Andrassy, poco propenso ad accogliere le richieste della Romania e con Fava si lasciò andare a minacce contro l’Austria: la Romania avrebbe potuto-asserì il ministro romeno-cercare l’appoggio della Russia per rivendicare la Transilvania.

Fava non diede gran peso a quelle minacce di Kogalniceanu, affermando di conoscerne la volubilità: ritenne comunque opportuno segnalare a Roma quel linguaggio minaccioso, tenuto dal ministro romeno proprio alla vigilia del Congresso di Berlino.196

L’Austria non aveva accolto la richiesta romena di opporsi alla cessione della Bessarabia alla Russia; per contro Andrassy, rispondendo ad una interrogazione parlamentare sull’impegno del governo per la tutela degli Israeliti di Romania, aveva ricordato la costante azione austriaca per assicurare quella tutela “nei limiti permessi dalle relazioni internazionali” e, come comunicava il segretario generale degli Esteri, Maffei, in un dispaccio a Fava, aveva promesso di cogliere in seno al  Congresso le occasioni favorevoli per un’azione a vantaggio della causa ebraica.197

In sintonia con il suggerimento di Corti a Obedenare, il governo romeno inviò a Costantinopoli Dimitrie Bratianu, vice presidente del Senato, per chiedere alla Porta di proporre l’ammissione della Romania al Congresso: ma il governo turco rifiutò “per motivi di convenienza facili a comprendere”, secondo l’espressione usata da Fava nel suo rapporto.198

La difficile situazione diplomatica della Romania era resa ancora peggiore dal confermato disinteresse britannico per la cessione della Bessarabia alla Russia come comunicava da Londra l’ambasciatore Menabrea; erano altre le priorità per l’Inghilterra, interessata soprattutto a contrastare in  Asia  l’influenza  russa,  pericolosa  per  le  vie di  comunicazione verso l’India; ed in

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Europa l’obiettivo principale era di limitare l’estensione della Bulgaria, lasciando attorno a Costantinopoli una zona cuscinetto. La Tessaglia pertanto per Londra andava assegnata alla Grecia e non alla Bulgaria, ottenendo così anche il risultato di sottrarre Salonicco all’Austria; non c’erano invece difficoltà a Londra per l’assegnazione al Montenegro del porto di Antivari, purché non divenisse una base russa.199

Apertosi il Congresso il 13 giugno 1878, andarono subito deluse le speranze dei Rumeni per un pronto ed incondizionato riconoscimento della loro indipendenza e per l’ammissione dei loro delegati, Jon Bratianu e Mihail Kogalniceanu. Questi rimasero a fare un’umiliante anticamera ed il 28 giugno fu respinta la richiesta di ascoltarli almeno, fatta da Corti e da Salisbury, senza neanche metterla ai voti. Corti  constatava come la Russia avesse il potente appoggio tedesco: non soltanto Bismarck, ma anche il kaiser ed il principe ereditario non volevano “faire dépendre des intérêts de parenté du prince Charles de Roumanie la conduite politique de l’Allemagne, dont le besoin et le désir suprème sont le maintien de la paix”.

Corti non si lasciò comunque scoraggiare dalla difficoltà di trovare appoggi per la causa della Romania, compromessa anche dal violento linguaggio dei suoi rappresentanti.

Pure le Potenze meglio disposte nei confronti del governo di Bucarest non sembravano propense a difenderne la causa ricorrendo alle armi; il ministro italiano arrivava nonostante tutto a questa conclusione: “Noi non cesseremo però di sostenere la loro causa quanto potremo”.

Era stata riconosciuta abbastanza facilmente l’indipendenza della Grecia, contro la quale non si erano coalizzati potenti interessi, come nel caso della Romania. Elemento importante di questa coalizione antiromena erano le organizzazioni Israelitiche, instancabili nel richiedere di subordinare il riconoscimento dell’indipendenza della Romania all’accettazione dei principi di libertà religiosa e della parità di diritti per tutti. Si distinsero in tale azione le comunità Israelitiche italiane; oltre a premere a Roma sul governo, essi avevano pure inviato una loro delegazione a Berlino, affiancando quella della “Alliance Israélite Universelle”.

Anche Bismarck, influenzato forse dal barone Gerson von Bleichröder,  un banchiere ebreo suo consigliere personale, si era impegnato a favore degli Ebrei, trattati in Romania - osservava Corti - in un modo che non faceva onore ai Romeni.

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Cairoli da Roma intervenne a favore degli Ebrei, sollecitando a più riprese Corti ad impegnarsi in loro difesa; il 16 giugno inviò al ministro degli Esteri una petizione corredata da molte firme presentatagli dal deputato israelita Maurogonato, ricordando i principi di libertà religiosa e di tolleranza civile propri del governo italiano e raccomandando di prendere accordi con i delegati degli altri paesi per la loro affermazione.

Successivamente, il 28 giugno, Cairoli allegò ad un suo dispaccio la memoria di molti comitati italiani della “Alliance Israélite Universelle” con cui si chiedeva un’azione italiana per la tutela degli Ebrei dell’impero ottomano, rinnovando a Corti le istruzioni per la soluzione del problema, su cui la memoria in questione dava precise indicazioni, precisando che per porre fine ad ogni discriminazione etnica o religiosa, dovevano “esser reputati nazionali del paese, salvo dimostrazione contraria da parte dell’interessato, coloro i quali vi siano nati da padre che già vi sia nato anch’esso”. Secondo quella memoria, l’attuazione di quei principi doveva condizionare il riconoscimento dei Principati già vassalli della Sublime Porta ed i delegati italiani - esortava  Cairoli - dovevano agire in tal senso, “tenuto conto delle istruzioni dei colleghi e delle disposizioni da questi manifestate”.

Occorreva perciò sostenere la causa ebraica, ma, secondo il prudente avvertimento di Cairoli, “cum grano salis”. Cairoli tornava ancora sull’argomento nel dispaccio inviato a Corti il 29 giugno, dicendosi d’accordo con lo schema di articolo proposto dalla Francia per assicurare in Bulgaria parità di diritti per i seguaci di qualsiasi religione. Cairoli proponeva l’estensione di quel principio alla Rumelia orientale (la provincia autonoma con popolazione bulgara da creare distinta dal Principato di Bulgaria) ed ai Principati Danubiani, cui stava per essere assicurata “un’esistenza nuova e  affatto indipendente”.

La bozza proposta dalla Francia prevedeva però la parità solo per chi fosse già cittadino e c’era quindi il rischio che, negando la cittadinanza, si negasse pure la concessione dei diritti; per evitare tale eventualità Cairoli si rifaceva al suggerimento avanzato dalla memoria dei comitati italiani dell’ “Alliance”, citata nel precedente dispaccio del 28 giugno, accordare cioè la cittadinanza a tutti i nati nel paese da padre pur esso nato nel paese. I delegati italiani avrebbero dovuto prospettare tale soluzione al Congresso, “… quando, beninteso, la cosa paresse opportuna, e suscettibile di benevolo accoglimento da parte degli altri Plenipotenziari”.

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Si uniformò a tale direttiva de Launay e diede conto a Cairoli  del suo operato nel rapporto del 10 luglio 1878, informando di aver proposto di aggiungere questa dichiarazione interpretativa agli articoli del Trattato relativi alla libertà religiosa (articolo 5 per la Bulgaria, articolo 35 per la Serbia, articolo 44 per la Romania): “,,,en vertu du Traité de Berlin, les Israélites  (de la Roumaine, etc) pour autant quils n’appartient pas à une nationalité étrangère, acquièrent de plein droit la nationalité (Roumaine etc,)”.

Ma questa proposta, fatta lo stesso giorno del rapporto,10 luglio 1878, giunse tardiva.

Bismarck ebbe buon gioco nell’opporre che non era più possibile modificare gli articoli già preparati da un’apposita Commissione di redazione; a futura memoria la proposta de Launay fu però messa a verbale e la sua mancata adozione divenne oggetto di perenne rimpianto  per gli Ebrei di Romania cui avrebbe potuto offrire una più equa soluzione dei loro costanti problemi.200

Fu molte volte citata questa proposta di de Launay, senza però ricordare che era derivata dal memoriale delle comunità Israelitiche italiane presentato a Cairoli.

Avesse o no avuta notizia delle critiche di Corti per i maltrattamenti subìti in Romania dagli Ebrei, Bratianu tramite l’agente diplomatico di Romania, Obedenare, inviò al presidente della camera Domenico Farini (rimasto in buoni rapporti con il principe Carlo dopo la missione a Bucarest per comunicare l’avvento al trono di Umberto I) una lettera per lamentare lo scarso appoggio di Corti agli interessi romeni, accusandolo di avere anzi fatto pressioni perché la Romania cedesse alle richieste russe per la Bessarabia.

Corti, informato da Cairoli, si disse dispiaciuto di quelle accuse e scrisse al Presidente del Consiglio di essersi invece adoperato al massimo a favore della Romania, osservando con ironica amarezza: “…. e ne ho per guiderdone quella lettera di Bratianu mostrata al Farini. Questo ti sia prova dell’arte diplomatica dei Rumeni”.

Bratianu - continuava Corti - l’aveva trattato con molta freddezza, al punto di evitare di incontrarlo durante la sua permanenza a Berlino. Ma il ministro italiano assicurava con magnanimità riferendosi Rumeni: “Io continuerò tuttavia a fare i più caldi offici in loro favore”. Corti dipingeva poi la situazione della Romania al Congresso con tinte ancora più fosche della realtà, forse per far meglio risaltare l’importanza della sua azione, smentendo l’asserzione di Kogalniceanu circa la disponibilità francese ed inglese a sostenere per la Bessarabia quanto meno un compromesso, meno svantaggioso per la Romania. 201

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In realtà, come risulta dai verbali stessi delle sedute, sia Waddington che Salisbury, pur senza troppo esporsi, erano intervenuti in più occasioni a favore della Romania.

Sulla “Realpolitik” di Bismarck e sul livore antiromeno di Gorciakoff finì comunque per prevalere la tenace ed accorta azione diplomatica anglo-italiana, almeno per quanto riguardava l’ammissione ai lavori dei delegati romeni.

Nella nona seduta del Congresso, svoltasi il 29 giugno 1878, difatti Salisbury e Corti tornarono a chiedere la partecipazione di Jon Bratianu e di Kogalniceanu. Bismarck fece subito difficoltà, osservando essere già note le posizioni della Romania, per cui ascoltare i suoi delegati sarebbe stato oltre che inutile, causa di complicazioni. “Il y a lieu d’examiner s’il convient d’ouvrir la voie à des embarras”, commentò infastidito il cancelliere tedesco; ma, nella sua veste di presidente del Congresso, non poté esimersi dal sottoporre la questione all’assemblea. Intervenne subito Schuvaroff, uno dei delegati russi, opponendo l’inesistenza di precedenti validi per ammettere i delegati della Romania; si era già discusso della Serbia in assenza dei suoi delegati, ammettendo quelli della Grecia poiché si trattava di uno Stato di cui era già stata riconosciuta l’indipendenza.

Andrassy appoggiò invece la proposta di Corti e Salisbury ed  auspicò una soluzione utile per la pace. A questo punto Bismarck cercò ancora un pretesto per affossare la richiesta dell’Inghilterra e dell’Italia, e domandò se il principe Carlo avesse richiesto di ammettere i delegati rumeni; il tentativo del cancelliere fu subito rintuzzato da Corti, facendo osservare che lui stesso e Salisbury si erano resi interpreti della richiesta romena, presentandola al Congresso.

Sopravvenne di rincalzo l’intervento di Waddington, favorevole all’ammissione di Bratianu e di Kogalniceanu, subordinandola però all’impegno romeno di accettare le future decisioni del Congresso.

Constatato che la maggioranza delle sette Potenze partecipanti al Congresso si era pronunciato a favore della Romania (erano stati in quattro, Austria, Francia, Inghilterra ed Italia a dire di sì alla partecipazione dei delegati Romeni), Gorciakoffobtorto collo” si schierò con la maggioranza, pur dicendo di condividere i dubbi ed i timori espressi da Bismarck. Buon ultimo, anche Bismarck, per non restare isolato in compagnia di una Turchia silenziosa rimasta semplice spettatrice del dibattito, aderì alla proposta di Salisbury e Corti, per cui risultò accettata all’unanimità ed in linea di massima la presenza romena, restando però ancora da precisare le modalità e la data.

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Risolta la questione di fondo, Bratianu e Kogalniceanu si presentarono alla decima seduta del Congresso, svoltasi il luglio 1878, soltanto per esporre il punto di vista romeno, senza alcun diritto di voto.

Il resto della precedente seduta, la nona del 29 giugno, fu dedicato all’esame dell’articolo 5 del Trattato di Santo Stefano, relativo all’indipendenza della Romania. Bismarck aprì il dibattito ponendo due insidiosi interrogativi: era da stabilire se occorresse subordinare il riconoscimento dell’indipendenza romena a determinate condizioni e se una di queste condizioni dovesse essere l’accettazione di tutti gli articoli del Trattato di Santo Stefano da parte del governo di Bucarest.

Appariva scontata la risposta al primo quesito, esistendo i precedenti della Serbia e della Bulgaria la cui indipendenza era stata riconosciuta a condizione dell’inserimento dei principi di libertà religiosa e dell’uguaglianza di diritti per tutti nelle rispettive Costituzioni. Era quindi logico e politicamente corretto riservare lo stesso trattamento alla Romania.

Più problematica appariva invece la risposta al secondo interrogativo di Bismarck, se cioè l’indipendenza della Romania dovesse avere per condizione d’accettare tutti gli articoli del Trattato di Santo Stefano compreso quello relativo alla cessione della Bessarabia alla Russia.

Corti fu il primo a rispondere a Bismarck e obiettò che la Romania era stata esclusa dai negoziati per il Trattato di Santo Stefano e quindi non era tenuta a rispettarlo; inoltre non sarebbe stato giusto imporre alla Romania condizioni diverse da quelle stabilite per la Serbia e la Bulgaria per riconoscerne l’indipendenza.

Seguì l’intervento del premier britannico; Disraeli andò al cuore del problema e, senza giri di parole, sottolineò come chiedere alla Romania di accettare “in toto  il Trattato di Santo Stefano significava imporre la cessione della Bessarabia, disposta dall’articolo 19, da ritenersi rischiosa per la libertà di navigazione sul Danubio, compromettendo le garanzie offerte dal Trattato di Parigi.  Inoltre, osservava Disraeli, la Russia nel 1856 aveva ottenuto la restituzione dei territori occupati dalle Potenze alleate contro di essa, purché cedesse alla Moldavia una parte della Bessarabia.

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Il governo russo non poteva quindi pretendere la restituzione della Bessarabia e conservare legittimamente i territori ricevuti nel 1856. L’intervento di Disraeli nella sua aperta franchezza non si spingeva comunque oltre il punto critico di rottura: era infatti ripreso l’argomento già considerato nella convenzione anglo-russa del 30 maggio 1878, l’inopportunità cioè di un ricorso alla forza da parte della sola Inghilterra per far rispettare gli obblighi stabiliti dal trattato di Parigi, dal momento che gli altri Stati firmatari di quel trattato non erano disposti ad intervenire: “Les autres signataires du Traité de Paris ayant decliné toute intervention dans cette affaire, le premier Plénipotentiaire de la Grande Bretagne ne saurait conseiller au Gouvernement de la Reine d’employer la force pour maintenir les stipulations de ce  Traité, mais il proteste contre ce changement…”.

La protesta di Disraeli apparve quindi platonica, ma non per questo Gorciakoff rinunciò a rintuzzarla, affermando che la cessione della Bessarabia non avrebbe compromesso la libertà di navigazione sul Danubio; il cancelliere russo ricordò pure come il delta danubiano, dato alla Moldavia con la Bessarabia nel 1856, già nel gennaio 1857 fosse passato alla Turchia, poiché il governo di Jassy non era in condizione di eseguire i lavori necessari per rendere navigabile il canale di Sulima, disposti poi dalla Commissione europea per il Danubio. Inoltre, nel 1856 la Bessarabia era stata data alla Moldavia, non alla Romania, formatasi poi con l’unione arbitraria di Moldavia e Valacchia, violando così il Trattato di Parigi di cui non si poteva quindi chiedere il rispetto; un’altra violazione di quel trattato si era poi verificata con la nomina di un principe straniero, cui comunque il cancelliere russo rendeva un omaggio di facciata. Inoltre la libertà di navigazione sul Danubio era assicurata dalla Commissione europea, creata per regolarla e rimasta in vita per esercitare quella funzione. E quindi, concludeva Gorciakoff, la Russia insisteva nella sua richiesta della Bessarabia.

Seguì l’intervento di Schuvaloff, a cui parere era vantaggioso per la Romania lo scambio Bessarabia-Dobrugia, proposto dalla Russia. Con un tono di velata minaccia il delegato russo così proseguiva: “…il y aura profit pour tout le monde, pour la Russie, pour la Roumanie, pour l’Europe, à faire droit aux aspirations de la Russie” ; la minaccia diventava poi esplicita con la successiva oltracotante affermazione: “…la Roumanie ne saurait sauvegarder réellement son indépendance et son integrité tout quelle persistérait  à vivre sur les depouilles d’un grand Empire qui se croit en droit de revendiquer un lambeau de son ancien territoire”.

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Intervenne Bismarck a sedare un possibile accentuarsi del contrasto fra Russia ed Inghilterra; in apparenza conciliante, il cancelliere si disse d’accordo con l’Inghilterra nel sostenere la libertà di navigazione sul Danubio. Ma subito dopo si pronunciò a favore della Russia, dicendosi favorevole alla cessione della Bessarabia, nell’interesse della pace. E nelle sue parole si poteva cogliere un’eco delle minacce di Schuvaloff: “Le nouveau traité renfermerait un élément de faiblesse, si la Russie devait en garder de l’amertume. Il convient de réfléchir si, pour des intérêts purement roumains, on veut s’exposer dans l’avenir à des nouvelles difficultés…L’Europe n’a aucun intérêt à faire opposition sur ce point à la Russie”.202

Su queste discussioni riferì il ministro degli Esteri e delegato al Congresso Waddington al presidente del Consiglio e ministro degli Esteri ad interim, ArmandJules Dufaure. Waddington comunicava come fosse ormai decisa la cessione della Bessarabia; i delegati russi ne facevano una questione d’onore e nessuna Potenza sembrava disposta a sostenere gli sforzi dei Romeni per conservare quel territorio.  Sulla questione il ministro francese poneva una pietra tombale con questo epitaffio: “Nous croyons pour notre part quils doivent se résigner dès à present au sacrifice quon leur demande et leur politique doit consister à réclamer des compensations plus avantageuses que celle qui leur sont offertes”.

Per dimostrare la loro benevolenza verso la Romania, i delegati francesi avevano chiesto a quelli russi di accordare in Dobrugia un territorio più vasto di quello già offerto, come compenso per la cessione della Bessarabia, portando il confine sulla linea Silistria-Cavarna. Se la Romania, già padrona del Delta danubiano,  avesse ricevuto quel territorio con due porti sul Mar Nero, avrebbe dovuto accettare la proposta, ampiamente vantaggiosa. Ma quello francese non era un intervento disinteressato, dettato unicamente dall’amicizia per la Romania. Proseguiva infatti così Waddington: “Nous en approuvons le principe d’autant volontiers que nous verrions un advantage pour l’Europe elle même à maintenir la Russie separée  de la Bulgarie par une zone suffisament large pour empécher les inconvenients d’un contact suivi”.

E Corti poi, sempre desideroso di smentire l’accusa di tiepidezza mossagli da Bratianu, aggiungeva nel telegramma con cui informava a Cairoli sull’andamento della seduta del 29 giugno: “Je travaille pour une transaction apte à satisfaire la Roumanie”.203

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Questo compromesso fu raggiunto nella successiva seduta del luglio 1878 e fu propiziato da trattative dietro le quinte condotte da Waddington con la delegazione russa. Scontato ormai l’inserimento della libertà di culto e della parità di diritti nella Costituzione per ottenere il riconoscimento dell’indipendenza della Romania, come era già avvenuto per Bulgaria e Serbia, il nodo da sciogliere era la Bessarabia. Nel telegramma inviato a Dufaure la sera stessa del luglio Waddington scriveva a proposito della Dobrugia offerta alla Romania in cambio della Bessarabia: “…dans nos entretiens confidentiels nous avons suggeré aux Plenipotentiaires russes de porter cette frontière de Silistrie a Kavarna”. La proposta non fu accettata dai Russi perché ritenuta troppo generosa e fu quindi rivisto al ribasso il compromesso, venendo concordata una linea di frontiera che, partendo da un punto ad est di Silistria, giungeva fino al Mar Nero a sud del porto di Mangalia.

Waddington accettò questo accordo, ritenendolo comunque vantaggioso per la Romania; concordarono gli altri delegati e la discussione si concluse con il riconoscimento generale dell’indipendenza della Romania, previa la cessione della Bessarabia in cambio della Dobrugia così delimitata.204

Corti diede notizia dell’accordo raggiunto la sera stessa del luglio con due distinti telegrammi inviati a Cairoli, entrambi privi di numero. Con il primo telegramma sconsigliava una discussione in Parlamento sulle questioni trattate al Congresso, temendo potessero essere avanzate in quella sede proposte pericolose: anche il governo inglese aveva evitato l’azzardo di un dibattito parlamentare. Giustificava poi il comportamento suo e di de Launay definendolo l’unico possibile per tutelare gli interessi e la dignità dell’Italia: sarebbe stato un grave errore opporsi da soli a tutta l’Europa per poi doversi rassegnare all’umiliazione di un cedimento ovvero trovarsi isolati sul piano politico.

Dello stesso avviso si era mostrato de Launay nel rapporto a Cairoli del 29 giugno, affermando: “Bref, au moins d’aller au devant d’un scandale, de prendre sur nous la responsabilité d’amener des nouveaux conflicts et cela en présence d’une Europe qui a soif de la paix, il fallait carguer ses voiles”. Si riferiva l’ambasciatore italiano alla sua difesa dell’integrità territoriale dell’impero turco, su  cui a veva  dovuto  alla  fine  cedere,  poiché  quel  principio  era stato  abbandonato pure dal

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governo austriaco e da quello inglese, un tempo decisi sostenitori degli interessi turchi. Muta e rassegnata la Turchia aveva rinunciato a difendersi: “La Turquie assiste en quelque sorte au Congrés comme un coupable dévant ses juges”, scriveva de Launay.

Con il secondo telegramma Corti indicava a quali condizioni la Romania avesse ottenuto l’indipendenza e, afflitto sempre dal complesso dell’imputato costretto a difendersi, sosteneva di avere difeso la causa romena con la maggiore efficacia possibile; pochi giorni dopo, il 7 luglio, in una lettera personale a Cairoli Corti affermava con evidente forzatura “i Rumeni se ne andarono se non pienamente soddisfatti, pure contenti soprattutto grazie all’Italia”. 205

In realtà Bratianu e Kogalniceanu avevano ben poco di che essere contenti; le condizioni fatte alla Romania erano molto diverse dalle richieste presentate il 24 giugno con un memoriale di Kogalniceanu a Bismarck articolato in cinque punti: 1) integrità territoriale 2) divieto di passaggio in Romania per le truppe russe al rientro in patria dalla Bulgaria 3) assegnazione delle Bocche del Danubio e delle isole dell’estuario danubiano, compresa l’isola dei Serpenti 4)  un’indennità di guerra da parte turca, proporzionata allo sforzo bellico sostenuto (da ricordare il precedente della richiesta di 100 milioni di franchi avanzata dal colonnello Arion inviato nel gennaio 1878 al quartiere generale russo di Kazanlik per partecipare alle trattative di pace da cui rimase però escluso) 5) riconoscimento della indipendenza e della neutralità della Romania.

Nulla avevano ottenuto sui punti più importanti, il primo ed il quarto: la Bessarabia era andata alla Russia ed a giudizio comune del governo e dell’opinione pubblica romena la Dobrugia era un compenso insufficiente, anche se a seguito della mediazione francese era stato aumentato il territorio offerto dalla Russia; il riconoscimento dell’indipendenza non c’era stato all’inizio del Congresso, per consentire ai delegati Rumeni una partecipazione a pieno titolo ed era stato inoltre subordinato ad una condizione-capestro, la parità di diritti per gli Ebrei, motivo di un profondo malcontento generale, non inferiore a quello per la cessione della Bessarabia. Sul secondo punto, il passaggio delle truppe russe , Bucarest aveva finito per cedere, accettandolo con l’applicazione dell’accordo dell’aprile 1877; un risultato utile era stato  però  abbreviare da due anni a nove mesi la

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permanenza delle truppe russe in Bulgaria, deciso su istanza di Andrassy il 24 giugno, per cui risultava meno gravosa la servitù rappresentata da quel passaggio. L’indennità richiesta alla Turchia (già prevista dal Trattato di Santo Stefano, seppure restandone imprecisata l’entità e priva di garanzia per l’effettivo pagamento) rimase un pio desiderio e non fu mai versata. Un parziale compenso economico per la Romania fu l’esonero dall’assumere una parte del debito pubblico ottomano invece imposto alla Serbia, alla Bulgaria ed al Montenegro, in quanto ex province dell’impero turco, come riferito da “La Perseveranza” del 17 luglio 1877.

L’unico punto del memoriale di Kogalniceanu ad essere accolto fu il terzo, l’assegnazione delle Bocche e delle isole del Danubio.

Si aggiunga a ciò l’umiliante attesa per essere ricevuti inflitta ai delegati romeni, presenti a Berlino fin dal 13 giugno, primo giorno del Congresso, ed ammessi a presenziare soltanto il luglio per le insistenze inglesi ed italiane. Inutilmente Kogalniceanu aveva ricordato le garanzie per l’integrità territoriale date dalla Russia con gli accordi dell’aprile 1877 e Bratianu aveva affermato che la forzata cessione della Bessarabia avrebbe compromesso la fiducia nei trattati.

Kogalniceanu era stato preparato ad aspettarsi il peggio da un insinuante von Bulow  con un incontro privato in cui il ministro tedesco l’aveva esortato ad accettare le decisioni del Congresso. A titolo di amara consolazione Disraeli aveva detto ai delegati rumeni che spesso l’ingratitudine è il compenso riservato ai più grandi servizi ed infatti della fraternità russo-romena cementata con il sangue versato a Plevna non era rimasta più alcuna traccia.

Il disinteresse austriaco e  britannico lasciò isolata la Romania nel Congresso: a Vienna ed a Londra interessava molto di più ridimensionare la Bulgaria che, sotto l’ala protettrice russa, avrebbe sconvolto gli equilibri politici e territoriali in Oriente. L’Austria inoltre aspirava alla Bosnia-Erzegovina e non voleva quindi urtarsi con la Russia per avere mano libera in quella direzione. La questione della Bessarabia fu quindi usata dai governi di Vienna e di Londra come moneta di scambio per ottenere quanto loro  interessava in Bulgaria ed in Bosnia.

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La Germania, infine, non corrisposte affatto alle speranze in essa riposta dai Romeni, pur essendo Carlo un Hohenzollern, poiché Bismarck non voleva compromettere i buoni rapporti con il governo zarista.

Italia e Francia, rimaste in minoranza, poterono quindi combattere soltanto una battaglia di retroguardia a favore della Romania.

I Romeni cercarono inutilmente un’intesa diretta con la Russia fino alla vigilia del Congresso.

Lo zar non volle assolutamente rinunciare alla Bessarabia, che avrebbe voluto annettere ancor prima del Congresso, per non trattare il problema con le altre Potenze, mettendole di fronte al fatto compiuto. Nel corso di quelle trattative il governo russo si era mostrato disponibile a riconoscere l’indipendenza della Romania (peraltro già prevista dal Trattato di Santo Stefano) ma non la sua neutralità, poiché tale riconoscimento avrebbe in futuro impedito il passaggio di forze russe attraverso il territorio romeno.

Non rientrava nei piani  russi un controllo diretto della Romania, cui si opponeva il patto dei tre imperatori; oltretutto,un avamposto russo nei Balcani era già assicurato dalla Bulgaria.

Nel corso di quei difficili negoziati Gorciakoff affermò che la garanzia dell’integrità  territoriale romena, data con gli accordi stipulati nell’aprile 1877, era rivolta solo a scongiurare eventuali minacce turche; il cancelliere russo minacciò pure di occupare la Bessarabia e disarmare l’esercito romeno per vincere le resistenze di Bucarest. La minaccia indignò Carlo, il governo e l’opinione pubblica della Romania, tanto da costringere la Russia a ridimensionare e rettificare le dichiarazioni di Gorciakoff, affidando tale missione al barone de Jomini,un diplomatico buon conoscitore della Romania.

Ancora più pericoloso delle minacce di Gorciakoff fu il tentativo russo di sobillare i contadini romeni promettendo loro una distribuzione delle terre rimaste ai boiari dopo la riforma agraria di Cuza nel 1864.

Per l’occasione si ricordava l’impegno sociale dello zar Alessandro II autore nel 1861 della grande riforma con cui si era posto fine alla servitù della gleba, come pubblicò “La Perseveranza” (“Notizie politiche. Rumania”, 26 maggio 1878).

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Il giornale italiano tornò sull’argomento il successivo 30 maggio, dando notizia della denuncia delle manovre russe per sobillare contadini, fatta dal presidente della Camera, Rosetti, secondo il quale agenti russi avrebbero diffusa la notizia di una prossima caduta del principe Carlo e della formazione di un governo legato a quello zarista e avrebbero promesso ai contadini esenzioni fiscali e l’assegnazione di terre di proprietà demaniale o confiscate ai boiari.

Ma, a parte le dichiarazioni di facciata, in realtà già prima del Congresso Carlo e Kogalniceanu ritenevano ormai perduta la Bessarabia e miravano ad ottenere in Dobrugia un confine più vantaggioso, stabilito sulla linea Varna-Ruse. Era invece intransigente Bratianu, sostenuto da Rosetti e  dall’opinione pubblica, sperando in un rimescolamento delle carte dovuto ad una guerra tra la Russia e l’Inghilterra.

Nel corso del Congresso però anche Bratianu si rese conto che la sorte della Bessarabia era già segnata ed inviò il 23 giugno un telegramma a Rosetti perché preparasse l’opinione pubblica a quel sacrificio; ma lo stesso giorno il consiglio dei ministri si pronunciò contro ogni cedimento, rifiutando qualsiasi compenso in cambio della Bessarabia. Quali che fossero le sue personali convinzioni, Carlo fu quindi costretto a telegrafare a Kogalniceanu le decisioni del governo ed a dichiararsi contrario alla cessione della Bessarabia, rifiutando qualsiasi compenso.

Seppure riluttante e con improvvisi ritorni all’intransigenza, la Romania si era quindi venuta rassegnando alla perdita della Bessarabia; non era invece preparata all’imposizione di concedere pari diritti agli Ebrei come condizione per il riconoscimento dell’indipendenza.

C’erano state avvisaglie in tal senso: non erano certo sfuggite a Bucarest le pressioni delle organizzazioni Israelitiche sul Congresso per cui la soluzione della questione ebraica doveva essere il corrispettivo perché fosse riconosciuta l’indipendenza della Romania; ma l’impressione suscitata dalla decisione del Congresso fu enorme e la questione ebraica rimase a lungo il tema centrale della vita politica della Romania, avvelenandone i rapporti con gli altri paesi.

Consumatasi ormai la perdita della Bessarabia, decisa il luglio 1878, cominciò a subentrare la rassegnazione e già il 4 luglio il governo romeno, messa da parte l’intransigenza proclamata il 23 giugno, si disse disposto ad accettare, seppure a malincuore, lo scambio Bessarabia-Dobrugia.

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Al loro rientro a Bucarest l’8 luglio Bratianu e Kogalniceanu trovarono quindi un clima politico più disteso; tutti convennero sulla necessità di rassegnarsi alle decisioni del Congresso e sull’opportunità di evitare manifestazioni popolari troppo accese.

In quei giorni non mancarono però progetti fantasiosi come quello ipotizzato in un memoriale di Carlo in data 25 giugno 1878 da Cotroceni: il principe adombrava la possibilità di riunire Romania e Bulgaria sotto il suo scettro, in cambio della Bessarabia. Il progetto prevedeva pure la restituzione della Bessarabia alla Romania se in futuro la Bulgaria si fosse distaccata da quella unione. L’inverosimile ipotesi non fu mai seriamente presa in esame ed ancor meno poté realizzarsi.

I delegati rumeni a Berlino si trovarono di fronte a decisioni in realtà già prese in anticipo e non suscettibili di modifiche. Le discussioni riguardavano soltanto i dettagli e si svolsero  rapidamente, in quanto Bismarck voleva arrivare presto ad una conclusione.

L’isolamento in cui si era trovata nel Congresso indusse la Romania a cercar rifugio in un’alleanza con Austria e Germania, analoga alla triplice stipulata nel 1882 dall’Italia con le stesse Potenze.206

Le trattative della Romania per quell’alleanza segnarono il passo per qualche tempo, ma giunsero a buon fine del 1883. La difficoltà fu dovuta anche alla scarsa stima di Bismarck  per i Romeni,  come attestava nel marzo 1880 una lettera privata dell’ambasciatore francese in Germania, de Saint Vallier, al ministro degli Affari Esteri. Bratianu aveva smentito con irritazione all’ambasciatore la notizia data dal giornaleTemps” che la sua presenza a Berlino fosse da mettersi in relazione con trattative per un’alleanza fra Bucarest, Berlino e Vienna.

de Saint Vallier diede parziale credito a quella smentita, ritenendo che in realtà Bratianu non avesse osato far parola dell’argomento perché intimidito da Bismarck, “qui profuse un si hautain mépris pour les races et les pouvoirs, chrétiens ou musulmans, du levant”. In particolare, Bismarck, riferiva l’ambasciatore, stimava poco i  Romeni, sintetizzando così il pensiero del cancelliere: “…ils ne valent pas grande chose, pas beaucoup mieux que leurs voisins Serbes ou Bulgares, mais ils ont pour eux quils ne sont pas des Russes deguisés; nous avons tout intérêt à ne pas les laisser manger ou asservir par la Russie”.206bis

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Il calvario romeno al Congresso non ebbe termine con la cessione della Bessarabia decisa il luglio 1878; de Launay infatti con un suo rapporto a Cairoli dell’8 luglio comunicava la richiesta del delegato turco Caratheodory di far svolgere l’arbitrato previsto dalla Convenzione di Parigi del 1858  per l’assegnazione e la gestione dei beni dei monasteri della Romania dedicati ai Luoghi Santi, sequestrati da Cuza.

Per una volta Bismarck fu dalla parte della Romania, opponendo l’estraneità di quel problema rispetto al Trattato di Santo Stefano, oggetto del Congresso. Inoltre, non c’era un mezzo per costringere la Romania ad accettare le decisioni del Congresso sull’arbitrato chiesto dal delegato turco, tranne subordinare il riconoscimento dell’indipendenza all’esecuzione dell’arbitrato. Ma, per fortuna della Romania, quella era una pura ipotesi e Bismarck  si affrettò a proporre un’azione dei diplomatici delle grandi Potenze accreditati presso la Porta perché si arrivasse ad una soluzione: la proposta di Bismarck fu messa a verbale, ma non ci fu alcun concreto seguito alla estemporanea richiesta turca.

Ma non erano ancora finite le tribolazioni della Romania. In una seduta successiva, come de Launay comunicava a Cairoli l’11 luglio, Bismarck propose la discussione sui tributi fino ad allora pagati ogni anno alla Porta da Serbia e Romania: Salisbury, attento agli interessi dei creditori inglesi della Turchia, fece presente come il capitalizzare quei tributi avrebbe dato modo di soddisfare i creditori.

Toccò a Gorciakoff stavolta, a parti rovesciate con l’Inghilterra, venire in soccorso della Serbia e della Romania, facendo osservare che i governi di Bucarest e di Belgrado, già alle prese con gravi difficoltà finanziarie, per convertire in un capitale i tributi annualmente dovuti alla Porta, avrebbero dovuto far ricorso a prestiti contratti a condizioni tanto onerose da costituire per i bilanci statali un carico ancora più pesante dei tributi tradizionali, di cui, con un inaspettato slancio di generosità, il cancelliere russo proposte la totale soppressione. Waddington appoggiò la proposta russa, ricordando l’importante ruolo svolto dalla Romania durante la guerra. Il Congresso non volle infierire oltre e decise l’abolizione dei tributi serbi e romeni pagati alla Porta senza ulteriori oneri per i bilanci dei due Stati.207

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Negli scontri politici avvenuti nel Congresso di Berlino, la posizione italiana fu particolarmente difficile perché viziata da un’intima contraddizione, volendosi realizzare finalità tra loro contrastanti, per cui  Corti  fu costretto a compiere grandi e non sempre riusciti sforzi per conciliarle.

L’Italia infatti da una parte si prefiggeva la conservazione dell’impero turco, elemento di grande importanza per l’equilibrio politico tradizionale, utile per molti aspetti anche all’Italia, interessata alla libertà di navigazione negli Stretti, nel Mar Nero e nel Danubio.

Dall’altra parte il governo italiano voleva aiutare la Romania, paese amico, ad acquistare l’indipendenza dando così un colpo mortale al “grande malato”, com’era definito l’impero ottomano. Ed ancora, il governo di Roma non era rimasto insensibile alle pressanti richieste delle associazioni Israelitiche italiane e straniere perchè ottenessero giustizia gli Ebrei di Romania: e la concessione dei diritti ad essi era un fatto quanto mai sgradito a Bucarest.

Corti si trovò quindi preso in una morsa; le sue preferenze andavano alla causa romena e, pur se vincolato dalle disposizioni ricevute di appoggiare i principi di libertà religiosa  e l’uguaglianza dei diritti civili e politici per gli Ebrei, cercò di evitare pesanti condizionamenti stranieri della politica romena, intervenendo a più riprese in tal senso e dando un prezioso appoggio alla proposta francese di assegnare alla Romania in Dobrugia un territorio più vasto di quello inizialmente offerto dalla Russia.208

Non era quindi infondato il risentimento del ministro italiano per l’accusa rivoltagli da Bratianu nella lettera a Farini di aver troppo tiepidamente sostenute le ragioni della Romania. Ben maggiori amarezze furono poi  riservate a Corti, cui l’opinione pubblica italiana imputò la responsabilità dei poco brillanti risultati ottenuti  al Congresso di Berlino, da attribuirsi però a difficoltà obiettive più che ad incapacità dei delegati italiani, secondo la lucida analisi fatta da Edoardo Gioia in un articolo apparso nel 1879 sulla pariginaNouvelle Revue”.

Osservava Gioia come l’Europa nel 1877 si fosse dimostrata ostile nei confronti della Turchia, accusata di opprimere i cristiani, a differenza di quanto era avvenuto nel 1854 quando Francia, Inghilterra e Piemonte erano intervenuti a favore dell’impero ottomano contro la Russia.

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La Russia era intervenuta contro la Turchia mentre erano rimaste inattive Austria ed Inghilterra, malgrado il loro interesse mantenere in vita l’impero ottomano visto come un elemento di equilibrio politico ed un freno all’espansionismo russo. Sul piano politico lo scontro più acceso era stato quello tra Russia ed Inghilterra, con l’Austria spettatrice non disinteressata, volgendo le sue mire verso la Bosnia-Erzegovina, di cui poi ottenne il mandato amministrativo.

Il governo italiano si trovò nell’imbarazzo, esitando a schierarsi sia con la Russia, mirante a conquistare i popoli dell’Oriente più che a liberarli dalla dominazione turca, sia con l’Inghilterra, disposta a perpetuare la soggezione dei Cristiani alla Porta, pur di salvaguardare i suoi interessi.

L’Italia inoltre non poteva contare su di un efficace intervento della Francia, ancora non riavutasi completamente dalla sconfitta del 1870; un asse Roma-Parigi avrebbe consentito all’Italia di svolgere una politica più attiva ed efficace; data la situazione il governo italiano si limitò ad affermare la sua libertà d’azione, durante la guerra russo-turca e nel successivo Congresso di Berlino.

La presa di posizione italiana più significativa fu rivendicare, assieme alla Francia, il rispetto della libertà religiosa e dell’uguaglianza dei diritti per tutti, ponendolo come condizione indispensabile per riconoscere l’indipendenza degli Stati di nuova formazione.

La presenza austriaca in Bosnia-Erzegovina fu vista come una minaccia per l’Italia, poiché essa rafforzava il governo di Vienna sulla frontiera posta a nord est dell’Italia, priva di barriere difensive naturali.

Questo insuccesso nei confronti dell’Austria non era compensato, agli occhi dell’opinione pubblica italiana, dall’affermazione dei principi liberali, il cui rispetto era stato imposto anche alla Romania, nonostante la simpatia per la nazione sorella. “L’Italiescriveva Gioia - si pleine de sympathie pour la Roumanie, par communauté de race et d’intérêts, a continué à vouloir, conformément au traité de Berlin, que l’égale jouissance des droits civils et politiques sans distinction de culte, fût une vérité pour cette jeune nation”.209

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Oltre a  non aver saputo impedire il mandato austriaco per la Bosnia-Erzegovina o quanto meno ottenere un compenso per l’Italia (era rimasta solo un’ipotesi la ventilata occupazione italiana in Albania), l’altra accusa rivolta a Corti era di essersi  fatto soffiare dalla Francia la Tunisia, territorio ambito dall’Italia sia per la sua vicinanza alla Sicilia, sia per l’esistenza in quel paese di una numerosa comunità di emigranti italiani.

Le premesse di queste delusioni italiane possono ritrovarsi nelle dichiarazioni fatte da Corti, in polemica con Cairoli, nel corso del Consiglio dei Ministri del 7 giugno 1878, quando il ministro degli Esteri aveva rimproverato al presidente del Consiglio di immiserire le questioni pendenti proponendo di chiedere al Congresso un compenso per l’Italia che bilanciasse il mandato sulla Bosnia-Erzegovina previsto per l’Austria; in quella occasione Corti dichiarò di non volersi presentare a Berlino in aspetto di mendicante, ansioso di ottenere per l’Italia vantaggi particolari, minacciando il rifiuto di partecipare al Congresso e addirittura le dimissioni da ministro, se fosse stata quella la linea politica da seguire.

A differenza di Salisbury e Disraeli, accolti con grandi onori al loro rientro in patria, Corti fu oggetto di manifestazioni ostili, accomunato a Bismarck e Disraeli nella responsabilità di aver deluso le aspettative italiane; manifestazioni organizzate soprattutto dall’organizzazioneItalia irredenta”.

Corti ne fu tanto amareggiato da pensare a dimissioni immediate, da cui lo dissuase Visconti Venosta con un’amichevole lettera personale, consigliandogli di attendere il dibattito in Parlamento sul bilancio degli Esteri e prendere poi le decisioni del caso.

Corti cercò di difendersi dalle accuse rivoltegli; in un suo appunto privo di data, ma sicuramente successivo al Congresso di Berlino di cui tracciava un bilancio politico, il ministro annotava essere stato l’unico interesse dell’Italia assicurare la pace ed il progresso economico, scrivendo: “Il Congresso di Berlino non era stato convocato per dividere tra le grandi Potenze le spoglie di altri Stati”. Erano pertanto ingiustificate le lamentele degli Italiani e concludeva: “L’Italia è uscita dal Congresso amica di tutte le Potenze, scevra da presunte complicazioni, perfettamente libera per l’avvenire”.210

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Ma al governo italiano toccò fare i conti non solo con i patrioti delusi dall’esito del Congresso di Berlino, da cui l’onesto Cairoli affermava con orgoglio  essere uscita l’Italia con le mani nette (“ma vuoteaggiungevano beffardamente gli oppositori); un attacco  di tipo diverso, rivolto non tanto al governo in carica, quanto all’intera tradizione risorgimentale, giunse infatti da un avversario scaltro quanto irriducibile, sempre pronto a cogliere qualsiasi occasione per contestare lo Stato italiano, considerato un usurpatore: era la parte più retriva del mondo cattolico, quella raggruppata intorno alla rivista dei GesuitiCiviltà Cattolica”, su cui fu pubblicato nel 1878 il saggio di Matteo Liberatore “Il diritto nuovo e il Congresso di Berlino”.

Il “diritto nuovocitato nel titolo era quello basato sull’accettazione e sul riconoscimento del fatto compiuto; mettere in discussione il Trattato di Santo Stefano aveva significato disconoscere e rifiutare una realtà ormai esistente; inoltre il “diritto nuovo” aveva affermato il principio del non intervento, condannato invece sia dal punto 82 del Sillabo sia dalla allocuzione di Pio IX del 28 settembre 1860, in quanto quel principio impediva ogni intervento contro le usurpazioni; effetti nefasti del non intervento erano stati il mancato aiuto al Papa attaccato dai rivoluzionari italiani, l’abbandono in cui era stata lasciata nel 1870 la Francia attaccata e sconfitta dalla Prussia (non lo ricordava la “Civiltà Cattolica”, ma nel 1870 il “non intervento” non fu rispettato proprio da un nemico giurato del potere pontificio, Garibaldi, accorso con i suoi volontari in soccorso di quella Francia responsabile delle sconfitte garibaldine di Aspromonte e di Mentana); né, continuava Liberatore, erano stati soccorsi i principi italiani spodestati dal Piemonte. Con il Congresso di Berlino si era invece verificata una salutare ingerenza: le Potenze europee erano giustamente intervenute per evitare il completo annientamento della Turchia sconfitta. Anche un altro principio del “diritto nuovoera stato disconosciuto dal Congresso di Berlino, il rispetto cioè della volontà popolare. Non s’era infatti tenuto conto della volontà degli Albanesi, contrari alla cessione di loro territori alla Serbia e dal Montenegro, cui si erano opposti con la violenza; né era stata impedita l’occupazione della Bosnia-Erzegovina da parte dell’Austria, costretta ad una guerra lunga e sanguinosa per piegare le resistenze di quelle popolazioni.

La volontà popolare era stata la base di quei plebisciti con cui il Piemonte aveva giustificato le annessioni e le azioni compiute ai danni dei sovrani legittimi.

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Altro mito infranto quello delle nazionalità; alla Turchia erano rimaste province abitate da Greci e Bulgari; i Russi avevano ottenuto l’Armenia; territori albanesi erano andati al Montenegro ed alla Serbia; l’Austria aveva occupato la Bosnia-Erzegovina.

E proprio in nome del principio di nazionalità si era realizzata l’unità dell’Italia, nata dai plebisciti, desiderosa di annettersi  le terre irredente, quali erano considerate il Trentino e l’Istria.

Erano poi tacciati di ipocrisia gli autori del Trattato di Berlino, perché l’articolo 72 proclamava la libertà per tutti i culti, riconoscendo ai religiosi la libertà di mantenere rapporti con le superiori gerarchie (si citava l’esempio dei monaci del Monte Athos, cui era stato riconosciuto il diritto di mantenere contatti con il mondo ortodosso), oltre ad assicurare il rispetto delle proprietà ecclesiastiche.

Si chiedeva polemicamente l’autore come avesse potuto sottoscrivere quelle norme il governo italiano, autore della vendita dei beni ecclesiastici, assertore dell’obbligo del placet regio per la nomina dei vescovi, persecutore dei parroci responsabili di aver organizzato processioni non autorizzate dalle autorità locali e come aveva potuto firmarle la Russia, che proibiva l’ingresso di religiosi stranieri nel suo territorio, impediva i rapporti dei vescovi cattolici con Roma, opprimeva la Polonia cattolica. Come aveva potuto aderire la Prussia, in cui si conduceva un’aspra guerra alla Chiesa di Roma con il Kultur Kampf? 211

Contestazioni e interrogativi rimasti a testimoniare l’avversione costante del Papato e di una significativa parte del mondo cattolico all’Italia liberale (ed in molti casi anche anticlericale a causa di quella avversione).

Ma le difficoltà romene erano molto maggiori di quelle causate all’Italia dalla delusione di essere usciti senza ancun vantaggio dal Congresso di Berlino e dalle nostalgie cattoliche per il potere temporale.

Appena conosciute le decisioni del Congresso, ancor prima della sua conclusione, il 2 luglio 1878 il giornale di RosettiRomanulinsorse. Non era tanto la cessione della Bessarabia, citata quasi di sfuggita, a causare indignazione: la polemica del giornale si appuntava infatti soprattutto sulla imposizione del riconoscimento di eguali diritti agli Ebrei, considerata “… la più grande iniquità politica del diciannovesimo secolocompiuta dal sedicente Aeropago europeo”.

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Era aumentata l’ostilità contro gli Ebrei,segnalava il console italiano: “Gli Israeliti rumeni furono messi allo stesso rango dei Russi quali violentatori, cioè, della volontà nazionale”.

L’evoluzione degli Ebrei negli altri paesi era avvenuta per gradi e senza ingerenze straniere, si ricordava in Romania; gli Ebrei in Russia non stavano meglio che in Romania ed in passato le loro condizioni in Francia, Prussia, Ungheria non erano state migliori; tuttavia nessun Congresso internazionale si era occupato di quelle situazioni.

Si affermava in tono esasperato che la Romania, costretta a cedere la Bessarabia, avrebbe dovuto almeno decidere da sola se accettare in cambio la Dobrugia e se emancipare gli Ebrei. Fava temeva si verificassero disordini, fomentati anche dai Russi per creare difficoltà alla Romania; consigliarono prudenza Cairoli con un telegramma al console italiano e da Berlino Bratianu e Kogalniceanu ancora non rientrati.

Rosetti dimostrò apprezzamento per i consigli di Cairoli e manifestò a Fava i suoi sospetti sulla volontà russa di soffiare sul fuoco; con diplomatica prudenza Fava gli ricordò la necessità di avere prove sicure prima di rivolger accuse tanto gravi. 212

Sulla questione ebraica in Romania intervenne anche il console d’Italia a Galatz, Seyssel di Sommariva, criticando gli Israeliti perché avevano presentato una petizione per ottenere eguali diritti; a parere del console la petizione infrangeva la solidarietà nazionale affermatasi durante la guerra ed inoltre gli Ebrei più poveri non erano interessati ad ottenere la parità di diritti, poiché temevano, una volta emancipati, di perdere i notevoli soccorsi economici ottenuti da associazioni Israelitiche di beneficenza romene e stranieremercè continuo piagnucolare di patimenti e di maltrattamenti”.

Ma presto si attenuarono  le manifestazioni di malcontento per la perdita della Bessarabia, grazie agli appelli alla moderazione rivolti da Bratianu e Kogalniceanu tornati da Berlino ed anche al timore che - perdurando le manifestazioni - la Russia finisse per dare alla Bulgaria la Dobrugia, dove vivevano molti Bulgari desiderosi di ricongiungersi alla madrepatria, come Seyssel di Sommariva spiegava nel suo rapporto del 17 luglio 1878.

Anche Carlo nel suo discorso alla chiusura della sessione parlamentare esortò tutti ad accettare le decisioni del Congresso di Berlino per la Bessarabia; la questione ebraica invece continuava sempre a destare forti tensioni.212bis

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Ancor prima del Congresso, quando lo scambio Bessarabia-Dobrugia era soltanto una ipotesi, non erano mancati riconoscimenti da parte romena alle aspirazioni bulgare sulla Dobrugia, segnalate nel suo rapporto dal console a Galatz  Seyssel di Sommariva.

Il giornaleRomanul” il 27 gennaio 1878 si diceva contrario all’acquisto della Dobrugia, perché la Romania non aveva combattuto per la libertà del popolo bulgaro da lungo tempo schiavo dei Turchi per poi sottrargli una terra suo patrimonio avito. La Romania aveva sopportato tutti i sacrifici imposti dalla guerra soltanto per avere l’amicizia dei Bulgari, dei Serbi e degli altri popoli della zona danubiana: sottrarre ai Bulgari la Dobrugia avrebbe sminuito le prove di valore fornite dai Romeni durante la guerra.

Anche il giornaleTelegraful” del 28 gennaio 1878 esprimeva gli stessi concetti di “Romanul” ; ed in un memoriale di Kogalniceanu in data 9 marzo 1878 si leggeva: “…l’abandon de la Bessarabie roumaine entraînerait pour toute la Roumanie les plus fâcheux résultats, puisque l’acquisition de la Dobrudja ne serait plus, de la perte de la rive correspondante, qu’un embarras, une charge et peut-être un danger à titre permanent…”213

Ancora più deciso nel rifiutare la Dobrugia l’articolo di fondo di “Steaua României” del 23 giugno 1878,  secondo il quale prendere la Dobrugia avrebbe causato continui conflitti con la Bulgaria. Inoltre sulla Dobrugia la Romania non poteva vantare alcun diritto storico o di conquista; annettere quel territorio avrebbe significato giustificare le mutilazioni inflitte alla Romania dall’Austria nel 1775 con l’annessione della Bucovina e dalla Russia del 1812, quando la Turchia le cedette la Bessarabia.

Pure il deputato Nicolae Locusteanu nel suo opuscoloDobroudja”, pubblicato a Bucarest nel 1878, considerava l’acquisto della Dobrugia una inopportuna giustificazione postuma di quelle spoliazioni operate dall’Austria e dalla Russia ai danni della Romania. Inoltre, per Locusteanu era svantaggioso dal punto di vista economico acquistare la Dobrugia, dal territorio paludoso e dal clima malsano, per la cui bonifica sarebbero stati necessari lavori molto costosi. Era poi svantaggioso sul piano politico provocare il risentimento della Bulgaria ed alterare l’omogeneità della popolazione romena mescolandosi ai Bulgari della Dobrugia, di cui era prevedibile l’opposizione al governo romeno, costretto perciò ricorrere ad un regime di occupazione militare.

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Già “Telegraful” del 18 marzo 1878 aveva definito la Dobrugia un paese paludoso ed insalubre, per cui sarebbe risultata funesta la sua occupazione.

Più possibilista riguardo all’occupazione della Dobrugia si era dimostrato il principe Carlo Antonio, padre di Carlo, in una lettera al figlio del 20 febbraio 1878: la sterile Dobrugia era un compenso insufficiente per la cessione della Bessarabia, ma sarebbe stato accettabile se fosse stato compreso nel territorio da assegnare alla Romania il porto di Kustendje sul Mar Nero (“Notes sur la vie du roi Charles dec Roumanie”, tome III, pp. 270-271, Bucarest 1899).

Dissentì dal parere del principe Carlo AntonioRomânia libera” del 24 marzo 1878, poiché Kustendje non poteva compensare la perdita dei porti sul Danubio da cui il Mar Nero era facilmente raggiungibile.

A Congresso ormai concluso, la “ Pressa” del 27 luglio 1878 rimproverava al governo romeno l’imprevidenza di non aver chiesto più precise garanzie dell’integrità territoriale del paese nel momento in cui la Russia aveva implorato un intervento che la salvasse da una catastrofe militare, nell’agosto 1877. Era quindi un gesto inutile la mozione presentata da 46 deputati (approvata con “una maggioranza strepitosa di voti”, come scriveva “La Perseveranza” del 15 ottobre 1878) per rifiutare lo scambio Bessarabia-Dobrugia.

I firmatari di quella mozione ricorrevano agli argomenti già apparsi sulla stampa o nelle dichiarazioni di politici come Kogalniceanu e Locusteanu (inopportunità politica nei confronti della Bulgaria, antieconomicità dell’acquisto della Dobrugia, ostilità delle popolazioni locali).

È da credere che la nobiltà delle ragioni addotte per rifiutare un territorio, su cui si riconoscevano i diritti della Bulgaria, fosse strumentale per giustificare la mancata accettazione dello scambio Bessarabia-Dobrugia e mantenere così il possesso della prima. Per lo stesso motivo si era insistito tanto sulla sterilità e sulla insalubrità della Dobrugia, salvo poi a mutare rapidamente atteggiamento.

“La Perseveranza” del 15 luglio 1878 scriveva: “I  Rumeni rinsaviscono. Il Bratiano ha dichiarato, in una seduta segreta della Camera, che il governo intende prendere possesso della Dobrugia e di accettare la decisione del Congresso che riguarda gli Israeliti”. Era così messa da parte l’orgogliosa parola d’ordineSărac şi curat” (Povero, ma pulito), possiamo aggiungere noi, propria della resistenza romena alle richieste dell’Europa.

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Era una parziale verità: se in effetti le resistenze ad accettare la Dobrugia erano destinate a cadere in breve, per la concessione della parità agli Ebrei ci fu una lunga serie di contorte ammissioni del principio, unite a pretesti e distinzioni di una capziosa sottigliezza per non tradurre il principio in una concreta realtà.

All’inizio sembrò potersi avviare verso una rapida soluzione, quando si disse di voler affrontare la questione ebraica direttamente nel Parlamento ordinario, senza convocare una Assemblea Costituente. Prevalse invece quella seconda ipotesi ed i tempi si allungarono, enormemente, dando campo libero ad accanite diatribe.

Si svolse invece in modo meno difficoltoso del previsto l’acquisto della Dobrugia, che fu affidata  ad un’amministrazione civile senza dover fare ricorso, come si era temuto, all’occupazione militare, secondo quanto attestava un dispaccio dell’agenzia francese Havas da Bucarest dell’11 agosto 1878, riportato su “La Perseveranza” del 15; si cominciarono a progettare grandi lavori pubblici. L’atteggiamento delle popolazioni locali non fu così ostile come si era temuto e, poiché la Russia indugiava nello sgomberare la regione per affidarla alla Romania, una delegazione di notabili musulmani della Dobrugia si recò a Bucarest per sollecitare il passaggio all’amministrazione romena, come informava “La Perseveranza” del 16 ottobre 1878, riprendendo da “Telegraful” la notizia.

I ritardi russi per passare alla Romania il controllo della Dobrugia dipese dalle difficoltà insorte per definirne i confini. Il barone Stuart, rappresentante diplomatico della Russia a Bucarest, propose allora di formare una Commissione per risolvere il problema.

Questa proposta non risultò gradita al governo romeno, in quanto avrebbe dovuto nominare un suo rappresentante della Commissione, dimostrando così di aver accettato lo scambio Bessarabia-Dobrugia, mentre invece avrebbe voluto dimostrare di aver solo ceduto alla violenza esercitata dalla Russia.

Era una posizione poco sostenibile, dal momento che in Dobrugia ci sarebbe un’amministrazione romena ivi si sarebbero eseguiti lavori  a cura del governo di Bucarest, vi si sarebbe consentito l’afflusso di coloni anche stranieri.213bis

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Ma tant’è, il governo romeno si ostinava a mantenere un’evidente finzione, destinata alla fine a cessare e difatti si costituì la Commissione per i confini.

Al Congresso di Berlino si era stabilito solo un accordo di massima per la frontiera della Dobrugia seguendo una linea da Silistria (rimasta alla Bulgaria) a Mangalia sul Mar Nero. Nella seduta dell’8 luglio uno dei delegati tedeschi, il principe di Hohenloe, aveva proposto per primo una Commissione per precisare i dettagli; alla proposta tedesca si era associato il russo Schuvaloff e si era deciso il criterio cui la Commissione si sarebbe dovuta attenere: il confine non avrebbe dovuto esser tracciato in base a considerazioni strategiche, ma rispettando le identità nazionali delle composite popolazioni della Dobrugia: a tal fine era necessario uno studio attento della loro collocazione sul territorio, condotto direttamente sul campo.

La proposta di Stuart non rappresentava quindi una novità, ma si rifaceva a quel precedente: tuttavia creò difficoltà con il governo romeno; queste difficoltà non impedirono comunque la promozione di Stuart da agente diplomatico a ministro residente, disposta il 26 agosto, sanzionando così l’indipendenza della Romania, in quanto soltanto presso gli Stati indipendenti poteva costituirsi una legazione affidata ad un diplomatico di rango superiore a quello di agente. La decisione della Russia però non soddisfece interamente il governo di Bucarest, che avrebbe voluto la nomina di un ministro plenipotenziario, anziché residente, come aveva disposto l’Austria affidando la sua legazione al barone Hoyos, trasferito da Washington a Bucarest.214

Subirono invece un ritardo i progetti di colonizzazione in Romania ed in particolare in Dobrugia; ne fece parola alcuni anni dopo Marco Antonio Canini nella prolusione tenuta nel 1884 presso la Scuola superiore di commercio di Venezia per il corso di lingua romena, ricordando di aver proposto fin dal 1858 un piano per la colonizzazione italiana in Romania, ripreso poi nel 1878.

Ma – spiegava così Canini il ritardo per l’attuazione di quei piani - “quel progetto benissimo accolto dal popolo rumâno, allora fallì per cagione dell’ indifferenza del governo italiano e della coperta ostilità del rumâno, che aveva bisogno di amicarsi l’Austria nella questione degli Ebrei”, 215 ed il governo di Vienna non poteva certo gradire una presenza italiana nella zona danubiana.

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Bisognò attendere il 1888 perché sorgesse in Dobrugia il villaggio italiano di Cataloi, fondato da 72 famiglie di Rovigo arrivati in Romania nel 1877 perché chiamate da un proprietario privato a coltivare le sue terre vicino a Jassy, in Moldavia. Quei coloni veneti presero in affitto, con l’appoggio del console italiano a Galatz, 1080 ettari di bosco in Dobrugia, trasformandolo in terreno seminativo.

La presenza di quei coloni italiani non fu accolta con molto favore dalla popolazione locale, ma l’impresa ebbe successo e durò fin dopo la prima guerra mondiale; nel 1921 il contratto di affitto della terra fu rinnovato per 15 anni, periodo troppo breve per consentire la messa a dimora di alberi sì da trasformare il terreno seminativo in  un più redditizio frutteto, la cui produzione richiede un più lungo periodo di tempo per essere goduta.216

L’importanza della Dobrugia per la Romania fu pienamente riconosciuta negli anni successivi al suo acquisto ed ancor più all’inizio del secolo XX.

Nel 1911 René Pinon scrivevaCostanza est une fenêtre sur le monde exterieur. C’est pour  Costanza que la Roumanie respire” e nel 1916 M. R. Sirianu sottolineava l’importante funzione svolta non soltanto da Costanza, ma anche dai porti di Mangalia e Biltchic, con un litorale esteso per centinaia di chilometri, completato con l’acquisto della Nuova Dobrugia ottenuta con il Trattato di Bucarest del 10 aprile 1913 in base al quale fu regolata la spartizione dei territori turchi conquistati con le guerre balcaniche.217

Nel 1878 la maggiore difficoltà per stabilire il confine tra la Dobrugia divenuta romena e la Bulgaria dipendeva dal possesso di Silistria, posta sul Danubio ed importante per il suo valore strategico; durante il Congresso di Berlino Corti e Waddington avrebbero voluto darla alla Romania con la fortezza di Arab Tabia. Si oppose la Russia e Silistria rimase in mani bulgare; ne derivò un contenzioso bulgaro-romeno destinato a durare sino alle guerre balcaniche degli anni iniziali del secolo XX e sino alla prima guerra mondiale.218

La Commissione internazionale per il confine richiesta dalla Russia si costituì nel 1878, malgrado le resistenze romene; il tenente colonnello Orero fu il rappresentante italiano in quella Commissione.

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Ad Orero, come riconoscimento della sua azione a favore della Romania, il Municipio di Bucarest nel 1913 intitolò una strada. Nella lettera di ringraziamento al sindaco di Bucarest (Novara 7 aprile 1913) Orero, divenuto generale, dichiarò di essersi voluto sempre mantenere imparziale nei lavori della Commissione, senza schieramenti preconcetti, per cui era stato accusato di volta in volta di fare il gioco dell’una o dell’altra parte in causa. 219

Orero e gli altri commissari accettarono la proposta romena per la costruzione di un ponte sul Danubio, individuandone la posizione ad 800 metri a valle di Silistria. Ma il colonnello russo Bogolubov, membro della Commissione, si oppose e fu perciò scelta un’altra località per costruire il ponte.

Secondo George Bibesco le difficoltà per fissare il confine derivavano dall’insolita decisione presa a Berlino perché esso fosse tracciato tenendo conto della nazionalità delle popolazioni locali, a prescindere dalle esigenze strategiche generalmente rispettate invece nel definire le frontiere. Bibesco concordava però sull’opportunità di aver scelto per costruire il ponte una località diversa da quella prima indicata, troppo vicina a Silistria, venendo così il ponte a trovarsi esposto al tiro dei cannoni di quella fortezza. 220

Un’altra difficoltà fu costituita dal voler fissare il confine lungo il Thalveg (linea d’impluvio) del Danubio, per cui la Romania avrebbe perduto alcune isole danubiane già di sua proprietà.

Orero protestò e bloccò i lavori della Commissione. Rimasta inascoltata la sua protesta, l’ufficiale italiano minacciò di non votare e pertanto la questione fu rinviata ai vari governi che poi si espressero a favore della Romania.

Un altro successo fu l’assegnazione della fortezza di Arab-Talia sul Danubio alla Romania: ma per Georges Bibesco fu un successo illusorio, essendo il confine nel suo insieme  sfavorevole alla Romania.

Ma, precorrendo il riconoscimento attribuito nel 1913 ad Orero con l’intitolargli una via di Bucarest, Bibesco già sottolineava il debito di riconoscenza della Romania per l’ufficiale italiano.221

Pur lasciando dietro di sé una scia di malcontento destinata a perdurare lungamente, lo scambio della Bessarabia con la Dobrugia aveva trovato una soluzione già nel 1878.

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Molto più difficile si presentava invece la questione ebraica, per la cui soluzione si richiese la revisione dell’articolo 7 della Costituzione in base al quale era legittimata la discriminazione religiosa, vietando l’acquisto della cittadinanza agli stranieri di religione diversa da quella cristiana. Una memoria di autore anonimo, probabilmente romeno, apparsa a Parigi nel 1878, analizzava il problema della revisione costituzionale resa necessaria dalle decisioni prese al  Congresso di Berlino.

Secondo l’autore dell’articolo 44 del Trattato conclusivo di quel Congresso stabiliva soltanto il principio della parità dei diritti, senza stabilirne il modo di applicazione, enunciando tre disposizioni: 1)  parità di diritti per tutti gli abitanti della Romania, abolendo ogni discriminazione religiosa; 2) libero esercizio di ogni culto; 3) eguale trattamento  per gli stranieri di qualsiasi religione.

Per i punti 2 e 3 esistevano già le garanzie assicurate dagli articoli 11 e 21 della Costituzione romena ed era quindi necessario inserire nella Costituzione soltanto la parità dei diritti per tutti, come richiesto dall’articolo 44 del Trattato: nulla di più avevano disposto le Potenze, poiché l’attuazione di un principio costituzionale doveva farsi con successive leggi organiche.

Anche Desprez, il delegato francese al Congresso incaricato di preparare la bozza del Trattato,  aveva riconosciuto nella seduta del 10 luglio la natura indeterminata della nazionalità degli Ebrei di Romania.

Inoltre, era stata respinta dal Congresso la proposta di de Launay per dare la cittadinanza a tutti gli Ebrei nati in Romania da padre pure nato in Romania, purché non fossero stati posti sotto protezione straniera. Non era quindi possibile concedere in massa la cittadinanza con i relativi diritti civili e politici.

La tradizione storica prevedeva la condizione di sudditi, e non di cittadini, per gli stranieri, per cui ad essi erano riconosciuti i diritti civili ma non quelli politici; disposizione applicata anche per gli stranieri non cristiani seguaci di una religione diversa dall’ebraica.

La condizione degli Ebrei in Romania era paragonabile a quella degli Arabi in Algeria, nativi di quel paese, ma non per questo cittadini francesi, restando pertanto sudditi.

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La Romania, nazione giovane dall’esistenza precaria, aveva voluto in precedenza cautelarsi dalla minaccia di una cospicua presenza ebraica per la sua identità nazionale proprio con l’articolo 7 della Costituzione, necessario per impedire una contaminazione della sua identità, se si fosse data agli Israeliti la cittadinanza. Era però possibile rivedere l’articolo 7, poiché la Romania aveva conquistato la posizione di nazione indipendente; ma per il momento occorreva limitarsi ad affermare il principio dell’eguaglianza, da attuarsi gradualmente, come era avvenuto in tutti gli altri paesi. L’attuazione era difficile e richiedeva molto tempo, dato che gli Ebrei si erano mantenuti estranei al paese che li ospitava, tanto da mantenere una propria lingua e propri costumi; l’estraneità degli Ebrei era confermata dalla loro mancata richiesta della cittadinanza in base al codice civile del 1864, rimasto in vigore fino al 1866, quando fu abolito dalla nuova Costituzione promulgata dal principe Carlo.

L’autore non spiegava però le ragioni di quella abolizione, visto che le disposizioni del codice civile non avevano causato inconvenienti; né si chiedeva se il breve periodo di due anni, dal 1864 al 1866, in cui erano rimaste in vigore le norme del codice civile potesse essere ritenuto sufficiente perché gli Ebrei maturassero la volontà di chiederne l’applicazione o, se sul piano pratico, fossero stati scoraggiati dal farlo.

Era ingiusta poi l’accusa agli Ebrei di scarso patriottismo per le resistenze opposte al servizio militare; in molti casi erano state le autorità a vietare agli Ebrei di essere arruolati nell’esercito.

Quando quel divieto era stato rimosso, come era avvenuto in occasione della guerra nel 1877, gli Ebrei avevano fatto il loro dovere con uno slancio patriottico non inferiore a quello dei cristiani. Era pure rivolta agli Israeliti l’accusa di evasione fiscale, senza tener conto che la misura percentuale di contribuenti Ebrei rispetto ai cristiani poteva dipendere dalle loro più svantaggiate condizioni socio-economiche.

L’autore riaffermava poi la necessità di non procedere a frettolose naturalizzazione, ricordando quanto era accaduto in Algeria, dove con il decreto Crémieux del 1870 si era data la cittadinanza francese a 30.000 Ebrei; i cattivi risultati di quell’esperienza avevano portato il governo Thiers a proporre l’abolizione del decreto Crémieux  già un anno dopo, nell’agosto 1871.

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La naturalizzazione degli Ebrei di Romania doveva quindi operarsi con provvedimenti individuali, studiandone l’opportunità caso per caso; per sanare le situazioni pregresse occorreva formare liste nominative comprendendovi quanti erano da ritenersi meritevoli della cittadinanza in base alla condizione sociale, al grado di istruzione, ai servizi resi al paese. Sarebbe stato pericoloso procedere per categorie, con l’incertezza del numero e della quantità degli aspiranti alla naturalizzazione.

Si negava poi che gli Ebrei fossero discriminati per ragioni religiose: fino al 1867 gli Armeni, pur essendo cristiani, erano stati sudditi e non cittadini, al pari degli Ebrei; agli Armeni era stata data in massa la cittadinanza in quanto poco numerosi e quindi non pericolosi, a differenza degli Ebrei che erano una notevole parte della popolazione. Gli Ebrei esclusi dal diritto di cittadinanza sarebbero rimasti nella condizione di sudditi, cui in futuro, se si fossero integrati, si sarebbe potuto dare il diritto di cittadinanza. Al momento gli Ebrei formavano tre categorie: 1) stranieri 2) sudditi 3) cittadini.

In passato per gli Ebrei stranieri esistevano molte limitazioni: non potevano possedere beni immobili, sia urbani che rurali; non potevano partecipare alle astegestire alberghi ed osterie. Tali divieti erano dovuti alla loro qualità di Ebrei, non all’essere straniero. Una volta abolito l’articolo 7 della Costituzione gli Ebrei stranieri si sarebbero trovati nelle stesse condizioni degli stranieri cristiani ed avrebbero quindi avuto i diritti civili. Gli Ebrei sudditi erano stati soggetti alle stesse limitazioni di quelle stranieri; in futuro avrebbero potuto acquistare beni urbani, esercitare tutte le professioni e tutti i mestieri, avrebbero potuto prestare il servizio militare e come tutti avrebbero goduto della protezione della legge.

Gli Ebrei cui era stata accordata la cittadinanza si sarebbero trovati nelle stesse condizioni dei cittadini di altra fede religiosa.

Si dilungava poi l’autore a chiarire le ragioni per cui era vietato l’acquisto di beni rurali ai sudditi Ebrei ed agli stranieri. I beni dei proprietari agricoli rumeni fortemente indebitati  avrebbero potuto essere acquistati dai loro creditori ebrei, avvantaggiati dall’inesistenza di istituti di credito in grado di impedire l’usura e le speculazioni da essi esercitate.

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Inoltre, i diritti politici erano basati sulla proprietà di beni agricoli e pertanto gli Ebrei avrebbero potuto acquistare con la proprietà di terreni anche l’iscrizione nelle liste elettorali.

Le misure cautelative adottate contro gli Ebrei erano per l’autore analoghe a quelle prese negli Stati Uniti per opporsi all’invadenza dei cinesi.222

Ben diverso l’orientamento o di un esperto conoscitore ed amico della Romania, Marco Antonio Canini, manifestato in un articolo del 1879 sulla “Nuova Antologia”, riguardante la questione ebraica in quel paese.

Canini dichiarava la sua imparzialità, non avendo nulla da attendersi né dagli Ebrei né dai Cristiani  Romeni; ricordava la sua antica costante simpatia per i Roumeni, ma faceva suo l’antico dettoamicus Plato, sed magis amica veritas”.

Era brevemente tracciata la storia della presenza ebraica in Romania, reputata molto più antica di quella dei Greci, dei Bulgari, dei Serbi, tutti ammessi, per quanto arrivati successivamente, a far parte della classe dirigente ostile agli Ebrei, tra cui si contavano anche persone di cultura quali i medici, i teologi, i linguisti, oltre a banchieri, artigiani e commercianti.

Si trattava però di una minoranza, la più parte degli Ebrei era povera, viveva dando denaro a prestito o praticando minuti commerci; gli interessi sui prestiti praticati dagli Ebrei non erano superiori a quelli richiesti dai cristiani.

Secondo Canini vivevano in Romania 340.000 Ebrei, di cui 280.000 in Moldavia e 60.000 in Valacchia, provenienti per lo più da Russia e Polonia, mentre era diminuito il flusso migratorio dalle province austriache, dove agli Israeliti erano riconosciuti i diritti civili e politici negati invece in Romania.

Fino agli inizi dell’800 le condizioni di vita degli Ebrei in Romania erano state tollerabili, ma, con la formazione di una borghesia romena dedita al commercio, si diffuse un antisemitismo dovuto a ragioni di gelosia e concorrenza negli affari.

Questa difesa dei propri interessi da parte della nascente borghesia romena non poteva considerarsi un processo storico automatico e necessario. Canini ricordava il precedente storico della borghesia francese, nata con la rivoluzione del 1789, che aveva reso gli Ebrei partecipi dei vantaggi ottenuti con il nuovo ordine politico e sociale.

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Nel 1848 i rivoluzionari valacchi con il proclama di Islaz proclamarono la parità dei diritti per gli Ebrei; ma successivamente, proprio i rivoluzionari del 1848, aderenti al partito liberale (il cosiddettopartito rosso”) erano divenuti i più accaniti nemici degli Ebrei. Jon Bratianu aveva definito “un errore di gioventù” la sua posizione del 1848 favorevole agli Israeliti. Canini giudicava Bratianu personalmente onesto, ma accecato dalla bramosia di potere, e pertanto non aveva esitato a rinnegare gli ideali di libertà prima coltivati; lo stesso aveva fatto Constantin Rosetti, abile uomo politico ma con scarso senso dello Stato, distintosi per il suo antisemitismo.

Paradossalmente, i più disponibili ad accettare la presenza ebraica erano i conservatori, per lo più grandi proprietari terrieri; uomini come Maiorescu e Carp, ex ministri della Istruzione nei governi conservatori, si erano dimostrati molto più tolleranti dei liberali, ex rivoluzionari del 1848, affermando non potersi risolvere con leggi persecutorie il problema degli Ebrei, ma con la diffusione della cultura.

Anche le classi popolari non si mostravano accanite contro gli Ebrei; se a volte si erano abbandonate  alla violenza, ciò era dovuto all’attività sobillatrice di elementi borghesi.

Nel 1866 c’era stata la svolta antisemita di Jon Bratianu: la bozza della nuova Costituzione preparata subito dopo l’arrivo del principe Carlo prevedeva un articolo 6 destinato a dare eguali diritti agli Ebrei. Ci fu una sollevazione popolare e Bratianu si affrettò a fare marcia indietro; fu ritirato l’articolo 6 con le sue aperture liberali e fu invece introdotto nella Costituzione il tanto discusso articolo 7, di cui il Congresso di Berlino aveva chiesto la revoca, con il quale era negata la concessione della cittadinanza agli stranieri di fede non cristiana; tutti gli Ebrei erano considerati stranieri e di conseguenza restavano esclusi da ogni possibilità di emancipazione.

Per Canini la causa principale delle difficoltà politiche e sociali della Romania era il sistema elettorale, basato su collegi distinti per classi, che favoriva proprio la borghesia commerciale ostile agli Ebrei. Occorreva quindi riformare la legge elettorale, abolendo la ripartizione corporativa.

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I politici rumeni erano riusciti in passato ad insabbiare leggi e trattati per cui gli Ebrei avrebbero dovuto avere pari diritti; era successo con l’articolo 46 della Convenzione di Parigi del 1858, in base al quale agli Ebrei avrebbero dovuto essere subito riconosciuti i diritti civili, restando affidata a future leggi ordinarie la concessione di quelli politici; ma gli Israeliti non avevano ottenuto gli uni gli altri.

Era pure rimasta inapplicata la legge comunale del 1864, che dava agli Ebrei il diritto di voto per l’elezione dei Consigli comunali. Era quindi probabile che venisse pure eluso l’articolo 44 del Trattato di Berlino, riconosciuto per una pura formalità, ma privo di una concreta attuazione.

Per conseguire quello scopo si volevano considerare stranieri tutti gli Ebrei, concedendo la cittadinanza solo a pochi fra essi con tortuosi e complicati provvedimenti individuali.

Canini faceva quindi sua la proposta avanzata al Congresso di Berlino dall’ambasciatore de Launay, suggerita da un memoriale delle Comunità Israelitiche italiane, per cui a tutti i nati in Romania da padre pure nato in Romania, quale che fosse la loro religione, doveva essere data la cittadinanza.

I nati in Romania da padre straniero avrebbero potuto divenire cittadini presentato domanda al compimento del ventunesimo anno di età; quanti si trovavano nelle stesse condizioni, ma avevano già più di 21 anni, potevano presentare domanda per la cittadinanza entro un anno dall’entrata in vigore della nuova legge sulla cittadinanza, anche se avevano goduto della protezione straniera. Ed infine, gli stranieri residenti in Romania da almeno 10 anni erano pure ammessi a richiedere la cittadinanza.

Le Potenze avrebbero riconosciuto l’indipendenza della Romania solo dopo la concreta attuazione delle norme per la cittadinanza e l’uguaglianza dei diritti per gli Ebrei, con la possibilità di revocare quel riconoscimento se le norme non fossero poi state realmente applicate.

Non sfuggiva a Canini quante e quanto forti resistenze si opponevano nel Parlamento romeno all’applicazione piena e leale dell’articolo 44 del Trattato di Berlino; per superarle Carlo avrebbe dovuto minacciare di abdicare ovvero convocare con suffragio universale un’assemblea espressamente incaricata di risolvere la questione Israelitica.

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Canini concludeva il suo articolo ricordando un’affermazione di Jon Bratianu(per il quale, nonostante tutto, continuava a nutrire sentimenti amichevoli), fatta nel 1868, quando si era opposto al tentativo di 31 deputati, aderenti ad un nuovo partito fortemente antisemita, per introdurre norme contro gli Ebrei ancora più rigide di quelle esistenti: un paese poteva essere sconfitto non solo con le armi, ma anche da una riprovazione universale, causa del suo isolamento politico e morale.223

Queste proposte di Canini, tanto avanzate, erano però destinate a restare nel limbo dei buoni propositi, non essendo stato possibile sventare gli scaltri e spregiudicati espedienti di cui si avvalsero i politici Rumeni per eludere le richieste del Trattato di Berlino.

Qualche anno dopo Canini ebbe modo di confermare la sua posizione sulla questione ebraica polemizzando con Baccio Emanuele Maineri, autore dell’introduzione al canto dedicato alla Romania da Severino Attilj. Il Maineri si era espresso in modo sfavorevole sull’articolo 44 del Trattato di Berlino, poiché a parere suo la proposta eraliberale e conforme ai principi di civiltà, ma presentava gravi difficoltà per la sua applicazione, su cui solo la Romania poteva decidere.

L’incauto, destinato a rincorrere nell’ira del Canini, aveva affermato che, confondendo “… il principio astratto con le esigenze della vita reale, i politicastri… si diedero a menar gazzarra sulle gazzette e sui periodici per la legittima resistenza opposta dai legislatori e dal Governo romeno in argomenti di esclusiva ragione interna, politica ed economica…” (p.23).

Ma, soggiungeva l’autore, “per fortuna il Parlamento romeno seppe eludere un agguato, che minacciava seriamente la stessa esistenza della nazione, e consacrando la riforma col principio, ne animava gli effetti con temperamenti opportuni, capaci di attendere dal tempo la piena e bramata soluzione del problema”. (p.24)

La Romania non era, secondo il Maineri, il paese in cui si consumavano contro gli Ebrei le peggiori atrocità: “Intanto in Romania regnano dappertutto la tolleranza ed il rispetto degli Ebrei, mentre vediamo compiersi spietate e malvagie persecuzioni contro di essi in Russia, in Germania, in Austria e in Ungheria, Stati che allora (cioè al tempo del Congresso di Berlino) si mostrarono accessi di carità pelosa pefigli di Israele, imponendo alla Romania l’accordo della piena naturalità degli Ebrei, senza tener conto in alcun modo delle condizioni e delle leggi del paese”. (p. 26)

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A questo punto Maineri citava questo passo, tratto da una sua lettera su “La Riforma” del 26-27 dicembre 1878, indirizzata al “Comitato per l’invio di colonie italiane in Romania”, pubblicata sotto il titolo di “Le colonie italiane in Romania e la questione degli Ebrei”: “La questione degli Ebrei in Romania è, in generale, poco conosciuta; si giudica con idee preconcette, teoriche, schiavi di una idealità che, se può far testimonianza di nobili affetti, riflette una deplorevole ignoranza e accusa una partigianeria di malafede. Le persecuzioni ebraiche in Romania furono sempre ad arte esagerate, i rumori che destaronsi a ogni quando in Europa, ebbero cause tutt’altro che generose; l’Alliance Israélite Universelle, che ha tante affiliazioni e adepti di ogni Stato, ce ne potrebbe dire qualcosa”.

E la polemica conclusione del Maineri era questa: l’Italia doveva darebuoni e savi consigli alla Romania”, per rimuovere “le difficoltà ad essa fatte dall’infausto Trattato di Berlino” (p. 25 nota 1). Ce n’era più che a sufficienza per destare l’ira leonina del Canini, la cui pungente replica non si fece attendere, aggressiva fin dal titolo “Gli Israeliti in Romania ed il commendatore Baccio Emanuele Maineri celebre antisemita”.

Agli occhi di Canini il Maineri era un nemico dell’emancipazione degli Ebrei ed un complice dei Romeni che l’avevano impedita di fatto illudendo l’Europa con una vuota formula inserita nella Costituzione.

Canini confermava in pieno quanto aveva scritto nell’articolo del 1879 sulla “Nuova Antologia”, ricordando l’affermazione del conservatore Maiorescu, ex ministro della Istruzione, “gli Ebrei hanno creato e mantenuto presso di noi l’attività commerciale. Tutto il tempo che sarà consacrato all’intolleranza, al cosiddetto esclusivismo, è tempo perduto e non può produrre altro che la rovina dello Stato rumano”.

Non meno significative le parole di un altro conservatore, pur esso ex ministro dell’Istruzione, Carp, rivolto ai Romeni: “Volete voi lottare vittoriosamente contro gli Ebrei? Siate sobri, lavoratori, economi com’essi. La soluzione della questione dell’eclittica sta nella concorrenza del lavoro”.

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Citato questo pensiero di Carp, Canini osservava come i Romeni avessero preferito la persecuzione alla concorrenza; si diceva poi sicuro della futura assimilazione ed emancipazione degli Ebrei di Romania, appartenenti in gran parte “… a quella forte razza ebraica tedesca cui la Germania deve uomini come Heine e Meyerber”.

In occasione della visita a Roma di Rosetti, venuto a sollecitare il riconoscimento italiano dell’indipendenza della Romania, Depretis aveva chiesto a Canini una memoria sulle questioni orientali;  in quell’occasione l’autore aveva proposto non l’emancipazione completa ed immediata degli Ebrei, cui si opponevano difficoltà  insuperabili, ma un’emancipazione graduale e per categorie.

L’idea riuscì sgradita ad Armand Lévy, rappresentante dell’ “Alliance Israélite Universelle” in Italia, ma il governo italiano la fece propria e raccomandò al governo romeno l’emancipazione graduale. Il Parlamento di Bucarest non accolse tale suggerimento ed alla fine ebbero la parità dei diritti sono gli Ebrei ex combattenti della guerra del 1877-78. 224

Quasi in contemporanea con la polemica del Canini contro Maineri, ci fu un altro intervento sulla questione ebraica in Europa, con particolare riferimento alla situazione in Russia ed in Romania.

Achille Gennarelli nel febbraio 1882 pubblicò sulla “Nuova Antologia” un articolo, caratterizzato da un brusco cambio di posizione nella parte conclusiva rispetto all’analisi precedente.

L’articolo infatti iniziava con una dura deplorazione delle violenze antisemite, contro le quali avevano protestato in Inghilterra sia cattolici che anglicani. Con viva enfasi Gennarelli condannava così l’uso della violenza: “I perseguitati sono uomini, e questa sola qualità basterebbe, perché le nazioni e gli uomini civili si levassero al soccorso di fratelli, oppressi da barbari disonoranti la civiltà ed il cristianesimo”.

Ma, oltre che per la comune umanità, gli Israeliti andavano rispettati perché la violenza era rivolta “contro il popolo più illustre della storia, contro il popolo dal quale emanò il Cristianesimo”. E la Chiesa cristiana, non solo nella settimana santa ma anche in altre occasioni era solita pregare per gli Ebrei e non eccitava i fedeli a farne strage.

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Si rimproverava agli Ebrei di praticare l’usura, arricchendosi con le disgrazie altrui; ma responsabili di quella pratica erano quanti avevano messo al bando gli Israeliti, considerati reprobi: “Dei ribaldi non mancano fra gli Ebrei, ma non ve n’ha penuria fra i Cristiani e le pravità usuraie sono comuni ai discendenti di Mosè, ai figli di Cristo”.

Persino fra i Papi vi erano stati personaggi indegni. Nel corso della storia erano spariti grandi popoli e grandi imperi, ma gli Ebrei, malgrado le persecuzioni e la diaspora, erano sopravvissuti; il loro libro sacro, la Bibbia, era oggetto di culto anche per i Cristiani.

Gli Ebrei si erano arricchiti grazie alla loro laboriosità e ad uno spiccato senso degli affari, destando l’invidia di molti; ma poiché esisteva la libera concorrenza, anziché sfogare l’invidia perseguitandoli, era preferibile gareggiare con essi nel lavoro, nelle opere di ingegno, usando mezzi legittimi.

In Russia il governo attribuiva ai nichilisti le persecuzioni antisemite e per screditare questa pericolosa setta politica aveva interesse a far proseguire le persecuzioni; il numero degli Ebrei in Russia era elevato, ammontavano a 2.700.000; ma era un numero da considerarsi tollerabile se rapportato ai 77 milioni di abitanti.

Molto meno numerosi gli Ebrei in Romania, circa 400.000 individui; ma, in rapporto ai 5.380.000 abitanti di quel paese, la percentuale degli Ebrei in Romania risultava la più elevata d’Europa.

Gli Israeliti in Romania erano privi dei diritti civili e politici, esclusi dai pubblici uffici a causa di una “interpretazione incivile” della Convenzione di Parigi del 1858, cui si era giustamente voluto porre rimedio con l’articolo 44 del Trattato di Berlino, ponendo come condizione per il riconoscimento dell’indipendenza romena la fine di ogni discriminazione contro gli Ebrei.

Ma l’attuazione dell’articolo 44 incontrava forti resistenze e la Romania rischiava l’isolamento politico per il suo rifiuto ad applicarlo realmente.

Non tenendo conto delle ignoranti masse contadine, si poteva affermare che Romania fosse eguale il numero degli Ebrei e dei Cristiani colti, venendo così a destarsi il timore dei Romeni per una possibile egemonia degli Israeliti,  se avessero ottenuto parità di diritti. Tale timore non esisteva in Russia, dove in percentuale il numero degli Ebrei era meno importante.

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Non si spiegava l’autore le ragioni dell’antisemitismo in Germania, paese molto progredito sia nell’economia che nella cultura, dove tuttavia l’odio per gli Ebrei esisteva non  solo fra gli ignoranti, ma anche fra gli elementi colti; per fortuna, osservava Gennarelli, si trattava di una minoranza a cui si opponeva una maggioranza civile. Il vero torto degli Ebrei tedeschi, proseguiva Gennarelli, era la loro ricchezza; non si vedevano in giro mendicanti israeliti, poiché ozio e vagabondaggio erano estranei al loro costumi; il torto dei tedeschi era invece dimenticare il grande contributo dato dagli Ebrei alla cultura nazionale.

Nell’Europa occidentale di Ebrei, del tutto emancipati, avevano raggiunto posizioni eminenti nella vita politica, economica e culturale; non erano tuttavia mancati episodi scandalosi come il rapimento dei fanciulli Ebrei Mortara e Coen nello Stato Pontificio per forzarli a convertirsi al cattolicesimo.

Ma a questo punto dell’articolo Gennarelli  cambiava bruscamente tono senza darne una logica spiegazione. Una prima incongruenza era la previsione di una scomparsa degli Ebrei nel corso di qualche secolo a causa dei matrimoni misti, dimenticando di aver prima sottolineato la loro millenaria sopravvivenza, nonostante le persecuzioni e la diaspora.

Quel che stupisce maggiormente è che la valutazione del mondo ebraico, prima tanto positiva, di colpo diveniva molto critica, facendo proprie le abituali accuse ad esso rivolte.

Scriveva difatti il Gennarelli: “Ma non possiamo, e non dobbiamo, per giustizia dissimularci che gli Ebrei hanno molti torti, e che essi continuano in molti luoghi, ed in misura eccessiva, nelle loro immonde abitudini. Dovunque riesca loro possibile, sono assorbenti, e mirano chiaramente, come in Romania, a sovrapporsi a coloro stessi che li hanno liberati”.

Il Romania questa supposta liberazione non c’era stata; né si capisce come e perché venisse ora rinfacciata agli Ebrei la pratica dell’usura, quasi fosse una loro esclusiva caratteristica, dopo aver prima affermato che “le pravità usuraie sono comuni ai discendenti di Mosè ed ai figli di Cristo”.

Più che un giudizio critico, Gennarelli faceva seguire una lunga sfilza di improperi: “Incivili, sudici, intrattabili, ingannatori, falsi, dove la civiltà non è ben penetrata, e non ha avuto la forza di trasformarli-scettici e senza morale dove il loro benessere è divenuto preponderante”.

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Se gli Israeliti non si fossero ravveduti, non avrebbero più trovati difensori; ma l’autore voleva comunque esprimere questo augurio: “Speriamo però che facciano senno; che il grido d’allarme che uscì dalla Germania contro di loro fruttifichi – e che, ispirandosi ai nuovi tempi, riconoscano esser giunta l’ora della trasformazione, senza la quale tutto resterebbe incerto ancora”.

L’autore arrivava infine a giustificare l’antisemitismo tedesco, prima da lui stesso decisamente condannato: “Non si tratta di cospirazione, non di intolleranza: sono troppi gli uomini distinti che hanno levata la voce contro gli espulsi da Gerusalemme. Molti debbono essere i loro torti. Si correggano e diventino i fratelli amati non solo di tutti i tedeschi, ma di tutti gli uomini di cuore, di tutti coloro che idoleggiano la libertà universale”.225

Questa mielosa conclusione non riusciva a celare il vero pensiero dell’autore: in fondo, gli Ebrei di Germania se l’erano cercata.

In Germania a partire dal novembre 1880 si erano verificati numerosi e preoccupanti episodi di antisemitismo, la cui eco arrivò fino in Parlamento, dove due deputati,  Hänel  del partito progressista e Wiercow liberale-nazionale della fazione secessionista, presentarono un’interpellanza su quelle manifestazioni di intolleranza, definite “un’offesa alla eguaglianza garantita dalla Costituzione a tutti cittadini”.

Nel darne notizia, “L’Opinione” del 18 novembre 1880 si chiedeva con malizia quale sarebbe stata la risposta di Bismarck trovandosi fra gli Israeliti molti dei suoi oppositori ed essendo il cancelliere “un uomo di Stato così arbitrario e violento”, insofferente dell’opposizione. “Ma sarebbe deplorevole” –aggiungeva il giornale-che “…lasciandosi guidare dal temperamento, egli si ispirasse… a sentimenti non degni del suo nome e della sua prudenza”.

L’interpellanza presentata faceva pure riferimento ad una petizione degli antisemiti al governo perché fossero esclusi gli Ebrei dalla magistratura e fosse impedita una loro ulteriore immigrazione. Svolgendo la sua interpellanza Hänel  ricordò come proprio a Berlino il recente Congresso avesse imposto a Serbia, Romania e Montenegro il rispetto dei diritti degli Ebrei.

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Il vice cancelliere Stolbery nella sua replica si limitò a dare assicurazioni generiche, affermando di non poter entrare nei dettagli perché la petizione antisemita non era ancora pervenuta al governo; assicurò comunque che non sarebbero state cambiate le leggi poste a garanzia dei diritti degli Ebrei.

“L’Opinione” del 22 novembre trovò poco soddisfacente tale risposta: era un atto dovuto assicurare il mantenimento delle garanzie legislative per gli Ebrei, dal momento che il Congresso di Berlino, con l’assenso di Bismarck  che ne era stato il presidente, aveva affermato solennemente il principio dell’eguaglianza; era però poco credibile l’impossibilità di dare una più esauriente risposta all’interpellanza da parte del governo perché non gli era ancora pervenuta la petizione antisemita, ampiamente divulgata dalla stampa; concludeva il giornale “… dal momento che il governo si rifiuta di compiacere i nemici degli Ebrei, ci voleva poco a condannare apertamente, lealmente, senza riserve e sottintesi la propaganda antisemita”.

Riserve e sottintesi “L’Opinione” li trovava anche in quanto aveva scritto l’ufficiosaNord Deutsche Allgemeine Zeitungaccusando di parzialità l’interpellanza dei due deputati, “…non essendovi una sola parola di biasimo pei frequenti attacchi che sistematicamente e da lungo tempo si fanno contro alle istituzioni del culto cristiano”.

In effetti quelli erano tempi poco propizi per i cattolici in Germania, dove Bismarck aveva scatenato il “Kulturkampf” contro la Chiesa di Roma; “L’Opinione  arrivava a supporre l’esistenza di una occulta regia dei cattolici ultramontani tedeschi negli episodi di antisemitismo, “… parte per odio contro gli Ebrei, parte per distrarre da sé l’occhio vigile e severo del governo e del paese”.

Nel dibattito parlamentare intervenne anche l’altro deputato interpellante, Wierkoff, con un discorso definitosplendido” da “L’Opinione” (24 novembre); il giornale deplorava però che non fosse stato approvato un documento conclusivo, chiedendosi come la Camera potesse “… rimanere spettatrice inerte di ciò che si divisa di fare dagli agitatori mercé della propaganda in favore della agitazione antisemitica e di ciò che il Ministero potrebbe esser trascinato a fare dal partito contrario agli Israeliti”. Il governo in effetti non aveva dato un’adeguata risposta alla richiesta di escludere gli Ebrei dalla magistratura e dalle altre “posizioni influenti”, avanzata dal deputato Stoeker, uno degli antisemiti più in vista, pastore protestante e predicatore alla Corte imperiale.

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Si poneva quindi “L’Opinione” l’interrogativo se non si avesse “il diritto di ritenere che il principio dell’eguaglianza dei cittadini, manomesso già dai Rumeni, possa dover ricevere ora nella  colta e civile Germania gravissima offesa?”

E proprio uno dei massimi rappresentanti della “colta e civile” in Germania, lo storico Heinrich von Treitschke, si era schierato con gli antisemiti, ripudiando le idee liberali coltivate in gioventù, per cui aveva guardato con simpatia a Cavour ed al Piemonte, mostrandosi sempre più incline al culto della forza come motore della storia, a concezioni antidemocratiche ed antiumanitarie, anticipazione quasi delle teorie pangermaniste: l’antisemitismo fu il logico corollario di questa trasformazione ideologica del grande storico.

Ma nella società tedesca esistevano ancora gli anticorpi per combattere le infiltrazioni del virus antisemita. All’autorevolezza di Treitschke si contrappose infatti quella di Theodor Mommsen con una decisa condanna delle idee antisemite professate dal suo illustre collega.

“La Perseveranza” (25 novembre 1880) espresse una severa condanna per le manifestazioni di antisemitismo ed al tempo stesso apprezzamento per l’esito del dibattito parlamentare che aveva censurato l’intolleranza: “È deplorevole che una questione ignobile abbia potuto sorgere e ingrandirsi in un paese colto come la Prussia, ma c’è da congratularsi che la rappresentanza di quel paese l’abbia afferrata rudemente e bene scossa e cacciata in terra, se non addirittura sotterra”.

Si moltiplicarono pure nel paese le dimostrazioni contrarie all’antisemitismo: il 16 gennaio 1881 a Berlino si tenne alla fondazione Vittoria (Istituto nazionale per gli invalidi) una riunione presieduta dal principe ereditario che condannò l’antisemitismo e ne deplorò la diffusione tra gli studenti.

Sempre nel gennaio 1881, a Berlino gli operai organizzarono un’altra assemblea, cui presero parte anche alcuni rappresentanti del movimentoCristo-liberalefondato dal pastore antisemita Stoeker; in quella sede fu condannato l’antisemitismo, ritenuto una manovra per dividere gli operai, ma questi-fu solennemente affermato-non avrebbero mai votato per i persecutori degli Ebrei.

L’impegno trovò una rispondenza significativa nell’esito delle votazioni svoltesi nel gennaio 1881 in seno al Consiglio comunale di Berlino per l’elezione del Presidente e del Vice Presidente della municipalità: risultò eletto presidente l’ebreo Strossmann con un brillante risultato (97 voti su 120) e come Vice Presidente fu scelto il deputato Wierkoff, presentatore con Hänel  dell’interpellanza prima ricordata, con 73 voti a favore.

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Suonò stonato in questo quadro di manifestazioni e dichiarazioni contrarie all’antisemitismo l’apprezzamento espresso da Bismarck a fine gennaio 1881 per il telegramma di solidarietà inviatogli dall’associazione studentesca formatasi presso l’Università di Berlino di ispirazione antisemita; il cancelliere nella sua risposta lodava gli studenti per il contributo da essi dato “all’unità nazionale” e per la loro “lealtà verso l’imperatore e la patria”.

I giornali liberali tedeschi e con essi “L’Opinione” del 30 gennaio 1881 si chiesero se quelle parole di Bismarck fossero da considerarsi soltanto inopportune, o non avesse invece voluto essere un’indiretta risposta alla decisa condanna dell’antisemitismo pronunciata pochi giorni prima dal principe ereditario nel corso dell’assemblea da lui stesso presieduta, svoltasi presso la fondazione Vittoria.

I sospetti su Bismarck trovavano alimento nelle dichiarazioni antisemite da lui fatte in gioventù, riesumate in quell’occasione dai suoi avversari.

Per dissipare questi sospetti sul Cancelliere, uno  degli organi di stampa a lui vicini, il “Grenzbotenscrisse che l’antisemitismo era proprio degli avversari di Bismarck, i paleo-conservatori ed i cattolici ultramontani; Bismarck aveva problemi più gravi dell’antisemitismo di cui occuparsi

Ma l’articolo, più che difendere il cancelliere, attaccava gli Ebrei, arrivando ad affermare: “Il semitismo moderno  è certo un cosmopolitismo senza moralità, un fermento di decomposizione nazionale in tutti i paesi. I tedeschi debbono combatterlo, ma senza violenza”. E proseguiva osservando come la nazionalità potesse esistere solo se “la religione, la morale, la politica, la scienza e l’arte sono collegate come i rami di uno stesso e unico tronco. La civiltà tedesca uscirà dall’unione intima del genio tedesco con la Chiesa evangelica. Gli Ebrei quindi avrebbero dovuto trasferirsi in uno Stato giudaico; se fossero rimasti in Germania, per ottenere l’eguaglianza di fronte alla legge sarebbero stati obbligati a “… rispettare la comunità religiosa e nazionale dalla quale traggono la loro esistenza sociale ed il loro nutrimento intellettuale”.226

Non era detto, ma da quelle affermazioni poteva ricavarsi che in fondo gli antisemiti avevano le loro buone ragioni.

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E gli antisemiti, indifferenti alla riprovazione da essi destata in molti, non demordevano rilasciando dichiarazioni che in alcuni casi acquistavano un tono di involontario umorismo, come avvenne all’inizio del dicembre 1880 nel corso della discussione del bilancio svoltasi presso il Landtag  prussiano. Il consigliere conservatore Ludwig propose un’indagine statistica sui fondatori e direttori delle banche di recente creazione, per verificare quali fossero la loro fede religiosa e la loro posizione politica. Per dimostrare quanto fossero pericolosi gli Ebrei, Ludwig affermò che già nell’antico Egitto dei faraoni essi avevano insidiato la vita della nazione, poiché i geroglifici attestavano come “il sentimento della giustizia nel forte popolo egizianofosse stato distrutto da “mercanti israeliti con le loro pratiche commerciali e il loro amore del lucro”. Il ministro dell’Internoconcludeva Ludwig - avrebbe quindi fatto bene a studiare i geroglifici egiziani… (“La Nazione”,7 dicembre 1880).

Possono apparire poco preoccupanti e da non prendere troppo sul serio queste amenità di un egittologo della domenica quale può esser considerato Ludwig; ma le attività antisemitiche che ben poco avevano di umoristico non ebbero fine.

Stoeker era stato richiamato all’ordine da rappresentanti della sua stessa Chiesa; all’inizio del gennaio 1881 il giornaleEvangelischer Augeiger”, ritenuto interprete dell’orientamento religioso della Corte Imperiale, aveva condannato le idee antisemite; era corsa voce di un intervento del predicatore superiore di Corte, Koegel, perché Stöeker si astenesse da ulteriori prese di posizione antiebraiche.

E Stoeker per qualche tempo non partecipò a manifestazioni contro gli Ebrei ed attenuò la sua abituale violenza di linguaggio dichiarando di non volere leggi eccezionali contro gli Ebrei; anzi, se questi si fossero convertiti, li avrebbe considerati suoi fratelli. Commentava ironicamente “La Perseveranza” (8 gennaio 1881): “Quand’è così, perché il focoso cappellano non si sforza di convertire con la dolcezza evangelica quanti più può Ebrei alla fede cristiana, invece d’aizzare contro di essi il popolo tedesco…?”

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Ma alle parole concilianti del pastore Stöeker non seguirono atti realmente distensivi: il 13 gennaio 1881 si tenne a Francoforte un’assemblea antisemita organizzata dai “cristo-liberali” suoi seguaci, in cui fu espressa riprovazione per i deputati Richter e Wierkoff, accusati di screditare il Parlamento con il loro giudaismo; fu pure insinuato che gli operai venivano pagati per tenere manifestazioni filo-ebraiche (“La Perseveranza” 17 gennaio 1881).

Ci furono anche violenze non puramente verbali; nel successivo mese di febbraio si verificò un incendio, ritenuto doloso, nella sinagoga di Neu-Stettin ed in Assia, a Hechtschein, furono rotti a sassate i vetri delle case degli Ebrei (“La Perseveranza” 26 gennaio 1881).

Come non vedere in quegli episodi, seppur di modesta importanza, quasi un triste presagio dei fatti tanto più gravi verificatisi poi in Germania nel secolo XX?

Ma anziché giudicare quegli avvenimenti alla luce delle esperienze successive, in base al senno del poi, sembra preferibile ricordare le valutazioni dei contemporanei.

Si occupò dell’ondata di antisemitismo verificatasi in Germania poco tempo dopo la conclusione del Congresso di Berlino anche un italiano, Raffaele Mariano, nel volumeCristianesimo, Cattolicesimo e Civiltà”, edito nel 1879.

L’autore riteneva si fosse proceduto in Germania con eccessiva fretta sulla via dell’emancipazione ebraica, dando soverchio spazio agli Israeliti, per cui l’intolleranza nei loro confronti era da ritenersi una logica conseguenza di quella politica poco accorta; occorreva pertanto fare un passo indietro, verso il ripristino della situazione precedente. Scriveva il Mariano; “Ora cosa hanno fatto, cosa fanno i tedeschi? Bisognava impedire che condizioni siffatte nascessero o, nate, bisognava almeno controminarne o attenuarne le conseguenze. Si vede oggi che l’emancipazione politica  fu troppo precipitata e sentimentale. Molti osservano che dalla tolleranza alla parità il passo fu lungo e falso, e credono, che sarà giocoforza rifarlo indietro. Né gli argomenti che adducono son passionati o odiosi. Sino a che - essi dicono - gli Stati civili e moderni e le loro legislazioni dovranno fondarsi sui principii del Cristianesimo e tenersi con questi in intima relazione, è innegabile che gli Ebrei  legislatori, magistrati, ufficiali dello Stato formano un contrasto spiccato; e l’ingerenza loro nella composizione, interpretazione ed applicazione delle leggi non può essere a profitto dell’armonia di queste coprincipii loro e con gli scopi, cui devono essere rivolte”.

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Era infatti pericoloso, secondo l’autore, consentire agli Ebrei, già detentori di notevoli posizioni nel campo della finanza e del giornalismo, l’acquisto di un potere preminente negli uffici statali, nella magistratura, nella vita politica, “… sino a diventare esorbitante e dominante, e purtroppo a diventarlo via via è fatalmente avviato; susciterebbe molte, intime e profonde ripugnanze”.227

Era chiaramente giustificazionista dell’antisemitismo tedesco la posizione di Mariano, la cui opera fu non a caso riesumata proprio nel 1938, l’anno delle leggi razziali fasciste.

Più meditato appare il giudizio su quel fenomeno dato da un altro contemporaneo, il francese Valbert sulla “Revue des Deux Mondes” del 1880, anche se diede una valutazione del tutto negativa degli Ebrei di Romania, mettendoli a confronto con quelli tedeschi.

L’autore vedeva negli Ebrei il capro espiatorio di turno, dopo i socialisti e di cattolici, cui imputare tutte le difficoltà esistenti in Germania. Valbert non riteneva l’antisemitismo tedesco frutto di un troppo frettoloso riconoscimento dei diritti degli Ebrei, come affermato da Mariano; per contro esso era da attribuire ad un ritardo storico; difatti solo nel 1848 nel mondo germanico si era posto il problema della condizione ebraica, affrontato invece in Francia nell’anno della grande rivoluzione, nel 1789, e risolto con il pieno riconoscimento dell’uguaglianza dei diritti per gli Israeliti.

Il leader del movimento antisemita in Germania, Stoecker, rimproverava agli Ebrei  soprattutto di nutrire ambizioni politiche e culturali e notava allarmato come gli studenti ebrei nei ginnasi di Berlino fossero ben 1488 su di un totale di 4784, formando così una percentuale del 33% mentre gli Ebrei rappresentavano solo il 5% della popolazione della capitale tedesca; molti giornali inoltre erano controllati da Ebrei.

Ad alimentare incomprensioni e contrasti contribuivano poi le differenze caratteriali fra Tedeschi ed Ebrei, ai quali gli oppositori più moderati riconoscevano almeno qualità personali, come la tenacia, la laboriosità, l’attaccamento alla famiglia; ma tutti gli antisemiti concordemente rimproveravano agli Israeliti la mancanza di patriottismo. Ma come si poteva pretenderlo-si chiedeva Valbert-da parte dei perseguitati? Pour les opprimés le pays natal est une terre étrangère et qui n’a pas de droits, n’a point de patrie”, concludeva l’autore con tacitiana concisione.

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E non sarebbe poi stata la rovina della Germania concede i diritti politici a 500.000 Ebrei; era invece comprensibile la resistenza della Romania a dare in blocco la cittadinanza a tutti gli Ebrei, come avrebbe preteso il Congresso di Berlino: “Il s’agissait d’une nationalité naissante, plante delicate qui a besoin d’être protegée contre les insects rongeurs; il s’agissait aussi d’un pays de cinque millions d’habitants, résident plus de quatre cent mille juifs, qui ne répresent pas la fleur de leur race”; fra loro abbondavano osti, usurai, gente che viveva di espedienti e di piccole rapine, “insatiables sangsues que les lois sont impuissantes à faire dégorger”, del tutto estranei al paese ed ai suoi interessi.

La Romania, proseguiva l’autore, aveva dimostrato grande saggezza trovando un giusto compromesso tra le richieste sconsiderate dell’Europa e la tutela dei suoi legittimi interessi:”…elle a desarmé tout le monde, à force de prudence et d’habilité le faible a eu raison des forts”.

Ma era ben diversa la situazione del grande impero germanico: 40 milioni di tedeschi potevano facilmente dare la parità dei diritti a 500.000 Ebrei perfettamente assimilati per lingua e costumi, che si erano battuti in guerra per la Germania, cui avevano pure dato artisti, filosofi, scrittori.

La Germania aspirava a conquistare il mondo e, dando prova di impotenza, non riusciva a conquistare i suoi Ebrei.

Già a prima vista non appare condivisibile l’affermazione di Valbert circa l’indifferenza patriottica degli Ebrei di Romania, messa a confronto con il contributo dato in guerra da quelli tedeschi: nella guerra del 1877-78 anche gli Ebrei romeni avevano affrontato la morte sui campi di battaglia.

Valbert criticava invece la partecipazione al Kulturkampf degli Ebrei, ben lieti di esacerbare i contrasti tra cattolici e protestanti; la loro ingerenza nelle vicende dei Cristiani di Chiese diverse aveva spinto Stoecker ad intromettersi a sua volta nel mondo ebraico.

Gli Ebrei non erano in ogni caso esposti a seri pericoli; era ben lontano il 1819, quando gli antisemiti tedeschi avevano chiesto la segregazione degli Ebrei nei ghetti con l’obbligo di portare un segno ben visibile per consentire l’individuazione, la sorveglianza della polizia, i matrimoni misti per alterare le tradizioni ebraiche.

Al confronto apparivano moderate le richieste di Stoecker, limitate alla riforma del diritto ipotecario e della legge sulle società per azioni, oltre ad  interdire agli Ebrei l’insegnamento nelle scuole elementari e l’accesso alla magistratura.

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Altri invece continuavano ad avanzare contro gli Ebrei proposte molto più drastiche (perdita dei diritti politici, divieto di avere proprietà rurali, speciali permessi della polizia per le attività commerciali, divieto di nuove immigrazioni, disperdere sul territorio di Ebrei già residenti in Germania); tutte proposte difficilmente realizzabili: “…grâce à Dieu, il est quelquefois plus facile d’écrire une sottise que de la faire”, notava argutamente Valbert.

Bismarck  da giovane aveva avuto trascorsi antisemiti; ma da buon opportunista era disposto a rinnegare il suo passato ed era rimasto indifferente alla campagna antisemita di Stoecker.

Anche alcuni Ebrei  avevano reso servizio a Bismarck nel campo finanziario ed il cancelliere quindi non li avrebbe perseguitati, più per tutelare gli interessi tedeschi che per gratitudine: “C’est une règle importante de la vie de ne pas se brouiller avec son banquier et un grand politique pense toujours aux emprunts à venir”. 228

Qualche anno dopo, nel 1882, Valbert tornò sull’argomento con un secondo articolo sulla stessa “Revue des Deux Mondesprendendo atto con soddisfazione dell’ attenuarsi, per l’orrore destato dai feroci pogroms in Russia, dell’antisemitismo causato precedentemente in Germania dal grande dinamismo degli Ebrei negli affari, nella politica, nella cultura.

Gli antisemiti si erano screditati da se stessi muovendo agli Israeliti accuse esagerate: “L’Allemand qui raisonne est le plus raisonnable des hommes, l’Allemand qui a l’esprit de travers a l’impudence de la déraison…”.

Gli Ebrei erano stati vittime di violenze verbali più che fisiche; contro di essi c’erano stati attacchi di cristiani troppo zelanti, di liberali pentiti per opportunismo, di liberi pensatori e di filosofiplus intolérans que des sacristains”. Stoecker, ricordandosi forse che anche Gesù Cristo era nato in Palestina, aveva moderato i suoi attacchi; più feroce di Stoecker e di Treitsche nell’attaccare gli Ebrei si era dimostrato Dühring, rimproverando ad essi di essere intolleranti come il loro Dio, che aveva rifiutato la coesistenza con altre divinità, pretendendo di essere l’unico degno di adorazione.

Dühring aveva chiesto leggi eccezionali contro gli Ebrei, sostenendo l’impossibilità di essere tolleranti con gli intolleranti, fossero essi gesuiti o rabbini. La libertà poteva essere data solo a chi agiva bene: principio giudicato da Valbert degno della Santa Inquisizione spagnola.

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La proposta di controllare le attività economiche degli Ebrei, fatta da Dühring, non aveva preoccupato molto gli uomini d’affari Ebrei; essi però avevano reagito con forza, contrariamente alla tradizione ebraica di pazienza e di mansuetudine, “… qui ont fait si souvent l’admiration et le désespoir de leurs ennemis”.

Si mostrava ottimista Valbert sul futuro delle comunità ebraiche di Germania, dove “…avec le progrès de la vraie tolérance et des idées liberales, le judaisme cessera de jour en jour d’être une patrie, il ne sera plus qu’une religion”. 229

Uno stesso ottimismo non poteva esserci per la situazione degli Ebrei di Romania, dove la discussione sul modo di applicare l’articolo 44 del Trattato di Berlino si era impantanata, dibattendosi in un groviglio di cavilli e di espedienti per eludere le richieste del Congresso ed al tempo stesso ottenere il riconoscimento europeo dell’indipendenza.

Quei contorcimenti che si avvitavano su se stessi, quei sofismi di tipo bizantino erano puntualmente riportati nel rapporto dell’agente diplomatico italiano a Bucarest, ben lontano dal trovare in essi la saggezza lungimirante esaltata da Valbert sulla “Revue des Deux Mondes”.

Il principe Carlo esortava a rassegnarsi all’ineluttabile, acconsentendo alle pressanti richieste dell’Europa perché all’enunciazione di principio, ormai generalmente accettata, o per meglio dire subita, seguissero misure concrete.

Il governo si trovava in gravi difficoltà perché alla Camera, più ancora che al  Senato, esisteva una maggioranza ostile ad ogni provvedimento a favore degli Ebrei e Kogalniceanu avrebbe voluto decidere subito, approfittando delle vacanze parlamentari, secondo la consolidata abitudine di mettere gli oppositori di fronte al fatto compiuto. Il reggente l’agenzia diplomatica italiana, Pirrone, avanzava molti dubbi sulla legittimità di quella disinvolta procedura ed osservava  trattarsi di materia su cui si sarebbe dovuta pronunciare un’assemblea costituente, poiché i provvedimenti da prendere comportavano la revisione dell’articolo sette della Costituzione; inoltre, osservava il diplomatico italiano, sarebbe stata necessaria un’intesa ed un’azione concorde dei partiti, trattandosi di una questione di interesse generale; invece i conservatori, pur essendo meglio disposti dei liberali nei confronti degli Ebrei, per interesse di partito ostacolavano l’azione del governo per aumentare le

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difficoltà e provocarne la caduta. Inoltre, la tattica suggerita da Kogalniceanu non era condivisa da tutti ministri, Campineanu in particolare era contrario a scavalcare il Parlamento prendendo decisioni a sua insaputa.230

A Pirrone, a seguito di un suo rapporto del 18 agosto, Corti inviò il 26 un dispaccio per confermare la volontà italiana di non riconoscere l’indipendenza della Romania prima di una “fedele esecuzione… degli accordi stipulati a Berlino”.231

Pirrone informò subito Campineanu, ministro degli Esteri ad interim in assenza di Kogalniceanu, recatosi assieme a Bratianu a compiere un giro delle capitali europee per sondare le possibilità di attenuare il rigore delle richieste avanzate dai governi firmatari del Trattato di Berlino.

Campineanu diede assicurazioni sulla reale volontà romena di attenersi al Trattato, senza chiederne la modifica. Si mirava solo ad ottenere una dilazione per le misure da prendere, su cui comunque doveva pronunciarsi un’Assemblea Costituente, da convocare dopo il totale ritiro delle forze russe; il ministro confidava nella comprensione dell’Italia, che non avrebbe dovuto mostrarsi più intransigente dell’Austria e della Russia, che avevano già innalzato al livello di legazioni le loro agenzie diplomatiche.

In maniera discretaosservava Pirrone-Campineanu aveva fatto intendere la volontà romena di non accordare subito agli Ebrei i diritti politici; la stessa volontà, ma in modo molto più esplicito e polemico, l’aveva espressa il presidente della Camera, Rosetti. Nonostante le assicurazioni di Campineanu, Pirrone si diceva convinto di un tentativo di Kogalniceanu per ottenere una modifica dell’articolo 44 del Trattato di Berlino nel corso delle sue visite all’estero.232

Mentre la questione ebraica restava irrisolta, per la Dobrugia si era avviata una soluzione. Il governo romeno, ancor prima di occupare la regione nel novembre 1878, si era detto disposto già nel settembre ad aprirla alla colonizzazione straniera. La “Pressa” aveva dato notizia della creazione di un comitato italiano per l’immigrazione in Romania, nel cui comitato direttivo figuravano Marco Antonio Canini, Enrico Croce, già direttore del giornale milanese “La Lombardia”, G.L.Frollo, docente di italiano nell’Università di Bucarest. In una lettera datata 16 settembre 1878, pubblicata sulla “Pressa”, i  promotori  del  Comitato  esaltavano  la  Dobrugia per  la  fertilità  dei  suoi terreni

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ancora incolti e la proponevano come una meta ideale per gli immigranti italiani anche perché molto più vicina dell’America. Rosetti affermò trattarsi di una iniziativa privata, peraltro ben accetta, ponendo la condizione che i coloni italiani prendessero la cittadinanza romena.233

Ma, come si è già visto, quei progetti trovarono soltanto un’attuazione tardiva e limitata, perché ai buoni propositi ufficiali non corrispondeva una reale volontà politica di darvi un seguito reale. In mezzo a tante angustie, qualche consolazione poteva provenire al principe Carlo dal conferimento nel giugno 1878 della più alta onorificenza sabauda, il Collare dell’Annunziata, assegnato all’estero soltanto ai sovrani; nell’ottobre dello stesso anno, inoltre, il governo italiano riconobbe formalmente il titolo di “Altezza realeassunto dallo stesso Carlo.234

Continuavano nel frattempo ad imperversare le polemiche ed il governo, per evitare voti a lui contrari in Parlamento, avrebbe preferito ottenere un generico voto di fiducia senza entrare nel vivo dei problemi derivanti dalla questione ebraica e dalla cessione della Bessarabia.

La mozione su cui il governo si proponeva di chiedere la fiducia avrebbe espresso soltanto l’accettazione romena del Trattato di Berlino, le cui disposizioni richiedevano però tempo per   l’attuazione.

La modifica dell’articolo 7 della Costituzione era possibile farla solo convocando l’assemblea costituente, la cui attività si sarebbe protratta per molti mesi; ancor prima doveva esser fatta un’inchiesta sul numero degli Ebrei, verificandone le condizioni ed i requisiti ritenuti necessari per dar loro la cittadinanza.

Il governo sperava, presentando una mozione limitata ad affermare una generica accettazione del Trattato di Berlino, di poterne ottenere l’approvazione unanime o quanto meno a larga maggioranza da parte del Parlamento, stabilendo una tregua tra i partiti, con grande giovamento per il prestigio della Romania; si sperava inoltre che quella mozione, una volta approvata, fosse giudicata dalle Potenze sufficiente per riconoscere l’indipendenza romena.235

Ma il governo non ebbe carta bianca per formulare la mozione; fu costretto ad affidare la redazione del testo ad una Commissione di 7 senatori ed ad una di 7 deputati, nella previsione che su di un testo preparato dal governo stesso difficilmente si sarebbe ottenuta la fiducia; questa fu alfine data,

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ma non si poté evitare la discussione sui singoli punti e ci furono aspre polemiche; fu così decisa la cessione della Bessarabia in cambio della Dobrugia, mentre la questione ebraica fu rinviata alle decisioni della Costituente ed il governo iniziò le procedure per la sua convocazione. 236

Kogalniceanu si affrettò a chiedere a Corti di trasformare l’agenzia diplomatica in legazione, come avevano già fatto Russia ed Austria, sperando che l’accettazione del Trattato di Berlino, fatta con la mozione approvata dal Parlamento, fosse considerata sufficiente per riconoscere l’indipendenza della Romania e di conseguenza stabilire rapporti diplomatici a più alto livello. Con una nota successiva inviata all’agente diplomatico a Roma, Obedenare, Kogalniceanu inviò il testo della mozione approvata dal Parlamento, con la quale poteva considerarsi risolta la questione dello scambio Bessarabia-Dobrugia, essendosi pure impegnati il governo e la nazione “…à reviser constitutionellement le régime intérieur et à y introduire les modifications voulues, en les appropriant à la situation locale”, procedura necessaria per risolvere la questione ebraica in conformità al Trattato di Berlino.

Kogalniceanu rinnovava la richiesta di riconoscere prontamente l’indipendenza romena e di dareaux relations diplomatiques réciproques le caractère désornais compatible avec la nouvelle position internationale de la Roumanie”.237

Il governo italiano in un primo momento sembrò disposto ad accogliere le richieste di Kogalniceanu. Cairoli infatti comunicò a Fava il 3 novembre 1878 la decisione di riconoscere subito ed in modo formale l’indipendenza romena e gli inviò le credenziali di ministro plenipotenziario, anche se non erano stati del tutto compiuti gli adempimenti richiesti alla Romania dagli articoli 44 e 45 del Trattato di Berlino. Il governo italiano non aveva però voluto indugiare ancora nel riconoscere la Romania, considerata la sua necessità di applicare il Trattato nel rispetto delle procedure istituzionali; né si poteva dubitare della lealtà del governo di Bucarest dopo che il Parlamento aveva dichiarato di accettare il Trattato di Berlino approvando la mozione proposta dal governo stesso.

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Prima di presentare le nuove credenziali di ministro plenipotenziario Fava doveva però chiedere al governo romeno quale fosse il “termine estremo e perentorioentro cui si sarebbero conclusi i lavori della Costituente per la riforma dell’articolo 7 della Costituzione, contenente il divieto di dare la cittadinanza agli stranieri non cristiani. Bisognava pure accertare in che modo non sarebbero più stati considerati stranieri gli Ebrei nati in Romania da padre pur esso nato in Romania, da lungo tempo residenti nel paese. In via ufficiosa Obedenare aveva detto che i figli di uno straniero residente in Romania da almeno 10 anni avrebbero potuto, raggiunta l’età di 21 anni, ottenere la cittadinanza: si voleva sapere se quella norma sarebbe stata applicata agli Ebrei e se quella possibilità sarebbe stata data agli Ebrei già maggiorenni.

Cairoli chiedeva pure l’assicurazione che una volta riformato l’articolo 7 della Costituzione, non ci sarebbero state altre difficoltà per dare agli Ebrei la cittadinanza.

Fava doveva porre tali quesiti al governo romeno chiedendo in rispostadichiarazioni esplicite ed ufficiali”; solo dopo averle ottenute avrebbe potuto presentare le credenziali, riconoscendo così la Romania come Stato indipendente e sovrano.238

Fava si attivò subito per ottenere le dichiarazioni chieste da Cairoli, cui però manifestò il proprio disagio per quell’iniziativa da lui ritenuta insolita, precisando che nessun altro agente diplomatico aveva avanzato un’analoga richiesta. Comunicò a Cairoli di aver superato comunque quel disagio, svolgendo un’azionepersistente e stringente” presso il principe, i ministri, i politici di tutti partiti, facendo presente l’interesse della Romania a dare subito una risposta ai quesiti posti da Cairoli, poiché dipendeva da essa la presentazione delle nuove credenziali di cui era già in possesso, come Obedenare si era affrettato a darne notizia a Kogalniceanu. Carlo ed i ministri risposero a voce che la Romania aveva già manifestato il proposito di regolare la questione ebraica come richiesto dal Trattato di Berlino e che sarebbe stato rispettato l’impegno, come era già stato rispettato l’altro per la cessione della Bessarabia. Non si poteva mettere in dubbio la buona fede romena; il ritardo dipendeva solo dalla necessità di affidare la questione all’Assemblea Costituente convocata per il marzo 1879, le cui decisioni non potevano essere anticipate né dal principe né dal governo.

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A Cairoli si poteva quindi solo comunicare la data di inizio dei lavori della Costituente. Bratianu aveva però confidato a Fava che accelerare la soluzione di quel difficile problema avrebbe destato malumori ed accresciuto le difficoltà; per superarle aveva disposto un rimpasto del governo, includendovi esponenti politici che, se esclusi, avrebbero ostacolato l’operazione; con quella manovra Bratianu si riprometteva la presenza nella Costituente di uomini fedeli ai nuovi ministri e quindi disposti a votare per le proposte del governo. Dopo questo rapporto di Fava Kogalniceanu inviò una nota con allegato il discorso di Carlo del 27 novembre 1878 per la riapertura del Parlamento; il principe aveva ribadito la necessità di emendare la Costituzione per porre fine alla anacronistica discriminazione antiebraica. Il ministro romeno si augurava che una presa di posizione ufficiale della più alta carica dello Stato bastasse per tranquillizzare Cairoli: i dubbi dovevano essere fugati dalle parole del Sovrano. Kogalniceanu asseriva di non poter dire di più, non potendo usurpare le funzioni della Costituente, cui toccava prendere le decisioni, nel rispetto della distinzione dei rispettivi compiti.

A questo punto Fava non ritenne possibile insistere oltre per avere risposte più esaurienti e fece presente quale danno all’influenza italiana in  Romania avrebbe causato arrestare l’iter del riconoscimento dell’indipendenza; chiese pertanto a Cairoli se fosse opportuno prolungare gli indugi, tenuto pure conto dello scarso interesse della questione ebraica per l’Italia, poiché in Romania vivevano pochissimi Israeliti di origine italiana, mai venuti in consolato a lamentarsi di angherie subite.

Il governo di Vienna, pur essendoci in Romania moltissimi Ebrei di origine austriaca, non aveva esitato a riconoscere l’indipendenza romena, acquistando così influenza e simpatie, negate invece l’Italia a causa dell’indugio a fare analogo riconoscimento. Fava esortava quindi Cairoli ad adoperarsi per riconquistare le posizioni perdute, “… senza nuocere, ben inteso, alle giuste e moderate esigenzeimposte dagli impegni di Berlino”. 239

Piuttosto piccato per la risposta di Kogalniceanu, Cairoli inviò a Fava un dispaccio in cui rimproverava al ministro romeno di non avere bene inteso “il carattere e lo scopo” delle sue richieste.

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La risposta del ministro romeno era imperniata sulla necessità di lasciare alla Costituente la competenza per occuparsi della questione ebraica, per la cui soluzione il governo aveva già adempiuto a tutti gli obblighi di sua spettanza. Non era sua intenzione-continuava il presidente italiano-sollecitare il governo romeno a dare risposte invasive delle competenze del Parlamento e della Costituente; aveva chiesto soltanto assicurazioni sui tempi entro cui la Costituente avrebbe ultimato i suoi bilanci; su questo punto una risposta, seppure parziale, c’era stata, poiché Kogalniceanu aveva indicato la data dell’inizio dell’attività della Costituente fissata per il marzo 1879, non pronunciandosi però per la data conclusiva.

Sul secondo punto Kogalniceanu aveva invece taciuto, trincerandosi dietro l’affermazione che spettava alla Costituente fissare le modalità ed il carattere del riconoscimento dei diritti degli Ebrei. In realtà, il compito della Costituente si limitava alla revisione dell’articolo 7 della Costituzione; le successive misure legislative per fissare la condizione giuridica degli Ebrei sarebbero state invece di competenza del governo e quindi Kogalniceanu avrebbe potuto anticiparne le linee direttive senza usurpare le prerogative di altre istituzioni. Dimostrava poi  scetticismo Cairoli sulla reale intenzione del governo romeno di realizzare l’emancipazione degli Israeliti, a giudicare dai discorsi fatti in Parlamento; comunque, assicurava il presidente italiano di aver apprezzato il discorso di Carlo come espressione “del più elevato patriottismo” e di un “fermo proposito di savio e liberale governo”; si augurava che Carlo potesse influire sulle decisioni del Parlamento e della futura Costituente, oltre che sull’opinione pubblica europea, divisa “tra le simpatie per la giovane nazione e il rispetto di un santo e civile principio”.

Cairoli a conclusione del dispaccio manifestava il suo dispiacere perché le mancate risposte romene impedivano un pronto riconoscimento italiano della Romania, ancor prima che fossero state completamente rispettate le condizioni poste dal Trattato di Berlino; il riconoscimento del governo di Roma avrebbe forse potuto indurre altre Potenze a dare il loro.

L’Italia in quella situazione si vedeva costretta a prendere, seppure con rammarico una posizione analoga a quella della Francia, della Germania e della Gran Bretagna, tutte contrarie a riconoscere l’indipendenza   romena  prima  che  il  governo  di  Bucarest avesse compiuto tutti gli adempimenti

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previsti dall’articolo 44 del Trattato di Berlino. E Cairoli infine cercava di addolcire la delusione per la Romania dando incarico a Fava di confermare la simpatia italiana per la nazione sorella, precisando che la pausa imposta al riconoscimento dell’indipendenza romena non dipendeva “da diffidenza o da tiepida amicizia”, ma dalle responsabilità derivanti dal mancato rispetto delle richieste del Trattato di Berlino.

La questione romena doveva esser diventata ossessiva per Cairoli, tanto da inviare nella stessa giornata del 10 dicembre 1878 un secondo dispaccio a Fava perché confermasse l’immutabile amicizia italiana per la Romania: se a Bucarest qualcuno ne avesse dubitato, sarebbe bastato ricordargli il contegno del colonnello Orero, sempre schierato a favore della Romania nella Commissione per i confini della Dobrugia.

Il governo italiano però non aveva potuto mantenersi indifferente di fronte alla massiccia mobilitazione a favore degli Ebrei: molti parlamentari, la stampa, le Associazioni Israelitiche l’avevano tempestato con insistenti richieste perché il riconoscimento della Romania avvenisse soltanto dopo la reale applicazione del Trattato di Berlino. A tutto ciò era da aggiungersi il malcontento dei governi europei, in particolare di quello tedesco, per l’iniziativa italiana di riconoscere subito l’indipendenza romena; tale decisione era criticata perché rompeva il fronte comune di azione nei confronti della Romania, fino ad allora mantenutosi compatto. Il tentativo di ottenere dalla Romania chiarimenti era stato una prova di buona volontà con cui il governo italiano aveva cercato di realizzare un compromesso tra l’esigenza di rispettare il Trattato di Berlino e l’amicizia della Romania: male aveva fatto questa a non rispondere ai quesiti posti.

Non sarebbe stato necessario convocare la Costituente se fosse prevalsa la proposta di alcuni ministri per affrontare in Parlamento il problema ebraico, avanzata all’inizio di agosto240; se così fosse stato, sarebbe stato sufficiente, ispirandosi allo spirito del Trattato di Berlino, riconoscere come cittadini rumeni gli Ebrei nati in Romania da padre pure esso nato in Romania, risolvendo così l’intricata questione. 241

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La Romania non poteva quindi rimproverare all’Italia il rinvio del riconoscimento della sua indipendenza, schierandosi così con gli altri governi. Alcuni forse (e qui Cairoli si riferiva chiaramente all’Austria) potevano procurarsi in Romania un “momentaneo favore”; ma i Romeni dovevano rendersi conto di non poter trovare altrove “quella imparzialità, quel disinteresse, quella viva simpatia” sempre dimostrati loro dall’Italia.242

A questa “viva simpatia” per la Romania ed alla tutela degli interessi italiani si erano ispirate le sollecitazioni dell’ambasciatore di Robilant  da Vienna perché Cairoli si affrettasse a nominare un ministro plenipotenziario a Bucarest, scrivendo a  Corti l’8 ottobre 1878: “A proposito, perché differite tanto la nomina del Ministro a Bucarest? Per amicarsi gli Ebrei, sciupiamo completamente le nostre future relazioni coi Rumeni locchè  non mi pare ingegnosoprudente. L’Austria ha già pregiudicata la questione del riconoscimento nominando il suo Ministro…”

Rassegnato, Corti rispose: “Sono perfettamente del tuo avviso per quanto riguarda la Romania. Ma che vuoi? Il Presidente ha una grandissima deferenza per gli Israeliti ed il capo di Gabinetto ancor di più. Inde le malaugurate esitazioni”.243

E di Robiland tornava alla carica telegrafando il 25 ottobre a Corti di aver appreso da Fava l’imminente riconoscimento dell’indipendenza romena; rivolgeva quindi a Corti (sul punto di dimettersi, sostituito ad interim il 26 ottobre da Cairoli) questa esortazione: “Un plus long retard à effectuer mesure va au détriment de notre influence en Roumanie et y avantage considérablement celle des autrichiens, chose qui ne peut nous être très défavorable dans l’ultérieure développement de la question d’Orient”. 244

Spingeva invece in senso contrario da Berlino de Launay , telegrafando il 10 novembre 1878 a Cairoli per far presente il malcontento tedesco per il riconoscimento italiano della Romania, ancor prima della completa attuazione di quanto prescritto con il Trattato di Berlino; de Launay reiterava la segnalazione con il rapporto del 16 novembre, esponendo le ragioni a suo avviso contrarie al riconoscimento: avevano scarso valore le garanzie del governo romeno sulla questione ebraica, dal momento che sarebbe stata la futura Costituente a decidere in merito; né l’Italia era limitrofa della Romania, come lo erano Austria e Russia per cui era comprensibile il loro riconoscimento della Romania.

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In linea con la posizione di de Launay era l’ambasciatore francese a Berlino, de Saint Vallier; nel suo rapporto a Waddington del 10 novembre 1878 informava il ministro della diffidenza espressa da Bismarck e da von Bulow circa la reale volontà romena di rispettare il Trattato di Berlino, telegrafando: “Le Cabinet de Berlin estime donc de son devoir de résister fermement malgré certaines difficultés de Cour et de famille aux instances roumaines et de n’accorder la reconnaissance que contre des garanties sérieuses; assez blessé de la <<désertion italienne>> qu’il qualifie sévèrement le Chancelier espère que l’Angleterre et nous maintendrons notre attitude conformèment à la sienne…”

Il severo giudizio di Bismarck sul comportamento italiano diveniva qualche mese dopo una lunga invettiva antitaliana, riportata da Saint Vallier nel suo rapporto del 4 aprile 1879. L’ambasciatore francese aveva sondato le intenzioni tedesche, chiedendo a von Bulow cosa pensasse della disponibilità a riconoscere l’indipendenza romena dimostrata da Waddington a seguito delle pressioni italiane, determinate dalla convinzione di esser già una sufficiente garanzia l’approvazione data in prima lettura dalla Camera romena per la revisione dell’articolo 7 della Costituzione. Sia von Bulow che Bismarck si erano detti contrari a quella decisione e Bismarck aveva confermato di tenere molto all’unità d’azione con la Francia e l’Inghilterra;  de Saint Vallier riferiva nel rapporto: “Quant’à l’Italie, a ajouté M. de Bulow, sa conduite nous est fort indiffèrente et nous n’avons aucune intention d’agir pour tenter de la lui faire modifier; elle nous avait abbandoné une première fois”;-il riferimento era all’invio a Fava all’inizio del novembre 1878 delle credenziali del ministro plenipotenziario, poi non presentate-“nos observation l’ont fait venir à résipiscence; elle se dispose à déserter de nouveau la Cause du Droit et de l’execution du Traité, gran bien lui fasse et quelle agisse comme elle le voudra”. Il tono censorio diveniva ancor più pesante nella successiva affermazione del ministro tedesco; ribadito di tenere molto all’intesa con la Francia e l’Inghilterra, von Bulow proseguiva: “…mais nous n’avons pas grand souci de ce que fera le Gouvernement actuel de l’Italie, ne pouvant avoir confiance dans une politique sans cesse flottante, agitée et prête à obeir à tous les courants l’entrainent des ambitions peu avouables, des rêves d’influence exagérés, des dèfiances et des jalousies passionnées contre l’Autriche et pour tout résumer d’un mot, un désir singulièrement vif de jouer un rôle retentissant sans l’énergie ni les moyens de le remplir”.

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Per colmare la misura, von Bulow riferiva poi di aver respinto una nota presentata da de Launay perché sosteneva il riconoscimento della Romania, definendo ingiusto il rifiuto opposto dalla Germania.245

Aveva quindi Cairoli tutte le ragioni per non spingersi oltre nel riconoscimento dell’indipendenza romena, tanto più che non era soltanto la Germania a protestare per l’iniziativa italiana.

Da Parigi l’ambasciatore Cialdini telegrafò a Cairoli il 14 novembre 1878 per informarlo della contrarietà di Waddington a riconoscere la Romania prima del completo adempimento dell’articolo 44 del Trattato di Berlino; successivamente, il 19 novembre, Cialdini comunicò di aver rabbonito  Waddington facendo presente che Fava avrebbe presentato le credenziali solo dopo avere avuto adeguate garanzie romene e che l’Italia non voleva rompere l’unità d’azione con la Francia. Il governo di Parigi assumeva quindi una posizione d’attesa simile a quella italiana, informava Cialdini con telegramma del 18 dicembre 1878, disponendo la nomina di un ministro plenipotenziario a Bucarest, Duras, che avrebbe però raggiunto la capitale romena solo dopo il terzo voto della Camera per la Convocazione della Costituente (la procedura fissata dalla Costituzione prevedeva tre voti del Parlamento per convocare la Costituente).246

Prudenti riserve sul riconoscimento della Romania erano pure espresse dal governo inglese; il 30 gennaio 1879 lord Salisbury confermava all’ambasciatore italiano Menabrea di voler agire di concerto con Francia e Germania, prima di decidere se fosse sufficiente l’immediata concessione dell’eguaglianza dei diritti agli Ebrei residenti in Romania da molto tempo (si trattava di poche migliaia di persone), rinviando una concessione analoga per le centinaia di migliaia di Israeliti recentemente immigrati; Salisbury riteneva probabile che tale soluzione sarebbe stata accettata dalla Germania, mentre la Francia avrebbe insistito per un’immediata emancipazione di tutti gli Ebrei di Romania.247

Ma oltre al contesto internazionale, anche la situazione nel Parlamento italiano rendeva delicata la posizione del governo. Il 31 gennaio 1879, la discussione del bilancio degli Esteri si iniziò con un richiamo dell’onorevole Maurigi alla necessità di attenersi al Trattato di Berlino nel trattare la questione romena.

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Maurigi affermò decisamente “… il Trattato di Berlino bisogna accettarlo come sta, ed io credo che il criticarlo sia un’opera assolutamente inutile se non dannosa…”. Proseguì il suo intervento citando una frase di Visconti Venosta, a cui parere il Trattato era “… il limite massimo, in cui le Potenze interessate nel gran conflitto orientale” potevano trovare “un terreno comune in cui intendersi  senza ricorrere alla suprema ragione delle armi”.

In tale ottica non poteva quindi giustificarsi un anticipato riconoscimento della Romania.

Favorevole invece a riconoscere senza indugi l’indipendenza della Romania si dichiarò il giorno successivo l’onorevole Pierantoni, ricordando come la Romania avesse già ceduto la Bessarabia, con un voto del Parlamento senza sottoporre la questione alla Costituente.

Era più complessa la procedura necessaria per la concessione dei diritti agli Ebrei; la revisione dell’articolo 7 della Costituzione era di competenza dell’Assemblea Costituente, per la cui convocazione erano necessari tre voti del Parlamento, da esprimere a 15 giorni di distanza l’uno dall’altro; come stabilito dall’articolo 95 della Costituzione si sarebbe sciolto il Parlamento   e  avrebbe  iniziato  i  suoi  lavori  la  Costituente. Per  quanto  complessa, quella procedura andava rispettata; per completare l’iter legislativo sarebbero stati necessari molti mesi e l’Italia non poteva dare prova di diffidenza rinviando fino ad allora il riconoscimento dell’indipendenza romena. Occorreva certo rispettare il Trattato di Berlino, ma non pretendere “… un’interpretazione di quelle clausole esagerata, estensiva, contraria alla volontà di coloro che le dettarono, contraria al rispetto dell’autonomia e dell’indipendenza nazionale”; agendo così si sarebbe esposta la Romania a continue agitazioni, al rischio di “… essere assorbita dopo tanti secoli dal predominio di altre razze”, estranee alla latinità.

I Romeni difendevano la loro identità nazionale, ma non vietavano la libertà religiosa: a Jassy vi erano più di 50 sinagoghe a fronte di 48 chiese ortodosse. L’avversione agli Ebrei nasceva da cause sociali e non religiose e giustamente si era posto un freno alla loro attività con misure “di igiene e di polizia”.

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Era stato facile dare la parità agli Ebrei della Serbia, molto meno numerosi di quelli della Romania; al Congresso di Berlino c’era stato un “effetto traino” e Waddington aveva fatto imporre alla Romania le stesse condizioni della Serbia; “con alto senso politico”, a giudizio dell’onorevole Pierantoni, Gorciakoff  aveva sostenuto la libertà religiosa per gli Ebrei dei paesi orientali, ma non la parità dei diritti, poiché essi, ben diversi dai confratelli dell’Europa occidentale, erano per le popolazioni “un vero flagello”.

E quindi Pierantoni raccomandava “…di far rimanere l’eguaglianza nei limiti del possibile”, considerando non esservi “…diritti dell’uomo superiori a quelli dell’esistenza di una nazione”. Non si potevano con la forza  “… piegare i popoli viventi con libero governo ad accettare riforme innaturali ai loro costumi”.

Per l’onorevole Musolino, intervenuto nella stessa seduta del febbraio 1879, la libertà religiosa era già stata tutelata con il Trattato di Parigi del 1856, non  rispettato però dall’intolleranza dei Cristiani, come dimostrato da Serbi e Romeni oppressori degli Ebrei e dei Musulmani. Superare gli antichi pregiudizi  richiedeva molto tempo: negli Stati Uniti d’America era continuata la segregazione degli ex schiavi negri, anche dopo la fine della schiavitù.

Nella successiva seduta del 3 febbraio l’onorevole Zeppa, in polemica con l’onorevole Pierantoni, sostenne la legittimità di un intervento dei governi stranieri nella questione ebraica in Romania. Citava poi il pensiero di P. S. Mancini, illustre studioso di diritto internazionale, secondo il quale occorreva fare distinzione tra un riconoscimento di fatto di uno Stato, necessario per la convivenza internazionale, ed un riconoscimento di diritto, per cui si doveva accertare quale fosse il rispetto assicurato al suo interno ai principi della libertà e della civiltà. Era quindi legittimo subordinare alla concessione della parità agli Ebrei il riconoscimento della Romania, dove era proliferato l’antisemitismo a causa della avidità che spingeva alla spoliazione degli Israeliti.

Non bisognava fidarsi delle vaghe promesse dei Romeni, in quanto essi non avevano rispettato le norme favorevoli agli Ebrei disposte dalla Convenzione del 1858. A conclusione del suo intervento Zeppa propose questa mozione: “La Camera confida che il Governo del Re non riconoscerà l’indipendenza della Romania senza prima essersi accertato che l’articolo 44 del Trattato di Berlino sia puntualmente e fedelmente eseguito”.

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Sulla stessa posizione si mantenne Ruggero Bonghi, sostenendo la necessità di imporre alla Romania di riconoscere la parità dei diritti agli Ebrei, “…qualunque inconveniente e dolore passeggero” potesse causare quella riforma, da attuare prima del riconoscimento dell’indipendenza.

Di particolare interesse fu l’intervento di Benedetto  Cairoli. L’ex presidente del Consiglio e ministro degli Esteri,248 ricordò di aver disposto il riconoscimento della Romania con l’invio a Fava delle credenziali come ministro plenipotenziario, chiedendo però al governo romeno di chiarire la data di convocazione e la durata dei lavori della Costituente e quali norme avrebbero sostituito l’articolo 7 della Costituzione. Il governo romeno si limitò a precisare la data del marzo 1879 per la convocazione della Costituente, senza aggiungere ulteriori informazioni e pertanto rimase bloccato il riconoscimento.

Difese poi Cairoli l’articolo 44 del Trattato di Berlino, da non considerarsi un’indebita ingerenza e una coercizione; la questione d’Oriente si era acuita per le persecuzioni contro i Cristiani e giustamente il Congresso di Berlino aveva voluto eliminare ogni radice religiosa di futuri conflitti. Qualcuno aveva considerato l’articolo 44 una misura degna della Santa Alleanza, negatrice della indipendenza nazionale. Ma, proseguiva Cairoli riscuotendo l’approvazione dell’ Assemblea, “… la privazione dei diritti civili per differenze di religione è una reliquia perduta medievale. Nell’articolo che l’ha fatta sparire, non dobbiamo vedere un ricordo della Santa Alleanza, ma l’intervento della civiltà”.

Le altre Potenze si erano opposte all’anticipato riconoscimento italiano della Romania, perché giudicavano insufficienti le assicurazioni romene, ma la situazione sembrava diversa e, in caso Bucarest avesse dato garanzie adeguate, l’Italia, d’accordo con le altre Potenze, avrebbe potuto riconoscere la Romania.

La seduta del 4 febbraio fu interamente dedicata all’intervento di Agostino Depretis, presidente del Consiglio e ministro degli Esteri.

Ricordato l’invio delle credenziali da ministro plenipotenziario a Fava, disposto da Cairoli nel novembre 1878, Depretis dichiarò di voler portare a termine quell’iniziativa del suo predecessore, poiché non era interesse italiano  rinviare ancora il riconoscimento della Romania, considerato che Austria, Russia e Turchia avevano già insediato a Bucarest le  loro  legazioni. Già il  principe Carlo

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aveva garantito nel suo discorso per l’inaugurazione della sessione parlamentare tenuto il 9 dicembre 1878 l’applicazione dell’articolo 44; a due mesi di distanza Carlo aveva confermato tale impegno, inviando al Parlamento un messaggio per richiedere la modifica dell’articolo 7 della Costituzione e si era rimesso in moto il meccanismo istituzionale per quella modifica; sembrava quindi più vicino il giorno del riconoscimento della Romania, da subordinare però al rispetto dell’articolo 44 del Trattato di Berlino.

La discussione sul bilancio degli Esteri si concluse il 5 febbraio con l’intervento del relatore Miceli. Questi, reso omaggio all’articolo 44 ed al principio della parità, sollecitò il riconoscimento dell’indipendenza della Romania, considerate le assicurazioni del principe Carlo; il governo italiano avrebbe dovuto stabilire intese  con gli altri paesi per riconoscere la Romania senza attendere la completa attuazione dell’articolo 44, perché un ulteriore ritardo sarebbe stato considerato un atto di diffidenza verso il governo ed il popolo romeno. Era doveroso rispettare il principio della libertà religiosa e dell’eguaglianza di tutti, ma lo era altrettanto rispettare l’autonomia legislativa di uno Stato indipendente.

Per fatto personale prese ancora la parola Cairoli, volendo chiarire che non si era riconosciuta la Romania perché diffidenti nei suoi confronti, come adombrato da Miceli, ma per la mancata risposta ai chiarimenti richiesti. Esistevano certo particolari legami tra Italia e Romania, essendo entrambe  nazioni latine; ma avevano negato il riconoscimento la Francia, pur essa nazione latina; la Germania, legata alla Romania per averle dato come sovrano un principe della casa imperiale tedesca; l’Inghilterra, dei cui “generosi sentimenti” non si poteva dubitare.

Tutti quindi, compreso l’onorevole Miceli, dovevano credere alla inesistenza di alcun malanimo italiano nei confronti della Romania. Miceli ci tenne a precisare di non avere affermato che l’Italia avesse malanimo verso la Romania, ma soltanto che il governo di Bucarest avrebbe potuto supporlo se si fosse ancora rinviato il riconoscimento dell’indipendenza romena.

Con questa conciliante precisazione e con il ritiro della sua mozione da parte dell’onorevole Zeppa, si concluse il dibattito sul bilancio degli Esteri.adesso no è venuto da me vivo dell’autostrada249

In precedenza, la discussione dello stesso bilancio si era tenuta al Senato con il dibattito svoltosi nei giorni 20,21,22 gennaio 1879. Era intervenuto per primo il senatore Caracciolo di Bella, ricordando come la cessione della Bessarabia non fosse stata considerata da Corti durante il Congresso di Berlino una condizione necessaria per riconoscere la Romania.

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Corti era stato invece d’accordo con gli altri delegati nel chiedere l’inserimento nella Costituzione romena del principio della libertà religiosa e della parità dei diritti quale necessario preliminare al riconoscimento; di ciò bisognava tener conto prima di stabilire con Bucarest relazioni diplomatiche a livello di legazione; si era chiesto infine il senatore se fosse necessario l’accordo con gli altri governi prima di riconoscere la Romania.

Nella successiva tornata del 21 gennaio il senatore Pepoli aveva rivendicato l’autonomia della politica italiana in Oriente rispetto a quella della Francia; aveva condannato inoltre Pepoli la scarsa considerazione dimostrata per l’indipendenza della Romania, quando si era pensato di approvarne la cessione all’Austria in cambio del Veneto all’Italia.

L’Austria non era stata d’accordo per quella operazione, poiché temeva di mettere in minoranza gli Ungheresi se la popolazione della Moldavia della Valacchia si fosse unita ai Valacchi della Transilvania e della Bucovina; era quanto un eminente politico (forse Andrassy) aveva confidato a Pepoli (già ambasciatore d’Italia a Vienna), dimostrandosi pure propenso a sostenere l’indipendenza romena, poiché “…una Rumenia indipendente sarebbe stata un elemento fortissimo per resistere alla inondazione slava”.

Nella sua replica Depretis non aveva risposto a Caracciolo di Bella sulla questione religiosa in Romania, limitandosi ad una generica affermazione sul Trattato di Berlino come parte del diritto pubblico europeo ed a confermare l’impegno italiano perché fosse rispettato.

Il dibattito era proseguito il 22 gennaio con la controreplica di Caracciolo di Bella a Depretis, il cui silenzio sul principio della libertà religiosa era ritenuto un’implicita riserva sulla sua validità.

Caracciolo di Bella si era detto rispettoso di quella riserva ma aveva pure affermato l’importanza di quel principio, poiché non sarebbe stato tollerabile che uno Stato cristiano non rispettasse quella libertà religiosa che persino gli Ottomani avevano sempre proclamata e in qualche modo praticata.

Lo aveva rassicurato Depretis: non di una riserva, ma di una semplice dimenticanza si era trattato; per il rispetto della libertà religiosa-aveva affermato il presidente del consiglio-“… il Governo nostro si crede tenuto a fare ogni sforzo, perché essa è una precisa stipulazione del Trattato; anzi è la condizione sotto la quale venne riconosciuta l’indipendenza della Serbia e della Romania”.

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La discussione del bilancio degli Esteri per quanto riguardava i rapporti italo-Rumeni riprese al Senato il 17 febbraio 1879 con un severo richiamo del senatore Terenzio Mamiani al rispetto dell’articolo 44: “Gli artifici, le ambiguità, i sofismi e le tergiversazioni di una parte dei Rumeni per eludere questa prescrizione chiara e precisa del Trattato, sono ormai chiare a tutti”.

Dopo questa dura strigliata, Mamiani proseguì affermando che, oltre a modificare l’articolo 7 della Costituzione, bisognava riconoscere che gli Ebrei di Romania non erano tutti in blocco stranieri cui dare la cittadinanza, poiché molti di essi risiedevano da lungo tempo in Romania.

Non era necessario convocare la Costituente per modificare l’articolo 7, riguardante la concessione della cittadinanza agli stranieri; era sufficiente introdurre nel Codice civile una norma per cui ai nati e domiciliati in Romania non potevano esser negati i diritti civili e politici; chiedeva quindi a Depretis di fare tale proposta al governo di Bucarest.

Il successivo oratore, Pepoli, difese la Romania dall’accusa di ritardare per cattiva volontà la soluzione del problema israelitico; le lungaggini lamentate dipendevano dalle complesse procedure necessarie per modificare la Costituzione: se ne erano rese conto l’Austria, la Turchia e la Russia procedendo senza ulteriori indugi al riconoscimento dell’indipendenza. Non si poteva forzare il governo romeno ad accelerare la modifica dell’articolo 7 con la minaccia dell’isolamento diplomatico; se fosse stata oggetto di tale minaccia, il governo italiano non avrebbe votato la legge delle guarentigie per il Vaticano; della buona fede romena avrebbe dovuto rendersi garante l’Italia, anziché prestare fede a sospetti offensivi, negando il riconoscimento.

In quanto agli Ebrei, essi erano stranieri in Romania e rappresentavano una pericolosa minaccia per essa: “L’Ebreo rumeno… è un invasore che domanda al pacifico cittadino le chiavi della sua casa per introdurvisi legalmente e spogliarla”. Gli Ebrei taglieggiavano i Romeni con l’usura e giustamente si erano posti limiti alla loro attività.

Nella successiva seduta del 18 febbraio il senatore Alfieri si associò a Pepoli, definendo un’umiliazione per la Romania far dipendere il suo riconoscimento dall’emancipazione degli Ebrei; a questo punto riprese la parola Mamiani per precisare che l’indipendenza romena esisteva già “de facto”; mancava invece di riconoscimento “de jure” e gli altri paesi per riconoscerla formalmente avevano il diritto di esigere il rispetto dei principi liberali.

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Per il senatore Errante era ormai un dato acquisito la necessità di concedere i diritti agli Ebrei di Romania prima di riconoscerne l’indipendenza, come stabilito dall’articolo 44 del Trattato di Berlino, approvato con il concorso dei delegati italiani ed a questa realtà politica occorreva attenersi.

La ratifica del Trattato di Berlino da parte del Parlamento romeno e le assicurazioni di Carlo-proseguiva il senatore Errante-potevano essere considerate una garanzia per l’applicazione dell’articolo 44; ma l’Italia, per maggior sicurezza, aveva il diritto di chiedere la revoca delle misure antisemite prima di procedere al riconoscimento della Romania, come avevano fatto la Francia, la Germania e la Gran Bretagna.

A conclusione del dibattito intervenne Depretis, ammettendo essere interesse italiano riconoscere la Romania, sia per i vincoli storici con essa esistenti, sia per favorire gli interessi commerciali; ma era opportuno procedere d’intesa con gli altri paesi.

Il presidente del Consiglio contestò l’affermazione di Mamiani sulla possibilità di emancipare gli Ebrei con norme introdotte nel Codice civile: per cambiare l’articolo 7 della Costituzione si doveva necessariamente convocare la Costituente; era augurabile che si iniziasse al più presto la procedura per la sua convocazione.

Negava poi che il ritardo nel riconoscere l’indipendenza fosse offensivo per la Romania, come aveva sostenuto Pepoli; a testimoniare la buona disposizione italiana Depretis ricordava come nell’accordo commerciale italo-romeno stipulato nel 1878 si fossero adoperate le formule in uso per gli Stati indipendenti; altri segni di riguardo verso la Romania erano stati l’affidare ad un inviato speciale di alto rango, l’onorevole Domenico Farini, divenuto poi presidente della Camera, l’incarico di comunicare a Bucarest l’ascesa al trono di Umberto I ed il conferire al principe Carlo il Collare dell’Annunziata.

Nella sua controreplica Pepoli sostenne che riconoscere la Romania non sarebbe stato contrario al Trattato di Berlino, tanto che tre Stati (Austria, Russia, Turchia) l’avevano già fatto. A Depretis fece poi presente che si era  iniziata la procedura per convocare la Costituente ed a Mamiani oppose che non riconoscere la Romania significava violare il principio del non intervento, caro allo stesso Mamiani.

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L’interesse italiano a riconoscere la Romania era pure legato all’aiuto che essa avrebbe potuto dare all’Italia nella intricata questione d’Oriente.250

Dopo questi dibattiti parlamentari avversari e sostenitori del riconoscimento della Romania rimasero fermi sulle rispettive posizioni; solo l’andamento dell’esito dei lavori della Costituente potevano determinare in essi nuovi atteggiamenti.

Ma già all’inizio di marzo, quando si era ancora lontani dalla conclusione dell’attività della Costituente, si venne comunque  delineando nel mondo politico italiano una maggior comprensione della difficile situazione della Romania; anche in Germania sembrò attenuarsi il rigore fino ad allora dimostrato; il 2 marzo infatti de Launay segnalò a Depretis la disponibilità di Bismarck a scaglionare in un più lungo arco di tempo la concessione dei diritti agli Ebrei di Romania, essendosi reso conto dell’impossibilità di una loro immediata e completa equiparazione.

Si era quindi raccomandato alle associazioni Israelitiche di non tirare troppo la corda, per non creare difficoltà ai governi europei oltre che a quello romeno ed agli Ebrei stessi di Romania.

Era però respinta l’ipotesi, affiorata nelle discussioni del Parlamento di Bucarest, di procedere alla emancipazione degli Israeliti con provvedimenti individuali, rinviando così all’infinito la soluzione del problema.

Si rimproverava pure alla Romania la lungaggine della procedura, a paragone della rapida soluzione trovata invece in Serbia, per cui presto il console di Germania a Belgrado avrebbe ricevuto le credenziali di incaricato d’affari. Per la Romania si sarebbe provveduto a fare lo stesso soltanto dopo la predisposizione delle norme per sostituire l’articolo 7 della Costituzione, secondo quanto de Launay comunicava col successivo rapporto del 17 marzo 1879. Si chiedeva poi di adottare i provvedimenti individuali di emancipazione solo per gli Ebrei stranieri o che avessero goduto della protezione di un console straniero; gli Ebrei nati e residenti in Romania avrebbero dovuto esser considerati cittadini a tutti gli effetti ed ottenere subito i diritti civili e politici.

Ma lo spiraglio che era sembrato aprirsi per il riconoscimento della Romania presto si chiuse.

Depretis trovò ingiusto il diverso trattamento riservato alla Romania rispetto alla Serbia ed inviò il 18 marzo un dispaccio circolare agli ambasciatori a Londra (Menabrea), Berlino (de Launay) e Parigi (Cialdini) perché sondassero la possibilità di quei governi a riconoscere l’indipendenza della Romania alla prima occasione utile, quale avrebbe potuto essere il terzo voto del Parlamento per la convocazione della Costituente.251

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A Parigi permanevano le diffidenze verso la Romania ed il malumore per il tentativo italiano di affrettare il riconoscimento; Cialdini, nel preannunciare una risposta ufficiale di Parigi alla nota italiana, inviata il 18 marzo, per anticipare il riconoscimento dell’indipendenza romena, comunicava già il parere negativo francese: “Il parait quon Vous trouve bien pressé de reconnaître la Roumanie et l’on craint toujours quaprés tout elle ne tient pas ses engagements”.

Von Bülow aveva già asserito essere insufficiente per riconoscere la Romania il terzo voto del Parlamento di Bucarest per la convocazione della Costituente, chiedendo la piena applicazione dell’articolo 44 del Trattato di Berlino.

Meno intransigente si dimostrò lord  Salisbury, disponibile a riconoscere la Romania dopo il terzo voto parlamentare per convocare l’ Assemblea Costituente; chiese però, come aveva già fatto Cairoli al momento di inviare a Fava le credenziali di ministro plenipotenziario, informazioni sulle misure per applicare l’articolo 44 del Trattato di Berlino, una volta modificato l’articolo 7 della Costituzione romena. Anche Salisbury lodò il comportamento della Serbia, definito aperto e leale, mentre la Romania aveva avuto un atteggiamento ambiguo. 252

Ad imbrogliare ancor più la matassa si manifestò a quel punto un’ulteriore difficoltà, segnalata dall’ambasciatore a Berlino, de Launay. Questi riferì la conversazione avuta con l’agente diplomatico di Romania in Germania, Liteanu, secondo il quale il principe di Hohenloe, ambasciatore di Germania a Parigi e già delegato al Congresso di Berlino, avrebbe ritenuto sufficiente inserire nella Costituzione l’articolo 44 del Trattato di Parigi in sostituzione dell’articolo 7 da abrogare; ma - osservava de Launay - Hohenloe ignorava il proposito di Bismarck di risolvere, prima di riconoscere la Romania, l’annosa questione delle ferrovie romene, costringendo il governo di Bucarest ad acquistarle per l’ingente somma di 360 milioni di franchi, in modo da rimborsare capitali ed  interessi ai sottoscrittori, in gran parte tedeschi, delle obbligazioni emesse per costruire la ferrovia.

I Romeni rimasero scandalizzati da quel proposito e de Launay aveva rispolverato la sua vecchia proposta di considerare cittadino romeno chiunque fosse nativo della Romania da padre  pur esso nato in Romania.

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Liteanu aveva promesso di trasmettere a Bucarest la proposta di de Launay, manifestando a titolo personale il suo rincrescimento perché non era stata inserita nel Trattato, restando solo citata nel verbale della diciassettesima seduta del Congresso.

Gli intenti dilatori del governo tedesco perché il governo romeno riscattasse le ferrovie furono poi resi manifesti dalla dichiarazione di von Bülow sulla necessità di conoscere quali norme applicative il governo romeno volesse proporre alla Costituente, dopo aver sostituito l’articolo 7 della Costituzione con l’articolo 44 del Trattato di Berlino.253

Liteanu aveva manifestato a de Launay la sua riprovazione per l’uso strumentale fatto da Bismarck della questione ebraica in Romania, per ottenere un alto prezzo per la vendita delle ferrovie al governo di Bucarest. Non fu il solo a deplorare la spregiudicatezza di Bismarck; lo fece anche, con il suo stile fiorito di immagini e di iperboli, Garibaldi, in una lettera inviata da Civitavecchia il 25 agosto 1879 ad Enrico Croce e da questi riportata in appendice al suo volume dedicato al testamento politico del generale.

Garibaldi però formulava in modo diverso il suo atto d’accusa, collegando lo sfruttamento della questione ebraica da parte di Bismarck non alla questione delle ferrovie, ma al suo intento di favorire l’espansione austriaca, cui sarebbe stata sacrificata l’esistenza della Romania. Scriveva Garibaldi: “… la questione Israelita in Romania altro non è che un insidioso tranello bismarckiano, architettato in quella torbida fucina ove si contrattano i vergognosi mercati dei popoli liberi. Il Bismarck degno continuatore dell’opera di Arminio e nemico infestissimo del nome e del sangue latino, ha oggi preso di mira la povera Romania e ne ha decretato lo smembramento in favore dell’Austria, spostata dalla sua base e spinta sul fatale pendio del Mare Egeo!”. Tardando a riconoscere l’indipendenza “dei nostri Fratelli del Danubio”, aggiungeva Garibaldi, i governi di Roma e di Parigi si prestavanoinconsapevolmente ma irrevocabilmente, alle manovre liberticideaustriache e tedesche.

Oltre che per il “proteiforme  Bismarck e per i governi italiano e francese, Garibaldi ne aveva per gli Ebrei in generale e per l’ “Alliance Israélite Universelle” in particolare, sostenendo la necessità di “smascherare poi quegli Israeliti, suoi complici, che ne incarnano il letale pensiero mercé dell’Alleanza Universale che dava loro prende il nome”.

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Croce riferiva l’accoglienza trionfale del Parlamento romeno alla lettura di questa lettera di Garibaldi, accolta dall’assemblea, secondo l’organo governativoMonitorul Oficial” del 17 ottobre 1879, con “applausele  prolungite şi entusiastice” (“applausi prolungati ed entusiasti”).254

Depretis era poi disposto a riconoscere la Romania, troncando gli indugi; dopo la nota del 18 marzo 1879 agli ambasciatori a Berlino, Londra e Parigi, il 31 maggio telegrafò  a Menabrea di voler nominare a Bucarest un segretario di legazione come incaricato d’affari ad interim, tenendosi pronto ad inviare un ministro plenipotenziario appena la Romania avesse istituito una sua legazione a Roma; incaricava Menabrea di informare lord Salisbury, sperando che il ministro inglese  seguisse l’esempio italiano.

Ma Salisbury cautamente rispose di voler attendere le decisioni della Costituente per l’emancipazione degli Ebrei prima di prendere una decisione, rivelando però di aver già inviato le credenziali di ministro plenipotenziario all’ agente diplomatico a  Bucarest, che si teneva pronto a presentarle nel caso probabile di una decisione della Costituente conforme al Trattato di Berlino; aveva fatto scuola  - possiamo osservare noi - il precedente delle credenziali inviate da Cairoli a Fava, ma non presentate in attesa dei chiarimenti richiesti.255

Anche questa nuova iniziativa italiana riuscì sgradita a Berlino, secondo il telegramma di de Launay inviato il 16 giugno 1879 cui fece seguito il rapporto del 18 dello stesso mese.

L’ambasciatore consigliò a Depretis di non precipitare le decisioni e di mantenersi fedele al Trattato di Berlino, in modo da poter protestare se qualcuno avesse voluto modificarlo a danno dell’Italia; di un ulteriore rinvio del riconoscimento della Romania non avrebbero sofferto granché gli interessi italiani.

Con rapporto successivo del 28 giugno de Launay riferì il compiacimento dell’agente diplomatico romeno a Berlino, Liteanu per il mancato invio a Bucarest del segretario di legazione Pensa in qualità di incaricato d’affari ad interim, perché tale misura avrebbe incoraggiato in seno alla Costituente le resistenze a concedere le parità agli Ebrei, facendo forse venir  meno la maggioranza dei due terzi necessaria per approvare una decisione. In quell’occasione Liteanu confermò a de Launay la volontà di Bismarck di subordinare il riconoscimento della Romania all’acquisto delle ferrovie romene da parte del governo di Bucarest.256

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Per sbloccare la situazione fu affidato all’Austria il compito di comunicare alla Romania la disponibilità dei governi di Berlino, Londra e Parigi a riconoscere la Romania se fosse stato sostituito all’articolo 7 della Costituzione l’articolo 44 del Trattato di Berlino. A richiesta dell’ambasciatore britannico a Roma, Depretis  si associò all’iniziativa, riservandosi però la libertà di agire secondo gli interessi italiani, una volta conosciuta la risposta romena.

Ancora una volta de Launay frenò, affermando essere principale interesse italiano rispettare il Trattato di Berlino e conservare l’amicizia tedesca, molto più importante di quella romena; de Launay si disse al corrente delle pressioni esercitate dall’ambasciatore a Vienna, di Robilant, per un pronto riconoscimento italiano dell’indipendenza romena, così com’era pure consapevole dell’uso strumentale della questione ebraica fatto da Bismarck per salvaguardare gli interessi tedeschi nell’affare delle ferrovie; riteneva comunque necessario non separare l’azione italiana da quella della Francia, della Gran Bretagna, e soprattutto della Germania.257

Mentre in Europa si svolgeva questa intensa attività diplomatica, a Bucarest  i lavori parlamentari procedevano a rilento, a causa delle difficoltà presentate dalla questione Israelitica, complicata oltretutto dalle tradizionali rivalità politiche e personali.

Si manifestò presto una divergenza tra la Commissione della Camera e quella del Senato, formatesi per formulare proposte all’Assemblea Costituente.

La Commissione della Camera voleva infatti affidare alla Costituente un mandato preciso, per cui la Costituente avrebbe dovuto considerare stranieri tutti gli Ebrei della Romania, prevedendo per essi un’emancipazione con legge individuale approvata dai due terzi del Parlamento. Meno rigida e restrittiva era invece la proposta della Commissione del Senato,di cui facevano parte personaggi autorevoli come i conservatori Boerescu, Strat e Carp, limitata a chiedere la revisione dell’articolo 7, senza precisarne i particolari e senza dare alla Costituente indicazioni vincolanti.

Bratianu era d’accordo con la Commissione del Senato, ma temeva ricadute negative per il suo partito alle prossime elezioni se si fosse opposto alle indicazioni della Commissione della Camera.

Alla fine prevalse la posizione del Senato e fu pertanto dato alla Costituente un mandato privo di vincoli e di limitazioni.

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La Camera dei Deputati romena il 10 marzo 1879 pronunciò il primo voto favorevole alla revisione dell’articolo 7 della Costituzione (71 sì e 19 no); il 12 dello stesso mese ci fu il voto del Senato, pure esso favorevole con 41 sì e 7 no.

Il secondo voto si ebbe il 19 alla Camera ed il 20 marzo al Senato, decidendo anche questa volta di non dare alla Costituente indicazioni dettagliate per le modifiche costituzionali.

Il terzo e definitivo voto fu espresso in contemporanea da Camera e Senato il 6 aprile 1879.

Fu allora sciolto il Parlamento, in base all’articolo 129 della Costituzione, lasciando libero il campo alla Costituente da eleggere.258

La Costituente doveva essere bicamerale e, come il Parlamento ordinario, era distinta in Camera dei Deputati e Senato; nelle elezioni, svoltesi nel maggio 1879, il Governo ottenne alla Camera la maggioranza dei due terzi, necessaria per approvare le modifiche della Costituzione; non la ebbe invece al Senato, per cui rimase l’incertezza sulle decisioni che avrebbe preso l’Assemblea, tanto più che si profilavano schieramenti trasversali, senza una rigida distinzione secondo schemi partitici.259

La situazione politica romena era seguita all’estero con attenzione; il segretario generale degli Esteri, Tornielli, informò il 26 maggio Fava delle dichiarazioni rese da Salisbury  alla Camera dei Lords il 5 maggio 1879, in risposta ad una interrogazione di lord Granville. Il titolare del Foreign Office aveva ricordato l’obbligo imposto a Serbia e Romania dall’articolo 44 del Trattato di Berlino per la parità giuridica degli Ebrei.

La Serbia non aveva concluso l’iter legislativo previsto, ma aveva comunque fornito con il suo comportamento garanzie sufficienti ed aveva quindi ottenuto il riconoscimento di tutte le Potenze; così non era stato per la Romania, sulle cui reali intenzioni permanevano dubbi ed aveva perciò avuto il riconoscimento sono delle Potenze limitrofe (Austria,  Russia, Turchia). Le quattro grandi Potenze occidentali (Francia, Germania, Inghilterra, Italia) si erano riservate di riconoscere la Romania dopo l’applicazione dell’articolo 44. Tornielli confidava in un imminente adempimento romeno “onde con gran compiacimento potremo presto salutare la Romania fra le nazioni indipendenti”, ricordando la necessità “…che il Gabinetto di Bucarest affretti egli stesso con i suoi atti il momento in cui le benevole disposizioni dei Gabinetti amici potranno esser tradotte in atto”.260

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Sembrò confermare tale auspicio il discorso di Carlo tenuto il 3 giugno 1879 per l’apertura dei lavori della Costituente; il sovrano chiedeva l’abolizione dell’articolo 7 della Costituzione rivelatosi inutile per contenere l’espansione ebraica e dannoso per la Romania, in quanto ritenuto una conferma dell’ accusa rivolta alla Romania di perseguitare gli Ebrei per ragioni religiose e non per necessità sociali.

Ma i lavori della Costituente presto si impantarono in questioni secondarie come quella di decidere se base delle discussioni dovesse essere una proposta formulata dal solo governo ovvero una avanzata congiuntamente da governo ed assemblea. Si decise alla fine per una proposta congiunta e si formò una Commissione mista di deputati e senatori incaricata di preparare d’intesa con il governo una bozza di riforma: restava indeciso se limitarsi ad abolire l’articolo 7 ovvero sostituirlo con un nuovo testo.

Fava si diceva sicuro dell’abolizione dell’articolo 7 ma non poteva prevedere se le norme sostitutive sarebbero entrate nella Costituzione ovvero del Codice civile, propendendo però per la seconda soluzione.

Restava indefinito quali Ebrei avrebbero ottenuto la cittadinanza. Il giornale di RosettiRomanulpropose un’operazione al ribasso: anziché introdurre norme più liberali per gli Ebrei, stabilendo la loro parità di fronte alla legge, era preferibile limitare i diritti degli stranieri cristiani, in modo da evitare l’accusa di discriminare gli Ebrei.

Ed un altro giornale ufficioso di Bucarest, “Orient”, pubblicò il 29 giugno un articolo dal titolo “L’union fait la force”, in cui augurava una risposta unanime della Romania alle richieste straniere per l’emancipazione degli Israeliti: bisognava affermare di aver fatto tutto il possibile e la necessità di procedere con una prudente gradualità, dicendo all’Europa: “Nous avons fait quelque chose aujourdhui, nous ferons ancore quelque chose demain et aprésdemain et les jours suivants: ainsi, graduellement, doucement, insensiblement, étape par étape nous arriverons à la transformation complète de la conditions des juifs”. Così si era fatto negli altri paesi e così volevano fare i Romeni: “…nous ne voulons pas nous suicider”, era l’affermazione conclusiva.261

Di fronte a questa programmata strategia del rinvio i governi europei persero logicamente la pazienza.

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Il cancelliere austriaco Andrassy, prima di ricevere l’incarico di far da mediatore fra le quattro Potenze occidentali e la Romania, con una nota del 30 giugno aveva minacciato il richiamo del ministro plenipotenziario a Bucarest, se la Romania avesse continuato a tergiversare per l’applicazione dell’articolo 44; la nota austriaca produsse una grande impressione nel mondo politico romeno e Bratianu minacciò le dimissioni se i lavori della Costituente non fossero proceduti con maggiore celerità.

Bellicoso, come al solito, Bismarck minacciò di bloccare il canale di Sulima se fossero continuati gli indugi ed i rinvii della Romania, secondo quanto riferì un alto funzionario del Ministero degli Esteri austriaco, il barone Calice, all’incaricato d’affari italiano a Vienna, Curtopassi, dichiarando di averlo appreso dall’ambasciatore tedesco in Austria. 262

L’esistenza di tale piano non ebbe però conferma ed anzi fu smentita da lord Salisbury in un colloquio con l’ambasciatore Menabrea.

Ed alla fine la montagna partorì il topolino. Il 5 luglio la Costituente presentò questa proposta: ogni straniero avrebbe potuto rivolgere al principe domanda per avere la cittadinanza, precisando le proprie risorse economiche, la professione o il mestiere esercitato, la volontà di stabilirsi in Romania. A dieci anni di distanza da tale domanda il Parlamento avrebbe potuto dargli la cittadinanza con una legge individuale, approvata con la maggioranza dei due terzi, poi sanzionata e promulgata dal principe. Sarebbero stati esentati dall’attesa di dieci anni quanti avessero reso al Paese importanti servizi, avessero creato industrie, avessero dimostrato un particolare talento o fossero nati in Romania da padre pur esso nato in Romania (era questa una debole eco della proposta de Launay).

Era vietato in ogni caso agli stranieri di acquistare proprietà agricole, ma era loro riconosciuto il diritto di ereditarle.

Bratianu si disse subito contrario a quel progetto basato su procedure tanto contorte e defatiganti.

Alle Camere riunite in seduta segreta il presidente del Consiglio comunicò la possibilità di una richiesta delle Potenze per sostituire all’articolo 7 della Costituzione l’articolo 44 del Trattato di Berlino.

Questa soluzione era però rifiutata dalla Costituente, per il timore di future ingerenze straniere ogniqualvolta avessero ritenuto non rispettato quell’articolo.

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Liteanu, agente diplomatico di Romania a Berlino, ritenne preferibile abolire l’articolo sette della Costituzione, accordando poi la cittadinanza agli Ebrei che avessero prestato servizio militare, avessero conseguito  titoli di studio universitari, tradotto in romeno opere straniere, fondato una fabbrica: era la naturalizzazione per categorie, utile per evitare sia una indiscriminata naturalizzazione in massa sia l’assurda procedura per l’emancipazione con legge individuale, prevista dall’Assemblea Costituente.263

Pure il governo austriaco si mostrò insoddisfatto della proposta della Costituente; ma il barone Hoyos, ministro plenipotenziario a Bucarest, rassicurò Vienna assicurando che Bratianu avrebbe saputo convincere la maggioranza dell’Assemblea a presentare un progetto più accettabile.

Londra da parte sua si disse contraria a mettere in atto coercizioni nei confronti di Bucarest, condividendo la posizione italiana di non dare un carattere di ultimatum alla richiesta di inserire nella Costituzione l’articolo 44 del Trattato di Berlino; lord Salisbury inoltre smentì l’esistenza di un piano tedesco per bloccare il canale di Sulima, impedendo così la navigazione sul Danubio ed isolando la Romania; si trattava di un vecchio progetto ormai abbandonato (erano così smentite le affermazioni dell’austriaco Calice riferite dall’incaricato d’affari italiano a Vienna, Curtopassi).

Il sottosegretario tedesco agli Esteri, Radowitz, accolse invece con fastidio la dichiarazione italiana di non voler dare carattere di ultimatum alla richiesta di inserire nella Costituzione romena all’articolo 44 del Trattato di Berlino al posto dell’articolo 7, ritenendo che con quella dichiarazione si sarebbe tolta efficacia alla richiesta collettiva delle Potenze; l’uomo politico tedesco dichiarò pure a de Launay che la minaccia di bloccare il canale Sulima, ventilata dall’ambasciatore tedesco a Vienna, non corrispondeva alle intenzioni del governo di Berlino e che nessuna comunicazione era stata data in tal senso a quell’ambasciatore, forse troppo loquace.

Anche Waddington si mostrò contrariato dalla riserva italiana, affermando di non aver mai pensato a costrizioni nei confronti della Romania.264

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Ma se la Romania poteva esser tranquillizzata dalla smentita di un piano tedesco per bloccare il canale di Sulima, una minaccia ancora più grave sembrava incombere su di essa. Fava infatti in via riservata apprese dal ministro plenipotenziario d’Austria a Bucarest di una comunicazione di Bismarck al cancelliere austriaco Andrassy: se la Romania non avesse applicato l’articolo 44 del Trattato di Berlino, il governo tedesco avrebbe disconosciuto la Romania come Stato indipendente e si sarebbe rivolto alla Porta perché fosse realizzata l’emancipazione degli Ebrei in Romania. A nulla erano valse le resistenze di Andrassy a tale piano, essendosi il cancelliere tedesco dimostrato disposto a prendere anche da solo quella iniziativa.

Depretis a quel punto volle appurare come avrebbe reagito la Russia ad una simile eventualità e diede perciò il 13 luglio a mezzo telegrafo disposizione all’ambasciatore a San Pietroburgo, Costantino Nigra, di sondare al riguardo il governo russo.265

Non riuscendo a liberarsi dal ginepraio in cui l’aveva cacciato la proposta della Costituente per l’emancipazione degli Ebrei con leggi individuali, il governo romeno ritenne opportuno prendere tempo e fece sospendere per tre mesi i lavori dell’Assemblea; la decisione fece una pessima  impressione all’estero e Depretis  diede istruzioni a Fava perché esortasse il governo romeno a non aumentare l’irritazione tedesca.266

Anche Vienna protestò: il barone Calice, direttore di sezione del Ministero degli Esteri, esposte a Balaceanu, ministro plenipotenziario di Romania in Austria, il malcontento austriaco per quel rinvio; Balaceanu si dimise per non essere riuscito a convincere la Costituente a presentare un piano meno restrittivo e deludente per l’emancipazione degli Ebrei. Il gesto di Balaceanu ebbe conseguenze positive; Bratianu fu incaricato di formare un nuovo governo e ridusse da tre mesi ad uno la pausa dei lavori della Costituente.267

Nel frattempo, Nigra aveva risposto il 15 luglio 1879 inviando a Cairoli, nuovo presidente del Consiglio, le informazioni sugli orientamenti del governo russo chiesti da Depretis il 13 luglio, ultimo giorno della sua permanenza al governo. Giers, viceministro degli Esteri, aveva dichiarato all’ambasciatore italiano di non avere obiezioni da muovere alla politica italiana verso la Romania,

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cui la Russia aveva comunque raccomandato di aderire alle richieste a favore degli Ebrei. Nigra aggiungeva notizie sul malcontento dello zar per l’atteggiamento romeno successivo alla guerra e sottolineava l’interesse russo a conservare l’amicizia tedesca, sicuramente anteposta alla tutela degli interessi Romeni.

Il ritorno di Cairoli al governo, come presidente del Consiglio e Ministro degli Esteri, fu salutatocomunicava de Launay - con favore a Berlino, memore dei contrasti con Depretis sulla politica da tenere nei confronti della Romania. Nel suo rapporto l’ambasciatore ricordava il rifiuto del Parlamento tedesco a ratificare l’accordo commerciale con la Romania prima che fosse risolta la questione ebraica; faceva poi presenti le gravi perdite finanziarie subite dai capitalisti tedeschi nell’affare delle ferrovie romene, negando però l’esistenza di una connessione  tra la questione ebraica ed il problema ferroviario; connessione mai posta dalla Germania e mai ammessa dalle altre Potenze.

L’ambasciatore concludeva sconsigliando a Cairoli di agire con precipitazione, per non trovarsi isolato dagli altri governi; bisognava evitare di riconoscere la Romania per ragioni sentimentali; chiedeva pertanto di essere autorizzato a dichiarare l’adesione italiana ad una nuova nota collettiva per il rispetto del Trattato di Berlino da parte della Romania, rinviando eventuali riserve al momento in cui si fossero scoperti secondi fini nella posizione degli altri governi.268

Nel successivo rapporto del 31 luglio de Launay riferiva la buona impressione suscitata a Berlino dal discorso di presentazione del nuovo governo tenuto da Cairoli al Senato il 28 luglio; pure con favore era stata accolta dal governo tedesco la dichiarazione di Boerescu, nuovo ministro degli Esteri, circa la sostituzione dell’articolo 7 della Costituzione con un testo rispecchiante lo spirito, se non la lettera dell’articolo 44 del trattato di Berlino.

La schiarita dei rapporti tra Bucarest e Berlino era poi ancor più favorita dalle intese raggiunte nella capitale tedesca con il ministro romeno delle Finanze, Sturdza, sulla questione ebraica, articolata su questi tre punti: 1) rispetto degli interessi e dei diritti degli Ebrei stranieri, discriminati rispetto agli stranieri cristiani; 2) naturalizzazione  degli Ebrei riconosciuti indigeni attuata secondo categorie di

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aventi diritto; 3) stabilire le procedure per le future naturalizzazione dopo la prima applicazione della legge, escludendo in ogni caso le naturalizzazioni affidate a leggi individuali. Doveva inoltre essere abolita, a parere del governo tedesco come di quello francese, l’attesa di dieci anni dalla presentazione della domanda per la cittadinanza prima della emanazione del provvedimento che l’accordava; segno di migliori rapporti tedesco-romeni era pure la valutazione meno negativa della pausa di un mese imposta ai lavori della Costituente, rispetto ai tre mesi prima fissati.

A Berlino Sturdza aveva pure trattato l’affare delle ferrovie ed era riuscito a trovare un’intesa; de Launay, ammettendo finalmente il legame esistente fra la questione ebraica e quella ferroviaria, prima da lui negato, scriveva che l’accordo sulle ferrovie “… ne pourra en ce qui concerne le Cabinet Imperial, que faciliter une entente definitive au sujet de l’article 44 du Traité du 13 juillet”.269

Ma non erano le missioni all’estero dei politici Romeni a poter risolvere la questione degli Israeliti di Romania; la soluzione poteva venire solo da una tregua dell’accanita lotta fra i partiti da cui restava bloccata ogni decisione, senza rispettare neanche le appartenenze politiche; esisteva difatti nella Costituente una maggioranza dei liberali, partito al governo, che tuttavia osteggiava Bratianu.

Il Presidente del Consiglio veniva così a trovarsi tra due fuochi, con i conservatori che arrivavano a rimproverargli di non aver cercato per la questione ebraica l’appoggio della Russia, di quella ingrata Russia cui si era dovuta cedere la Bessarabia, in quanto – essi affermavano - era l’unica potenza in grado di opporsi alle continue ingerenze dei governi europei nella vita politica romena. A questa accusa il governo a sua volta replicava imputando agli intrighi dei conservatori con la Russia tutte le difficoltà: era un’antica abitudine dei politici Rumeniosservava Fava -  attribuire tutte le disgrazie romene ad una potenza straniera, fosse essa a turno l’Austria o la Russia. Anche Bratianu tentò di affidarsi ad un intervento straniero per piegare la resistenza della Costituente, chiedendo al ministro plenipotenziario d’Austria, Hoyos, di metter per iscritto quanto gli aveva detto confidenzialmente circa la volontà dei governi europei di esercitare nuove e più forti pressioni

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sulla Romania affinché adottasse a favore degli Ebrei misure più eque ed accettabili di quelle fino ad allora proposte; in caso la Romania avesse persistito a negarle, il governo di Vienna sarebbe potuto arrivare alla rottura delle relazioni diplomatiche. Giustamente Hoyos si stupì per quella richiesta, vedendo in essa un’umiliazione per il governo romeno di cui lo stesso Bratianu era il presidente; ma il diplomatico austriacoosservava Fava - era nuovo di Bucarest e non aveva quindi imparato a conoscere i Romeni.

Alle inaccettabili proposte avanzate dalla Costituente il governo non oppose un suo progetto, temendo di restare in minoranza, e si limitò a presentare emendamenti;270 al tempo stesso cercava di difendere la propria immagine all’estero; a tal fine il ministro degli Esteri Campineanu inviò una lunga nota all’agente diplomatico Roma in cui, prendendola alla lontana, faceva la storia dei progressi compiuti dalla Romania nell’arco di una generazione, raggiungendo obiettivi che gli altri paesi avevano conseguito nel corso dei secoli. Era pure ricordato il comportamento pacifico mantenuto dalla Romania, costretta ad entrare in guerra per il rifiuto delle Potenze a garantire la sua neutralità. Invece di mostrarsi grate, le Potenze europee avevano inflitto pesanti condizioni al Congresso di Berlino, accettate per amor di pace, tra cui risultava particolarmente gravosa la richiesta di risolvere immediatamente e totalmente la questione degli Israeliti, “…qui n’aurait due être traitée que dans des moments de calme, graduellement et sans secousses…”; ignorando l’esistenza di situazioni religiose molto più gravi in altri Paesi, il Congresso avrebbe preso di mira la Romania, e aveva voluto ingerirsi nei suoi problemi interni.

Sarebbe stato comprensibile l’espressione di un augurio, l’affermazione di un principio da parte del Congresso; si era invece pretesa una soluzione immediata, trascurando il fatto che la gran massa degli Ebrei in Romania era formata da stranieri, giunti di recente dalla Russia, dalla Polonia, dalla Galizia austriaca, rimasti estranei al paese, come dimostrava il linguaggio da essi usato, un miscuglio di yddish e di dialetti tedeschi.

Erano residenti invece da più lungo tempo in Romania gli Ebrei sefarditi giunti in Valacchia dalla Spagna, dopo un soggiorno in Turchia, bene integrati, ma molto meno numerosi, che parlavano ancora lo spagnolo.

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Le richieste del Congresso avevano destato grande preoccupazione in Romania, la cui tradizionale ospitalità per gli stranieri, secondo Campineanu, aveva dovuto cedere all’esigenza di salvare la propria identità nazionale, compromessa dal gran numero di immigrati, affluiti soprattutto in Moldavia, apolidi che ricavavano i loro mezzi di sussistenza non dal lavoro, ma da illeciti traffici e dall’usura, compromettendo la vita economica della Romania a causa delle ipoteche da essi accese sui beni rurali a garanzia dei prestiti concessi; beni di cui si sarebbero potuti impadronire, se avessero avuto il diritto di acquistare proprietà agricole.

Inoltre, le attività degli Ebrei erano dirette da una centrale straniera (si alludeva senza nominarla alla “Alliance Israélite Universelle”), per cui essi, se avessero ottenuti i diritti politici,avrebbero formato un loro Stato in opposizione a quello romeno.

La Costituente aveva quindi il dovere di impedire tale pericolo, una volta abolito l’articolo 7; la grave situazione esistente dava luogo naturalmente ad opinioni disparate sul modo di conciliare il rispetto dei principi affermati nel Trattato di Berlino con l’esigenza di salvare gli interessi nazionali.

Campineanu concludeva con l’augurio di trovare la comprensione e l’aiuto dei governi d’Europa, messe da parte le loro richieste più esigenti.

Il conte Tornielli, segretario generale del Ministero degli Esteri, nel ricevere la nota dall’agente diplomatico Obedenare, si limitò a ringraziare senza fare alcun commento.271

Le diverse opinioni dei politici Romeni sulla soluzione da dare al problema Israelitico, ricordate da Campineanu nella sua nota, erano così esposte da Fava: c’era anzitutto un gruppo di estremisti intransigenti, contrari addirittura alla revisione dell’articolo 7 della Costituzione; altri accettavano tale revisione, ma volevano dare la cittadinanza soltanto a richiesta e con legge individuale di lunga e complicata applicazione; altri ancora erano per seguire in futuro la procedura basata su leggi individuali, ma per sanare le situazioni pregresse erano disposti a dare per il momento la parità di diritti ad alcune categorie a vario titolo ritenute meritevoli.

La Commissione della Costituente incaricata di formulare proposte per la revisione dell’articolo 7 e per l’emancipazione degli Ebrei aveva optato per la procedura con leggi individuali; il governo invece, pur  non  esprimendosi  chiaramente, si era mostrato  favorevole  con gli  emendamenti fatti

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presentare dal deputato Costinescu a concedere subito la cittadinanza ad alcune categorie, fermo restando per il futuro il ricorso a leggi individuali.

Se fosse prevalsa l’opinione della Commissione, il governo, venendo così ad essere sconfessato, avrebbe dovuto dimettersi, secondo Fava. E così fu: le dimissioni anzi furono duplici, poiché oltre a quelle di Bratianu da Presidente del Governo, ci furono anche quelle di Rosetti da Presidente della Camera. Ma presto seguirono le conferme dei due dimissionari: Rosetti fu rieletto Presidente della Camera (73 voti a favore  contro 6 e 42 astenuti), e Bratianu fu incaricato di formare il nuovo governo, sulle cui prospettive però Fava si mostrava pessimista, dubitando potesse finalmente risolvere il problema ebraico, poiché era difficile trovare nella Costituente la maggioranza di due terzi necessaria per approvare un provvedimento; alcuni ipotizzarono lo scioglimento dell’Assemblea da parte di Bratianu, sì da poter trattare liberamente con i governi stranieri.272

Nel corso delle consultazioni avviate dal principe Carlo per formare il nuovo governo, sia Vernescu che gli altri ex presidenti della Camera (eccettuato Rosetti) avevano confermato l’impossibilità di un progetto per l’emancipazione degli Ebrei più avanzato di quello proposto dalla Costituente. Carlo fece allora presente di aver ricevuto molte lettere attestanti la ferma volontà dei governi europei perché fosse applicato interamente il Trattato di Berlino; il governo inoltre credeva possibile un’azione dell’Europa per conseguire quello scopo, restando però scettici al riguardo molti parlamentari e l’opinione pubblica.

Bratianu si accinse a formare il governo, dosando le nomine dei ministri in modo da ottenere nella Costituente la maggioranza dei due terzi, poichè i seguaci dei nuovi ministri avrebbero votato a favore delle proposte governative. Il nuovo governo risultò così composto: Jon Bratianu presidente del Consiglio e Ministro dei Lavori Pubblici; Kogalniceanu Ministro degli Interni; Boerescu Ministro degli Esteri; Sturdza Ministro delle Finanze; Kretzulescu Ministro dell’ Istruzione e dei Culti; Stoloianu Ministro della Giustizia; il generale Leca Ministro della Guerra. Fu questo nuovo governo a decidere la sospensione per un mese dei lavori della Costituente, per far decantare la situazione ed avere il tempo di approfondire i problemi; sull’opportunità di quella pausa convenivano Fava ed il rappresentante dell’Austria, Hoyos.

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Il governo confermò l’accettazione del Trattato di Berlino, nel rispetto però degli interessi Romeni.

A seguito dei colloqui avuti con il principe Oboleski, ministro di Russia a Bucarest, Fava si disse convinto degli incoraggiamenti russi al governo romeno perché non si arrivasse ad una totale emancipazione degli Ebrei. Boerescu si mostrava ottimista sulla possibilità di risolvere la questione ebraica grazie alla formazione di un governo di unità nazionale, in cui si erano rifiutati di entrare solo alcuni conservatori intransigenti ed una frazione dei deputati moldavi.

Ponendo fine al riserbo del precedente governo, Boerescu preparò una memoria sulla questione ebraica e si recò all’estero per illustrarla ai governi stranieri prima ancora di averla presentata in modo ufficiale alla Costituente. Il progetto del ministro prevedeva la naturalizzazione a richiesta e con leggi individuali, riservando una tantum l’immediato riconoscimento dei diritti agli Ebrei inclusi in una lista nominativa da far approvare dalla Costituente assieme alla legge. Per rivendicare la libertà di decisione della Romania Boerescu ricordava una sua nota del 1873 in risposta alla richiesta di lord Granville di risolvere la questione ebraica. La nota, fatta pubblicare da Boerescu sul giornalePressa” a lui vicino, si concludeva affermando che spettava alla Romania risolvere con gradualità la delicata questione: “Elle ne pourra être  graduellement résolue que dans le Pays et par le Pays”.273

Mentre a Bucarest si procedeva alla formazione del governo e Boerescu preparava il suo piano per risolvere la questione ebraica, il governo italiano restava in una posizione di attesa sugli sviluppi della situazione in Romania e Fava continuava a custodire le credenziali di ministro plenipotenziario senza presentarle.

Quello stallo per il mondo politico e per la diplomazia italiana era causa di un disagio, di cui si rese interprete il senatore Caracciolo di Bella con una interrogazione presentata il 28 luglio 1879.

Il senatore ricordava le varie iniziative del governo italiano per riconoscere la Romania, andate tutte a vuoto.

Fava aveva ricevuto da tempo le credenziali di ministro plenipotenziario, ma non le aveva presentate; era stato poi dato ad un segretario di legazione l’incarico di rappresentare ad interim l’Italia a Bucarest, ma non aveva assunto tale funzione, forse a causa delle proteste di qualche grande Potenza; Fava aveva il titolo di agente diplomatico, senza assumere quello di ministro plenipotenziario, a lui già conferito.

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In conclusione, il senatore chiedeva chiarimenti su quelle perplessità e continue variazioni nei rapporti con Bucarest; nella sua risposta Cairoli affermò che i ripetuti tentativi, rimproverati dall’interrogante, attestavano la buona volontà italiana di riconoscere al più presto la Romania; lo aveva già fatto la Russia, forse per facilitare la cessione della Bessarabia; lo aveva fatto pure l’Austria, volendo regolare i rapporti del Principato con i Valacchi della Transilvania. Si augurava il Presidente del Consiglio una decisione della Costituente romena conforme ai principi dell’articolo 44 del Trattato di Berlino, in modo da “…procurare all’Italia la soddisfazione di poter procedere all’immediato riconoscimento”.273bis

E per affrettare appunto questo riconoscimento Boerescu si accinse a compiere il suo giro nelle principali capitali europee, facendo a Vienna la prima tappa e recandosi successivamente a Berlino, Pietroburgo, Parigi, Roma. Il ministro romeno in via preliminare confermò l’intenzione di introdurre nella Costituzione l’articolo 44 come strumento legislativo per le future emancipazioni; per il momento si sarebbe proceduto non in base a categorie, ma con liste nominative. Andrassy si disse d’accordo per inserire nella Costituzione l’articolo 44 del Trattato di Berlino, esprimendo però la preferenza per il futuro di fare ricorso a leggi ordinarie, di competenza del Parlamento, per cui non sarebbe più stato necessaria l’opera dell’Assemblea Costituente.

Il piano di Boerescu differiva dalle indicazioni date in precedenza Berlino da Sturdza, che aveva fatto riferimento a categorie di Ebrei e non a liste di nomi, come veniva proposto dal ministro degli Esteri. Se ne dolse Radowitz  nel corso della visita di Boerescu a Berlino, temendo che un procedimento basato su elenchi nominativi potesse significare un ritorno alla naturalizzazione per mezzo di leggi individuali; potevano verificarsi anche esclusioni dovute a particolari interessi ed inoltre il piano di Boerescu manteneva il divieto di acquistare proprietà agricole. Comunque, concludeva il politico tedesco, quel che contava erano i risultati concreti, non la terminologia (per lui parlare di categorie, liste o qualità era indifferente); dimostrava così di non cogliere le fondamentali differenze fra una procedura basata su categorie (in cui l’inclusione era automatica e non erano possibili decisioni discrezionali o addirittura arbitrarie) e gli altri procedimenti, non rendendosi così conto non trattarsi solo di questioni nominalistiche.

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Il governo tedesco non respinse senz’altro il piano di Boerescu e gli consigliò di esporlo al governo francese: un eventuale accordo con la Francia sarebbe stato accettato da Berlino.

Per Maffei, segretario generale degli Esteri,  era quello un modo elegante per respingere le proposte romene, lasciando la responsabilità del rifiuto alla Francia, di cui il governo tedesco prevedeva l’opposizione.

E difatti Parigi non apprezzò le proposte di Boerescu, considerandole più arretrate di quelle di Sturdza, poiché le liste nominative potevano dar luogo ad arbitri e favoritismi. Il governo francese ritenne irrinunciabile procedere per categorie e Boerescu oppose l’impossibilità di adottare quel metodo, affermando di non essere neanche sicuro dell’accettazione da parte della Costituente delle liste nominative da lui proposte; consigliò quindi di non ritardare oltre la soluzione del problema, poiché si correva il rischio di trovarsi di fronte a proposte ancora più arretrate.

Neanche Salisbury approvò il piano di Boerescu e sospettò trattarsi di un tentativo romeno per eludere l’articolo 44, assegnando la cittadinanza in modo arbitrario, senza adottare regole certe e principi generali. Il ministro inglese dichiarò di rendersi conto dell’impossibilità di emancipare d’un sol colpo 300.000 Ebrei; a parer suo era quindi preferibile limitarsi per il momento a riaffermare il principio della libertà religiosa e della parità giuridica, rinviando l’effettiva concessione della cittadinanza in modo da avere il tempo per giungere ad una soluzione accettabile.274

Analogamente Cairoli disse a Boerescu di non poter accettare il suo piano, malgrado le simpatie italiane per la Romania; il presidente italiano dissentì fortemente dal procedere per liste nominative da far approvare dalla Costituente assieme alla legge per la revisione dell’articolo 7; comunicò a Fava di aver consigliato quindi al ministro romeno di inserire l’articolo 44 nella Costituzione, rinviando le misure applicative.

Era una posizione analoga a quella di lord Salisbury; la presa di posizione di Cairoli seguiva di qualche giorno uno scambio di telegrammi con l’ambasciatore a Vienna, di Robilant; questi, ansioso di arrivare ad una soluzione favorevole per la Romania, si era pronunciato per accettare le proposte di Boerescu, sempre che il governo italiano non si fosse già impegnato con altre Potenze per la procedura secondo categorie, ed aveva insistito sui vantaggi per l’Italia derivanti da un pronto riconoscimento della Romania.

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Cairoli aveva subito replicato di concordare sull’opportunità di riconoscere al più presto l’indipendenza romena, ma di non potere ignorare gli impegni con le altre Potenze per il rispetto dell’articolo 44, su cui aveva pure dato assicurazioni in Parlamento, ribadendo essere quello un indispensabile presupposto a quel  riconoscimento. Ed all’ambasciatore di Robilant Cairoli anticipò quanto avrebbe poi detto a Fava circa l’opportunità di limitarsi per il momento ad inserire l’articolo 44 del Trattato di Berlino nella Costituzione romena.275

Kretzulescu, il ministro dell’ Istruzione reggente l’interim degli Esteri in assenza di Boerescu impegnato nel suo giro delle capitali europee, inviò una nota all’agente diplomatico a Roma, Cantacuzeno, per smentire una lettera del segretario del comitato britannico della “Alliance Israélite Universellepubblicata sul “Times” dell’11 agosto 1879, in cui era denunciata l’espulsione da Focsani di un gruppo di Ebrei residenti da più di 30 anni. La verità, secondo Kretzulescu, era molto più modesta: da Focsani erano stati espulsi solo due vagabondi Ebrei arrivati da appena tre mesi.276

La costante attenzione della “Alliance” alla situazione Romania non valse comunque a sbloccare i lavori della Costituente; né si dimostrò più efficace la relazione fatta all’assemblea riunita in seduta segreta da Boerescu, rientrato a Bucarest a metà settembre 1879, per riferire sulle accoglienze negative riservate alla sua missione. Il ministro, nonostante ciò, si accinse a tradurre in un progetto di legge il memoriale da lui presentato ai governi visitati; la risposta degli irriducibili, guidati dai deputati Conta e Blaremberg, si ebbe con una mozione per chiedere di non modificare l’articolo 7 della Costituzione; la mozione fu respinta il 23 settembre con 102 voti contrari e 28 favorevoli; fu pure bocciato il progetto del Comitato della Costituente per la revisione dello stesso articolo, ed il governo presentò il progetto di Boerescu, con cui si ribadiva il divieto per gli stranieri di possedere proprietà immobiliari (eccetto i beni urbani ed i vigneti e fatti salvi i diritti già acquisiti con precedenti leggi o trattati internazionali); era prevista la concessione agli abitanti della Dobrugia della cittadinanza, comportante il dirito di possedere beni rurali. Cardine della legge restava l’acquisto della cittadinanza con leggi individuali a richiesta dell’interessato, da concedersi 10 anni

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dopo la presentazione della domanda; erano esentati da quel periodo decennale di prova gli Ebrei nati in Romania da padre pure nativo del paese. Una tantum sarebbe stata concessa la cittadinanza a 1064 Israeliti distinti in sei categorie: 1) ex militari (era la categoria più numerosa con 883 persone); 2) laureati o diplomati in Romania; 3) professionisti o laureati all’estero; 4) donatori a istituti culturali o di beneficenza; 5) fondatori o proprietari di industrie e di imprese commerciali; 6) autori di opere letterarie o scientifiche in lingua romena.

Sulla composizione di quelle liste dissentivano le organizzazioni ebraiche romene, ritenendole frutto di scelte arbitrarie (erano stati esclusi Ebrei in possesso degli stessi requisiti per cui altri invece erano stati inclusi) o addirittura di errori grossolani (inseriti nelle liste 60 Ebrei cittadini austro-ungarici e soldati morti in guerra).277

Per ottenere l’approvazione della Costituente il governo fece ricorso ad una sottile distinzione giuridica fra emancipazione e naturalizzazione, esposta sulla “Pressa”, precisando che nel caso degli Ebrei si trattava di naturalizzazione. Con l’emancipazione si concedevano i diritti civili e politici ad una intera comunità, come era avvenuto per gli Armeni nel 1857, senza far ricorso alle leggi individuali; si trattava pure di emancipazione quando la cittadinanza era data a determinate categorie, a richiesta degli interessati ed il compito del governo si riduceva al controllo del possesso dei requisiti richiesti per far parte di quelle categorie, sempre senza ricorrere a votazioni del Parlamento. Per gli Ebrei di Romania nessuno, secondo la “Pressa”, aveva mai pensato di ricorrere all’emancipazione; si trattava di una naturalizzazione basata su scelte compiute dal governo con criteri da esso stesso stabiliti senza alcuna intromissione degli interessati.

Un “penoso sentimentoera l’impressione destata in Italia da quella proposta, secondo il segretario generale del Ministero degli Esteri, Maffei.278

Quel “penoso sentimento” sarebbe stato ancora maggiore se Maffei fosse stato al corrente delle discussioni svoltesi successivamente, il giorno 8 ottobre, dedicate a precisare se si trattasse di emancipazione o di naturalizzazione ed ispirate da fatti e risentimenti personali.

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I conservatori, formanti l’opposizione, sostenevano trattarsi di emancipazione ed accusavano il governo di essersi ispirato alla proposta fatta a Berlino da de Launay, tradendo così gli interessi del paese; i governativi rivolgevano a loro volta ai conservatori l’accusa di opporsi solo per ragioni personali con la loro insistenza a voler concedere la cittadinanza soltanto con leggi individuali approvate dai due terzi del Parlamento

Ma la stessa maggioranza dei due terzi era necessaria per l’approvazione del progetto di legge Boerescu ed il governo non era in grado di ottenerla.Bratianu aveva rinunciato all’idea di sciogliere la Costituente, nella previsione di non ottenere una maggioranza favorevole  anche ricorrendo a nuove elezioni; rinviò quindi voto dell’assemblea per il tempo necessario per raggiungere un compromesso con l’opposizione, basato sulla rinuncia del governo a chiedere la concessione una tantum della cittadinanza ai 1064 Ebrei compresi nelle liste nominative da esso presentati, in cambio della riduzione della maggioranza necessaria per approvare il progetto di legge dai due terzi al 51% dei componenti la Costituente.

Per esaminare le possibilità di un accordo si formò una Commissione di nove parlamentari; i conservatori posero però queste condizioni: 1) ritiro delle liste di Ebrei da naturalizzare una tantum con provvedimento immediato e collettivo; 2) riservare il diritto di proprietà di beni agricoli ai cittadini Romeni, senza fare eccezione neanche per i casi oggetto di accordi internazionali; 3) non disporre norme particolari per la Dobrugia, divenuta una provincia romena con gli stessi diritti di tutte le altre. In cambio i conservatori accettarono di ridurre al 51% la maggioranza necessaria per approvare la proposta di legge e di esentare gli ex militari dal periodo di prova di dieci anni previsto per gli altri.

E finalmente il 18 ottobre 1879 la Camera dei Deputati della Costituente approvò il progetto di legge con 132 voti a favore, 9 contrari e 2 astenuti. La legge così approvata era conforme ai principi fissati dalla opposizione; ma il 25 ottobre fu concessa una tantum la cittadinanza a 883 degli 888 l’ex combattenti presenti nella lista presentata dal governo: restarono escluse cinque persone perché non furono riconosciute come ex combattenti; furono pure esclusi tutti gli appartenenti alle altre liste presentate dal governo e Fava pessimisticamente prevedeva per il futuro un’attuazione molto limitata della legge.279

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Oltre alla cattiva volontà del governo romeno, poté contribuire a limitare l’attuazione del nuovo articolo 7 votato dalla Costituente anche la contrarietà degli stessi Ebrei a presentare domande per provvedimenti individuali che incrinassero la solidarietà, poiché in quel modo ognuno avrebbe curato solo il suo personale interesse, a discapito di quello generale della comunità.

Era quanto notavano a più riprese gli “Archives Israélites”, già nell’imminenza dell’approvazione del nuovo articolo 7 della Costituzione e subito dopo.

L’organo della “Alliance Israélite Universelleaffermò pure l’inutilità delle domande individuali, il governo romeno avrebbe giudicato un traditore chi avesse fatto quella richiesta perché aveva disertato la causa comune e gli avrebbe quindi negato la parità giuridica, di cui i traditori non erano degni.

Gli “Archivesdenunciavano inoltre le manovre governative per indurre con lusinghe e minacce gli Ebrei  a presentare individualmente le domande di naturalizzazione, volendo in tal modo dimostrare la validità del provvedimento; quelle manovre ebbero però scarso successo, poiché le domande presentate furono poche centinaia o, tutt’al più, qualche migliaio; se fossero mancate del tutto, osservavano gli “Archives”, ne sarebbero stati maggiormente impressionati i governi stranieri.

Sembravano  però contraddirsi gli “Archivesdenunciando le artificiose difficoltà opposte dalle autorità romene alle richieste dei documenti necessari per le domande di naturalizzazione, come sembrava comprovare una supposta circolare confidenziale del Ministro della Giustizia ai presidenti ed ai procuratori dei tribunali con l’invito a rilasciare con circospezione quei documenti.

Tale denuncia era in aperta contraddizione con quanto gli stessi “Archivesaffermavano circa l’interesse del governo romeno a far presentare domande individuali da parte degli Ebrei perché fosse così dimostrata l’accettazione del nuovo articolo 7 e la sua efficacia.280

Il 23 ottobre anche il Senato approvò con 56 voti contro 2 il progetto di legge, su cui si disse favorevole il primate di Romania, volendo scagionare la Chiesa ortodossa dall’accusa di antisemitismo; fu invece contrario il poeta Vasile Alecsandri, ex ministro degli Affari Esteri del governo Moldavo sotto Cuza.

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Fava osservò come la legge approvata anziché aumentare i diritti degli Ebrei, restringesse quelli degli stranieri cristiani: difatti, in base all’articolo 8 del codice civile costoro in precedenza potevano acquistare beni agricoli (il divieto era opposto solo agli stranieri di fede Israelitica), mentre con la nuova legge solo i cittadini Romeni avevano tale diritto; inoltre i figli degli stranieri cristiani avrebbero potuto avere la cittadinanza romena facendone richiesta al principe una volta raggiunta la maggiore età e con la stessa procedura prevista per gli Ebrei.281

Boerescu diede notizia all’agente diplomatico a Roma (come agli agenti nelle altre capitali), dell’approvazione della legge perché mettesse al corrente il governo italiano della conclusione di quella tormentosa vicenda, assicurando essere stato un compromesso solo formale quello stabilito con l’opposizione, in quanto alla sua proposta erano state apportate solo lievi modifiche; se il governo avesse scelto una linea dura, dando le dimissioni anziché puntare al compromesso, avrebbe lasciato il posto ad un nuovo ministero fautore di una legge ancora più restrittiva, destinata a deludere le attese dell’Europa ed a procurare severe critiche alla Romania.

Il relatore sul progetto di legge, Giani, aveva già sostenuto questa tesi, provocando l’irritata reazione dei conservatori, secondo i quali le modifiche apportate alla proposta di Boerescu erano state sostanziali e non di pura forma. Fava osservò da parte sua che in realtà le posizioni del governo non differivano molto da quelle dei conservatori, ai quali si voleva però addossare la responsabilità della mancata adozione di misure più liberali, per salvare la faccia di fronte all’Europa, prospettando pure la possibilità di gravi sommosse popolari se si fosse largheggiato nelle concessioni agli Ebrei.

Nonostante i limiti della riforma, dall’Italia arrivarono segnali incoraggianti, forse anche per la stanchezza suscitata dalla lunga gestazione del problema; invece il governo tedesco restava irriducibile, ponendo sempre la condizione che fosse deciso l’acquisto delle ferrovie a lauto prezzo da parte della Romania prima di riconoscerne l’indipendenza; cadeva così la maschera umanitaria dietro cui Bismarck aveva a lungo celato il suo vero intento, difendere gli interessi dei capitalisti tedeschi; la questione rimase irrisolta ancora per qualche mese, avvelenando i rapporti fra Berlino e Bucarest fino alla completa resa romena alle richieste di Bismarck.282

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Della posizione del governo tedesco l’incaricato d’affari italiano a Berlino, Tosi, informò Cairoli  il 7 novembre 1879; per Radowitz non era sufficiente la legge approvata dalla Costituente perchè fosse riconosciuta l’indipendenza della Romania, da cui si attendeva un preciso impegno “… per l’avvenire, acciò quello che è scritto ora nella Costituzione non rimanga lettera morta”.

Si mostrava più possibilista l’ambasciatore di Francia a Roma, il marchese de Noailles; riconosceva una migliore condizione per gli Ebrei di Romania grazie alla legge approvata con cui si era affermato il principio della parità giuridica; anche il diplomatico francese riteneva però necessario l’impegno romeno per più larga attuazione di quel principio perché la Francia, d’intesa con le altre Potenze, riconoscesse la Romania.

Ne diede notizia Cairoli all’incaricato d’affari a Parigi, Marochetti, precisando di aver detto all’ambasciatore francese che, una volta risolta la questione di principio, il Parlamento e l’opinione pubblica italiana, avrebbero preteso il riconoscimento della Romania, conformemente agli interessi del paese; Cairoli aveva pure incaricato de Noailles di informare Waddington su questa posizione italiana, senza però dare l’impressione che si trattasse di una decisione già presa, rompendo l’unità d’azione con gli altri governi.

Cairoli informò di questo colloquio con l’ambasciatore francese e della decisione italiana non ancora ufficiale di riconoscere la Romania i rappresentanti diplomatici a Londra, Berlino, Vienna, Pietroburgo, Costantinopoli, Bucarest inviando loro un dispaccio circolare.283

In realtà era ormai prossimo il riconoscimento italiano della Romania ed il conte Tornielli, già segretario generale del Ministero degli Esteri, era stato destinato a Bucarest in qualità di ministro plenipotenziario e, nell’attesa di raggiungere quella sede, era stato inviato a rappresentare l’Italia a Belgrado.

Il 19 ottobre Tornielli telegrafò a Cairoli dalla capitale serba, chiedendo quali decisioni avesse preso dopo l’approvazione della proposta di legge di Boerescu avvenuta il giorno precedente e sollecitando il governo ad uscire da un’ impasse contraria agli interessi italiani.

Passato un mese senza che il governo italiano abbandonasse la sua posizione di attesa Tornielli telegrafò  ancora  il  18 novembre per comunicare di avere appreso da  buona fonte  il  proposito del

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ministro degli Esteri austriaco Haymerle di dichiarare sufficiente il provvedimento approvato dalla Costituente romena e di volere in futuro interessarsi solo degli Ebrei  di Romania sudditi austriaci; il diplomatico italiano prevedeva decisioni analoghe da parte degli altri governi e giudicava contraria agli interessi italiani l’indugio nel riconoscere la Romania, definito “… une attitude qui livre la Principauté à d’autres influences et peut-être même a des futures convoitises”,  sollecitando ancora una volta Cairoli a riconoscere l’indipendenza romena.

Ancora più decisa la successiva pressione esercitata da Tornielli sul governo di Roma con il telegramma del 26 novembre 1879: le esitazioni italiane avevano suscitato una cattiva impressione in Romania e chiedeva quindi di non essere più destinato all’incarico “in pectoreaffidatogli a Bucarest, se Cairoli non avesse al più presto posto fine agli indugi.

Il nuovo segretario generale degli Esteri, Maffei, per rabbonire  Tornielli gli  telegrafò subito per rassicurarlo sull’intenzione del governo di riconoscere quanto prima la Romania, dicendosi pure convinto che sarebbero venute meno le resistenze tedesche,una volta definita la questione delle ferrovie.284

Si veniva difatti chiarendo nel frattempo la posizione tedesca; l’incaricato d’affari a Berlino, Tosi, in assenza di de Launay confermava l’insoddisfazione di Bismarck per la legge approvata dalla Costituente romena, ma anche la disponibilità ad accontentarsi di una esplicita promessa di Bucarest di riconoscere in futuro la parità giuridica a tutti gli Ebrei, sebbene l’agente diplomatico di Romania  in Germania avesse dichiarato essere ciò impossibile, essendo praticabile solo la procedura di riconoscimento con leggi individuali, per cui il governo romeno non poteva assumere un impegno valido per l’intera comunità.

Secondo Tosi quindi non si sarebbe andati oltre una generica dichiarazione di buona volontà, oltretutto superflua in quanto non poteva certo essere considerata più impegnativa di un articolo della Costituzione.

Il diplomatico italiano segnalava pure la propensione di Bismarck ad evitare la caduta del governo romeno e, scoprendo l’esistenza dell’acqua calda, aggiungeva che, secondo alcuni, non era da escludere “…che la sorte del contratto ferroviario che la Camera romena è ora chiamata ad approvare entri per qualche cosa in siffatta sollecitudine”.

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Se non “sollecitudine” quanto meno una certa apertura la manifestava pure lord Salisbury, dicendosi convinto essere ormai tempo di regolarizzare i rapporti con la Romania; il ministro inglese affermava però di non voler prendere una decisione prima di aver consultato Bismarck, “ch’erasi riservato l’egemonia in questo affare”, secondo l’espressione usata da Menabrea nel suo rapporto a Cairoli.

Questa “egemoniaspingeva pure il governo italiano a tenere gran conto dell’opinione tedesca; Maffei chiese infatti a de Launay di accertarsi se, oltre alla soluzione della questione ferroviaria, Berlino avesse altre rivendicazioni da avanzare alla Romania. Se non ci fossero state altre ragioni, oltre al problema delle ferrovie cui l’Italia non era interessata, il governo di Roma non poteva insistere nel rifiuto di riconoscere la Romania, motivo di difficoltà nei rapporti con Bucarest e con larga parte dello stesso Parlamento italiano.

L’ambasciatore de Launay, sempre legato alle posizioni della Germania, nella sua risposta  riportò l’affermazione tedesca sull’estraneità del problema ferroviario rispetto a quello ebraico in Romania,  negando quanto era ormai di una solare evidenza. Radowitz  aveva ripetuto essere necessario mantenere l’unità d’azione, già realizzata tra Germania e Francia, negando il riconoscimento della Romania per costringerla ad un serio impegno nel futuro per risolvere in modo soddisfacente il problema ebraico. L’Italia non avrebbe quindi rischiato di trovarsi isolata continuando a negare quel riconoscimento, affermava de Launay; ed in quanto alla difficoltà con il Parlamento, secondo l’ambasciatore Cairoli poteva trarsi d’impaccio dichiarando di non poter dare informazioni su trattative in corso.

Se de Launay restava sempre contrario ad un riconoscimento italiano della Romania senza un’azione congiunta con Francia e Germania, di Robilant invece premeva perché il governo di Roma procedesse senza attendere l’esito della mediazione con la Romania affidata all’Austria: il riconoscimento dell’Italia non doveva apparire frutto di un passo austriaco.

Cairoli  si trovò d’accordo con de Robilant ed il 2 dicembre 1879 inviò a de Launay un dispaccio con allegato il rapporto dell’ambasciatore a Vienna, favorevole ad un pronto riconoscimento dell’indipendenza romena.

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Il presidente italiano insisteva sulla pessima impressione che un ulteriore indugio avrebbe causato in Romania, faceva presente come Francia ed Inghilterra avrebbero trovata sufficiente una generica espressione romena di buona volontà e come la Germania,  risolto il problema delle ferrovie, non avrebbe più opposto alcuna difficoltà; ed oltretutto Berlino non poteva risentirsi se l’Italia per tutelare i propri interessi avesse riconosciuto la Romania, così come non c’era stato risentimento contro l’Austria che quel riconoscimento l’aveva fatto già da tempo. Al dispaccio Cairoli fece eseguire un telegramma per chiarire a de Launay che il Parlamento non si sarebbe accontentato di una risposta evasiva come quella da lui suggerita, aggiungendo, come aveva detto di Robilant, che il riconoscimento italiano della Romania non doveva apparire conseguenza di una iniziativa diplomatica dell’Austria.285

La prova di buona volontà tanto attesa, l’assicurazione che in futuro sarebbe stata realmente realizzata la parità giuridica degli Ebrei, Bucarest alla fine la diede.

Il 5 dicembre 1879 difatti l’agente diplomatico di Romania a Roma, Esarcu, consegnò a Cairoli una nota per comunicare come il nuovo articolo 7 della Costituzione romena, conforme all’articolo 44 del Trattato di Berlino,  avesse sancito il principio dell’uguaglianza giuridica ed avesse aperto agli Ebrei la via  per l’acquisto della cittadinanza, abrogando le leggi contrarie a quel principio, la cui applicazione futura sarebbe continuatasincère  et loyale”.

L’assimilazione degli Ebrei  sarebbe quindi stata sempre più completa e si sarebbe pure giunti ad abolire i divieti opposti agli stranieri ed agli Ebrei per l’acquisto di proprietà agricole.

Gli Ebrei avrebbero continuato a fruire delle leggi ordinarie vigenti ed erano da escludersi leggi o misure amministrative speciali riservate ad essi, comportanti una discriminazione religiosa; anche per gli stranieri sarebbe venuta meno ogni discriminazione derivante dalla fede professata.

Cairoli non attendeva altro e, cogliendo la palla al balzo, lo stesso giorno 5 dicembre 1879 si diede ad una frenetica attività epistolare; inviò anzitutto un telegramma circolare a de Launay, Menabrea, Nigra, Corti (aveva ripreso il posto di ambasciatore a Costantinopoli dopo essere stato ministro degli Esteri), di Robilant, Marochetti (incaricato d’affari a Parigi), Fava, comunicando la nota ricevuta da Esarcu e facendo presente che le assicurazioni ricevute con tale nota corrispondevano alle richieste tedesche, francesi ed inglesi poste come condizione per riconoscere la Romania.

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Pertanto venivano inviate a Tornielli le credenziali di ministro plenipotenziario a Bucarest, dove si sarebbe dovuto trasferire al più presto da Belgrado.

A Fava erano date istruzioni perché chiedesse il gradimento romeno per Tornielli; agli ambasciatori a Londra, Parigi e Berlino era affidato il compito di comunicare la decisione italiana, facendo presente l’impossibilità di chiedere alla Romania una nuova revisione costituzionale e la necessità di accontentarsi di una dichiarazione simile a quella rilasciata all’Italia.

Con altro telegramma dello stesso giorno 5 dicembre Tornielli era informato del suo immediato trasferimento Bucarest e con un dispaccio, sempre in data 5 dicembre, si confermava a Fava la notizia già trasmessa con la circolare telegrafica, allegandovi il testo integrale della nota presentata da Esarcu; in base a tale nota si era deciso di riconoscere la Romania e Tornielli, da più mesi destinato a Bucarest, presto vi sarebbe giunto; di questo imminente arrivo di Tornielli in Romania era stato informato Esarcu, che si era assunto l’incarico di comunicarlo al governo romeno.

Di questo dispaccio a Fava Cairoli inviò copia lo stesso giorno 5 dicembre 1879 alle rappresentanze diplomatiche italiane a Parigi, Londra, Berlino, Vienna, San Pietroburgo, Costantinopoli.

Non si esaurì con queste comunicazioni la fatica di Cairoli. Il presidente del Consiglio volle infatti chiarire con un ulteriore dispaccio inviato il 5 dicembre agli ambasciatori a Londra, Berlino e Parigi le ragioni del riconoscimento della Romania, da esporre ai governi presso cui erano accreditati, per metterli in grado di valutare l’opportunità di compiere un passo analogo.

Considerata l’impossibilità di far riprendere a Bucarest una difficile riforma della Costituzione, non rimaneva altra possibilità che ottenere un’ampia e rassicurante garanzia di volere in futuro applicare fedelmente il principio dell’eguaglianza dei diritti, ponendo fine ad ogni discriminazione; a tale intento, condiviso da tutte le Potenze, corrispondeva la nota romena e quindi il governo italiano aveva deciso di riconoscere la Romania.286

Quella decisione ebbe un eco immediata alla Camera dei Deputati, dove l’8 dicembre 1879 fu discussa l’interrogazione dell’onorevole Maurigi “sulla notizia del riconoscimento della Rumania per parte dell’Italia”.

L’interrogante chiedeva “in quali condizioni questo evento importante si fosse verificato”, esprimendo le sue felicitazioni al governo.

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Nella sua risposta  Cairoli ricordò anzitutto quale difficile scelta si fosse imposta al governo con il dilemma se riconoscere la Romania, nazione amica, o mantenersi fedele all’articolo 44 del Trattato di Berlino, chiedendone la completa applicazione. I governi russo, austriaco e turco avevano già riconosciuto l’indipendenza romena e l’ Assemblea Costituente di Bucarest dopo un lungo e difficile dibattito aveva modificato l’articolo 7 della Costituzione in conformità alle richieste del Congresso di Berlino; ne era stata data notizia con la nota consegnata dall’agente diplomatico a Roma, Obedenare.

Data lettura di quella nota, Cairoli dichiarò di avere ritenute soddisfacenti le garanzie offerte per l’applicazione in futuro del nuovo articolo 7 e di avere quindi disposto il riconoscimento della Romania.

La Camera accolse con applausi  le dichiarazioni del presidente del Consiglio e Maurigi si dichiarò soddisfatto affermando di ritenere ormai superate le discussioni sull’articolo 44 del Trattato di Berlino, giudicato da alcuni “in qualche maniera una contraddizione coi principii fondamentali” del diritto nazionale italiano e secondo altri invece ispirato a principi nobilissimi; l’interrogante volle pure sottolineare come i paesi confinanti avessero riconosciuto la Romania “per loro interessi speciali” e si fossero accontentati di semplici promesse; l’Italia invece aveva atteso la modifica dell’articolo 7 ed aveva ottenuto serie garanzie, rispettando così fino in fondo gli impegni presi a Berlino, “del resto niente altro che morali”.

Il popolo romenoera la conclusione dell’onorevole Maurigi - poteva sempre contare sulla simpatia italiana, finché fosse rimastodegno rappresentante della razza latina in quella tenebrosa complicazione di razze, di lingue, credenze e di nazionalitàrappresentata dalla penisola balcanica.287

A breve distanza di tempo, il 15 dicembre 1879, ci fu anche nella Camera francese un dibattito sul riconoscimento della Romania, a seguito dell’interrogazione del deputato Louis Legrand.

Questi ricordò come i paesi a suo giudizio maggiormente tenuti ad una stretta osservanza del Trattato di Berlino (Austria, Russia, Turchia) avessero per primi riconosciuta l’indipendenza romena. Ad essi si era unita di  recente l’Italia, mentre  la Francia era rimasta in posizione di attesa,

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sebbene figurasse già da due anni nel bilancio del Ministero degli Esteri lo stipendio per un ministro plenipotenziario a Bucarest, ancora da nominare. Secondo il Trattato di Berlino il riconoscimento della Romania era stato subordinato a due condizioni; la cessione della Bessarabia alla Russia, già avvenuta, e la concessione della parità giuridica agli Ebrei, di cui era iniziato l’adempimento con la modifica dell’articolo 7 della Costituzione. Tale inizio poteva esser giudicato insufficiente, ma non era possibile intromettersi nelle vicende interne della Romania chiedendole di fare di più per una questione giudicata difficile anche dal governo francese.

Era contrario agli interessi della Francia alienarsi le simpatie delle nazioni amiche, fra le quali la Romania spiccava per il suo atteggiamento sempre favorevole, anche nel 1870, nei giorni difficili della guerra con la Prussia, quando molti avevano rinnegato l’amicizia per  Parigi.

Si imponeva quindi la necessità di riconoscere al più presto l’indipendenza della Romania.

Nella sua replica il ministro degli Esteri, a riprova della tradizionale simpatia per i Rumeni, ricordò l’azione dei delegati francesi al Congresso di Berlino a sostegno degli interessi della Romania; non si era riuscito ad impedire la perdita della Bessarabia, ma si era ottenuto un ampliamento del territorio della Dobrugia, offerto in compenso dalla Russia; inoltre erano state ridimensionate le richieste di concessioni agli Ebrei, su cui i giornali avevano dato notizie esagerate; non era stata infatti chiesta la naturalizzazione in blocco per tutti gli Ebrei della Romania, ma solo per quelli ivi residenti da lungo tempo e da considerarsi quindi Rumeni. Era indubbiamente un grande passo in avanti l’aver modificato l’articolo 7 ed il problema non era più di natura costituzionale per cui andava affrontato con leggi ordinarie.

Era però opportuno procedere al riconoscimento della Romania in modo collegiale, dopo aver raggiunto un accordo tra le Potenze firmatarie del Trattato di Berlino ed il ministro si augurava di trovarlo presto.

Legrand riconobbe le indubbie prove di amicizia fornite in passato alla Romania dalla Francia; ma il governo di Parigi non doveva arrivare buon ultimo nel riconoscere l’indipendenza.288

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La favorevole disposizione francese a riconoscere la Romania era già stata dimostrata dal ministro degli Esteri Waddington, seppure con una certa cautela, quando aveva dichiarato all’incaricato d’affari italiano, Marochetti, di essere anche lui convinto della necessità di non rinviare ancora quella decisione ed aveva chiesto copia della nota consegnata da Obedenare a Cairoli per farla conoscere all’Inghilterra ed alla Germania.

La reazione inglese fu più favorevole di quanto Waddington  si fosse aspettato; Menabrea infatti comunicò a Cairoli di aver informato Salisbury dell’imminente presentazione delle credenziali da parte di Tornielli, ritardata di alcuni giorni per dar tempo agli altri governi di prendere un’analoga decisione, se l’avessero voluto. Salisbury aveva ringraziato per quell’atto cortese ed aveva apprezzato le ragioni dell’Italia per riconoscere la Romania, affermando che quanto prima il governo inglese avrebbe fatto altrettanto, ma solo dopo aver consultato Parigi e Berlino.289

Ci furono invece difficoltà con la Germania: irritato per il riconoscimento italiano, Bismarck espresse all’ambasciatore francese a Berlino, de Saint Vallier, tutta la sua diffidenza verso la Romania, affermando di volerla riconoscere soltanto dopo aver ricevuto nuove e più soddisfacenti proposte dai ministri rumeni: “…ils sont assez fins pour comprendre quils nous ont joués et quils n’ont donné que de l’eau claire; il faut maintement quils nous la rendent buvable en nous l’offrant dans une coupe appétissante”.

La reazione tedesca al riconoscimento italiano fu aspra; Radowitz comunicò a de Saint Vallier la convinzione di Bismarck che fosse stata l’iniziativa italiana ad indurre la Camera romena a modificare in peggio gli accordi già presi con Berlino per garantire i sottoscrittori tedeschi delle obbligazioni ferroviarie: “… la seule chose qui puisse ramener le Gouvernement roumain au respect de ses engagements, c’est la certitude que les autres Puissances n’imiteront pas l’Italie et ne se sépareront pas de l’Allemagne”. Radowitz chiese pertanto che fosse confermata a Bucarest l’unità d’azione francese con Germania ed Inghilterra; analoga richiesta fu fatta all’ambasciatore britannico a Berlino, sir Odo Russell.290

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Molto allarme dimostrava poi da Berlino l’ambasciatore de Launay per un’iniziativa solitaria dell’Italia incurante dell’unità d’azione con gli altri governi. Il giorno stesso della consegna della nota romena a Cairoli, il 5 dicembre 1879, de Launay telegrafò a Roma per suggerire di avere dalla Romania precise garanzie sulla soluzione del problema ebraico: era quanto aveva appunto fatto Bucarest con la nota appena presentata a Roma, di cui però l’ambasciatore non era ancora venuto a conoscenza.

Avute quelle garanzieproseguiva de Launay - l’Italia avrebbe potuto dare il suo riconoscimento, ma agendo di concerto con le altre Potenze, cui il governo romeno avrebbe dovuto dare analoghe assicurazioni.

Il governo italiano doveva evitare di compiere un passo isolato, malvisto a Berlino, e non cedere a pressioni parlamentari; e quest’ultimo punto era giustificato da de Launay con questa singolare argomentazione: “La politique étrangère de l’Italie, comme de tout autre État, serait sacrifiée du moment on la subordinnerait à des influences parlementaires”.

Già il giorno successivo de Launay volle ribadire l’inopportunità di un’azione isolata, perché ciò avrebbe destato a Berlino un’irritazione di cui forse il governo italiano si sarebbe dovuto pentire per averla suscitata; suggeriva pure a Cairoli di comunicare al governo tedesco la nota romena sotto forma di un invito per un’azione comune.

Ma Cairoli aveva ormai preso le sue decisioni e lo stesso 6 dicembre telegrafò a Tornielli di voler agire a prescindere dalle risposte degli altri governi alla sua comunicazione della nota romena. Ma per rassicurare in qualche modo l’inquieto de Launay, Cairoli gli telegrafò che Tornielli avrebbe consegnato le credenziali fra una settimana, per cui il riconoscimento italiano poteva essere presentato come imminente, ma non ancora avvenuto.

Se lo riteneva opportuno, de Launay poteva unire all’annuncio l’invito alla Germania perché si unisse all’Italia nel riconoscere la Romania, evitando però di far credere che l’iniziativa di Roma dipendesse dall’adesione di altre Potenze.

Ma era un dialogo fra sordi quello di Cairoli e de Launay; sempre il 6 dicembre l’ambasciatore insisteva prospettando l’irritazione di Bismarck e consigliava quindi di limitarsi a promettere alla Romania un futuro riconoscimento e di telegrafare a Tornielli di restare a Belgrado, anziché recarsi a Bucarest per presentare le credenziali.

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A questo punto Cairoli, perduta la pazienza, comunicò a de Launay la “pénible impression” (“penosa impressione”) suscitata in lui da quest’ultimo telegramma; la Germania non poteva interferire nei rapporti italo-rumeni; l’ambasciatore tedesco a Roma, von Kendell, aveva riconosciuta la nota romena superiore a quanto si potesse sperare di ottenere; Tornielli  avrebbe tardato la presentazione delle credenziali sono di qualche giorno per dar tempo agli altri governi di prendere una decisione simile a quella italiana, ma quali che fossero le altrui decisioni l’Italia avrebbe riconosciuto la Romania.291

Non per questo de Launay smise di insistere perché non ci fosse il riconoscimento italiano. Difatti con un rapporto inviato l’8 dicembre informò Cairoli come Radowitz non avesse prestato fede all’affermazione romena che la Camera di Bucarest era stata indotta dal riconoscimento italiano ad approvare la convenzione ferroviaria (dobbiamo però ricordare come alla convenzione fossero state apportate modifiche sgradite a Bismarck, in quanto spostavano da Berlino a Bucarest la sede della direzione delle ferrovie); il sottosegretario tedesco aveva rinfacciato anzi all’Italia di esser venuta meno alla solidarietà con la Germania, agendo da sola, mentre Francia ed Inghilterra le restavano accanto. L’ambasciatore aggiungeva pure una sua osservazione sul fatto che, staccandosi da Germania, Francia e d’Inghilterra, l’Italia sembrava essersi schierata con l’Austria e con la Russia. A conclusione del suo rapporto, de Launay consigliava di rinviare la presentazione delle credenziali di Tornielli fino a quando gli altri governi non avessero preso una decisione analoga a quella italiana.

Continuando a premere su Cairoli, de Launay l’11 dicembre inviò un altro rapporto per segnalare ancora il malumore di Radowitz, perché il riconoscimento dell’Italia, lungi dal favorire l’accordo per le ferrovie, aveva spinto la Camera romena a modificare l’articolo 28, per cui era stata spostata a Bucarest la direzione delle ferrovie; la Germaniaannunciava minaccioso il sottosegretario tedesco - avrebbe fatto ricorso ad altri mezzi per piegare la Romania, intervenendo ad esempio contro di lei per il confine della Dobrugia, appoggiando le rivendicazioni della Bulgaria. Con pervicacia, de Launay insisteva ancora perché fosse rinviata la presentazione delle credenziali, per non incoraggiare il governo romeno a disconoscere i suoi impegni.

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Secca la risposta di Cairoli inviata con telegramma del 12 dicembre: non si poteva ritardare oltre la presentazione delle credenziali, specie dopo il dibattito svoltosi alla Camera l’8 dicembre; avrebbe quindi il 14 dicembre telegrafato a Tornielli di partire da Belgrado per Bucarest; come in passato, avrebbe comunque esortato la Romania a trovare un accordo con la Germania; con una punta di malizia Cairoli chiedeva se per giustificare un ulteriore rinvio fosse opportuno rendere pubblico il motivo particolare, cioè gli interessi ferroviari, per cui Bismarck che rifiutava di riconoscere la Romania, pretendendo di imporre agli altri la stessa decisione.

Ma per tranquillizzare lo smanioso ambasciatore, Cairoli il giorno stesso gli inviò un altro telegramma per riferirgli il colloquio avuto con l’ambasciatore tedesco a Roma; questi non aveva chiesto di rinviare la consegna delle credenziali, limitandosi ad osservazioni retrospettive sull’opportunità di procedere uniti nei confronti della Romania; aveva fatto soltanto un’allusione alla coincidenza del riconoscimento italiano con le modifiche sgradite a Bismarck apportate alla convenzione sulle ferrovie.292

Cairoli volle poi presentare in una successiva comunicazione la partenza di Tornielli per Bucarest sotto una luce più gradita a de Launay, in quanto il rappresentante italiano si sarebbe adoperato per un accordo del governo romeno con la Germania; e difatti con l’ennesimo telegramma del 16 dicembre il presidente del consiglio fece presente a Tornielli il malumore tedesco e gli raccomandò di intervenire per facilitare l’intesa sul problema delle ferrovie, riferendo pure le preoccupazioni dell’ambasciatore tedesco a Roma, per un eventuale insuccesso delle trattative per le ferrovie; dopo non esser riuscito a convincere il governo italiano a desistere da riconoscere l’indipendenza romena, un secondo insuccesso l’avrebbe costretto a dimettersi.

Instancabile, Cairoli telegrafò ancora il 17 dicembre a Tornielli per fargli presente come l’accordo con la Germania per le ferrovie fosse condizione necessaria per il riconoscimento della Romania: “Il est positif que la reconnaissance de l’Europe dépend aujourdhui de la question des chemins de fer”.

La convinzione sulla dipendenza del riconoscimento della Romania dalla questione ferroviaria era espressa lo stesso giorno 17 dicembre dal “Times”.

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Da parte tedesca furono accolti con sufficienza i tentativi italiani per convincere la Romania a non creare difficoltà per l’accordo sulle ferrovie.  Radowitz  ringraziò de Launay per l’azione svolta da Tornielli, ma affermò acidamente l’esistenza di una convinzione morale, pur non essendoci le prove, circa l’incoraggiamento dato dal riconoscimento italiano al governo romeno perché resistesse alle richieste per la convenzione ferroviaria; e la violazione degli accordi prima presi per le ferrovieaggiungeva de Launay - induceva il governo tedesco a non fidarsi delle promesse romene per l’attuazione dell’articolo 44 del Trattato di Berlino.293

Mentre si svolgeva questo intenso scambio telegrafico tra Roma, Berlino e Bucarest, nella capitale romena si concludeva la lunga missione di Fava ed aveva inizio quella di Tornielli.

Nel suo ultimo rapporto in data 15 dicembre 1879 Fava chiarì i motivi per cui Bismarck  voleva mantenere a Berlino la sede della direzione delle ferrovie romene: la competenza territoriale sarebbe stata in quel caso dei tribunali tedeschi, mentre sarebbe passata a quelli rumeni con il trasferimento a Bucarest; e della imparzialità dell’amministrazione della giustizia in Romania, ben poco si fidava il cancelliere tedesco.

Con malcelato risentimento per essere stato sostituito da Tornielli nell’incarico a Bucarest, dopo aver inutilmente conservato per più di un anno le credenziali, Fava faceva presente il mancato riconoscimento della Romania da parte di Parigi e Londra, in appoggio alla Germania per la questione delle ferrovie.

L’Italia non aveva avuto quella preoccupazione ed aveva riconosciuta la Romania; dopo questa decisione del governo di Roma, Fava dichiarava di ritenere inutile dare ulteriori informazioni sul dibattito nel Parlamento romeno sulla convenzione ferroviaria da stipulare; e concludeva ironizzando sulla lunga attesa del nuovo rappresentante italiano in Romania: “Il ministro d’Italia nel Principato era giornalmente annunciato a Roma, e giornalmente era atteso a Bukarest”.

La stizza di Fava era confermata dal tiro giocato a Tornielli,  non facendogli trovare nessuno per accoglierlo con gli onori dovuti al suo rango. Se ne dolse il neo-ministro plenipotenziario nel suo primo rapporto, aggiungendo le spiegazioni date da Fava: le mancate accoglienze erano dipese dalle

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istruzioni telegrafiche date da Roma (forse, aggiungiamo noi, prese troppo alla lettera ed applicate con scrupolo eccessivo) perché l’arrivo di Tornielli avvenisse senza troppo clamore; dei mancati onori al suo arrivo, Tornielli poté comunque consolarsi grazie alle cordiali accoglienze riservategli in seguito dal ministro degli Esteri e dal principe Carlo, con cui ebbe un incontro ufficioso appena arrivato a Bucarest, il 17 dicembre 1879; il giorno successivo ci fu l’incontro ufficiale per la presentazione delle credenziali.

Sull’incontro ufficioso Tornielli riferì a Cairoli con il telegramma inviato nella notte fra il 17 ed il 18 dicembre, precisando di aver subito affrontato il tema più scabroso, quello delle ferrovie.

In quell’occasione Carlo rivelò al diplomatico italiano un intervento personale del kaiser su di lui perché fosse concluso quel controverso accordo ferroviario.294

Nel corso dei contatti avuti per il riconoscimento italiano della Romania, il governo austriaco mantenne un atteggiamento distaccato, ma non ostile. L’Austria aveva riconosciuta da tempo l’indipendenza romena e non aveva quindi titolo per dolersi della decisione italiana di fare altrettanto; inoltre, come di Robilant comunicava il 27 novembre 1879, cioè ancor prima del riconoscimento italiano, il ministro degli Esteri austriaco, Haymerle, aveva detto di non ritenere possibili al momento maggiori concessioni della Romania per la questione ebraica; si era augurato soltanto una dichiarazione di Bucarest per garantire nuove e più generose misure: era quanto sarebbe avvenuto di a poco con la nota romena consegnata Cairoli il 5 dicembre 1879. Inoltre, in un annesso cifrato di Robilant riferiva le dichiarazioni di Haymerle sui diversi interessi dei governi nei rapporti con la Romania; per la Germania, ammetteva il ministro austriaco, l’unico motivo di interesse erano le ferrovie.

Il segretario generale degli Esteri, Maffei, in una lettera personale inviata a di Robilant il 18 dicembre confermava tale giudizio, comunicando l’irritazione tedesca perché l’Italia, riconoscendo anzitempo la Romania, l’aveva incoraggiata a non rispettare gli accordi in materia ferroviaria presi da Sturdza durante la sua missione a Berlino; accusa definita da Maffei priva di fondamento, ma di cui de Launay eraimpressionatissimo ed addolorato”; Maffei aggiungeva però la necessità per la Romania di non ostacolare essa stessa il suo riconoscimento opponendosi alla Germania e di rassegnarsi ai sacrifici imposti dalle richieste di Bismarck; in ogni caso il governo italiano non poteva rimangiarsi il riconoscimento dell’indipendenza romena.

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Ancora più benevolo del governo austriaco si dimostrò quello russo a proposito dell’iniziativa italiana per riconoscere la Romania, ritenendoregolare ed affatto naturale la decisione del governo di Sua Maestà”, secondo l’affermazione fatta dal viceministro russo degli Esteri, de Giers, all’ambasciatore italiano Nigra.295

Meno ostile della Germania al riconoscimento della Romania si dimostrò la Francia; l’incaricato d’affari a Parigi, Marochetti, riferiva il 19 dicembre a Cairoli le dichiarazioni di Waddington, dettosi indifferente alla partenza di Tornielli per Bucarest, motivo invece di risentimento, a suo parere, per il governo di Londra e soprattutto per quello di Berlino. Secondo il ministro francese, comunque sarebbe stato preferibile per l’Italia attendere la conclusione della vertenza per le ferrovie, prima di riconoscere la Romania.

Il diplomatico italiano oppose che la soluzione di quel problema non poteva costituire una condizione per il riconoscimento dell’indipendenza romena, poiché il Trattato di Berlino non aveva fatto alcun cenno delle ferrovie romene e del loro riscatto da parte di Bucarest. Waddington tirò allora in ballo l’insufficienza delle misure disposte per risolvere il problema ebraico, di cui riconobbe comunque tutte le difficoltà, motivo per cui Parigi avrebbe riconosciuto sufficiente  l’inizio dell’applicazione del nuovo articolo 7 della Costituzione romena; al tempo stesso il ministro aveva dichiarato preferibile il passaggio delle ferrovie allo Stato romeno, per sottrarne la proprietà ad un gruppo di capitalisti residenti a Berlino.

Anche de Launay fece cenno di questi capitalisti in una lettera personale a di Robilant, esprimendo una volta di più il suo malcontento per il riconoscimento della Romania disposto dal governo italiano senza consultare le altre Potenze per chiarire se ritenessero sufficienti le assicurazioni sui futuri adempimenti per applicare l’articolo 44 del Trattato di Berlino, contenute nella nota romena a Cairoli del 5 dicembre 1879. Frange d’Inghilterra si sarebbero forse potute accontentare di quelle garanzie, ma non avevano riconosciuto la Romania per non compromettere i grandi interessi della Germania nel campo delle ferrovie, lasciandola isolata.

L’ambasciatore non si nascondeva come Bismarck usasse la questione ebraica in modo strumentale, per tutelare gli interessi dei finanzieri tedeschi, alcuni dei quali, come Bleichroeder, erano israeliti,

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coinvolti nel finanziamento concesso per la costruzione delle ferrovie romene. “Jadmets parfaitement que dessous il y a quelques tripotages des juifs de Berlin qui veulent faire pièce aux juifs de Bucharest”, scriveva l’ambasciatore, riconoscendo quanto prima aveva ostinatamente negato, che cioè il nocciolo della questione era il problema delle ferrovie.

Lo spinoso problema si avviava comunque a soluzione; il Senato romeno, come Tornielli telegrafò a Cairoli il 5 gennaio 1880, reintrodusse nell’accordo con la Germania la norma per cui restava a Berlino la direzione delle ferrovie, come fortemente preteso da Bismarck; il diplomatico italiano riteneva definitivo il testo emendato dal Senato, senza eventuali ulteriori variazioni apportate dalla Camera e rivendicava all’azione italiana il merito di aver favorito tale esito; in pari data Cairoli informava Berlino dell’importante risultato conseguito a Bucarest, esprimendo l’augurio “…nous espérons quon rendra justice a Berlin à nos bons offices…”.

Almeno in parte e controvoglia, Bismarck rese giustizia ai buoni uffici di Tornielli, come de Launay comunicò a Cairoli con il rapporto del 5 febbraio 1880; il cancelliere tedesco si era detto soddisfatto per l’attività italiana, volta come quella dell’Austria  e dell’Inghilterra a favorire la conclusione della lunga e tormentata trattativa per le ferrovie romene, ma non aveva rinunciato a recriminare ancora per il riconoscimento italiano ritenuto intempestivo.296

I problemi romeni  non restavano chiusi nel ristretto ambito della diplomazia, ma trovavano spazi sulla stampa italiana, venendo così divulgati.

Se ne occupava “La Nazione” di Firenze il 21 dicembre 1879, smentendo la notizia, forse errata ad arte, data da un giornale tedesco, secondo il quale Tornielli aveva interrotto a Budapest il suo viaggio verso la Romania per disposizione del governo italiano indotto da quello tedesco a sospendere la consegna delle credenziali; il giornale fiorentino faceva presente come invece quella consegna fosse già avvenuta.

Ancora “La Nazione” dell’8 gennaio 1880 metteva in evidenza il malumore dei Rumeni verso la Germania, per la pretesa di subordinare il riconoscimento della Romania ad una soluzione del problema ferroviario gradita a Bismarck, pur essendo quel tema estraneo al Trattato di Berlino. Il 29 gennaio “La Nazioneriferiva  la  proposta di  Ionescu  alla Camera di Bucarest  di  occuparsi  della

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questione ferroviaria solo dopo il riconoscimento dell’indipendenza romena da parte di Francia, Germania, Inghilterra, rovesciando così l’impostazione del problema data da Bismarck.

“La Perseveranza” del 20 dicembre 1879 giudicava con ironia l’opposizione tedesca a riconoscere la Romania, perché il nuovo articolo 7 della Costituzione romena era giudicato insufficiente per risolvere il problema ebraico: “Può far meraviglia codesta tenerezza per gli Israeliti, quando si pensa che oggi in Germania c’è una vera reazione contro codesti <<semiti>> , accusati di ogni sorta di misfatti finanziari a danno dei cristiani, e che il Bismarck, nel 1847, voleva escluderli in certi rispetti dal diritto comune di Prussia”. Ma, proseguiva il giornale, i tempi erano cambiati e Bismarck non era più il giovane junker del 1847, era divenuto uno statista interessato a mantenere buoni rapporti con l’alta finanza ebraica. Inoltre, sottolineava “La Perseveranza”, il vero ostacolo a riconoscere la Romania era la convenzione per le ferrovie; le modifiche apportate al testo della Camera romena rispetto all’intesa in precedenza stabilite da Sturdza con Berlino, erano sgradite a Bismarck.

Tornava ancora sull’argomento ferrovie “La Perseveranza” il 2 gennaio 1880, prevedendo un cedimento romeno alle richieste tedesche, poichè la Romania era rimasta priva di qualsiasi appoggio internazionale e nessuno osava opporsi al cancelliere tedesco; ed il 7 gennaio il giornale, commentando il voto del Senato di Bucarest per cui Berlino restava la sede della direzione delle ferrovie romene, scriveva: “Così il principe Bismarck ha vinto il suo punto, cioè il punto dei suoi protetti, e la Romania ha dovuto anche questa volta piegare il capo”.

Un ulteriore intervento sui problemi della Romania apparve su “La Perseveranza” il 18 dello stesso mese di gennaio, a proposito della richiesta austriaca di garanzie romene per una scrupolosa applicazione dell’articolo 44 del Trattato di Berlino, considerata l’insufficienza delle misure decise dalla Costituente, secondo il parere dell’Europa; a tale richiesta il giornale dedicava queste sferzanti osservazioni: “… incontentabilità singolare, se si pensi che in uno dei suoi Stati più civili, più potenti, più dotti – in Germania insomma - ha luogo oggi una violenta reazione contro i semiti”.

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Di  particolare  acutezza  era  l’analisi  della  situazione in Romania fate il 19 dicembre 1879 da   “L’Opinione”; secondo quel giornale, diretto dall’israelita Giacomo Dina, l’intransigenza di Bismarck nei confronti della Romania avrebbe potuto essere ritenuta frutto dello scrupolo di far rispettare il Trattato di Berlino e della sua volontà di migliorare le condizioni di centinaia di migliaia di Ebrei, rimaste immutate per l’insufficienza delle misure disposte dal governo romeno. Se così fosse stato, si sarebbe dovuto attribuire al cancelliere una umanità fino ad allora non riconosciutagli. Ma l’ipotesi era poco credibile: “… che cosa importa al principe dei giudei della Rumania? Poco ei cura anche quelli della Germania”. Il rifiuto di riconoscere la Romania non era quindi dovuto ad amore per gli Ebrei: “Il principe si giova del cielo per uno scopo terrestre. Ei vuol risolvere la questione delle ferrovie rumene costrutte coi capitali tedeschi, i quali devono essere largamente risarciti”. La Romania tergiversava a concludere l’accordo per le ferrovie, come aveva fatto per la questione degli Israeliti: “Ma in quest’occasione non sono in giuoco i deboli, essa deve fare i conti col fortissimo diplomatico, che come il Giove della favola, fa tremare l’Olimpo movendo il sopracciglio”.

Bismarck aveva usato la questione degli Ebrei unicamente per piegare le resistenze romene alle richieste della Germania per le ferrovie: “Quel povero popolo disgraziato, avvilito, oppresso, senza patria, servirebbe ad una speculazione ferroviaria, compiuta la quale nessuno si curerebbe più della sua tutela e dei suoi dolori”.

Cairoli  l’aveva capito e si era perciò deciso ad un riconoscimento, giudicato da “L’Opinione” più a favore dell’intolleranza che della libertà.

Sull’operato di Cairoli “L’Opinione” non esprimeva però un giudizio del tutto negativo, poiché era espressa la speranza di un intervento di Tornielli “a favore di quei poveri Israeliti”, attenuando così la critica espressa in precedenza.

Il 23 ottobre 1879 “L’Opinione” aveva preso una posizione nettamente contraria al riconoscimento della Romania ed aveva polemizzato con “Il Diritto” e la “Riforma” perché l’avevano sollecitato, pur ammettendo di non conoscere ancora il nuovo articolo 7, solo da qualche giorno approvato dalla Costituente.

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In quell’occasione “L’Opinione” aveva ricordato come Cairoli avesse definitomostruoso” il memoriale presentatogli da Boerescu, su cui si basava il testo del nuovo articolo 7 ed aveva espresso l’augurio che Cairoli persistesse in quel giudizio e rifiutasse quindi di riconoscere l’indipendenza romena, finché non fosse stato attuato fedelmente l’articolo 44 del Trattato di Berlino.

Bismarck, secondo le previsioni generali, ottenne nel gennaio 1880 la completa resa della Romania, costretta ad acquistare al prezzo esorbitante di 67 franchi ognuna le obbligazioni emesse da Strusberg, valutate 10  lire l’una sul mercato finanziario.

Lo attestava l’anonimo autore di “Quinze mois de régime liberal en Roumanie”, ricordando le responsabilità di Carlo e di Bratianu, grazie ai quali Strusberg aveva avuto quella concessione ferroviaria, rivelatasi rovinosa per la Romania sia politicamente che economicamente.

Il principe ed il suo ministroera loro rinfacciato - sembravano aver dimenticato il piano dell’economista tedesco List, concepito fin dal 1841 e ripreso da Bismarck, in cui era prevista la colonizzazione economica della Romania a vantaggio dei tedeschi; questi avrebbero trovato in Moldavia e Valacchia una meta per l’emigrazione preferibile alla lontana America, costituendo compagnie di commercio e di navigazione per aprire sbocchi ai prodotti tedeschi, compagnie minerarie per sfruttare le ricchezze del sottosuolo; la concessione Strusberg ed il successivo riscatto delle ferrovie, effettuato a prezzi da rapina, rientravano appunto in quell’ottica.297

Ma quel pesante sacrificio economico diede subito i suoi frutti: già il 6 febbraio 1880 de Launay comunicò a Cairoli la macchinosa procedura ideata da Bismarck per arrivare al riconoscimento della Romania d’intesa con Francia ed Inghilterra; anziché limitarsi a consultare direttamente i governi di Londra e Parigi, il cancelliere aveva incaricato l’Austria di consultare i tre governi (compreso quello di Berlino) sull’opportunità di riconoscere l’indipendenza romena; Vienna si era docilmente prestata ad assolvere quell’incarico; nel gioco delle parti programmato dal cancelliere tedesco era toccato al governo francese preparare la bozza della nota destinata a comunicare alla Romania il riconoscimento tanto atteso.298

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Il barone Haymerle, ministro degli Esteri austriaco, nel corso dei preparativi per il riconoscimento della Romania consigliò all’incaricato d’affari francese a Vienna di chiedere al governo romeno una dichiarazione, analoga a quella inviata a Cairoli, sull’impegno a proseguire in futuro l’attuazione dell’articolo 44 del Trattato di Berlino ed in particolare a rivedere le norme sul diritto degli stranieri ad acquistare proprietà agricole.

Ma era sempre Bismarck a dettare la linea, come attestava l’ambasciatore francese a Berlino de Saint Vallier, nel suo rapporto del febbraio 1880. Il cancelliere tedesco precisava la procedura da seguire ed il tenore delle dichiarazioni da fare al governo romeno; i governi di Londra, Parigi e Berlino, dopo aver riconosciuta l’insufficienza delle misure prese per gli Ebrei da Bucarest, avrebbero dovuto dichiarare di non voler comunque ritardare ancora il riconoscimento della Romania, nella speranza di indurre con quel gesto di amicizia il governo romeno ad attuare completamente l’articolo 44. Le modifiche apportate dalla Costituente all’articolo 7 della Costituzione, si sarebbe precisato nella nota di riconoscimento, “ne devaient être considerées que comme un premier pas et un commencement d’exécution des stipulation de l’article XLIV”, fermo restando l’impegno della Romania a completare al più presto l’attuazione di quell’articolo. Sulla base di tale impegno le tre Potenze non avrebbero atteso la piena esecuzione delle condizioni stabilite a Berlino per riconoscere la Romania.

Ottenuta l’adesione di Londra al suo piano, Bismarck  ne informò il ministro degli Esteri francese, chiedendogli di preparare la bozza della nota comune da presentare a Bucarest.

L’ambasciatore britannico a Parigi aveva dato conferma dell’adesione di Lord Salisbury a de Frejcinet, ministro degli Esteri francese, succeduto a Waddington a fine dicembre 1879.

Anche il governo francese si allineò: de Frejcinet comunicò infatti all’ambasciatore d’Austria a Parigi di considerare il nuovo articolo 7 della Costituzione romena “le point de départ nécessaire de dispositions plus étendues et plus libérales”, in vista delle quali era disposto a riconoscere la Romania.

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Il ministro francese inviò sollecitamente all’ammiraglio Pothuau, ambasciatore a Londra, la bozza della nota per il governo romeno affinché Salisbury l’esaminasse e l’informò di un ulteriore dettaglio della procedura ideata da Bismarck: a Bucarest i rappresentanti diplomatici dei tre governi avrebbero presentato simultaneamente tre note identiche ma distinte, anziché un’unica nota collettiva.

Nella giornata del 9 febbraio 1880 de Frejcinet, oltre che a Londra, inviò anche a Berlino la bozza della nota, di cui aveva già dato copia al principe di Hohenloe, ambasciatore di Germania a Parigi, per farla esaminare da Bismarck.

Qualche giorno dopo, il 12 febbraio, de Frejcinet  apprese da lord Lyons, ambasciatore di Gran Bretagna a Parigi, l’approvazione della bozza da parte del governo inglese e la richiesta di Lord Salisbury  perché fosse fissata una data per la consegna della nota a Bucarest. Analoga richiesta l’aveva fatta il principe di Hohenloe; d’accordo con questi e con l’ambasciatore britannico de Frejcinet stabilì per la consegna la data del 20 febbraio 1880.

A conclusione di questo intenso lavorio diplomatico de Frejcinet inviò il 14 febbraio all’agente diplomatico Bucarest, de Bacourt, copia della nota informandolo che il 20 febbraio avrebbe dovuto presentarla al governo romeno.299

E così fu: si concluse, seppure nell’ambiguità e con scarso entusiasmo da parte di tutti, una  controversa vicenda durata tanto a lungo; lo stesso giorno 20 febbraio Tornielli informò Cairoli dell’evento, sottolineando come mancasse nella nota qualsiasi spiegazione del lungo ritardo frapposto al riconoscimento della Romania; le tre Potenze, notava Tornielli, avevano riconosciuto la Romania a metà febbraio 1880, pur avendo avuto tempestiva notizia dell’approvazione del nuovo articolo 7 avvenuta il 25 ottobre 1879.

Scriveva Tornielli: “La solennità di forma che si è voluta dare all’atto compiuto oggi, dissimula malamente agli occhi degli uomini politici di questo paese, a qualunque partito politico essi appartengano, il fondo delle cose”.

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Ad un altro rapporto inviato lo stesso 20 febbraio Tornielli allegò la traduzione francese della convenzione ferroviaria con la Germania, stabilita con legge del 26 gennaio 1880, riservandole questo commento: “riuscirà difficile in ogni tempo lo stabilire il nesso che ha potuto esistere fra gli interessi ai quali ha provveduto la legge sopra citata e quelli che l’articolo 44 del Trattato di Berlino aveva contemplati. Al punto di vista della impressione prodotta in queste contrade dallo atteggiamento di quei gabinetti e interessi di indole tanto diversa sembrano aver confusi per esercitare una pressione che questo piccolo paese ha dovuto subire nella sua indipendenza legislativa, io non posso trattenermi dall’osservare quanto il governo italiano abbia ragione di felicitarsi di avere a tempo assunto un contegno di cui fu altamente e giustamente qui apprezzato il valore”.

Ben diversi continuavano ad essere i commenti in provenienza da Berlino sul riconoscimento della Romania, deciso dal governo di Roma senza uniformarsi alle disposizioni di Bismarck.

Il 21 febbraio Radowitz infatti comunicava a de Launay il riconoscimento della Romania compiuto il giorno precedente ed esprimeva soddisfazione perché si era finalmente realizzata un’importante clausola del Trattato di Berlino. L’ambasciatore ne dava notizia a Roma e non rinunciava per l’occasione ad osservare acidamente quanto inutile e dannoso, a parer suo, fosse stato per l’Italia anticipare il riconoscimento di indipendenza romena destinando Tornielli a Bucarest: “Il ne m’est pas encore prouvé que le fait d’être deux mois plus tôt en relations diplomatiques avec la Principauté, ait valu à l’Italie quelques avantages à compenser les inconvénients d’une attitude qui a soulevé ici et ailleurs plus d’une critique”.

Al contempo de Frejcinet, compiaciuto dell’approvazione riservata da Bismarck alla nota di cui era l’estensore,  scriveva a de Saint Vallier il 22 febbraio di aver voluto sottolineare in quel testo l’importanza attribuita dalle tre Potenze alla “scrupuleuse observation de toutes les clauses de l’Acte du 13 juillet 1878. L’accord maintenu entre les trois Gouvernements pendant toute la durée de cette longue négociation a rencontré ainsi sa dernière et soleunelle expression dans l’Acte à la conclure et nous ne pouvons que nous féliciter de cet heureux résultat”.300

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Il 24 febbraio 1880 “La Nazione” faceva a caldo il bilancio del lungo percorso imposto alla Romania prima di ottenere il riconoscimento della sua indipendenza e scriveva: “Prima di essere liberata da ogni legame di vassallaggio, la Romania ha subito difficili prove. Per qualche tempo le parve che a sostenere tali prove non fossero sufficienti le sue forze, e credeva meritare che le fossero risparmiate. Tuttavia non ha tardato a comprendere che uno Stato non acquista mai a troppo caro prezzo la sua indipendenza, e si è rassegnata nella questione delle strade ferrate come in quella dell’emancipazione degli Israeliti. L’Europa conta un popolo libero di più. Noi non possiamo dimenticare che è un popolo latino e salutiamo con gioia la sua indipendenza”.

Questo commento de “La Nazioneriecheggiava quello pubblicato il 22 febbraio dal “Journal des Débats”; il giornale francese aveva salutato anche esso con simpatia la nascita in Europa di un nuovo popolo latino libero, cessati gli antichi vincoli di vassallaggio e superando prove in apparenza superiori alle sue forze, che forse avrebbero potuto essergli  risparmiate.

Ma, concludeva il “Journal”, la Romania si era alla fine resa conto che l’acquisto dell’indipendenza valeva qualsiasi prezzo: “…et elle s’est resignée dans la question du rachat des chemins de fer comme dans celle de l’émancipation des juifs”.300bis

Più dei commenti giornalistici ebbe però un significato politico il dibattito svoltosi nel marzo 1880 alla Camera dei Deputati sul ruolo svolto dall’Italia per il riconoscimento dell’indipendenza romena. La discussione ebbe inizio il 12 marzo con l’intervento di Visconti Venosta dedicato in apertura ai precedenti storici; seguiva poi l’analisi delle decisioni prese a Berlino per cui l’indipendenza della Romania sarebbe dovuta dipendere dalla fine di ogni discriminazione religiosa e dal concedere quindi a tutti la parità giuridica. Dopo il Congresso si era avuto il riconoscimento immediato della Romania da parte dell’Austria, della Russia e della Turchia, mentre invece Italia, Francia, Germania ed Inghilterra, avevano di comune accordo richiesto l’attuazione di quei principi di libertà prima di riconoscere l’ indipendenza romena.

Visconti Venosta ammetteva le difficoltà presentate dal problema ebraico in Romania, complicato da situazioni locali e da antichi pregiudizi, per cui l’Italia, anche in considerazione della tradizionale

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amicizia con la nazione sorella, l’aveva riconosciuta sebbene la situazione del problema ebraico proposta dal governo romeno fosse “… certamente molto incompleta…”, ragion per cui si erano chieste ed ottenute garanzie per la futura emancipazione degli Israeliti.

Visconti Venosta chiedeva poi se fosse esistito un impegno morale, se non proprio un accordo politico, del governo italiano per procedere al riconoscimento insieme alle altre Potenze; e chiedeva pure se i governi che avevano riconosciuto la Romania prima dell’Italia avessero ottenuto dal governo romeno migliori condizioni per gli Ebrei. Se così fosse stato, l’Italia avrebbe fatto meglio a prestare ascolto solo alla sua amicizia per la Romania e riconoscerla subito; ovvero avrebbe dovuto attendere più a lungo e “… non abbandonare più prontamente e più facilmente degli altri la causa della libertà civile e della libertà religiosa”.

Al fine di fare la maggior chiarezza possibile, Visconti Venosta chiedeva infine se il governo avrebbe pubblicato i documenti relativi al riconoscimento della Romania ed in particolare sulle eventuali intese intercorse tra le Potenze su quel problema.

All’interrogazione di Visconti Venosta seguì quella presentata dall’onorevole De Blasio, che liquidava perentoriamente l’azione svolta dal governo italiano, in quanto aveva riconosciuto la Romania troppo tardi rispetto all’Austria, alla Russia ed alla Turchia e troppo presto rispetto alla Francia, alla Germania ed all’Inghilterra; in ogni caso, concludeva l’oratore, il governo italiano era uscito “… dal concerto delle nazioni”.

Crispi per il momento si limitò a chiedere, come aveva fatto Visconti Venosta, la pubblicazione dei documenti diplomatici scambiati fra l’Italia e le altre nazioni per l’esecuzione del Trattato di Berlino.

Ci fu subito una prima, breve replica di Cairoli per promettere la pubblicazione dei documenti relativi a problemi già definiti; quelli riguardanti problemi ancora aperti sarebbero stati pubblicati solo se di natura tale da non compromettere l’esito delle trattative in corso.

Nella successiva tornata del 15 marzo Crispi  svolse la sua interrogazione, definendo un errore essersi fatti precedere nel riconoscimento dall’Austria e dalla Russia, i cui interessi erano opposti a quelli italiani; inoltre libertà religiosa e parità giuridica sarebbero state più facilmente realizzate se a

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Bucarest  ci fosse stato un diplomatico italiano di rango superiore per dare a quel riguardo consigli al principe Carlo e dal suo governo.

Prese per ultimo la parola l’onorevole Pierantoni e indicò al riconoscimento italiano  il merito di avere sollecitato quello delle tre Potenze occidentali, meravigliandosi per le critiche rivolte al governo perché aveva precorso Francia, Germania in Inghilterra e spiegando come l’Italia avesse deciso di riconoscere la Romania perché la politica estera era “… fondata anzitutto sulla omogeneità dei principii e sulla necessità della legittima tutela di preziosi interessi”; e l’Italia più di ogni altro paese presentavaomogeneità dei principii” con la Romania e vi aveva “preziosii interessi” da tutelare.

La Romania aveva rispettato gli obblighi stabiliti dall’articolo 44 del Trattato di Berlino abolendo la pregiudiziale religiosa stabilita dall’ articolo 7 della Costituzione per la concessione della cittadinanza; le modalità di tale concessione erano un problema interno della Romania, in cui gli altri Stati non potevano ingerirsi.

Di stampo prettamente razzista la parte conclusiva dell’interrogazione: la Romania aveva il diritto di tutelare la sua identità nazionale e se gli Ebrei avessero chiesto un intervento straniero, avrebbero peggiorato le loro condizioni per l’odiosità di quella richiesta. Il problema ebraico non era di natura religiosa: in Romania c’era la libertà di culto, come attestavano le 47 sinagoghe esistenti, per cui l’oratore così sentenziava : “… non ci facciamo facili banditori di pretesi diritti dell’umanità, che taluni popoli non sanno capire, e che si possono risolvere a danno stesso del bene, che vogliamo assicurare a vantaggio di stirpi inferiori”.

Il terzo ed ultimo giorno dedicato al dibattito fu occupato dalla replica di Cairoli; all’affermazione di De Blasio circa il carattere prematuro o tardivo, ma in ogni caso fuori tempo, del riconoscimento italiano il presidente del Consiglio rispose che il governo aveva voluto attendere l’attuazione dell’articolo 44 del Trattato di Berlino, da considerarsi iniziata con la modifica dell’articolo 7 della

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Costituzione romena, per cui era stato fino ad allora vietato l’acquisto della cittadinanza ai Rumeni di fede diversa dalla cristiana. Non si era in quel modo attuato completamente l’articolo 44 del Trattato di Berlino ed ancor meno si era soddisfatta la richiesta italiana, peraltro non accolta dal Congresso di Berlino, di considerare cittadino chi fosse nato in Romania da padre pure esso nativo del paese; la tradizionale amicizia per la nazione sorella aveva però indotto il governo italiano a riconoscere l’indipendenza romena, fidando nella promessa di dare in futuro una larga e liberale interpretazione del nuovo articolo 7 approvato dalla Costituente.

A Visconti Venosta Cairoli assicurò non esservi impegni con gli altri governi per un’azione comune nei confronti della Romania; c’era stato solo uno scambio di idee sulla opportunità di accontentarsi delle garanzie romene offerte per l’applicazione in futuro dei principi liberali sanciti a Berlino e recepiti nel nuovo articolo 7 della Costituzione; e proprio sulla base di quelle garanzie  Francia, Germania ed Inghilterra avevano riconosciuto la Romania senza avere ottenuto da essa promesse più impegnative di quelle fatte all’Italia.301

Anche dopo l’approvazione dell’accordo per le ferrovie  stabilito con la legge del 26 gennaio 1880 proseguivano i contatti fra il governo romeno e quello tedesco per la messa a punto dei dettagli dell’applicazione; a tal fine il ministro delle Finanze, Sturdza, partì per Berlino all’inizio del marzo 1880 e contemporaneamente fu annunciato un prossimo viaggio di Bratianu nella capitale tedesca, dovuto, secondo voci giornalistiche, a negoziati per un’alleanza con Germania ed Austria nell’intento di ottenere in cambio il consenso perché Carlo prendesse il titolo di re.

Tornielli si dimostrò scettico, dubitando che potesse essere quella la finalità del viaggio; nell’annesso cifrato al rapporto del 12 marzo comunicò la smentita di Bratianu, ritenuta verosimile dati i contrasti fra Romania ed Austria originati dall’irredentismo dei territori con popolazione valacca apparteneneti  all’impero asburgico.

Ma in realtà la notizia più che falsa era prematura; infatti nel 1882 la Romania stipulò l’alleanza con Austria Germania per uscire dall’isolamento diplomatico; a Berlino in quell’occasione sondò in effetti la disponibilità tedesca per elevare a Regno il Principato di Romania.

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Secondo de Launay Bismarck non solo fu consenziente, ma promise pure di intervenire su Vienna se questa avesse fatto difficoltà. Le proposte romene per un’alleanza non trovarono comunque al momento un’accoglienza favorevole né a Berlino né a Vienna, poiché le due Potenze non vollero stipulare un accordo sgradito alla Russia, contro la quale sembrava essere diretto.302

Proprio la Russia esercitava in quel tempo pressioni sul governo di Bucarest perché vietasse la permanenza di elementi ritenuti pericolosi sovversivi dal governo zarista; fra di essi c’erano pure internazionalisti italiani, come Cesare Ceccarelli e Napoleone Papini, secondo le comunicazioni fatte dal Ministero degli Interni italiano a quello degli Affari Esteri. Il governo romeno si adeguò alle richieste russe e per evitare la presenza di persone professanti “…le dottrine più pericolose e sovversive”, emise un regolamento di polizia, stabilendo l’obbligo di un permesso di soggiorno per gli stranieri. Tornielli dimostrò comprensione per quelle misure, contrarie alla tradizione di ospitalità romena, poiché un piccolo Stato doveva evitare problemi con un potente impero confinante. Il diplomatico italiano esprimeva però il timore per un uso di quelle misure restrittive contro gli Ebrei, considerati stranieri ed in realtà apolidi, poiché nessun governo li riconosceva come propri cittadini.

Lo stesso timore di un’applicazione di quel regolamento agli Ebrei fu espresso dagli “Archives Israélites”, osservando come quel testo fosse stato emanato a richiesta del governo russo per colpire i nichilisti e di Bismarck, persecutore dei socialisti, e prevedesse misure molto rigide, in parte poi attenuate a richiesta dei governi occidentali. Ma quelle modifiche non avevano eliminato il rischio per gli Ebrei, essendo alcune norme rimaste molto elastiche e generiche, come quella che prevedeva il rifiuto del permesso di soggiorno a quanti si fossero dimostrati nocivi alla società: anche la concorrenza esercitata dai commercianti israeliti nei confronti di quelli cristiani avrebbe potuto essere considerata nociva e comportare quindi l’espulsione.

Tornielli inoltre si chiedeva nel suo rapporto se il permesso sarebbe stato rilasciato gratuitamente ovvero avrebbe comportato il pagamento di una tassa gravosa per “…i manovali e terrazzieri italiani”. A richiesta del diplomatico italiano Boerescu assicurò che le nuove norme non avrebbero riguardato gli Ebrei;  il permesso di soggiorno inoltre sarebbe giovato a garantire gli stranieri da eventuali abusi delle autorità locali.303

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Continuavano frattanto a circolare le voci sull’aspirazione romena a trasformare in Regno  il Principato e c’era perciò attesa per l’anniversario del 21 maggio, data dell’ascesa al trono di Carlo nel 1866, poiché erano previste per quella occasione manifestazioni a favore del conferimento del titolo regale a Carlo. Ma non ci furono tali manifestazioni, secondo alcuni perché una notevole parte della popolazione era ostile, secondo altri perché quelle voci di manifestazioni erano una provocazione per creare incidenti. Tornielli giudicava legittima l’aspirazione di conferire a Carlo il titolo di re, nel rispetto però dei diritti altrui (l’accenno possiamo intenderelo riferito alla rinuncia da parte di Carlo alle province dell’impero austriaco con popolazione in larga misura valacca).304

Un’intesa con la vicina Serbia avrebbe potuto essere utile alla Romania per il conferimento simultaneo del titolo legale ai principi dei due paesi. Tornielli segnalò l’arrivo a Bucarest del vicedirettore generale degli Affari Politici del ministero degli Esteri serbo, Simic,  venuto proprio per stabilire un accordo in quel senso; ma, osservava il diplomatico italiano, era un obiettivo difficile da raggiungere a causa dell’ostilità romena per i Serbi; in tal modo gli Slavi del sud erano gettati in braccio alla Russia e la Romania, tradendo la sua missione, sarebbe divenuta un satellite dell’Austria.305

Ed in effetti, malgrado gli antichi contrasti derivanti dalle aspirazioni romene per la Transilvania, la Bucovina ed il Banato, territori abitati da molti Valacchi ma soggetti a Vienna, la Romania si veniva accostando all’Austria e veniva maturando l’alleanza poi  stipulata nel 1882.

Lo notò Tornielli, segnalando l’inizio delle pubblicazioni a Bucarest di un giornale in lingua tedesca, il “Bukarester Tageblatt”, con cui entrò subito in polemica il giornale in lingua francese pubblicato nella capitale romena, a causa della richiesta del “Bukarester Tageblatt” di ammettere in Dobrugia coloni germanici come erano stati accettati  coloni italiani. Il giornale francese ricordò la proibizione di assegnare terre agli stranieri stabilita dall’articolo 3 della Costituzione; ma tali non potevano essere considerati gli italiani e gli altri popoli latini e quindi non valeva per essi quel divieto, necessario invece per contenere l’espansionismo germanico: “Et si l’article 3 de la Constitution n’existait pas, aujourdhui il faudrait le faire”.

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Tornielli si soffermava poi sugli orientamenti politici della Romania, spinta verso l’Austria dalla scarsa considerazione in cui era stata tenuta dalla Russia. Vienna aveva perciò aumentato la sua influenza e la Romania non aveva avuto il coraggio di mettere a frutto il prestigio e la simpatia acquistati con la sua vittoriosa partecipazione alla guerra del 1877; colpita dalla perdita della Bessarabia, “impastoiata nelle difficoltà createle dalla quistione israelitica, le mancò la lena che le sarebbe stata necessaria per farsi propugnatrice del più vitale dei suoi interessi, mettendosi a capo del sistema dei piccoli Stati dell’Europa Orientale”, osservava Tornielli. La Romania aveva preferito appoggiarsi all’Austria e questa aveva saputo acquistarsi abilmente delle simpatie, intervenendo in più occasioni in suo favore: aveva difatti riconosciuta per prima l’indipendenza romena dopo il Congresso di Berlino; aveva contribuito poco alla pressione dei governi per risolvere la questione ebraica; aveva fatto da mediatrice con la Francia, la Germania e l’Inghilterra perché riconoscessero l’indipendenza romena; aveva favorito l’accordo con la Russia perché la fortezza di Arab-Tabia, posta alla frontiera della Dobrugia, fosse assegnata alla Romania.

Questa lunga serie di interventi austriaci a favore della Romaniaannotava Tornielli - era stata interrotta dal riconoscimento italiano per cui l’Austria aveva perso il monopolio delle simpatie romene; era rimasta inoltre sul tappeto una questione politica importante per la Romania, il controllo della navigazione sul Danubio in cui l’Austria aveva preteso una parte preponderante, urtando il sentimento nazionale dei Rumeni.

Sintomo di un persistente disagio romeno nei rapporti  con l’Austria era stato il rifiuto di Carlo, ispirato dall’opinione pubblica, a recarsi a Sibiu (Hermanstadt) per incontrare Francesco Giuseppe, nel corso della visita in Transilvania fatta dall’imperatore austriaco; c’erano stati inoltre ripetuti attacchi giornalistici alla politica austriaca, fra cui quelli di “Democraţia Nationala”, giornale controllato dal principe Grigori Sturdza, rivolti anche contro Bratianu accusato di fare una politica filo-austriaca nell’illusoria speranza di riavere così la Bessarabia; secondo il giornale, sarebbe stato più opportuno rivendicare i territori usurpati dall’Austria, ponendo fine all’oppressione dei Magiari, tanto pesanti da far rimpiangere il governo turco.

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La stampa romena criticò pure il viaggio del principe a Berlino, attribuito alla necessità di trovare un successore sul trono di Romania ed allo scopo di trovare un appoggio per l’assunzione del titolo di re.

Tornielli riassumeva così i commenti giornalistici a quel viaggio: “E’ tempo ormai che ovunque batta un cuore romeno, si reagisca contro questa invasione austro-tedesca in Rumania. Il principe di Rumania non bisogna di comperare il suo scettro reale. I Rumeni non vorranno mai, in nessun caso, d’un titolo regale che avesse avuto origine da un atto di umiliazione”.306

La successione al trono era un problema strettamente collegato all’erezione del Principato a Regno, poiché occorreva assicurare la futura stabilità del nuovo e più importante organismo politico, dando la certezza di un tranquillo passaggio di poteri.

Carlo non aveva eredi; dal suo matrimonio era nata una sola figlia, morta precocemente ancora bambina; si imponeva quindi la ricerca di un successore che desse la garanzia di continuità e stabilità politica.

Il successore fu cercato in seno alla famiglia di Carlo, gli Hohenzollern-Sigmaringen e fu trovato in un nipote dello stesso Carlo, figlio di suo fratello Leopoldo. Dopo alcune esitazioni su quale dei figli di Leopoldo dovesse cadere la scelta, toccò a Ferdinando diventare l’erede, destinato a salire sul trono molti anni dopo, nel 1914.

Non mancarono voci di dissenso per una scelta fatta nell’ambito familiare e senza il preventivo consenso del Parlamento. “Indépendance Roumaine” del 17 settembre 1880 scrisse che la successione al trono non era un affare di famiglia, ma riguardava tutta la nazione e pertanto era necessaria la ratifica delle Camere; per addolcire il tono della critica, il giornale si diceva certo della consapevolezza di tale necessità da parte di Carlo.

Venne poi la ratifica parlamentare, ma si pose subito un delicato problema costituzionale.

La Costituzione stabiliva infatti l’obbligo per i sovrani della Romania di professare la fede ortodossa; ci si pose il problema se tale obbligo esistesse anche per i successori designati; il problema fu rapidamente risolto, decidendo che per coerenza Ferdinando da cattolico si sarebbe dovuto fare ortodosso.

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Si occupò del problema  il “Bukarester Tageblatt” del 4 settembre 1880, per smentire la notizia data dal “Pester Lloyd”, secondo il quale l’elevazione della Romania a Regno sarebbe stata un compenso per la madre di Ferdinando, fervente cattolica, cui si attribuiva rincrescimento per la conversione del figlio alla fede ortodossa.

Una volta risolto il problema della successione al trono, c’era solo da attendere il momento opportuno per proclamare Carlo re di Romania, senza dare l’impressione che fosse dipeso da trattative internazionali.

Ci tenne a metterlo in chiaro Bratianu nella sua risposta all’interpellanza presentata nel marzo 1881 da Vernescu, uno dei più autorevoli esponenti dell’opposizione, smentendo le voci di contatti (in realtà avvenuti) con altri governi per ottenere il loro consenso alla proclamazione del Regno di Romania; il presidente del Consiglio romeno ricordò come nella Costituzione il sovrano fosse definitodomnu”, termine cui si poteva attribuire anche il significato di “imperatore”.

Esisteva però almeno in teoria un ostacolo da superare, il Trattato stipulato nel Congresso di Aquisgrana del 1818, per cui nuovi titoli regali dovevano essere preventivamente riconosciuti dalle teste coronate d’Europa.

Quel trattato non vincolava l’Italia, poiché non aveva partecipato a quel Congressosuccessivamente aveva firmato il Trattato; ma non si appellarono a quel documento neanche gli Stati che l’avevano sottoscritto.

Alcuni giorni dopo l’interpellanza di Vernescu, il 25 marzo 1881, si verificò un incidente alla Camera dei Deputati, perché il deputato Mariorescu accusò il governo di esser debole con i sovversivi o addirittura connivente con i nichilisti, non tenendo conto del regolamento emanato già da un anno per impedire la presenza di elementi ritenuti pericolosi con l’imposizione di un permesso di soggiorno.

Il presidente dell’Assemblea, Rosetti, reagì vivacemente a quell’accusa e, sceso in aula dal banco della presidenza, affrontò Maiorescu, rivendicando l’onestà politica del governo e del partito liberale.

L’incidente convinse la maggioranza del Parlamento della necessità di non ritardare oltre l’assegnazione a Carlo del titolo regale, grazie al quale si sperava di rafforzare i principi d’ordine e l’autorità delle istituzioni.

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Il governo avrebbe preferito rinviare la proclamazione del Regno al 10 maggio, data simbolo in cui era stata nel 1877, all’inizio della guerra, proclamata l’indipendenza con la fine di ogni legame con la Turchia.

Ma ormai il meccanismo era già stato messo in moto e non era più possibile arrestarlo: il 26 marzo 1881, giorno successivo all’alterco tra Rosetti e Maiorescu, su proposta del generale Leca la Camera proclamò all’unanimità il Regno di Romania; lo stesso giorno e sempre con voto unanime ci fu l’approvazione del Senato e senza ulteriori attese  fu proclamata la legge istitutiva del Regno.307

Bismarck aveva dato il suo assenso alla proclamazione del Regno fin dal marzo 1880, dicendosi pure convinto di una favorevole disposizione della Francia, dell’Inghilterra e dell’Italia e si era spinto sino a promettere un suo intervento a Vienna, se l’Austria avesse fatto difficoltà, come de Launay aveva comunicato a Cairoli.308

Boerescu chiese il riconoscimento della nuova realtà istituzionale della Romania, con sua nota

del 28 marzo, indirizzata al ministro di Romania a Roma, Kretzulescu, ed a tutti gli altri rappresentanti diplomatici della Romania. Di conseguenza il 29 marzo Tornielli sollecitò Cairoli a precisare quale fosse la posizione italiana, poiché il silenzio di Roma sarebbe stato per lui motivo di imbarazzo ed avrebbe suscitato in Romania una impressione negativa, tanto più che un articolo apparso sull’ufficiosaRivista del lunedì” di Vienna faceva presagire il consenso dell’Austria.

Ancor prima di ricevere la richiesta di notizie sulla posizione italiana avanzata da Tornielli, Cairoli gli aveva telegrafato lo stesso 29 marzo confermando la simpatia italiana per il popolo romeno ed affermando la necessità di avere da Bucarest una notizia ufficiale della nuova condizione politica della Romania, prima di riconoscerla. Un riconoscimento precipitoso, affermava Cairoli, avrebbe destato malumori contro l’Italia; e per non dover subire ancora attacchi, come era capitato alla fine del 1879 per il riconoscimento dell’indipendenza, Cairoli avviò consultazioni con il governo inglese sulla procedura da seguire: “ce que nous voulons à tout prix éviter, c’est de faire une politique isolée”.

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Nell’accusare ricevuta di questo telegramma di Cairoli, cui diede riscontro lo stesso giorno 29 marzo, Tornielli insisteva sul corteggiamento dell’Austria nei confronti della Romania; oltre alla “Rivista del lunedì” già ricordata nel precedente rapporto, Tornielli ricordava come altri giornali austriaci più o meno ufficiosi sostenessero la necessità di subordinare il riconoscimento del Regno di Romania “alla morale sommissione della nazione romena alla predominanza austriaca nella regione danubiana”.

Con quei riferimenti alle iniziative austriache Tornielli raccomandava implicitamente a Cairoli di affrettare il riconoscimento italiano, impegnandosi però a mantenersi riservato, senza precorrere le decisioni di Roma.

Potevano servire da stimolo indiretto per il riconoscimento italiano anche le notizie date da Tornielli con altri due rapporti spediti entrambi il 30 marzo: informava infatti Cairoli delle istruzioni date da Londra al ministro plenipotenziario britannico a Bucarest, White, perché si congratulasse per la proclamazione del Regno non appena analoghe disposizioni fossero pervenute agli altri rappresentanti diplomatici; il ministro belga, Iooris, le aveva già ricevute e si era quindi recato dal principe per felicitarsi, venendo ricevuto in forma solenne.

Tornielli comunicò inoltre a Cairoli di aver saputo dell’incontro del ministro di Romania a Vienna, Balascianu, con il ministro degli Esteri Haymerle; questi non aveva mosso obiezioni di principio alla proclamazione del Regno di Romania, ma aveva sostenuto la necessità di un accordo tra le grandi Potenze prima di riconoscerlo. Notizie giornalistiche da San Pietroburgo inoltre  alludevano al proposito russo di chiedere al governo romeno di non accordare ospitalità a “coloro che minacciano ad un tempo l’ordine sociale e la sicurezza dei troni”; quell’avvertimento sembrava essere una condizione posta per il riconoscimento ed aveva destato sensazione; trovava spiegazione in un banchetto tenuto di recente a Jassy dagli internazionalisti per celebrare l’anniversario della Comune di Parigi; la polizia aveva operato arresti, ma – osservava Tornielli - una più attenta sorveglianza preventiva avrebbe potuto impedire quell’iniziativa dei sovversivi.

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Il ministro plenipotenziario italiano tracciava il quadro delle reazioni internazionali alla proclamazione del Regno, ricordando i commenti dei giornali di Berlino, fiduciosi in una confermata amicizia romena per l’Austria e per la Germania. I giornali francesi ed inglesi consideravano il nuovo assetto istituzionale della Romania il consolidamento dell’indipendenza di uno Stato importante per l’equilibrio politico in Oriente: valutazioni accolte con soddisfazione a Bucarest. Aveva pure destato compiacimento la notizia telegrafica del 29 marzo da Roma sulle felicitazioni espresse da ministri, parlamentari e diplomatici al ministro plenipotenziario di Romania, Kretzulescu, in occasione di un concerto svoltosi al Quirinale la sera del 28.309

Cairoli aveva manifestato l’intenzione di non condurre verso la Romania una politica isolata; ma non rimase certo inattivo in quegli ultimi giorni del marzo 1881.

Il 30 marzo telegrafò a di Robilant per ringraziarlo delle informazioni sulla contrarietà austriaca ad un immediato riconoscimento italiano del Regno di Romania; ma Cairoli informò l’ambasciatore a Vienna delle difficoltà a tardare ad effettuare quel passo, richiesto dall’opinione pubblica e verso il quale il Parlamento era pure favorevolmente orientato, tanto più che il ministro belga a Bucarest si era già congratulato con Carlo e l’Inghilterra si accingeva a farlo. Cairoli diede quindi istruzioni  a di Robilant perché preparasse il governo di Vienna al riconoscimento del Regno di Romania da parte italiana.

Le stesse spiegazioni ed istruzioni Cairoli le diede a de Launay il giorno dopo: doveva comunicare al governo tedesco il riconoscimento del Regno di Romania che aveva per l’Italia “…tout le caractère d’une nécessité politique et parlementaire…”.

A Cairoli pervenivano dalle varie capitali notizie perlopiù confortanti. Da Vienna e da Londra gli arrivarono infatti due telegrammi il 31 marzo, entrambi non comunicavano ostilità al riconoscimento italiano. L’ambasciatore a Vienna ricordava come l’Italia non fosse tenuta a rispettare il Trattato di Aquisgrana del 1818;  poiché non vi aveva mai aderito non doveva attendere il parere favorevole dei regnanti d’Europa per riconoscere il Regno di Romania; suggeriva quindi di agire rapidamente per non farsi anticipare da un’altra Potenza.

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Menabrea da Londra comunicava l’invio di istruzioni al ministro White a Bucarest perché riconoscesse la dignità regale di Carlo e consigliava quindi di non esitare a riconoscere il Regno di Romania.

La sera stessa del 31 marzo Cairoli si affrettò ad inviare a Tornielli un telegramma ed un dispaccio perché informasse il governo romeno della disponibilità italiana a riconoscere la nuova realtà politica della Romania appena ne fosse stata data a Roma comunicazione ufficiale.

Cairoli spiegava a Tornielli perché era richiesta la comunicazione ufficiale per procedere al riconoscimento del Regno romeno; farlo subito, senza aver ricevuto una nota ufficiale da Bucarest, avrebbe tolto solennità a quell’importante atto, ridotto ad una semplice manifestazione di simpatia, priva di una motivazione politica. Kretzulescu aveva convenuto sull’opportunità di quella procedura; Cairoli faceva pure presente a Tornielli come le disposizioni del Trattato di Aquisgrana non costituissero un vincolo per l’iniziativa dell’Italia, che non era mai stata fra gli aderenti a quell’accordo; esisteva oltretutto il precedente del 1861, quando nessuno Stato, anche se firmatario del Trattato, ne aveva chiesto l’applicazione per riconoscere il Regno d’Italia; sembravano, stando alle notizie ricevute, esistere opposizioni alla decisione del governo italiano da parte di altri governi.

Naturale ed immediata conseguenza” del riconoscimentoconcludeva Cairoli - sarebbe stato l’invio di nuove credenziali a Tornielli e Kretzulescu  per accreditarli tenendo conto della nuova situazione giuridica dello Stato romeno.

L’unica voce fuori dal coro fu quella dell’ambasciatore a Berlino; de Launay telegrafò infatti il aprile che il governo tedesco, pur non contestando la decisione italiana, aveva osservato come l’Italia operando prontamente il riconoscimento, si fosse isolata, rischiando di irritare l’Austria; consigliò pertanto de Launay a Cairoli di agire assieme all’Inghilterra.

Sembrava ripetersi  il copione messo in scena alla fine del 1879 dello stesso de Launay, quando aveva tanto insistito perché Tornielli non presentasse le sue credenziali di ministro plenipotenziario a Carlo.

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Ma anche questa volta Cairoli non si fece condizionare dai dubbi e dai timori manifestati dall’ambasciatore, cui telegrafò il 2 aprile per rassicurarlo: l’ambasciatore d’Austria a Roma non aveva trovato nulla da ridire sull’iniziativa italiana e le istruzioni di Londra al suo rappresentante a Bucarest, comunicate da Menabrea  equivalevano ad un riconoscimento.310

Bucarest si affrettò ad inviare la comunicazione ufficiale richiesta da Cairoli e questi poté quindi comunicare l’avvenuto riconoscimento del Regno di Romania con il telegramma inviato al 3 aprile 1881 ai rappresentanti dell’Italia nelle varie capitali.311

Lo stesso giorno si svolse un breve dibattito alla Camera dei Deputati, dove era stata presentata dall’onorevole Del Giudice una interrogazione “sulle intenzioni del Governo circa la proclamazione del Regno di Romania”; analoga interrogazione l’aveva presentata l’onorevole Emanuele Ruspoli.

Del Giudice svolse la sua interrogazione affermando l’importanza della proclamazione del Regno di Romania, considerata un grande fatto storico ed una conferma della vitalità di quel popolo, già attestata dalle “sagge ed ardite riformeattuate negli ultimi anni, così “meritando di prender posto fra i paesi più civili”.

L’Italia aveva ragione di rallegrarsi dell’avvenimento, “per ragioni di sentimento quanto per ragione politica”, considerati i legami con la Romania, rappresentante la latinità in Oriente in modo da andarne superbi.

Ruspoli si associò a quanto detto da Del Giudice e ricordò il contributo italiano all’indipendenza romena, a partire dall’azione di Cavour al Congresso di Parigi nel 1856. Da ultimo l’oratore sostenne l’inesistenza di ostacoli al riconoscimento del Regno, logico complemento dell’indipendenza prevista dal Trattato di Berlino.

Nella sua replica Cairoli attestò la sua soddisfazione per quell’evento, dati i rapporti di affinità e di simpatia esistenti con la Romania; precisò di aver voluto attendere una comunicazione ufficiale del governo romeno prima di procedere al riconoscimento, in modo che questo risultasse più solenne.

La comunicazione era pervenuta quel mattino stesso ed immediatamente era stato riconosciuto il Regno di Romania.

In quel clima tanto disteso, gli interroganti si dissero soddisfatti e ringraziarono il Presidente del Consiglio per le sue comunicazioni.312

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Nel frattempo anche a Bucarest gli eventi si susseguivano velocemente.

Il aprile 1881 Suleyman bey, rappresentante della Porta a Bucarest, comunicò il riconoscimento del Regno di Romania da parte del sultano e Tornielli annunciò l’imminente riconoscimento italiano una volta ricevuta la comunicazione ufficiale del nuovo status politico della Romania; il 2 aprile il ministro plenipotenziario britannico fece analoga comunicazione ed anche il rappresentante austriaco preannunciò la volontà di Vienna di compiere il riconoscimento.

Pur in assenza di esplicite dichiarazioni il linguaggio dei rappresentanti della Germania e della Russia faceva intendere la disponibilità dei loro governi; stranamente il ministro plenipotenziario francese, Ducroy-Aubert, mantenne invece un atteggiamento riservato e si limitò a dichiarare che la Francia si sarebbe adeguata alle decisioni delle altre Potenze; Tornielli osservò come la Francia sembrasse aver abbandonato la sua tradizionale politica filo-romena.

Ma quella francese fu una esitazione di breve durata; il 4 aprile infatti Tornielli comunicò a Roma la richiesta di Ducroy-Aubert per essere ricevuto da Carlo e potersi così felicitare con lui del titolo regale appena assunto.

Tornielli ed i ministri francese ed inglese effettuarono autonomamente il riconoscimento del Regno di Romania da parte dei rispettivi governi, mentre invece i rappresentati dell’Austria e della Germania, Hoyos e Wesdhelen, attesero l’arrivo da San Pietroburgo delle istruzioni destinate al principe Urusof  per compiere quel passo: ed il 6 aprile i rappresentanti dei tre imperi si recarono da Carlo per  riconoscerlo re di Romania.

Tornielli nel comunicare a Cairoli il passo comune compiuto dai ministri d’Austria, Germania e Russia, si rallegrò della decisione francese di riconoscere il nuovo assetto istituzionale della Romania, per cui si era ricostituito un asse degli Stati liberali con Italia ed Inghilterra.

Alcuni giorni dopo, il 13 aprile 1881, Tornielli presentò le sue nuove credenziali a Carlo ed il sovrano ci tenne a ricordare come nel 1866 Vittorio Emanuele II fosse stato il primo sovrano a riconoscerlo e gli  avesse  inviato  un’alta  onorificenza, il Collare dell’ Ordine dei Santi Maurizio e

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Lazzaro, cui aveva fatto seguito nel 1877 il conferimento del Collare dell’Annunziata; l’Italia inoltre aveva preceduto Francia, Germania ed Inghilterra nel riconoscere l’indipendenza romena, inviando nel dicembre 1879 proprio Tornielli in qualità di ministro plenipotenziario. A queste prove di simpatia date dall’Italia alla Romania, noi possiamo aggiungere il riconoscimento italiano nel 1878 del titolo di “Altezza realepreso da Carlo, tappa preparatoria verso l’assunzione del titolo regale.

Il ministro tedesco indugiò a presentare le sue credenziali per attendere che anche il ministro dall’Austria a Bucarest le avesse ricevute, non volendo precederlo nella loro presentazione a re Carlo.313

La Russia aveva avuto qualche esitazione a riconoscere il Regno di Romania; più volte il governo zarista si era lamentato, accusando Bucarest di prestare scarsa attenzione alla presenza di agitatori nichilisti ed il governo romeno era corso ai ripari emanando nel 1880 un regolamento con misure restrittive, fra cui l’imposizione agli stranieri di un permesso di soggiorno.

Sopravvenne poi l’attentato mortale allo zar Alessandro II, compiuto dai nichilisti il 13 marzo 1881 per cui in segno di lutto furono alla fine di marzo sospese in Romania le manifestazioni e ritirate le bandiere già esposte per celebrare la proclamazione del Regno.

Nello stesso marzo ci fu un attentato contro Bratianu, rimasto ferito in modo non grave. A causa di questi avvenimenti al governo russo sembrò insufficiente il regolamento del 1880 per fronteggiare l’attività dei rivoluzionari, la cui attività continuava in modo preoccupante.

A Jassy si erano verificatenumerose infiltrazioni delle più perverse dottrine fra la gioventù delle scuole”, come Tornielli scriveva a Cairoli, e si ritenne quindi necessaria una legge per aumentare i poteri del governo in materia di ordine pubblico, per cui fu presentato un progetto di legge ad opera del deputato Statescu. Tornielli in precedenza aveva criticato il regolamento del 1880, temendone l’eventualità di un’applicazione contro gli Ebrei e l’imposizione di una tassa sul permesso di soggiorno, gravosa per gli operai italiani venuti a lavorare in Romania; ma in quella nuova occasione considerava invece opportuna l’iniziativa di Statescu e ricordò come in occasione del Congresso di Parigi nel 1856 Cavour avesse limitato la libertà di stampa, dando così prova di previdenza politica.

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Il progetto di Statescu prevedeva per lo straniero accusato di turbare l’ordine pubblico il domicilio coatto ovvero l’espulsione; i provvedimenti sarebbero stati presi con decreto reale e modificati in via amministrativa senza bisogno di motivazione e da eseguirsi entro 24 ore; lo straniero espulso avrebbe dovuto abbandonare il paese secondo un itinerario fissato dalle autorità e, se avesse disobbedito, sarebbe stato accompagnato alla frontiera dalla polizia; l’espulsione era prevista anche per chi si fosse allontanato dal domicilio coatto; per gli espulsi rientrati abusivamente era prevista la detenzione da cinque giorni a sei mesi e, scontata la pena, una nuova espulsione con l’accompagnamento  della polizia fino alla frontiera.

Non era soggetto a quei provvedimenti lo straniero sposato con una donna romena, padre di figli e munito di un regolare permesso di soggiorno.

Il progetto fu approvato con alcune modifiche, volute dallo stesso governo, in base alle quali i decreti sarebbero stati emessi con decreto governativo e non reale, volendo tenere il sovrano fuori da una materia di competenza del governo; venne introdotto per lo straniero l’obbligo di chiedere il permesso di soggiorno entro 10 giorni dal suo arrivo a Romania e, se già vi risiedeva, entro 10 giorni dalla promulgazione della legge; di particolare importanza era la norma per cui gli attentati ai sovrani non erano considerati delitti politici e quindi gli attentatori non avrebbero potuto godere del diritto di asilo e sarebbero stati estradati (Tornielli prevedeva che nessun attentatore si sarebbe più rifugiato in Romania); era infine soppressa l’esenzione dalle misure previste da quella legge per gli stranieri sposati con donne romene, padri di figli e residenti con un permesso di soggiorno.

Della situazione dei sovversivi in Romania si occupò Bratianu in un discorso pronunciato in occasione di un banchetto in suo onore, organizzato dai commercianti di Bucarest per festeggiare lo scampato pericolo dopo l’attentato del marzo 1881; il banchetto era stato rinviato sino ai primi di aprile per rispettare il lutto proclamato per la morte dello zar.

Tornielli inviò copia di quel discorso a Cairoli, richiamando l’attenzione sulle dichiarazioni di Bratianu circa l’inesistenza di una proletariato romeno e per conseguenza di elementi sovversivi locali; in passato il governo romeno, affermava il  presidente  del Consiglio, si era mostrato ospitale

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verso gli esuli politici e l’esperienza di una vita tranquilla in Romania li aveva indotti a desistere dalla violenza, per cui non erano stati motivo di preoccupazione né per i Rumeni né per i popoli vicini; non c’era comunque stato lassismo da parte del governo: se qualche straniero malvagio o folle non avesse rispettato l’ospitalità romena, compiendo crimini, il rimedio era bello e pronto: per i folli c’era il manicomio, per i malvagi l’espulsione.

Erano questi i punti sottolineati da Tornielli: “Nous n’avons ni socialistes ni nihilistes. Cela est tout naturel du reste: nous n’avons pas la maladie – le prolétariat - nous n’avons pas besoin de médicationLes commotions sociales et politiques des autres pays nous ont souvent envoyé, il est vrai, des réfugiés cherchant un asile chez nous….Nous les avons accueillis, mais nous les avons adoucis, désarmés, pour ainsi dire, en les laissant vivre pacifiquement au milieu de nous; et ils n’ont plus été un danger pour ceux quils fuyaient. Ainsi nos voisins n’ont pas motif de s’inquieter de nos moeurs hospitaliers. Nous autres roumains non plus”.314

Ma quelle rassicuranti dichiarazioni di Bratianu non impedirono il ricorso a norme speciali per gli stranieri sospettati di terrorismo: ancora una volta la Romania dovette pagare alla Russia un prezzo per ottenere il riconoscimento, anche se Bratianu escluse la dipendenza dell’adozione di quella legge da pressioni straniere, essendo stata emanata per libera scelta dal governo romeno per impedire il diffondersi di idee sovversive (dispaccio telegrafico dell’ Agenzia Stefani da Bucarest del 15 aprile 1881, riportato su “L’Opinione” del 16).

Fra i commenti di stampa agli avvenimenti rumeni sembra meritare una particolare attenzione quello dell’ “Osservatore Romano” del 5 aprile 1881.

La stampa cattolica non era mai stata particolarmente favorevole alla Romania, paese di fede ortodossa e quindi consideratoscismatico”; in occasione della guerra condotta da Russia e Romania contro i Turchi si è già visto come si fosse mantenuta equidistante tra le due parti, accomunando in una severa condanna i musulmani e gli ortodossiscismatici”.

In quell’occasione invece l’ “Osservatore Romanosalutò con simpatia la proclamazione del Regno di  Romania, considerato “… un’arra di stabilità, e una base di maggiore sviluppo di potenza e di rispetto  presso  altre  nazioni”; era  giustificato  l’orgoglio  dei Rumeni per  il  valore  dimostrato in

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guerra e per l’ “onore altamente sostenuto del nome romano”. Il giornale esprimeva poi un augurio che era al tempo stesso un’esortazione: “… non diano ascolto a pazzie di novatori, né presso essi trovino accesso i fautori di discordie, e i demolitori della società”. Era una raccomandazione che con diverso tono e con altri argomenti corrispondeva ai timori della Russia zarista; l’auspicio conclusivo espresso dall’ “Oservatore Romanoera questo: “E rendendo grazie a Dio degli acquistati beni, speriamo ch’essi rivolgano maggiormente gli occhi a quest’antica Roma loro madre, per essere il centro della cristianità, e che la misericordia del Signore riunisca tutti gli animi in una sola fede e in solo pastore”.

“La Nazione” del 30 marzo 1881 non era stata da meno nell’esaltare i meriti storici per cui era legittima la proclamazione del Regno di Romania, definita “… degna, per la saviezza e il patriottismo di cui ha dato prova da 25 anni di prender posto nel concerto dell’Europa civile”.

I Romeni avevano dovuto superare molte prove, fra le quali la più difficile era stata l’emancipazione degli Ebrei: “Essi però soddisfecero su questo punto come su tutti gli altri al desiderio dell’Europa; era il prezzo dell’indipendenza del loro paese e, anche a quel prezzo, non la pagarono troppo cara”.

Ai Romeni spettava in Oriente una missione civile, poiché essi erano “… incontestabilmente più innanzi nella cultura intellettuale degli Slavi loro vicini”.

In modo molto più asciutto e stringato “L’Opinione” (26 marzo 1881) aveva dato notizia del proposito di elevare a Regno il Principato di Romania, riportando l’affermazione fatta dal “Romanul” non trattarsi di un progetto ispirato da vanità, ma dovuto a ragioni di stabilità politica.

Nel dare poi il 28 marzo notizia del voto unanime della Camera romena per la proclamazione del Regno, “L’Opinione” aveva citato l’affermazione di Boerescu a cui parere nessun governo si sarebbe opposto, poiché la politica romena sarebbe rimasta immutata. “L’Opinione” si era sempre battuta perché gli Ebrei di Romania non fossero considerati tutti stranieri e come tali esclusi dalla parità giuridica; tuttavia il 4 aprile, nel riportare le dimostrazioni in onore di Carlo fatte dalle comunità straniere, citava per prima quella israelitica accanto alla greca, alla tedesca ed all’italiana.

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L’affermazione del giornaleRomanul” circa le esigenze di stabilità politica come vera ragione della proclamazione del Regno, riportata da “L’Opinione” del 26 marzo, veniva poi ripresa il 29 da “Il Diritto”, lodando la Romania perché si era dimostrata valorosa in guerra e perché aveva “… un governo pacifico, liberale, ordinato, progrediente”. Ma l’aumento di prestigio - osservava il giornale - comportava anche un aumento di responsabilità per il Regno romeno, la cui nascita era sgradita all’Austria per il timore della formazione di un Regno di Serbia, in grado di costituire un centro di attrazione per gli Slavi sudditi dell’impero asburgico.

Ed il 2 aprile “Il Dirittoriportava dal “Journal de Saint Petersbourg” i “voti sinceri” della Russia alla Romania per la sua nuova esistenza; il giornale russo esprimeva però anche l’ammonizione al nuovo Regno perché fosse un membro attivo dell’Europa monarchica e negasse asilo “a qualche parte della banda internazionale che minaccia i troni e la prosperità delle nazioni”.

Qualche giorno dopo, il 5 aprile, “L’Opinionecitava l’affermazione della “Neue Freie Presse” di Vienna, secondo la quale Russia e Germania ponevano come condizione per riconoscere il Regno una presa di posizione antinichilista del governo di Bucarest; questi si adeguò alla richiesta prima nel marzo 1880 con il regolamento di polizia e poi nell’aprile 1881 con la legge per l’espulsione dei sovversivi.

“La Perseveranza” si dimostrò molto attenta alle vicende romene, pubblicando già il 28 marzo la notizia della proclamazione del Regno di Romania con il voto unanime del Parlamento e facendo cenno delle trattative in realtà intercorse tra Bucarest , Vienna e Berlino, malgrado le smentite di Bratianu; venuta meno l’opposizione dell’Austria non sembravano esserci più difficoltà per il riconoscimento del Regno.

Quell’iniziativa politica romena era così commentata da “La Perseveranza”: “… noi desideriamo che la proclamazione del Regno rumeno non sia una vana cerimonia, la semplice soddisfazione d’un capriccio o di un’ambizione popolare, ma serva a nobilitare l’animo della nazione…”.

Quel voto era espresso in considerazione della missione storica della Romania in Oriente come rappresentante della civiltà latina; a giudizio del giornale potevano essere veicolo di progresso nei Balcani la Romania a nord e la Grecia nel sud della penisola.

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Le congratulazioni a Carlo per il suo nuovo titolo regale espresse dall’ufficiosaRivista del lunedì” di Vienna rispecchiavano secondo il giudizio comune la posizione del governo austriaco ed erano ironicamente commentate da “La Perseveranza” del 29 marzo con queste parole: “Questo si chiama far buon viso a cattiva fortuna, giacché non pensiamo che il voto della Camera di Bucarest abbia fatto a Vienna un gran piacere”.

L’ambiguità di quelle congratulazioniosservava il giornale - era dimostrata anche dall’ammonimento della “Rivista del lunedì” alla Romania perché stringesse con l’Austria accordi da cui sarebbe dipesa l’amicizia tra i due paesi.

Lo stesso giornale precisò poi, il 3 aprile, quali accordi stessero a cuore al governo austriaco in quel momento; c’era in atto una controversia tra Bucarest e Vienna sul ruolo spettante all’Austria nella Commissione degli Stati rivieraschi del Danubio per la risoluzione dei problemi irrisolti.

Si era raggiunta una parziale intesa con l’affidare alla Commissione europea per il Danubio le decisioni sulle questioni di principio relative alla navigazione su quel fiume, ma non si era invece trovato un accordo per le questioni amministrative rimaste senza una soluzione; la Romania, con l’appoggio francese ed inglese, avrebbe voluto affidare pure le decisioni sui problemi amministrativi alla Commissione europea; mentre l’Austria, in quanto presidente della Commissione degli Stati rivieraschi, avrebbe voluto avere essa  stessa il potere decisionale sui casi controversi.

Ma più di ogni altro si spese perché fosse riconosciuta l’elevazione della Romania da Principato a Regno Giovenale Vegezzi Ruscalla. Malgrado l’età avanzata (aveva ormai superato gli 80 anni), il vecchio amico dei Romeni intervenne a più riprese sull’argomento ed assunse una posizione significativa anche se apparsa su di un giornale di provincia, “Il Cittadino” di Savona, schierandosi decisamente fin dal titolo del primo articolo, “Regno e non Principato” (2 marzo 1880), in cui sostenne il diritto della Romania divenuta indipendente al nuovo assetto politico, di cui era degna per la sua antica civiltà; era perciò confutato il parere di quanti erano contrari perchè in passato i Principati Danubiani erano stati vassalli della Porta.

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Alla Spagna (“Il Cittadino”, 11 marzo 1880Spagna e Romania”) era pertanto rimproverato l’indugio nel riconoscere il Regno di Romania, perché, seguendo l’esempio francese, considerava insufficienti le misure per l’emancipazione degli Ebrei adottate dal governo di Bucarest; come poteva assumere quella posizione – si chiedeva Vegezzi Ruscalla – un paese nel quale ai non cattolici erano interdetti gli uffici pubblici? Sull’argomento insisteva poi il successivo articolo “Et iterum Israel”, apparso il 27 marzo 1880 sempre su “Il Cittadino”.

Per contro Vegezzi Ruscalla elogiava il Portogallo per il riconoscimento del Regno di Romania, considerando quella decisione una prova di solidarietà latina (“Il Cittadino”, 8 luglio 1880Portogallo e Romania”).

E da ultimo, quando il Regno di Romania era ormai una realtà consolidata e riconosciuta, ma restava aperto il problema dei territori con popolazione in maggioranza romena ancora soggetti ad un governo straniero, Vegezzi Ruscalla esprimeva le sue simpatie per le aspirazioni a ricongiungersi alla madre patria; ma al tempo stesso consigliava di agire con prudenza, raccomandando: “Calma, pazienza, Romeni irredenti, e l’avvenire è per voi” (“Il Cittadino”, 2 giugno 1884, “Irredentismo”).

Anche in Francia si levarono voci a favore della istituzione di un Regno di Romania; il “Journal des Débats”, da sempre attento osservatore delle vicende romene si occupò di quell’evento tanto importante; ne diede notizia il 28 marzo 1881, ricordando i sondaggi svolti dal governo di Bucarest per accertare quale fosse la posizione delle Potenze.

Pure il giornale di Parigi riteneva la Romania degna di prender posto nel concerto europeo ed apprezzava le prove da essa fornite per eseguire le riforme chieste dal Congresso di Berlino, per quanto difficili potessero essere; gli argomenti e le espressioni adoperate dal “Journal des Débats” furono ripresi fedelmente da “La Nazione” del giorno 30 dello stesso marzo. Scriveva il giornale francese:  Les  réformes  quelle a accompli  sont  de  plus  d’une  sorte  et  quelques  unes  d’elles

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exigeaient, pour être acceptées, une force de volonté et une confiance dans l’avenir qui ne se rencontrent pas toujours, même chez les peuple les plus avancés dans les voies de la civilisation. C’est sourtout quand il s’est agi de l’émancipation des juifs qu’une veritable angoisse s’est emparée des plus considérables et des plus liberaux parmi les hommes d’État roumains. Ils ont cependant satisfait, sur ce point comme sur les autres, aux exigences de l’Europe; c’était la rançon de l’indépendance de leur pays, et même à ce prix, ils ne la payaient trop cher”.315

La proclamazione del Regno era il coronamento dei sogni dei Romeni, chiamati a svolgere una missione di civiltà presso i vicini popoli slavi molto meno progrediti, con i quali la Romania doveva quindi avere buoni rapporti; per fortuna, notava con soddisfazione il foglio parigino, si erano attutite le vecchie e reciproche antipatie romene per  la Serbia e la Bulgaria.

Ma la soddisfazione si dimostrò purtroppo infondata; i rapporti della Romania con Serbia e Bulgaria rimasero sempre difficili; in particolare non ebbero fine le rivendicazioni del governo di Sofia per la Dobrugia, in quanto popolata in buona parte da Bulgari.316

Altrettanto deludente fu lo sviluppo della questione ebraica, rimasta irrisolta. Ad onta delle dichiarazioni di buona volontà fatte dai politici rumeni, non migliorò infatti la condizione di vita degli Ebrei. Dimostrando un troppo facile ottimismo, nel marzo 1880  gli “Archives Israélites”, pur giudicando insufficiente il nuovo articolo 7 della Costituzione romena, avevano creduto di poter intravedere uno spiraglio positivo per la futura applicazione di quella norma, affermando: “… le gouvernement actuel se montre très disposé en notre faveur, les majorités des Chambres également…”.

Era stata poi confermata dall’organo dell’ “Alliance Israélite Universelle” la fiducia nella buona volontà del governo nei riguardi degli Ebrei, ricordando gli interventi di Bratianu e di Boerescu per superare le difficoltà create dall’opposizione. Ma presto gli “Archivesdovettero ricredersi: già nel giugno dello stesso anno la situazione degli Ebrei dopo il Congresso di Berlino era considerata peggiore della precedente e le promesse dei ministri erano definite un inganno; in luglio si esprimevano preoccupazioni per le norme destinate a controllare gli stranieri, ritenendole una potenziale minaccia per gli Ebrei; nel novembre 1880 si notava come le persecuzioni di un tempo,

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basate sulla violenza, fossero state sostituite da altre, più raffinate ed abilmente silenziose, ricorrendo a sottigliezze ed angherie burocratiche per snervare gli Israeliti e costringerli in tal modo ad espatriare; erano difatti rimaste in vigore, nonostante le promesse di Boerescu, tutte le disposizioni contro gli Ebrei e la pressione fiscale era sproporzionata ed oppressiva.

Come esempio della costante discriminazione antiebraica gli “Archives Israélitescitavano nel novembre 1880 il mancato invito a rappresentanti ebraici alle feste organizzate a Jassy in occasione di una visita dei sovrani; salvo poi a rettificare la notizia nel dicembre successivo, affermando che alcuni maggiorenti Ebrei con le loro consorti erano stati invitati a banchetti e ad udienze private concesse dal principe; la principessa si era pure intrattenuta con la presidente di un’opera di beneficenza ebraica, interessandosi ai problemi del culto, dell’educazione, dell’assistenza.

Da quell’episodio di scarsa importanza Louis Posner, autore della corrispondenza da Jassy, traeva spunto per affermare l’inesistenza di una persecuzione antisemita; sopravvivevano soltanto restrizioni legali ereditate dal passato, che il governo non poteva eliminare d’un colpo; con il tempo e con il progresso civile quelle restrizioni sarebbero scomparse e quindi, ammoniva l’autore, “…ce n’est pas le moyen de hâter leur disposition que de récriminer en toute circonstance: c’est par la modération dans l’appréciation et par l’exactitude rigoreuse en matiére des faits que nous en aurons le plus sûrement raison”.317

Ma non potevano certo bastare moderazione di giudizio e rispetto dei fatti a migliorare le condizioni delle comunità ebraiche della Romania; lunghe e dolorose prove attendevano ancora esse ed i Romeni tutti sulla via del progresso civile.

 





p. 440
1 L’appello di Garibaldi è riportato nell’edizione nazionale dei suoi scritti, volume VI, pp. 158-159.

Sulle posizioni della Sinistra di governo e della Sinistra radicale rispetto alla questione orientale, cfr. Armando Pitasso “L’estrema Sinistra e il movimento garibaldino di fronte alla crisi d’Oriente 1875-1878”, in “Europa orientalis”, 1983, fascicolo , pp. 107-121.



p. 443
2 ASDE fondo Moscati 6 – registro copialettere 1201. Rumenia e Servia (1867-1876) – dispaccio n. 57 di Visconti Venosta a Fava, pp. 127-130; Roma,6 febbraio 1876.



3 ASDE fondo Moscati 6 – busta 1394 fascicolo 6 – rapporto di Fava a Visconti Venosta n. 496, serie politicaBucarest, 21 febbraio 1876.



4 ASDE fondo Moscati 6 – busta 1394 fascicolo 5 – rapporto di Fava a Visconti Venosta n. 469, serie politicaBucarest,20 agosto 1875.



5 Ibidem, rapporto di Fava a Visconti Venosta n. 473, serie politicaBucarest,15 settembre 1875.



p. 444
6 Ibidem, rapporto di Fava a Visconti Venosta n. 474, serie politicaBucarest,16 settembre 1875.



7 ASDE fondo Moscati 6 – registro copialettere 1201 Rumenia e Servia (1867-1876) – dispaccio n. 55 di Visconti Venosta a Favapp. 121-123 – Roma,14 ottobre 1875.



8 Ibidem, dispaccio n. 56 di Visconti Venosta a Fava, pp. 123-127 –Roma,16 gennaio 1876.



9 ASDE fondo Moscati 6 – busta 1394, fascicolo 6 – rapporto Fava a Visconti Venosta n. 488 serie politicaBucarest, 19 gennaio 1876



10 Ibidem, rapporto Fava a Visconti Venosta n. 493 serie politicaBucarest,14 febbraio 1876.



11 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 505 serie politicaBucarest,11 aprile 1876.



p. 445
11bis Politica externa a României intre anii  1873-1880 privită de  la Agenţia Diplomatica din  Roma de R. V. BossyCultura NaţionalăBucureşti  1928.

Documento 29 p. 134 – rapporto Esarcu al Ministro Affari EsteriRoma,4 aprile 1876

“… non credo che dal punto di vista pratico la sua politica nei nostri confronti sarà diversa  in modo significativo da quella del suo predecessore. Ad ogni modo, non mi è sembrato avere idee molto precise sulla linea di condotta che intende seguire”.

Documento 34 p. 141 – rapporto Cantacuzeno al Ministro Affari EsteriRoma,25 settembre 1876

“… è un uomo della famiglia che conosce benissimo il Ministro degli Affari Esteri, di cui fu in due occasioni  segretario generale. Ma, da molto tempo in Svizzera, per così dire in pensione, forse egli è un po’… rimbambito”.



12 ASDE fondo Moscati 6 – busta 1394 fascicolo 6 – rapporti Fava a Melegari nn. 506 e 507 serie politicaBucarest,11 e 13 aprile 1876.



p. 446
13 Ibidem, rapporti Fava a Melegari n. 511,512,513 serie politica, Bucarest,17-19-21 aprile 1876.



14 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 516 serie politicaBucarest, 28 aprile 1876.



15 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 522  serie politicaBucarest, 11 maggio 1876.



16 ASDE fondo Moscati 6 – registro copialettere 1201, Rumania e Servia (1867-1876) dispaccio n. 62 di Melegari a Fava, pp. 134-135  Roma,24 maggio 1876.



p. 447
17 ASDE fondo Moscati 6 –  busta 1394 fascicolo 6 – rapporto Fava a Melegari n. 530 serie politicaBucarest, 30 maggio 1876.



18 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 531 serie politicaBucarest, 30 maggio 1876.



19 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 537  serie politicaBucarest, 18 giugno 1876.



20 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 529  serie politicaBucarest, 29 maggio 1876.

ASDE fondo Moscati 6 – registro copialettere 1201dispaccio Melegari a Fava n. 64, pp. 136-137   Roma, 15 giugno 1876.



21 ASDE fondo Moscati 6 –  busta 1395  fascicolo 1 – rapporto Fava a Melegari n. 544 serie politicaBucarest, 27 giugno 1876.



22 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 546 serie politicaBucarest, 29 giugno 1876.



p. 448
23 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 547 serie politicaBucarest, 2 luglio 1876.



24 Ibidem, rapporti Fava a Melegari n. 548 e n. 550  serie politicaBucarest, 4 e 5 luglio 1876.



25 ASDE fondo Moscati 6 – registro copialettere 1201dispaccio Melegari a Fava n. 71, Roma, 17 luglio 1876.



p. 449
26 ASDE fondo Moscati 6 – busta 1395 fascicolo I – rapporti Fava  a Melegari n. 551 e n. 552 serie politicaBucarest,7 e 8 luglio 1876.



27 Ibidem, rapporti Fava a Melegari n. 558 e 559Bucarest, entrambi in data 22 luglio 1876.



p. 450
28 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 561 serie politicaBucarest, 26 luglio 1876.



29 ASDE fondo Moscati 6 – registro copialettere n. 1201, dispaccio Tornielli a Fava n. 74, pp. 146-147  Roma, 6 agosto 1876.



p. 451
30 ASDE fondo Moscati 6 – busta 1395 fascicolo I – rapporto Fava a Melegari n. 562 serie politicaBucarest, 27 luglio 1876.



31 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 566 serie politicaBucarest, 6 agosto 1876.



32 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 567 serie politicaBucarest,7 agosto 1876.



33 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 573 serie politicaBucarest, 13 agosto 1876.



34 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 577 serie politicaBucarest, 2 settembre 1876.



p. 452
35 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 578  serie politicaBucarest, 9 settembre 1876.



36 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 583 serie politicaBucarest, 15 settembre 1876.



p. 453
37 Ibidem, lettera di Samuel Toscano a MelegariRoma, 25 settembre 1876.



38 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 586 serie politicaBucarest, 22 settembre 1876.



39 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 592  serie politicaBucarest, 8 ottobre 1876.



p. 454
40 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 593 serie politicaBucarest, 10 ottobre 1876.



41 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 595 serie politicaBucarest, 13 ottobre 1876.



42 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 597  serie politicaBucarest, 21 ottobre 1876.



p. 455
43 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 598 serie politicaBucarest, 25 ottobre 1876.



44 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 600 serie politicaBucarest, 28 ottobre 1876.

“… noi abbiamo il diritto di sperare che, se pericoli superiori alle sue forze minacciassero lo Stato romeno, il potente scudo dell’Europa garante non ci abbandonerebbe per la difesa della nostra integrità territoriale e dei nostri diritti internazionali”.



p. 456
45 Ibidem, rapporti Fava a Melegari n. 601 e n. 603  serie politicaBucarest, 3  e 8 novembre 1876.



p. 457
46 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 606 serie politicaBucarest, 17 novembre 1876.

ASDE fondo Moscati 6 – registro copialettere 1202, dispaccio Melegari a Fava n. 90, p. 2 – Roma, 24 novembre 1876.

Nell’ Archivio degli Esteri è allegato al rapporto n. 606 di Fava del 17 novembre 1876 un appunto anonimo a matita datato 26 novembre 1876 in cui si afferma che alla già nota risposta italiana, sostanzialmente negativa, data alla circolare telegrafica di Ionescu agli agenti diplomatici rumeni c’era da aggiungere soltanto: “… non avrebbe nessuna probabilità di buona accoglienza per parte della Conferenza una proposizione tendente ad alterare la condizione giuridica dei Principati”.



47 ASDE fondo Moscati 6 – registro copialettere 1202, dispaccio Melegari a Fava n. 91, p. 3 – Roma,13 dicembre 1876.



48 ASDE fondo Moscati 6 – busta 1395 fascicolo I – rapporto Fava a Melegari n. 611 serie politicaBucarest, 22 novembre 1876.



49 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 613 serie politicaBucarest, 24 novembre 1876.



p. 458
50 ASDE fondo Moscati 6 – registro copialettere 1202, dispaccio Melegari a Fava n. 92, p. 5 – Roma,21 dicembre 1876.



51 ASDE fondo Moscati 6 – busta 1395 fascicolo I – rapporto Fava  a Melegari n. 615 serie politicaBucarest, 27 novembre 1876.



52 Ibidem, rapporto Fava  a Melegari n. 616 serie politicaBucarest, 1 dicembre 1876.



53 Rapporto Fava  a Melegari n. 616 citato nella nota precedente.



p. 460
54 Ibidem, rapporto Fava  a Melegari n. 620 serie politicaBucarest, 8 dicembre 1876.



p. 461
54bis Frédéric Damé “L’état roumain et la paix de l’OrientNeutralisation de la Roumanie”.  Bucarest, Sköllosay libraireediteur1877, capitoloXI.



55 ASDE fondo Moscati 6 – busta 1395 fascicolo I – rapporti Fava a Melegari n. 621 e n. 623 serie politicaBucarest 8 e 13 dicembre 1876.



p. 462
56 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 622 serie politicaBucarest, 9 dicembre 1876.



57 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 625 serie politicaBucarest, 14 dicembre 1876.



p. 463
58 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 627 serie politicaBucarest, 19 dicembre 1876.



59 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 630 serie politicaBucarest, 25 dicembre 1876.



p. 464
60 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 634 serie politicaBucarest, 31 dicembre 1876; allegata la traduzione italiana dell’articolo del giornaleRomanul”.



p. 465
61 ASDE fondo Moscati 6 – registro copialettere 1202, dispaccio Melegari a Fava n.96, p. 9 – Roma, 19 gennaio 1877.



62 ASDE fondo Moscati 6 – busta 1395 fascicolo I,  rapporto Fava a Melegari  n. 633 serie politicaBucarest 30 dicembre 1876.



63 ASDE fondo Moscati 6 – busta 1395 fascicolo II,  rapporto Fava a Melegari  n. 635 serie politicaBucarest, 2 gennaio 1877.



p. 466
64 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 636 serie politicaBucarest 3 gennaio 1877.



65 Ibidem, rapporti Fava a Melegari n. 637 e n. 638 serie politicaBucarest 5 e 6  gennaio 1877.



66 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 639 serie politicaBucarest 7 gennaio 1877.



p. 467
67 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 640 serie politicaBucarest 11 gennaio 1877.



68 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 645 serie politicaBucarest 26 gennaio 1877.



p. 468
69 Cfr. Grigor PloesţeanuAspects diplomatiques de la guerre d’independence de la Roumanie”, in Revue Roumaine d’Histoire, 1977, pp. 67-86.



70 ASDE fondo Moscati 6 – registro copialettere 1202, dispaccio Melegari a Fava n. 99, p. 45 – Roma, 14 febbraio 1877.



p. 469
71 Politica externa a României intre anü  1873-1880 privită de la Agenţia Diplomatica din  Roma de R.V. BossyCultura NaţionalăBucaresţi 1928doc. 37, p. 148, Gheorgiu a Ministro EsteriRoma,20 dicembre 1876

“… la politica del governo italiano si è dimostrata passiva ed attendista”.



p. 470
72 ASDE fondo Moscati 6 – busta 1395  fascicolo 2, rapporti Fava a Melegari n. 646,653,654Bucarest, 6-15-18 febbraio 1877.



73 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 659 serie politicaBucarest, 2 marzo 1877.



p. 471
74 Aleksandr NelidowSouvenirs d’avant et d’après la guerre de 1877-78” – Revue des Deux Mondes, 15 maggio 1915, pp. 302-339; 15 luglio 1915, pp. 241-277.

Secondo una nota editoriale della rivista, questi articoli furono composti nel 1896, ma la loro pubblicazione fu ritardata fino al 1915, per distanziarli maggiormente dagli avvenimenti esposti.



p. 477
75 ASDE fondo Moscati 6 – busta 1395 fascicolo 2, rapporti Fava a Melegari n. 656 e n. 666 serie politica, Bucarest, 24 febbraio e 18 marzo 1877.



p. 478
76 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 668 serie politicaBucarest, 13 aprile 1877.



77 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 668 (numero errato; in realtà era il 669) serie politicaBucarest, 14 aprile 1877.



p. 479
78 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 670 serie politicaBucarest, 15 aprile 1877.



79 Ibidem, telegramma cifrato di Kogalniceanu all’agenzia diplomatica di Romania a RomaBucarest,18 aprile 1877.

“… noi saremo obbligati a prender consiglio dalla nostra disperazione”.



p. 480
80 ASDE fondo Moscati 6 – registro copialettere 1202dispaccio Melegari a Fava n. 107, p. 22 – Roma,19 aprile 1877.



81 ASDE fondo Moscati 6 – busta 1395 fascicolo 2 – telegramma cifrato di Kogalniceanu all’agenzia diplomatica di Romania a RomaBucarest, 23 aprile 1877.



82 ASDE fondo Moscati 6 – registro copialettere 1202dispaccio Melegari a Fava n. 108, p. 23 – Roma, 25 aprile 1877.



83 ASDE fondo Moscati 6 – busta 1395 fascicolo 2 – rapporti Fava a Melegari n. 674 e 675 serie politicaBucarest, 20 e 21 aprile 1877.



p. 481
84 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 677 serie politicaBucarest, 26 aprile 1877.



85 ASDE fondo Moscati 6 – registro copialettere1202dispaccio Melegari a Fava n. 109, p. 24 – Roma, 3 maggio 1877.



p. 482
85bis G. Valbert “La guerre russo-turque en 1828 et en 1877Revue des Deux Mondes , 1er novembre 1877, pp. 212-222.



86 Atti ParlamentariCamera dei DeputatiSessione 1876-77  Discussioni, tornata del 23 aprile 1877; pp. 2687-2713.



p. 483
87 Cfr. nota 1 di questo capitolo.



p. 484
88Memorandum sur la guerre actuelle turco-moscovite adressé à Son Excellence Lord BeanconsfieldPremier lord de la Trésorerie. Par le colonel Bénoît Musolino. Deputé au Parlement Italien”.

RomeImprimerie Artero et comp. 1877. Alla fine dell’opuscolo è posta la data 25 dicembre 1877.



89 Op. cit. pp. 10-11 “…senza parlare degli Israeliti, che sono privati di tutti diritti civili e politici, e trattati come un vile bestiame”.



90 Op. cit. pp. 21 “… senza un motivo legittimo di lagnanza verso la Porta non avrebbe potuto ribellarsi tre volte senza le promesse, gli incitamenti e le assicurazioni provenienti dalla Germania ancor più che dalla Russia”.

Sugli eccessi cui si abbandonarono le truppe russe durante la guerra del 1877-78, cfr. la pubblicazione anonimaAtrocités russes en Asie et en Roumélie pendant les mois de juin, juillet et août 1877”. Costantinople, Imprmerie de A. H. Boyajian 1877.

L’opera è basata sulle corrispondenze degli inviati di giornali francesi e inglesi.



91 Op. cit. p. 27 “… allorché la Romania, portando al massimo la sua slealtà, si alleò con la Russia ed intervenne contro la Turchia”.



p. 485
92 Op. cit. p. 39 “Dove si trova dunque questo slancio patriottico, dove si trova questa lotta veramente popolare, che rivela una ferma volontà di emanciparsi e di costituirsi in una nuova nazionalità?”.



93 Op. cit. p. 40 “Nei principati vassalli della Romania e della Serbia non si è mai visto un solo volontario. La guerra è sempre stata esclusivamente governativa”.



94 Op. cit. p. 41 “… una creatura ibrida che, lungi dal favorire il progresso in Oriente, lo ritarda all’infinito e lo rende persino impossibile per sempre. Ci fanno ridere quelli che parlano di una Missione storica romena, di una Missione storica serba”.



95 Op. cit. p. 44 “I principati vassalli debbono sparire, e come parte integrante della Turchia debbono essere amministrati allo stesso modo delle altre province dell’impero”.



96 Op. cit. p. 45  “…benedirebbero il giorno in cui cessando di avere un’autonomia rachitica, turbolenta ed ignobile, si fonderanno nella grande famiglia ottomana”.



p. 486
97 Citato alla nota 48 di questo capitolo.



p. 488
98 ASDE fondo Moscati 6 – busta 1395 fascicolo 2, rapporto Fava a Melegari n. 678 serie politica, Bucarest, 25 aprile 1877.



99 Ibidem, rapporto Fava a  Melegari n.  679 serie politica   Bucarest, 25 aprile 1877.



100 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 681 serie politicaBucarest, 26 aprile 1877.



p. 489
101 Ibidem, rapporto Tesi a Fava n. 23 politicaBraila, 29 aprile 1877.



102 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 685 serie politicaBucarest maggio 1877.



p. 490
103 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 686 serie politicaBucarest maggio 1877.

“Affinché nessun inconveniente o pericolo derivi alla Romania dal passaggio delle truppe russe sul suo territorio, il governo di S.M. l’ Imperatore di tutte le Russie si impegna a mantenere ed a far rispettare i diritti politici dello Stato Romeno, quali risultano dalle leggi interne e dai trattati esistenti e pure a mantenere ed a difendere l’attuale integrità della Romania”.



104 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 687 serie politicaBucarest 2 maggio 1877.



p. 491
105 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 688 serie politicaBucarest 3 maggio 1877.



106 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 690 serie politicaBucarest 4 maggio 1877.



107 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 693 serie politicaBucarest 8 maggio 1877.



108 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 694 serie politicaBucarest 9 maggio 1877.



109 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 695 serie politicaBucarest 10 maggio 1877.



p. 492
110 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 696 serie politicaBucarest 12 maggio 1877.



111 Ibidem, nota di Kogalniceanu a ObedenareBucarest, 14 maggio 1877.



112 ASDE fondo Moscati 6 – registro copialettere 1202  dispaccio Melegari a Fava, n. 114, p. 28 – Roma,18 maggio 1877dispaccio Melegari a Fava n. 115, p 29 – Roma,18 maggio 1877.



113 ASDE fondo Moscati 6 – busta 1395 fascicolo 2 – rapporto Fava a Melegari n. 697 serie politicaBucarest,15 maggio 1877.



p. 493
114 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 699 serie politicaBucarest 18 maggio 1877.



115 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 702 serie politicaBucarest 21 maggio 1877.

Telegramma di Kogalniceanu a ObedenareBucarest,22 maggio 1877.



116 ASDE fondo Moscati 6 – registro copialettere 1202  dispaccio Melegari a Fava n. 120, p. 33 – Roma,28 maggio 1877.



p. 494
117 ASDE fondo Moscati 6 – busta 1395 fascicolo 2 – nota di Kogalniceanu a ObedenareBucarest,3 giugno 1877.

“… una semplice accettazione della linea di condotta da noi seguita…”

“… presentata questa volta, quanto meno, sotto forma di una promessa rassicurante per il futuro politico della Romania…”.



118 ASDE fondo Moscati 6 – registro copialettere 1202, dispaccio Melegari a Fava n. 125, p. 39 – Roma,16 giugno 1877.



119 ASDE fondo Moscati 6 – busta 1395 fascicolo 2 – rapporto Fava a Melegari n. 703 serie politicaBucarest,22 maggio 1877.



120 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 708 serie politicaBucarest,25 maggio 1877.



p. 495
121 Ibidem, rapporti Fava a Melegari n. 712 e n. 713 serie politicaBucarest, 29 e 31 maggio 1877.



122 Ibidem, rapporti Fava a Melegari n 717 e n. 720 serie politicaBucarest, 7 e 10 giugno 1877.



p. 496
123 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n 721 serie politicaBucarest, 10 giugno 1877.

Rapporto del console a Galatz, Seyssel di Sommariva, a Melegari n. 2 serie politicaGalatz,19 giugno 1877.



124 ASDE fondo Moscati 6 – registro copialettere 1202  dispaccio Melegari a Fava n. 127, p. 41 – Roma,22 giugno 1877.



p. 497
125 ASDE fondo Moscati 6 – busta 1395 fascicolo 2 – telegramma di Kogalniceanu a Obedenare - Bucarest,8 giugno 1877.



126 Archives Israélites, luglio 1877, “Correspondances particulières de l’Étranger. Les suites de la guerre.”. pp. 400-403.



127 Corriere Israelitico, anno XVI 1877, pp. 81-82; p. 136, 154, 200.



p. 498
128 ASDE fondo Moscati 6 – busta 1395 fascicolo 3 – lettera di Samuel Toscano a MelegariRoma,12 luglio 1877.



129 ASDE fondo Moscati 6 – registro copialettere 1202, p. 50 – lettera di Melegari a Samuel Toscano ed a Samuel AlatriRoma,23 luglio 1877.



p. 508
130 ASDE fondo Moscati 6 – busta 1395 fascicolo 3 – rapporto Fava a Melegari n.  735 serie politicaBucarest, 6 luglio 1877.



131 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 740 serie politica  - Bucarest, 10 luglio 1877.



132 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 741 serie politica  - Bucarest, 10 luglio 1877.



133 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 742 serie politica  - Bucarest, 11 luglio 1877.



134 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 743 serie politica  - Bucarest, 12 luglio 1877.



p. 509
135 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 749 serie politica  - Bucarest, 21 luglio 1877.



136 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 751 serie politica  - Bucarest, 24 luglio 1877.



137 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 753 serie politica  - Bucarest, 30 luglio 1877.



138 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 754 serie politica  - Bucarest, agosto 1877.



p. 510
139 Ibidem, rapporti Fava a Melegari n. 757 e n. 761 serie politica  - Bucarest, 5 e 9 agosto 1877.



140 Ibidem, rapporto Fava a Melegari n. 772 serie politica  - Bucarest, 21 settembre 1877.



p. 511
141 Ibidem, rapporti Fava a Melegari n. 783 e n. 784 serie politica  - Bucarest, entrambi in data 15 dicembre 1877.



142Illustrazione Italiana” – Rivista settimanale diretta da E. Treves ed A. FoliAnno IV, 1877. Milano, Fratelli Treves editori, n. 50, 16 dicembre 1877. Settimana politica, p. 281.



p. 514
143 ASDE fondo Moscati 6 – busta 1396 fascicolo 1 – rapporto Fava a Depretis n. 795 serie politicaBucarest,19 gennaio 1878.



144 Generale R. Rosetti “La partecipation de la population civile à la guerre de 1877-78” – Comunicazione fatta all’Accademia di Romania nella seduta del 13 dicembre 1940. Sintesi pubblicata nel “Bulletin de la Section historique de l’Académie Roumaine”, tome XXII, 1941, pp. 161-162.



p. 515
144bis “Il Vessillo Israeliticorivista mensile per la storia, la scienza e lo spirito del Giudaismodiretta dal cav. Flaminio Servi, rabbino maggiore in Casale Monferrato”. Anno XXVCasale tipografia eredi Maffei 1877.

pp. 281-282Conseguenze della guerra e del fanatismo” (articolo non firmato)

pp. 223-224Appunti sulla guerra” (privi di firma)

p. 229 (luglio 1877) “Notizie diverse. EsteroPrincipati Danubiani

p. 363 (dicembre 1877) “Notizie diverse. EsteroRumenia

Corriere Israeliticoperiodico per la storia, lo spirito ed il progresso del Giudaismodiretto da A. di S. Curiel e dal rabbino Leone Bacuh”. Trieste, tipografia Masterza e comp.Anno XVI, 1877-78

p. 214Notizie varie. Gli israeliti rumeni”.

p. 234Notizie varie. Onore al merito”.



p. 516
145Archives Israélites. Revue politique, religieuse et litteraire. Direction à Paris, 11 rue de Berlin”.

Anno XXVIII, 1877, n. 12 (15 giugno 1877), pp. 374-375lettera di D. Cazès da Smirne, 25 maggio 1877

n. 2 (15 gennaio 1877) “Affaires Orientales, Turquie-Roumanie, pp. 45-47 “… i partigiani del progresso non hanno più nulla da desiderare, almeno in linea di principio…”

n. 4 (15 febbraio 1877), pp. 102-104 “Cronique israélite de la quinzaine” (“Cronaca israelitica di 15 giorni”)

n. 9 ( maggio 1877), pp. 259-260  Aux Israélites de monde entier” (“Agli Israeliti di tutto il mondo”)

n. 10 (15 maggio 1877), pp. 291-292Aux Israélites du monde entier. La guerre II Des Croisades au XIX siécle. (“Agli Israeliti di tutto il mondo. La guerra II. Le Crociate nel XIX secolo”).



p. 517
145bis Cfr. nota 93 di questo capitolo.



145ter Cfr. nota 143 di questo capitolo.



146 ASDE fondo Moscati 6 – busta 1396 fascicolo 1 – rapporto di Seyssel di Sommariva a Depretis n. 78 serie politicaGalatz, 23 gennaio 1878.



147 Ibidem, rapporto Fava a Depretis n. 819 serie politicaBucarest, 22 febbraio 1878.

ASDE fondo Moscati 6 – registro copialettere 1202 dispaccio Depretis a Fava n. 159, p. 83 – Roma,8 marzo 1878.



p. 518
148 ASDE fondo Moscati 6 – busta 1396 fascicolo 1 – rapporti Fava a Depretis n. 800 e n. 802 serie politicaBucarest, 30 gennaio e 2 febbraio 1878.



p. 519
149 Ibidem, dispaccio di Kogalniceanu a Obedenare con allegata la mozione di Dimitrie GhikaBucarest,7 febbraio 1878. Dispaccio di Kogalniceanu a ObedenareBucarest, 9 marzo 1878.



150 Ibidem, registro copialettere 1202, dispaccio Depretis a Fava n. 156, p. 81 – Roma,2 marzo 1878.

Busta 1396, fascicolo I – rapporto Fava a Depretis n. 833 serie politicaBucarest,12 marzo 1878.



p. 520
151 Ibidem, rapporto Fava a Depretis n. 805 serie politicaBucarest, 3 febbraio 1878.

Rapporto di Seyssel di Sommariva a Depretis n. 29 serie politicaGalatz, 31 gennaio 1878.



152 Ibidem, rapporto Fava a Depretis n. 818 confidenziale serie politicaBucarest, 18 febbraio 1878.



153 D.D.I. seconda serie (1870-1896), volume X ( agosto 1877 – 23 marzo 1878).

Documento 524, pp. 449-450; dispaccio 632 di Depretis a Tosi, incaricato d’affari a BerlinoRoma,23 febbraio 1878.



p. 521
154 ASDE fondo Moscati 6 – busta 1396 fascicolo 1 – nota di Kogalniceanu a ObedenareBucarest,15 febbraio 1878.

Rapporto Fava a Depretis n. 821 serie politicaBucarest, 25 febbraio 1878.



155 ASDE fondo Moscati 6 – registro copialettere 1202dispaccio Tornielli, segretario generale del Ministero Esteri, a Fava, n. 153 – numero 5 del registroRoma,15 febbraio 1878.

Ibidem, busta 1396 fascicolo I – rapporto Fava a Depretis n. 824 serie politicaBucarest,28 febbraio 1878.

Rapporto Seyssel di Sommariva a Depretis, senza numeroGalatz, 4 marzo 1878.



p. 522
156 Frédéric DaméHistoire de la Roumanie contemporaine depuis l’avènement des princes indigènes jusquà nos jours ( 1822-1900)” – Paris, Félix Alcan éditeur 1900.



p. 523
156bis ASDE fondo Moscati 6 – busta 1396 fascicolo 1 – rapporto Fava a Depretis n. 830 serie politicaBucarest,10 marzo 1878.



157 ibidem, registro copialettere 1202dispaccio Depretis a Fava n. 161 con annesso cifrato, p. 84 – Roma,10 marzo 1878.



p. 524
158 D.D.I. seconda serie (1870-1896) volume IX ( agosto 1877-23 marzo 1878).

Doc. 547, pp. 466-469 rapporto de Launay a Depretis n. 1985 confidenzialeBerlino, marzo 1878.



p. 525
159Lettre roumaine à “Un Russe”, en réponse auNorddu 6 mars 1878”, firmato “Un paysan du Danube” – Liége, Imprimerie de J. Baudry 1878 – “… stracci di carta …”



p. 526
160 Michel Anagnosti “La Roumanie 13/25 aprile 1877” – Cronstadt (Braşov) – data presunta di pubblicazione 1880.

“La Russia che ha scelto il compito di difendere l’umanità e la giustizia, ha fatto ricadere un paese emancipato in una profonda servitù…” (p.16).



p. 528
161Politica externa  a României intre anii  1873-1880 privită de la Agenţia Diplomatica din Roma de R. V. BossyCultura NaţionalăBucuresţi 1928.

Doc.51, pp. 167-169 rapporto di Obedenare al Ministro Affari EsteriRoma,2 febbraio 1878.



p. 529
162 D.D.I.  seconda serie (1870-1896) volume IX ( agosto 1877-23 marzo 1878).

Doc. 556, pp. 488-89 (carte Robilant) – lettera personale del conte Tornielli, segretario generale del Ministero Affari Esteri al conte di Robilant, ambasciatore a ViennaRoma,4 marzo 1878.



p. 530
163Nouveau Récueil Général de traités, conventions et autres actes relatifs au rapports de droit international. Continuation du Grand Récueil de G. Fr. Martens par Charles Samwer et Jules HopfDeuxième Série, tome III – Gottingue 1878”.

Kraus reprint limited, MendelmLiechtenstein; Johson reprint corporation, New York 1967.

Doc. 38, pp. 240-241; doc. 39, pp. 241-243.



p. 531
164 Ibidem, doc. 40, pp. 244-245.



165 Ibidem, doc. 41, pp. 246-256.



p. 532
166 “La Sublime Porta riconoscere l’indipendenza della Romania, che farà valere i suoi diritti ad un’indennità da stabilire fra le parti.

Fino alla conclusione di un trattato direttamente tra la Turchia e la Romania, i sudditi rumeni godranno in Turchia di tutti i diritti garantiti ai sudditi delle altre Potenze europee”.



p. 533
167 “Non desiderando annettersi questo territorio e le isole del Delta, la Russia si riserva la facoltà di scambiarli contro la parte della Bessarabia distaccata dal Trattato del 1856 ed è limitata al sud dal Thalveg” (filone d’impluvio in cui l’acqua di un fiume è più profonda e scorre più rapidamente) “del braccio di Kilia e dell’imbocco dello Stary-Stambul. La questione della divisione delle acque e dei diritti di pesca dovrà essere regolata da una commissione russo-romena entro un anno dalla ratifica del trattato di pace”.



p. 534
167bis Documents diplomatiques français  (1871-1914) – Premiére série (1871-1900) – tome second (1er juillet  1875- 31 decémbre 1879)  Paris, Imprimerie Nationale 1930.

Doc. 224, telegramma di Waddington al marchese d’ HarcourtParigi, gennaio 1878.

“… si eviti sia nell’atteggiamento sia nel linguaggio quanto potrebbe sembrare alterigia o diffidenza”.

Doc. 235, telegramma dell’amb. d’ Harcourt a WaddingtonLondra,29 gennaio 1878.

Doc. 230, telegramma dell’incaricato d’affari Moŭy  a WaddingtonPera, 15 gennaio 1878.

“… nel caso in cui trattative dirette portassero a risultati compromettenti per i trattati del 1856 e del 1871, il governo di Londra considererebbe gli accordi raggiunti come nulli e non avvenuti.



p. 535
168 Ibidem, doc. 237 dispaccio cifrato n. 7 dell’ambasciatore de Saint Vallier a WaddingtonBerlino,30 gennaio 1878.

Ibidem, doc. 238 telegramma dell’ambasciatore de Noailles a WaddingtonRoma, febbraio 1878.

Ibidem, doc. 239 telegramma di Waddington all’ambasciatore de Saint VallierParigi, febbraio 1878

Ibidem, doc. 241 telegramma dell’ambasciatore de Saint Vallier a WaddingtonBerlino, 2 febbraio 1878.

Ibidem, doc. 242 telegramma dell’ambasciatore de Saint Vallier a WaddingtonBerlino,4 febbraio 1878.

Ibidem, doc. 244 telegramma di Waddington all’ambasciatore a Vienna, de Vogüe -  Parigi, 5 febbraio 1878.

Ibidem, doc. 245 telegramma dell’ambasciatore de Saint Vallier a WaddingtonBerlino, 7 febbraio 1878.



p. 536
168bis ibidem, doc. 247 telegramma dell’ambasciatore d’Harcourt a WaddingtonLondra, 14 febbraio 1878.

Ibidem, doc. 252 telegramma di Waddington all’ambasciatore a San Pietroburgo, generale Le FlóParigi,17 febbraio 1878.



p. 538
169 Ibidem, doc. 249 telegramma dell’ambasciatore de Saint Vallier a WaddingtonBerlino,15 febbraio 1878.

“… a causa del comportamento altezzoso e delle pretese leonine del governo di San Pietroburgo…”

Doc. 251, pp. 254-265 de Saint Vallier a Waddington dispaccio n. 10 – Berlino,16 febbraio 1878.

“… quando si saranno risolti i problemi essenziali in un facile colloquio a quattr’ occhi con la Turchia e resterà solo da proporre all’Europa una registrazione formale…”

Doc. 255 – de Saint Vallier a Waddington dispaccio confidenziale n. 14 – Berlino,24 febbraio 1878.

Doc. 258telegramma dell’ambasciatore de Saint Vallier a WaddingtonBerlino,5 marzo 1878.

Doc. 262telegramma circolare di Waddington agli ambasciatori a Berlino, Londra, Roma, Pietroburgo, CostantinopoliParigi,7 marzo 1878.

Doc. 267 – de Saint Vallier a Waddington telegramma confidenzialeBerlino,9 marzo 1878.

Doc. 269telegramma dell’incaricato d’affari in Russia, de Viel Castel a WaddingtonSan Pietroburgo,13 marzo 1878.

Doc. 277telegramma dell’ambasciatore de Saint Vallier a WaddingtonBerlino,28 marzo 1878

D.D.I. serie seconda, volume X (24 marzo – 16 ottobre 1878) doc. 17, telegramma n. 624Menabrea a CortiLondra,28 marzo 1878.



169bisNouveau Récueil Général” ecc. già citato alla nota 163 di questo capitolo.

Doc. 42, pp. 256-262.



170 Ibidem, doc. 43, pp. 262-269.



p. 539
171 “… se la Moldo-Valacchia, che deve alla Russia alla sua esistenza ed è confinante con essa, ha saputo rendersi del tutto indipendente da essa, a maggior ragione si deve contare sullo stesso risultato per la Bulgaria, il cui territorio sarà separato dalla Russia nella prevista  eventualità di una cessione della Dobrugia alla Romania”.

“… la cessione della Bessarabia romena non sarebbe che un ritorno ad uno stato di cose modificato,22 anni fa, per ragioni che non hanno motivo di esistere, né valore legale e neanche di pretesto, quando la libertà di navigazione del Danubio è stata posta sotto il controllo e la garanzia di una commissione internazionale, e soprattutto nel momento in cui la Romania proclama la sua indipendenza e l’Europa sembra disposta a riconoscerla”.



p. 540
172 Nouveau Récueil Général” ecc. già citato alla nota 163 di questo capitolo.

Doc. 44, pp. 269-271.



p. 541
172bis D.D.I. serie secondavolume X (24 marzo-16 ottobre 1878).

Doc. 157 – Nigra a Corti rapporto 230Pietroburgo,2 giugno 1878.

Documents diplomatiques français1ère série (1871-1900) – tome second (1er juillet 1875 – 31 decembre 1879).

Doc.  307telegramma dell’ambasciatore de Saint Vallier a WaddingtonBerlino,25 maggio 1878.

“Il governo di Sua  Maestra, facendo questo invito al  Governointende che, accettandolo, il Governoacconsente ad ammettere  ed a partecipare alla libera discussione della totalità del contenuto del Trattato di Santo Stefano”.



p. 542
173Nouveau Récueil Général” ecc. già citato alla nota 163 di questo capitolo.

Doc. 44, pp. 269-271.

“Il governo di Sua Maestra Britannica crederebbe di dovere constatare il suo profondo rammarico se la Russia insistesse definitivamente per la cessione della Bessarabia. Tuttavia, essendo abbastanza sicuro che gli altri Firmatari del Trattato di Parigi non sono disposti a sostenere con le armi i confini della Romania, fissati in quel trattato, l’Inghilterra non è interessata abbastanza direttamente in questa questione perché essa sia autorizzata ad assumersi da sola la responsabilità di opporsi al cambiamento richiesto, e pertanto essa si impegna a non contestare la decisione in tal senso”.



p. 543
174 Cfr. nota 150 di questo capitolo.



175 ASDE fondo Moscati 6 – busta 1396 fascicolo 1 – rapporto Fava a Depretis n. 838 serie politicaBucarest,25 marzo 1878rapporto Fava a Corti, nuovo Ministro Esteri, n. 842  serie politicaBucarest,29 marzo 1878.



176 Ibidem, rapporto Fava a Corti n. 847 serie politicaBucarest, 3 aprile 1878.

Documents diplomatiques français, 1ère série , tome II  (1er juillet 1875 – 31 décembre 1879).

Doc. 288, rapporto  n. 54 dell’ambasciatore de Vogüe  a WaddingtonVienna,13 aprile 1878.

“… una specie di solidarietà fra gli interessi del Sovrano della Romania e quelli della dinastia degli Hohenzollern…”.



177 ASDE fondo Moscati 6 – busta 1396 fascicolo I – rapporto Fava a Corti n. 855 serie politicaBucarest,13 aprile 1878.



p. 544
178 Ibidem, nota di Kogalniceanu all’agenzia diplomatica a RomaBucarest,28 marzo 1878.



179 Ibidem, nota di Kogalniceanu all’agenzia diplomatica a RomaBucarest,11 aprile 1878, con allegata copia della nota di protesta alla Russia del 5 aprile 1878.

“… che è stato concluso senza di noi, contro di noi ed a nostro danno”.

Ibidem, nota di Kogalniceanu all’agenzia diplomatica a Roma, con allegata nota di protesta alla RussiaBucarest,17 aprile 1878.



p. 545
180 Ibidem, circolare di Jon Bratianu  ai prefettiBucarest,13 aprile 1978



181 ASDE fondo Moscati 6 – registro copialettere 1202dispaccio Corti a Fava n. 166, p. 93 – Roma,6 aprile 1878.

Dispaccio Tornielli  a Fava n. 175, pp.  97-98 – Roma,20 maggio 1878. 



p. 546
182 D.D.I. serie seconda, volume IX  ( agosto 1877-23 marzo 1878).

Doc. 528telegramma 214 di Depretis all’ambasciatore a Vienna di Robilant, agli incaricati d’affari a Berlino (Tosi), a Londra (De Martino), a Parigi (Ressman) – Roma,23 febbraio 1878.

“… la Romania ha occupato coraggiosamente il suo posto sui campi di battaglia e può pretendere il riconoscimento della sua indipendenza…”

Doc. 558rapporto 808 dell’ambasciatore di Robilant a  DepretisVienna,2 marzo 1878.

Doc. 547rapporto confidenziale 1985 dell’ambasciatore de Launay a DepretisBerlino, marzo 1878.

Doc. 565telegramma 477 dell’ambasciatore Menabrea a DepretisLondra, 4 marzo 1878.

Doc. 540rapporto  390 dell’incaricato d’affari Ressman a DepretisParigi,26 febbraio 1878.



183 D.D.I. serie seconda, volume X  (24 marzo-16 ottobre 1878)

Doc. 103 – rapporto confidenziale 840 dell’ambasciatore di Robilant a DepretisVienna,27 aprile 1878.

“… i Romeni mi sembrano volersi fare violentare, ebbene, se ciò capiterà loro, sarà perché essi l’avranno voluto…”



p. 547
184 Enrico Croce “La Romania davanti all’Europa”. Firenze, tipografia di G. Barbera 1878.



p. 551
185 Eduardo Gioia “La questione d’ Oriente, l’Italia e il Congresso. Lettera a Benedetto Cairoli, Presidente del Consiglio dei Ministri del Re d’Italia” – Roma, tipografia del Senato, giugno 1878.



p. 553
186 Ruggero Bonghi  “La situazione in Oriente ed i negoziati delle Potenze sino al protocollo di Londra del 30 marzo 1877” in “Nuova Antologia”, maggio 1877.

Ristampato con aggiunte nell’ottobre 1878 dalla casa editrice Treves di Milano con il titolo “Il Congresso di Berlino e la crisi d’Oriente”.

Ruggero Bonghi  “La Giustizia e la Libertà in Oriente” – “ in “Nuova Antologiasettembre 1877.



p. 556
187 Alessandro di Battemberg era alla nascita suddito austriaco in quanto nato nel 1857 a Verona, quando la città apparteneva all’Austria; fu eletto nel 1879 principe di Bulgaria con il nome di Alessandro I. Commise l’errore di mostrarsi troppo autonomo ed intraprendente occupando nel 1885 Filippopoli, senza averne chiesto la preventiva autorizzazione alla Russia, di cui perse così il sostegno. Privo di tale aiuto, nel 1886 fu costretto ad abdicare a causa dell’ostilità turca e di una congiura dei militari e fu sostituito dal principe tedesco Ferdinando di Sassonia Coburgo-Gotha, più docile verso la Russia, salito al trono il 25 giugno 1877. Alessandro di Battemberg, lasciato il trono di Bulgaria, prestò servizio nell’esercito austriaco sotto il nome di conte di Hertenau; morì in Austria a Gratz nel 1893.



p. 557
188 Atti ParlamentariCamera dei DeputatiLegislatura XIII, seconda sessione (1878) – DiscussioniRoma,per gli Eredi Botta, tipografia della Camera dei Deputati, 1878.

Tornata 8 aprile 1878, pp. 341-359



p. 561
189 Ibidem, tornata del 9 aprile 1878, pp. 362-385.



p. 564
190 D.D.I.  serie secondavolume X (24 marzo-16 ottobre 1878).

Doc. 168 “Promemoria della riunione del Consiglio dei Ministri tenuto a Roma il 7 giugno 1878” – appunto autografo del ministro degli Esteri Corti (Archivio Corti).

Doc. 167 dispaccio di Corti a de Launay, allegate le istruzioni per i delegati al CongressoRoma, 7 giugno 1878.



191 ASDE fondo Moscati 6 – busta 21, registro istruzioni 1875-1886, pp. 69-72. Istruzioni al conte Corti ed al conte de Launay, delegati  al Congresso di BerlinoRoma,13 giugno 1878.



p. 565
191bis Cfr. Carol IancuLes juifs en Roumanie (1866-1919). De l’exclusion à l’émancipation”. Editions de l’Université de Provence. Etudes historiques  - Aix en Provence 1978pp. 157-159.



p. 566
192 Isidore Loeb “La situation des Israélites en Turquie, en Serbie et en Roumanie”. Paris, Joseph Baer et C.ie, libraireséditeurs 1877.

Doc. 117, pp. 165-366; doc. 118, p. 367; doc. 119, p. 368; doc. 121, p. 369.



p. 567
193Archives IsraélitesRevue politique, religieuse et litteraire. Direction à Paris11 rue de Berlin”. Anno XXIX, 1878.

n. 6-15 marzo 1878, p. 173 “Correspondances particulières de l’Étranger. Bucarest,15 février 1878” (siglato Z).

n. 7- aprile 1878, pp. 207-208Affaires roumaines. Document ufficiel prussian”.

n. 8-15 aprile 1878, pp. 238-241Correspondances particulières de l’l’Étranger. Bucarest, 27 mars 1878”.

“… l’unica speranza è anzitutto in Dio, e poi nella nobile e generosa Francia. È grazie a questa magnanima nazione, unita alla potente Inghilterra, che noi speriamo di essere salvati”.

n. 10-15 maggio 1878, pp. 303-305Correspondances particulières de l’l’Étranger. Ferrare, avril 1878”.

(articolo a firma Leone Ravenna).

n. 13- luglio 1878 pp. 391-393 “Le congrès de Berlin” (articolo non firmato).



p. 568
194 A. Beaure e H. Mathorel “La Roumanie” – Paris, Calman Lévy éditeur 1878.

“Se l’Ebreo di Romania è sordido, è perchè lo vuole”.

“ Questa razza così vivace, così forte, così intelligente in altri paesi, non ha ancora prodotto in Romania un uomo di valore”.

“Gli Ebrei polacchi e russi svolgono in Romania un ruolo politico che dispiace agli abitanti, e disgraziatamente l’abbigliamento e gli accessori non rendono il ruolo più sopportabile”.

“ I Romeni possono affermare che gli israeliti sono oggetto delle persecuzioni di cui si lamentano non in quanto israeliti, ma perché agenti segreti ed ostinati delle brame straniere”.



p. 569
195 ASDE fondo Moscati 6 – registro copialettere 1202, p. 97 – lettera di Corti a Flaminio ServiRoma,6 aprile 1878.

Politica externa a României intre anii  1873-1880 privită de la Agenţia -  Diplomatica din Roma” de R. V.  BossyCultura NaţionalăBucuresţi,  1928.

Doc. 54, pp. 172-174  rapporto di Obedenare a KogalniceanuRoma,4 giugno 1878. 



196 ASDE fondo Moscati 6 – busta 1396, fascicolo 1 – rapporto Fava a Corti n. 873 serie politicaRoma,6 giugno 1878.



197 ASDE fondo Moscati 6 – registro copialettere 1202p. 102 – rapporto 179 di Maffei a FavaRoma,12 giugno 1878.



198 ASDE fondo Moscati 6 – busta 1396 fascicolo 1 – Fava a Corti rapporti 872 e 877 serie politicaBucarest,4 e 8 giugno 1878.



p. 570
199 D.D.I.  serie secondavolume X (24 marzo-16 ottobre 1878) doc. n. 164 – Menabrea a Corti, rapporto confidenziale 449/ 82 – Londra,6 giugno 1878.



p. 572
200 ibidem, doc. 206Corti a Cairoli, telegramma senza numeroBerlino,25 giugno 1878.

“… far dipendere dagli interessi di parentela del principe Carlo di Romania la condotta politica della Germania, il cui bisogno e desiderio supremo è mantenere la pace”.

Doc. 198lettera privata di Corti a CairoliBerlino,22 giugno 1878.

ASDE fondo Moscati 6 – busta 223 (Congresso di Berlino nel 1878) fascicolo 8.

Dispacci n. 1, n. 4 di registro 1 – Cairoli a Corti -  Roma,16 giugno 1878.

Dispaccio n. 3, di registro 3 – Cairoli a Corti -  Roma,28giugno 1878.

Dispacci n. 4, di registro 4 – Cairoli a Corti -  Roma,29 giugno 1878.

D.D.I.  serie secondavolume X (24 marzo-16 ottobre 1878).

Doc. 285 – de Launay a Cairoli rapporto 2108Berlino,10 luglio 1878

“… in virtù del Trattato di Berlino, gli Israeliti (di Romania ecc.), purché essi non appartengano ad una nazionalità straniera, acquistano di pieno diritto la nazionalità (Romena ecc.)”.



201 D.D.I.  serie secondavolume X (24 marzo-16 ottobre 1878)

Doc. 205Cairoli a Cortitelegramma senza numeroRoma,25 giugno 1878.

Doc. 209lettera personale di Corti a CairoliBerlino,25 giugno 1878.



p. 576
202 ibidem, doc. 223 – de Launay a Cairoli rapporto 2098Berlino,29 giugno 1878.

“… bisogna considerare se convenga aprire la strada a delle seccature…”

“… sarà vantaggioso per tutti, per la Russia, per la Romania, per l’Europa rendere giustizia alle aspirazioni della Russia

“… il nuovo trattato conterebbe un elemento di debolezza, se la Russia dovesse essere amareggiata. Conviene riflettere se, per interessi esclusivamente rumeni, ci si voglia in futuro esporre a nuove difficoltà… l’Europa non ha alcun interesse ad opporsi alla Russia su questo punto”.

Nouveau recueil” ecc., già citato, pp. 355-356.

“Avendo gli altri firmatari del Trattato di Parigi rifiutato ogni intervento in questo affare, il primo plenipotenziario della Gran Bretagna non saprebbe consigliare al governo della Regina l’uso della forza per mantenere gli accordi di quel Trattato, ma egli protesta contro questo cambiamento…”

“… La Romania non saprebbe realmente salvaguardare la sua indipendenza e la sua integrità finchè  essa continuerebbe a vivere sulle spoglie di un grande Impero che ritiene di avere il diritto di rivendicare un lembo del suo antico territorio”.



203 Documents diplomatiques françaisPremière série, tome II (1er juillet 1875-31 décembre 1878).

Doc. 322dispaccio 7 confidenziale di Waddington a DufaureBerlino,30 giugno 1878.

“Da parte nostra crediamo che essi debbano fin d’ora rassegnarsi al sacrificio loro richiesto e che la loro politica debba consistere nel reclamare compensi più vantaggiosi di quelli offerti loro”.

“Ne approviamo tanto più volentieri il principio perché noi vedremmo un vantaggio per l’Europa stessa nel mantenere separata la Russia dalla Bulgaria grazie ad una zona abbastanza larga per impedire gli inconvenienti di un contatto immediato”.

D.D.I.  serie secondavolume X (24 marzo-16 ottobre 1878)

Doc. 219Corti a Cairoli, telegramma senza numeroBerlino,29 giugno 1878.

“Io lavoro per una transazione in grado di soddisfare la Romania”.



p. 577
204 Documents diplomatiques françaisPremière série, tome II (1er juillet 1875-31 décembre 1878).

Doc. 323telegramma di Waddington a Dufaure -  Berlino, luglio 1876.

“… nei nostri incontri confidenziali, abbiamo suggerito ai Plenipotenziari russi di tracciare questa frontiera da Silistria a Kavarna”.



p. 578
205 D.D.I.  serie secondavolume X (24 marzo-16 ottobre 1878).

Doc. 233telegramma senza numero di Corti a CairoliBerlino, luglio 1878, ore 19,30.

Doc. 234telegramma senza numero di Corti a CairoliBerlino, luglio 1878, ore 20,00.

Doc. 269lettera personale di Corti a CairoliBerlino,7 luglio 1878 (Archivio Corti).

ASDE fondo Moscati 6 – busta 223 rapporto confidenziale 2097 serie politica – de Launay a CairoliBerlino,29 giugno 1878.

“In breve, a meno di non suscitare uno scandalo, di prenderci da responsabilità di creare nuovi conflitti e ciò in presenza di un’Europa che ha sete di pace, bisognava serrare le proprie delle”.

“La Turchia in qualche modo assiste al Congresso come un colpevole davanti ai suoi giudici.



p. 582
206 Cfr. in “Der Berliner Kongress von 1878 (a cura di Ralph Melville e Hans Jurgen Schröder)

Franz Steiner Verlog GMBHWiesbaden 1982 lo studio di Nicolas Fotino “La reconnaissance de l’indépendance de la Roumanie et le Congrès de Berlin” e lo studio di Barbara JelavichRomania at the Congress of Berlin: problems of peacemaking”.

Il memoriale di Carlo del 25 giugno 1878 da Cotronei si trova negli Archivi di Stato di Bucarest con la collocazioneCasa reale 35/ 1878” – (citato  dallo studio di Barbara Jelavich).



206bis Documents diplomatiques françaisPremière série, tome III (2 janvier 1880-13 mai  1881) – Paris 1931

Doc. 65 – de Saint Vallier al ministro Esteri Freycinetrapporto 54 – Berlino,19 marzo 1880.

“… che profonde un così altero disprezzo per le razze ed i governi, cristiani o musulmani, dell’ Oriente…”

Doc. 81 – del Saint Vallier al ministro Esteri Freycinetlettera privataBerlino,31 marzo 1880.

“… essi non valgono molto, non molto meglio dei loro vicini Serbi o Bulgari, ma essi hanno a loro vantaggio di non essere Russi mascherati; noi abbiamo il massimo interesse a non lasciarli divorare o sottomettere dalla Russia…”.



p. 583
207 ASDE fondo Moscati 6 – busta 223 (Congresso di Berlino nel 1878) fascicolo 8.

Rapporto de Launay a CairoliBerlino,8 luglio 1878

Rapporto de Launay a CairoliBerlino,11 luglio 1878.



p. 584
208 Cfr. Domenico Caccamo “L’Italia, la questione d’Oriente e l’indipendenza romena nel carteggio del consolato italiano a Bucarest (1870-1879)”, in “Storia e Politica”, anno XVIII, fascicolo 1, marzo 1979, pp. 65-124.



p. 585
209 Eduardo GioiaCairoli et la politique italienne” – Nouvelle Revue, novembre 1879- Parigi.

Ristampato a Roma nello stesso anno 1879, presso la tipografia del Senato.

“L’Italia, così piena di simpatia per la Romania, per comunanza di razza e di interessi, ha continuato a volere, in conformità al Trattato di Berlino, che il pari godimento dei diritti civili e politici, senza distinzione di culto, fosse una verità per questa giovane nazione”.



p. 586
210 D.D.I.  serie secondavolume X (24 marzo-16 ottobre 1878)

Doc. 312 Menabrea a Cairolitelegramma 54/ 125 – Londra,16 luglio 1878.

Doc. 296 lettera personale di Visconti Venosta a CortiSantena, 12 luglio 1878.

Doc. 301 appunti autografi del ministro degli Esteri Corti (Archivio Corti); mancano la data e l’indicazione del luogo.

Documents diplomatiques françaisPremière sérietome II (1er juillet 1875 – 31 décembre 1879).

Doc. 333Brin, incaricato d’affari a Roma, a Waddington, dispaccio 101 – Roma,21 luglio 1878.



p. 588
211Civiltà Cattolica” – serie decima, volume ottavo 1878, pp. 385 e seguenti “Il diritto nuovo ed il Congresso di Berlino” di Matteo Liberatore.



p. 589
212 ASDE fondo Moscati 6 – busta 1396 fascicolo 2

Rapporti Fava a Cairoli (ministro degli Esteri ad interim in assenza di Corti delegato al Congresso di Berlino)

n. 887 e n. 888 serie politicaBucarest,3 luglio 1878; n. 890 serie politicaBucarest,8 luglio 1878.



212bis ibidem, Seyssel di Sommariva a Cairoli (ministro degli Esteri ad interim in assenza di Corti delegato al Congresso di Berlino) rapporti n. 51 e n. 52 serie politicaGalatz, 9 e 17 luglio 1878.

G. Pirrone (reggente il consolato di Bucarest in assenza di Fava) a Cairolirapporto 893 serie politicaBucarest,18 luglio 1878.



p. 590
213Actes et documents extraits de la correspondance diplomatique de Kogalniceanu”, volume 1, pp. 186-189 Bucarest 1893.

“… l’abbandono della Bessarabia romena causerebbe a tutta la Romania i più sgradevoli risultati, poiché l’acquisto della Dobrugia non sarebbe altro, a causa della perdita della riva posta di fronte, che un imbarazzo, un peso e forse un pericolo continuo…”.



p. 592
213bis ASDE fondo Moscati 6 – busta 1396 fascicolo 2

Rapporti Pirrone a Cairoli n. 896 e n. 899 serie politicaBucarest,7  e 27 agosto 1878.



p. 593
214 ibidem, rapporto Pirrone a Cairoli n. 900 serie politicaBucarest,27 agosto 1878.



215 M. A. CaniniProlusione al corso di lingua rumena alla Scuola superiore di commercio 20-1-1884”.

Venezia, stabilimento tipografico di M. Fontana -1884, p. 17.



p. 594
216 Valerio De Santis “L’emigrazione italiana in Romania” – in “Studi sulla RomaniaNapoli R. Ricciardi editore 1928p. 211 e seguenti.



217 René Pinon “La Roumanie dans la crise danubienne et balkaniqueRevue des Deux mondes, 15 giugno 1911.

“… Costanza è una finestra sul mondo esterno. È attraverso Costanza che la Romania respira”.

M.R. Sirianu “La question de Transilvanie et l’unité politique roumaineParis, Jauve 1916.



218 René Pinon, articolo già citato alla nota precedente.

Benedetto De Luca “Il confine della Dobrugia e la vertenza romeno-bulgaraRoma, tipografia della Unione editrice, 1913.

Georges Th. DanaillonLes prétentions de la Roumanie sur le territoire bulgare et la ville de Silistrie. Confèrence tenue le 10/23 mars 1913” – Société Economique BulgareSofia, Imprimerie de l’État, 1913.

A. Ischiekoff “La Dobrudja et le revendications roumainesBibliothéque des peuples balkaniques, 4 – Extrait de Annales des Nationalités n. 5, 1918Librairie centrale des NationalitésLausenne 1918.

N.P. Comnène “La Dobrogea. Essai historique, économique, ethnographique et politique”. Librairie Payot et C. ieLausanneParis, 1918.

Anonimo “La Dobroudja méridionale (le quadrilatère)” Paris, 1919.

Tommaso Tittoni “La Bessarabia,  la Romania e l’ItaliaNuova Antologia, aprile 1927.

Problemi balcanici – Che cosa è la Dobrugia” – a cura di Luigi SaporitoEdizioni di Roma fascista. Roma, 1940.



p. 595
219 I. De Benedetti “La delimitazione della frontiera bulgaro-romena nel 1878-79 ed il generale Orero”. Nuova Antologia, giugno 1913.



220Recueil. Politique - ReligionDuel. Par le prince Georges Bibesco”. Paris, librairie Plon 1888, pp. 42-45.



221 Georges BibescoHistoire d’une frontière. La Roumanie sue la rive droite du Danube”. Paris, E. Plon et C.ie ImprimeursÉditeurs 1883.



p. 599
222 AnonimoMémoire sur la révision de l’article 7 de la Constitution roumaine”. Paris, 1878.



p. 602
223 Marco Antonio Canini “La verità sulla questione israelitica in Romania”. Nuova Antologia,15 agosto 1879, pp. 706-748.



p. 604
224 Severino Attilj “Alla RomaniaCanto – con prefazione di B. E. Maineri” – Roma, presso il Banco di Annunzi della Gazzetta d’Italia1883.

M.A. Canini “Gli Israeliti in Romania e il commendatore Baccio Emanuele Maineri celebre antisemita”.

(Estratto dal giornale “Il Tempo”) – seconda edizione accresciutaVenezia Stabilimento tipo-litografico di M. Fontana 1883.



p. 607
225 Achille Gennarelli “Le persecuzioni degli Ebrei specialmente in Romania ed in Russia” – Nuova Antologia, 15 febbraio 1882, pp. 605-624.



p. 610
226 Cfr.  “La Nazione” – 7 dicembre 1880, “Diariop. 1.



p. 613
227 Citato da “La questione ebraica in un secolo di cultura italiana. Studio introduttivo di Roberto Marzetti.

Società tipografica modeneseEditrice in Modena, 1938. Raffaele Mariano “Il problema ebraico in Germania visto da un italiano nel 1879”, p. 295 e pp. 296-297 (tratto da R. MarianoCristianesimo, Cattolicesimo e Civiltà”.  Bologna 1879).



p. 615
228 G. Valbert “La question des juifs en Allemagne” – Revue des Deux Mondes, marzo 1880, pp. 203-205

“… per gli oppressi il paese natio è una terra straniera e chi non ha diritti, non ha per nulla una patria…”.

“Si trattava di una nazionalità nascente, pianta delicata che ha bisogno di esser protetta dagli insetti roditori; si trattava pure di un paese di 5 milioni di abitanti, dove risiedono più di 400.000 ebrei, che non sono il meglio della loro razza”.

“… sanguisughe insaziabili che le leggi non riescono ad eliminare…”

“… essa ha disarmato tutti; a forza di prudenza e di abilità e il debole ha prevalso sui forti…”

“… grazie a Dio, a volte è più facile dire una sciocchezza che farla…”

“… è una regola importante della vita non litigare con il proprio banchiere ed un grande uomo politico pensa sempre ai prestiti futuri…”.



p. 616
229 G. ValbertLes juifs allemands et leurs ennemis” - Revue des Deux Mondes, marzo 1882, pp. 214-225.

“… il tedesco che ragiona è il più ragionevole degli uomini; il tedesco che sragiona ha la sfrontatezza della follia…”

“… più intolleranti dei sagrestani…”

“… che hanno causato così spesso l’ammirazione e la disperazione dei loro nemici…”

“… con il progresso della vera tolleranza e delle idee liberali, il giudaismo cesserà col tempo di essere una patria, esso non sarà più che una religione”.



p. 617
230 ASDE fondo Moscati 6 – busta 1396 fascicolo 2 – Pirrone a Corti rapporto confidenziale n. 898 serie politicaBucarest,18 agosto 1878.



231 ASDE fondo Moscati 6 – registro copialettere 1202Corti a Pirrone dispaccio confidenziale senza numero, pp. 107-108 Roma,26 agosto 1878.



232 ASDE fondo Moscati 6 – busta 1396 fascicolo 2 - Pirrone a Cairolirapporto confidenziale n. 902 serie politicaBucarest,4 settembre 1878.



p. 618
233 ibidem, Pirrone a Cortirapporto 904 serie politicaBucarest,27 settembre 1878.



234 D.D.I.  serie secondavolume X (24 marzo-16 ottobre 1878) doc. 582dispaccio senza numero di Corti all’agente diplomatico di Romania, ObedenareRoma,11 ottobre 1878.



235 ASDE fondo Moscati 6 – busta 1396 fascicolo 2 - rapporti Pirrone a Corti n. 906 e n. 907 serie politicaBucarest, 7 e 8 ottobre 1878.



p. 619
236 Ibidem, rapporti Pirrone a Corti n. 910 e n. 911 serie politicaBucarest, 12 e 13 ottobre 1878.



237 Ibidem, Kogalniceanu a Corti; nota 14816 Bucarest, 14 ottobre 1878.

Kogalniceanu a Obedenare, nota 14.935Bucarest,16 ottobre 1878

“… a rivedere dal punto di vista costituzionale il regime interno ed introdurvi le modifiche richieste, adattandole alla situazione locale…”

“… alle relazioni diplomatiche reciproche le caratteristiche ormai compatibili con la nuova posizione internazionale della Romania…”.



p. 620
238 ASDE fondo Moscati 6 – registro copialettere 1202Cairoli a Fava dispaccio 188, pp. 110-114  Roma,3 novembre 1878.



p. 621
239 ASDE fondo Moscati 6 – busta 1396 fascicolo 2 – Fava a Cairoli, rapporto n. 924 serie politicaBucarest, dicembre 1878

Nota di Kogalniceanu a FavaBucarest,30 novembre 1878.



p. 623
240 Proposta segnalata dal reggente il consolato, Pirrone, con il rapporto 896 del 7 agosto 1878, già citato alla nota 213 bis di questo capitolo.



241 Era la soluzione proposta da de Launay al Congresso di Berlino, suggerita da un memoriale delle Comunità Israelitiche italiane presentato a Cairoli e trasmesso ai delegati italiani al Congresso.



p. 624
242 ASDE fondo Moscati 6 – registro copialettere 1202Cairoli a Fava dispaccio n. 106, pp. 119-125 e dispaccio n. 107, pp. 125-130, entrambi da Roma,10 dicembre 1878.



243 D.D.I.  serie secondavolume X (24 marzo-16 ottobre 1878)

Doc. 569lettera personale dell’ambasciatore di Robilant a CortiVienna, 8 ottobre 1878 (Archivio Corti)

Doc. 588lettera personale di Corti a di RobilantRoma,15 ottobre 1878 (carte di Robilant).



244 D.D.I.  serie secondavolume XI (17 ottobre 1878-13 luglio 1879).

Doc. 13 – telegramma 1509 – di Robilant a CortiVienna, 25 ottobre 1878.

“Un più lungo ritardo nel prendere la disposizione va a discapito della nostra influenza in Romania ed avvantaggia quivi considerevolmente quella degli austriaci, cosa che non può che esserci sfavorevole negli ulteriori sviluppi della questione d’Oriente”.



p. 626
245 Ibidem, doc. 66 – telegramma 1563  - de Launay a CairoliBerlino,10 novembre 1878.

Doc. 86 – rapporto 2192 de Launay a CairoliBerlino,10 novembre 1878.

Documents diplomatiques français. Première série, tome second  (1er juillet 1875 – 31 décembre 1879).

Doc. 361- telegramma senza numero – de Saint Vallier a Waddington -  Berlino, 10 novembre 1878

“Il governo di Berlino ritiene quindi suo dovere resistere con fermezza malgrado alcune difficoltà di Corte e di famiglia alle richieste romene e di concedere il riconoscimento soltanto con serie garanzie; ferito dalla “diserzione italiana”, che giudica severamente, il Cancelliere spera che l’Inghilterra e noi manterremo il nostro comportamento conforme al suo…”

Doc. 403rapporto 71 confidenziale de Saint Vallier a WaddingtonBerlino,4 aprile 1879

“Quando all’Italia, ha aggiunto von Bülow, la sua condotta c’è del tutto indifferente e non abbiamo alcuna intenzione di agire per fargliela modificare; essa ci aveva abbandonati una prima volta; le nostre osservazioni l’hanno fatta rinsavire, essa si dispone ad abbandonare nuovamente la causa della Giustizia e dell’esecuzione del Trattato; buon pro’ le faccia ed essa agisca come vorrà…”.

“… ma noi non ci curiamo molto di quanto farà l’attuale governo italiano, non potendo più avere fiducia in una politica continuamente oscillante, agitata e pronta a seguire tutte le correnti dove la trascinano ambizioni inconfessabili, sogni di un’influenza esagerata, diffidenze ed appassionate gelosie contro l’Austria, e, per dirlo con una parola sola,un desiderio singolarmente acuto di sostenere un ruolo clamoroso senza avere né l’energia né i mezzi per sostenerlo”.



246 D.D.I.  serie secondavolume XI (17 ottobre 1878-13 luglio 1879).

Doc. 80 – telegramma 1578Cialdini a CairoliParigi,14 novembre 1878.

Doc. 93 – telegramma 1599Cialdini a CairoliParigi,19 novembre 1878.

Doc. 140 – telegramma 1688Cialdini a CairoliParigi,18 dicembre 1878.



247 Ibidem, doc.256rapporto 63/ 188Menabrea a CairoliLondra,30 gennaio 1879.



p. 629
248 Cairoli era rimasto in carica dal 24 marzo al 19 dicembre 1878; gli successe il governo Depretis, durato fino al 14 luglio 1879.



p. 630
249 Atti Parlamentari Camera Deputati -  DiscussioniLegislatura XIII – sessione  1878-79 – volume I (21 dicembre 1878-3 febbraio 1879) – Discussione del Bilancio Politica Estera, seduta 31 gennaio-3 febbraio 1879, da p. 3810 a p. 3892.

Ibidem, volume (4 febbraio 1879-18 marzo 1879); sedute 4 e  5 febbraio 1879, da p. 3926 a p. 3954.



p. 634
250 Atti Parlamentari Senato del RegnoDiscussioniLegislatura XIII – sessione 1878-79, volume IX (21 novembre 1878-21 marzo 1879). Discussione del Bilancio Politica Esterasedute del 20, 21, 22 gennaio 1879, da p. 1090 a p. 1139.

Sedute del 17 e 18 febbraio 1879 da p. 1420 a p. 1452.



251 D.D.I.  serie secondavolume XI (17 ottobre 1878-13 luglio 1879).

Doc. 377 – de Launay a Depretis rapporto 2257Berlino,2 marzo 1879.

Doc. 411 – de Launay a Depretis rapporto 2273Berlino,17 marzo 1879.

Doc. 423Depretis a Menabrea, de Launay, Cialdini  - dispaccio senza numeroRoma,18 marzo 1879.



p. 635
252 Ibidem, doc. 450 Cialdini a Depretis vel. 450Parigi,25 marzo 1879.

Sembra che vi si trovi molto frettoloso nel riconoscere la Romania e si teme sempre che alla fine essa non rispetti i suoi impegni”.



p. 636
253 Ibidem, doc. 510 – de Launay a Depretisrapporto confidenziale n. 1288Berlino,14 aprile 1879.



p. 637
254 Enrico Croce “già ufficiale garibaldino dell’armata dei VosgiTestamento politico del generale Garibaldi e lettera memoranda agli Italiani” – Parigi, Alberto Savine editore 1891; pp.  252-254.



255 D.D.I.  serie secondavolume XI (17 ottobre 1878-13 luglio 1879).

Doc. 621Depretis a Menabreatelegramma 260, Roma, 31 maggio 1879.

Doc. 643Menabrea a Depretistelegramma 752/ 275, Londra,5 giugno 1879.



256 Ibidem – telegramma di de Launay a Depretis da Berlino,16 giugno 1879; non pubblicato ma citato alla nota 1 di p. 530.

Doc. 675 – de Launay a Depretisrapporto n. 2338Berlino,18 giugno 1879.

Doc. 734 – de Launay a Depretisrapporto confidenziale n. 2344Berlino,28 giugno 1879.



p. 638
257 Ibidem, documento 748Depretis a de Launay, Cialdini, Nigra, Curtopassi, Favatelegramma circolare n. 358Roma,2 luglio 1879.

Doc. 751 – de Launay a Depretisrapporto confidenziale n. 2348Berlino,2 luglio 1879.



p. 639
258 ASDE fondo Moscati 6 – busta 1396 fascicolo 3 ( semestre 1879).

Fava a Depretis rapporti n. 971 e n. 972 serie politicaBucarest, e 5 marzo  1879.

Nota telegrafica di Kogalniceanu a ObedenareBucarest,12 marzo 1879.

Fava a Depretis, rapporti n. 991,992,999 serie politicaBucarest,25 e 26 marzo, 6 aprile 1879.



259 Ibidem, Fava a Depretis rapporti n. 1015 e 1019 seria politicaBucarest,22 e 29 maggio 1879.



260 ASDE fondo Moscati 6 – registro copialettere 1202dispaccio n. 237 di Tornielli a Fava, pp. 174-175  Roma,26 maggio 1879.



p. 640
261 ASDE fondo Moscati 6 – busta 1396 fascicolo 3 ( semestre 1879).

Fava a Depretisrapporti n. 1024, 1031, 1034 serie politicaBucarest, 3, 27, 29 giugno 1879.

“Noi abbiamo fatto qualcosa oggi, faremo ancora qualcosa domani, e dopo domani ed i giorni successivi: così, gradualmente, dolcemente, insensibilmente, una tappa dopo l’altra…arriveremo alla completa trasformazione della condizione degli Ebrei…”.

“Noi non vogliamo suicidarci…”



p. 641
262 D.D.I.  serie secondavolume XI (17 ottobre 1878-13 luglio 1879).

Doc. 765telegramma n. 924 di Curtopassi a DepretisVienna,5 luglio 1879.

Doc. 770telegramma n. 929 di Curtopassi a DepretisVienna,6 luglio 1879.



p. 642
263 Ibidem, doc. 773 - Fava a Depretisrapporto 1039serie politicaBucarest,6 luglio 1879.

Doc. 775Fava a Depretistelegramma n. 935Bucarest,7 luglio 1879.

Doc. 779 – de Launay a Depretisrapporto n. 2451Berlino,7 luglio 1879.



264 Ibidem, doc. 782Curtopassi a Depretistelegramma n. 945/ 290Vienna,8 luglio 1879; doc. 783Menabrea a Depretis telegramma n. 946/290Londra, 8 luglio 1879.

Doc. 791 – de Launay a Depretistelegramma n. 954Berlino, 9 luglio 1879.

Doc.  792Cialdini a Depretistelegramma n. 951Parigi,9 luglio 1879.



p. 643
265 Ibidem, doc. 798 - Fava a Depretistelegramma n. 960Bucarest,11 luglio 1879.

Doc. 808Depretis a Nigratelegramma n. 339Roma,13 luglio 1879.



266 Ibidem, doc. 805Depretis a Fava  telegramma n. 394Roma,13 luglio 1879.



267 D.D.I.  serie secondavolume XII (14 luglio 1879-2 maggio 1880).

doc. 15 – Curtopassi a Cairolirapporto n. 1091Vienna,14 luglio 1879.

doc. 22 – Fava a Cairolitelegramma n. 997Bucarest, 17 luglio 1879.

doc. 50 – Cairoli a Favatelegramma n. 416Roma,24 luglio 1879.



p. 644
268 Ibidem, doc. 16 – Nigra a Cairolitelegramma n. 987San Pietroburgo,15 luglio 1879.

Doc. 21 – de Launay a Cairolirapporto n. 2359Berlino, 16 maggio (data errata, si trattava di luglio) 1879.



p. 645
269 Ibidem, doc. 64 – de Launay a Cairolirapporto n. 2367Berlino,31 luglio 1879.

Doc. 74 – de Launay a Cairolirapporto confidenziale n. 2371Berlino, 3 agosto 1879.

“… non potrà, per quanto riguarda il governo imperiale, che facilitare un accordo definitivo riguardo all’esecuzione del Trattato del 13 luglio”.

Il 13 luglio 1878, giorno conclusivo del Congresso di Berlino, era pure la data in cui era stato firmato il relativo Trattato.



p. 646
270 ASDE fondo Moscati 6 – busta 1396 fascicolo 4.

Fava a Depretisrapporto n. 1036serie politicaBucarest,4 luglio 1879.

Fava a Depretisrapporto n. 1041serie politicaBucarest,7 luglio 1879.

Fava a Depretisrapporto n. 1042serie politicaBucarest,9 luglio 1879.



p. 647
271 ASDE fondo Moscati 6 – busta 1396 fascicolo 4 – nota di Campineanu a ObedenareBucarest,9 luglio 1879.

“… che avrebbe dovuto esser trattata soltanto in momenti di calma, gradualmente e senza scosse…”

Registro copialettere 1202Tornielli a Favadispaccio n. 257, p. 200Roma,19 luglio 1879.



p. 648
272 ASDE fondo Moscati 6 – busta 1396 fascicolo 4.

Fava a Depretisrapporto n. 1045serie politicaBucarest,12 luglio 1879.

Campineanu all’agenzia diplomatica di Romatelegramma senza numero da Bucarest,16 luglio 1879.

Fava a Depretisrapporto n. 1049serie politicaBucarest,17 luglio 1879.



p. 649
273 Ibidem, Fava a Depretisrapporto n. 1050serie politicaBucarest,19 luglio 1879.

Telegramma di Boerescu all’agenzia diplomatica Roma, senza numeroBucarest,23 luglio 1879.

Telegramma di Bratianu all’agenzia diplomatica Roma, senza numeroBucarest,23 luglio 1879.

Fava a Cairolirapporto n. 1051serie politicaBucarest,21 luglio 1879.

Fava a Cairolirapporto n. 1055serie politicaBucarest,25 luglio 1879.

“Essa non potrà essere gradualmente risolta che nel Paese e dal Paese”.



p. 650
273bis Atti ParlamentariSenato del RegnoDiscussioniLegislatura XIII – Sessione 1878-1879Volume X (22 marzo-29 luglio 1879).

Tornata 28 luglio 1879Approvazione stato di definitiva previsione pel 1879 del Bilancio Esterip. 2543 e pp. 2546-47.



p. 651
274 D.D.I.  serie secondavolume XII (14 luglio 1879-2 maggio 1880).

Doc. 86 - di Robilant a Cairolirapporto n. 1102Vienna,8 agosto 1879.

Doc. 88 – de Launay a Cairolirapporto n. 2376Berlino,9 agosto 1879.

Doc. 130 – Maffei a Cialdinidispaccio confidenziale n. 562Roma,22 agosto 1879.

Doc. 143 – Marochetti, incaricato d’affari, a Cairolirapporto n. 530Parigi,26 agosto 1879.

Doc. 104 – Menabrea a Cairolirapporto n. 769/ 368Londra,13 agosto 1879.



p. 652
275 Ibidem, doc. 188Cairoli a Favatelegramma n. 521Roma,10 settembre 1879.

Doc. 179 – di Robilant a Cairolitelegramma n. 1208Vienna,6 settembre 1879 ore 14,20 (pervenuto ore 16,40).

Doc. 180Cairoli a di Robilanttelegramma n. 518Roma,6 settembre 1879 h 22,25.



276 ASDE fondo Moscati 6 – busta 1396 fascicolo 4.

Kretzulescu a Cantacuzenotelegramma n. 11.532Bucarest,15 agosto 1879.



p. 653
277 Ibidem, Fava a Cairolirapporto n. 1064serie politicaBucarest,19 settembre 1879.

Fava a Cairolirapporto n. 1065 (poi rettificato in 1066) serie politicaBucarest,22 settembre 1879.

Fava a Cairolirapporto n. 1067serie politicaBucarest,24 settembre 1879.

Fava a Cairolirapporto n. 1073serie politicaBucarest,30 settembre 1879.



278 Ibidem, Fava a Cairolirapporto n. 1074serie politicaBucarest,30 settembre 1879.

Registro copialettere 1202 -  Maffei a Favadispaccio n. 265, p. 217Roma,30 settembre 1879.



p. 654
279 ASDE fondo Moscati 6 – busta 1396 fascicolo 4.

Fava a Cairolirapporto n. 1078 (poi corretto in 1079) – serie politica - Bucarest,16 ottobre 1879.

Fava a Cairolirapporto n. 1081serie politicaBucarest,18 ottobre 1879; Fava a Cairolirapporto 1082 serie politicaBucarest, 19 ottobre 1879.

Fava a Cairolirapporto n. 1083serie politicaBucarest,20 ottobre 1879.

Fava a Cairolirapporto n. 1091serie politicaBucarest,29 ottobre 1879.



p. 655
280Archives IsraélitesRevue politique, religieuse et litteraireannée 1879, tome XL.

n. 42 – 16 ottobre 1879lettera da Botochani 8 ottobre di J. Wellinger, pp. 345-346.

n. 44 – 30 ottobre 1879lettera da Bucarest 23 ottobre, siglata K, pp. 360-361.

n. 45 – 6 novembre 1879lettera da Bucarest 30 ottobre, siglata X., pp. 368-369.

n. 47 – 20 novembre 1879lettera da Bucarest 13 novembre, siglata X., pp. 384-385.



p. 656
281 Ibidem, Fava a Cairolirapporto n. 1085serie politicaBucarest,23 ottobre 1879.

Fava a Cairolirapporto n. 1086serie politicaBucarest,24 ottobre 1879.

Fava a Cairolirapporto n. 1087serie politicaBucarest,24 ottobre 1879.



282 Ibidem, nota di Boerescu all’agente diplomatico a RomaBucarest,24 ottobre 1879.

Fava a Cairolirapporto n. 1083serie politicaBucarest,20 ottobre 1879.

Fava a Cairolirapporto n. 1090serie politicaBucarest,27 ottobre 1879.



p. 657
283 Libro verdeDocumenti diplomatici presentati alla Camera da Benedetto Cairoli il 5 giugno 1880.

Volume 27/BDocumenti diplomatici italianicapitolo IX “Riconoscimento della Romania”.

Doc. 757Tosi, incaricato d’affari a Berlino, a CairoliBerlino,7 novembre 1879.

Doc. 758Cairoli, all’incaricato d’affari a Parigi, MarochettiRoma,24 novembre 1879.

Doc. 759Cairoli  ai rappresentanti diplomatici italiani a Londra, Berlino, Vienna, San Pietroburgo, Costantinopoli, BucarestRoma,30 novembre 1879.



p. 658
284 D.D.I.  serie secondavolume XII (14 luglio 1879-2 maggio 1880).

Doc. 296Tornielli, ministro plenipotenziario a Belgrado, a Cairolitelegramma n. 1361Belgrado,19 ottobre 1879.

Doc. 391Tornielli  a Cairolitelegramma n. 1508Belgrado,18 novembre 1879.

“… un atteggiamento che consegna il Principato ad altre influenze e forse a future cupidigie…”

Doc. 410Tornielli  a Cairolitelegramma n. 1530Belgrado,26 novembre 1879.

Doc. 417Maffei a Torniellitelegramma n. 741Roma,28 novembre 1879.



p. 660
285 Ibidem, doc. 397Tosi a Cairolirapporto riservato n. 2433Berlino, 21 novembre 1879.

Doc. 370Menabrea a Cairolirapporto n. 1002/ 427Londra,9 novembre 1879.

Doc. 418Maffei a de Launaytelegramma n. 743Roma,28 novembre 1879.

Doc. 428 – de Launay a Cairolitelegramma n. 1554Berlino,2 dicembre 1879.

Doc. 416 – di Robilant a Cairolirapporto n. 1169Vienna,27 novembre 1879.

Cairoli a de Launay  - dispaccio n. 932Roma,2 dicembre 1879.

Doc. 434Cairoli a de Launaytelegramma n. 761Roma,4 dicembre 1879.



p. 661
286 Libro verde già citato alla nota 282.

Doc. 760nota verbale dell’ agente di Romania a Roma, Esarcu, a CairoliRoma,5 dicembre 1872.

Doc. 761dispaccio di Cairoli a FavaRoma,5 dicembre 1879.

Doc. 762dispaccio telegrafico di Cairoli ai rappresentanti diplomatici italiani a Parigi, Londra, Berlino, Vienna, San Pietroburgo, Costantinopoli, BucarestRoma,5 dicembre 1879.

D.D.I.  serie secondavolume XII (14 luglio 1879-2 maggio 1880).

Doc. 437Cairoli a de Launay, Menabrea, Nigra, Corti, Marochetti, Favatelegramma n. 766Roma,5 dicembre 1879 (in questo telegramma è citato l’altro inviato a Tornielli da Cairoli con il n. 764 lo stesso giorno 5 dicembre 1879).



p. 662
287 Atti ParlamentariCamera dei DeputatiLegislatura XIII – Sessione 1879-1380Volume VI (2 luglio 1879-24 gennaio 1880) – Tornata 8 dicembre 1879, pp. 8942-8944.



p. 663
288 Resoconto riportato sul “Journal des Débats” del 17 dicembre 1879, p. 3.



p. 664
289 D.D.I.  serie secondavolume XII (14 luglio 1879-2 maggio 1880).

Doc. 445Marochetti a Cairolitelegramma n. 1573Parigi,6 dicembre 1879.

Doc. 459Menabrea a Cairolirapporto n. 1071/ 449Londra,9 dicembre 1879.



290 Documents diplomatiques français  Première sérietome second (1er juillet  1875- 31 décembre 1879).

Doc. 477 – de Saint Vallier a Waddingtonrapporto confidenziale n. 3 – Varzin, 14 novembre 1879.

“… essi sono abbastanza perspicaci per capire che si sono fatti gioco di noi e che ci hanno dato soltanto acqua fresca; bisogna adesso che la rendano potabile offrendocela in una coppa attraente…”

Doc. 483 – del Saint Vallier a Waddingtontelegramma privo di numeroBerlino,10 dicembre 1879.

“… la sola cosa che possa riportare il Governo romeno a rispettare i suoi impegni, è la certezza che le altre Potenze non imiteranno l’Italia e non si separeranno dalla Germania…”.



p. 666
291 D.D.I.  serie secondavolume XII (14 luglio 1879-2 maggio 1880).

Doc. 438 – de Launay a Cairolitelegramma n. 1564Berlino, 5 dicembre 1879, ore 18,30 (pervenuto ore 23,35).

“La politica estera dell’Italia, come quella di ogni altro Stato, sarebbe sacrificata nel momento in cui fosse subordinata ad influenze del Parlamento”.

Doc. 440 – de Launay a Cairolitelegramma n. 1568Berlino, 6 dicembre 1879, 4,15 (pervenuto ore 6,30).

Doc. 442Cairoli a de Launaytelegramma n. 769Roma, 6 dicembre 1\879 ore 13,25.

Doc. 441Cairoli a Torniellitelegramma n. 768Roma, 6 dicembre 1879 ore 13,20.

Doc. 444 – de Launay a Cairolitelegramma n. 1572Berlino, 6 dicembre 1879 ore 18,35 (pervenuto ore 20,40).

Doc. 447Cairoli a de Launaytelegramma n. 779Roma, 7 dicembre 1879 ore 10,15.



p. 667
292 Ibidem,  doc.  458 – de Launay a Cairolirapporto confidenziale n. 2445Berlino,8 dicembre 1879.

Doc. 466 – de Launay a Cairolirapporto confidenziale n. 2446Berlino,11 dicembre 1879.

Doc. 467Cairoli a de Launaytelegramma n. 903Roma,12 dicembre 1879 ore 13,00

Doc.  468  Cairoli a de Launaytelegramma n. 904 Roma,12 dicembre 1879 ore 14,30.



p. 668
293 Ibidem  doc. 473Cairoli a de Launaytelegramma n. 908Roma, 14 dicembre 1879.

Doc. 480Cairoli a Torniellitelegramma n. 917Roma, 16 dicembre 1879.

Doc. 484Cairoli a Torniellitelegramma n. 922Roma, 17 dicembre 1879.

Doc. 486 – de Launay a Cairolirapporto n. 2451Berlino, 17 dicembre 1879.



p. 669
294 ASDE fondo Moscati 6 – busta 1396 fascicolo 4.

Fava a Cairolirapporto n. 1101serie politicaBucarest,15 dicembre 1879.

Tornielli a Cairolirapporto n. 1 – serie politicaBucarest,19 dicembre 1879.

D.D.I.  serie secondavolume XII (14 luglio 1879-2 maggio 1880).

Doc. 490Tornielli a Cairolitelegramma n. 1634Bucarest ore 1,00 (pervenuto ore 2,15).



p. 670
295 D.D.I.  serie secondavolume XII (14 luglio 1879-2 maggio 1880).

Doc. 416 – di Robilant a Cairolirapporto n. 1169Vienna, 27 novembre 1879.

Doc. 492Maffei a di Robilantlettera personaleRoma,18 dicembre 1879.

Libro verde ecc.- citato alla nota 283 di questo capitolo.

Doc. 767Nigra a Cairolirapporto privo di numeroSan Pietroburgo,11 dicembre 1879.



p. 671
296 D.D.I.  serie secondavolume XII (14 luglio 1879-2 maggio 1880).

Doc. 516 – de Launay a di Robilantlettera personaleBerlino,29 dicembre 1879.

Ammetto completamente che sotto vi sono alcuni maneggi degli ebrei di Berlino che vogliono giocare un tiro agli ebrei di Bucarest”.

Doc.525Tornielli a Cairolitelegramma n. 8 – Bucarest,5 gennaio 1880 ore 12,40 (pervenuto ore 15,00)

Citato alla nota 2 di p. 419 Cairoli a de Launaytelegramma n. 7 – Roma,5 gennaio 1880, ore 22,50.

“… speriamo che a Berlino si renderà giustizia ai nostri buoni uffici…”

Doc. 602 – de Launay a Cairolirapporto n. 2472Berlino,5 febbraio 1880.



p. 674
297 Anonimo (probabilmente romeno) “Quinze mois de régime liberal” – Paris, Nouvelle Revue 1886.

Capitolo VI pp. 138-142 “Voyages du Roi. La note roumanie. Germanisation de la Roumanie”.

(“Viaggi del Re. La nota romena. Germanizzazione della Romania”).



298 Libro verde ecc. già citato alla nota 283 di questo capitolo.

Doc. 768 – de Launay a Cairolirapporto privo di numero  Berlino, 30 gennaio 1880.

Doc. 769 – de Launay a Cairolirapporto privo di numero  Berlino, 6 febbraio 1880.

Doc. 770 – de Launay a Cairolirapporto privo di numero  Berlino, 11 gennaio 1880.

Doc. 771Marcohetti a Cairolirapporto privo di numero  Parigi,13 febbraio 1880.



p. 676
299 Affaires ÉtrangèresDocuments diplomatiquesQuestion de la reconnaissance de la RoumanieParis, Impremerie Nationale  1880.

pp.  5 – 6  Le conte de Moüy, Chargè d’affaires de France à Vienne, à M. de Freycinet, Ministre des Affaires ÉtrangèresVienne, le 31 janvier 1880.

pp.  6 – 7   Le comte de Saint Vallier, Ambassadeur de France à Berlin, à M. de Freycinet, Ministre des Affaires ÉtrangèresBerlin, le 1er février 1880.

“… non dovevano considerarsi che un primo passo ed un inizio di applicazione degli accordi dell’articolo 44…”

p.  8  Note de Lord Lyons, Ambassadeur anglais à Paris, a  M. de FreycinetParis, le 7 février 1880.

pp. 8 – 9 M. de Freycinet à M. de Moüy, Chargè d’Affaires à VienneParis, le 8 février 1880.

“… il necessario punto di partenza di disposizioni più larghe e liberali…”

pp. 9 – 10 M. de Freycinet à l’Amiral Pothuau, Ambassadeur de France à LondresParis, le 9 février 1880.

pp. 10 – 11 M. de Freycinet à M. de Saint VallierParis, le 9 février 1880.

pp. 11 – 12 M. de Freycinet à l’Amiral PothuauParis, le 12 février 1880.

pp. 13 – 14 M. de Freycinet à M. de Bocourt, Gézaut de l’Agence et Consulat  général  de France à BucharestParis, le 14 février 1880.



p. 677
300 ASDE fondo Moscati 6 – busta 1396 fascicolo 5 ( semestre 1880).

Tornielli a Cairolirapporto n. 12 – serie politicaBucarest,20 febbraio 1880.

Tornielli a Cairolirapporto n. 14 – serie politicaBucarest,20 febbraio 1880.

D.D.I. serie secondavolume XII (24 luglio 1879-2 maggio 1880).

Doc. 651 – de Launay a Cairolirapporto n. 2485Berlino,24 febbraio 1880.

“Non è stato ancora dimostrato che il fatto di essere con due mesi di anticipo in relazioni diplomatiche con il Principato, sia valso all’Italia vantaggi tali da compensare gli inconvenienti di un comportamento che qui ed altrove ha suscitato più di una critica”.



p. 678
300bis “… ed essa si è  rassegnata nella questione del riscatto delle ferrovie come in quella dell’emancipazione degli Ebrei”.



p. 681
301 Atti ParlamentariCamera dei DeputatiDiscussioniLegislatura XIII – Sessione 1880volume I (17 febbraio-17 marzo 1880). Tornate del 12,15,16 marzo 1880Dibattito sul riconoscimento dell’indipendenza romena.



p. 682
302 ASDE fondo Moscati 6 – busta 1396 fascicolo 5 ( semestre 1880).

Tornielli a Cairolirapporto n. 21 – serie politica  ed annesso cifrato al rapporto n. 22 serie politicaBucarest,10 e 12 marzo 1880.

D.D.I. serie secondavolume XII (24 luglio 1879-2 maggio 1880).

Doc. 772 – de Launay a Cairolitelegramma n. 294Berlino,22 marzo 1880.

ASDE fondo Moscati 6 – busta 1396 fascicolo 5 ( semestre 1880).

Tornielli a Cairoli  annesso cifrato al rapporto n. 32 serie politicaBucarest,5 aprile 1880.



303 ASDE fondo Moscati 6 – busta 1396 fascicolo 5 ( semestre 1880).

Note n. 620 e n. 848 del Gabinetto Ministero Interni al Ministero EsteriRoma,7 e 19 febbraio nell’auto 180.

Tornielli a Cairolirapporto n. 26 serie politicaBucarest,20 marzo 1880.

Archives Israélitesannée 1880 tome XLI n. 27 – luglio 1880, pp. 220-221 – “Correspondances particulières de l’Étranger” – Bucharest, 17 juin, siglata K.



p. 683
304 ASDE fondo Moscati 6 – busta 1396 fascicolo 5 ( semestre 1880).

Tornielli a Cairolirapporti n. 51,52,60 serie politicaBucarest,21 e 22 maggio, 7 giugno 1880.



305 D.D.I. serie secondavolume XIII (3 maggio 1880-28 maggio 1881).

Doc. 106 – Tornielli a Cairolirapporto n. 54 – serie politicaBucarest,28 maggio 1880.



p. 685
306 ASDE fondo Moscati 6 – busta 1396 fascicolo 6 ( semestre 1880).

Tornielli a Cairolirapporti n. 71 e 72 – serie politicaBucarest, 16 e 21 agosto 1880.

“… e se l’articolo 3 della Costituzione non esistesse, bisognerebbe farlo oggi…”

Tornielli a Cairolirapporti n. 78 e 79 – serie politicaBucarest, 2 e 3 settembre 1880.



p. 687
307 ASDE fondo Moscati 6 – busta 1397  (27 dicembre 1880-30 giugno 1881).

Tornielli a Cairolirapporti n. 122, 125 e 126 – serie politicaBucarest, 12, 26 e 27 marzo 1881.



308 de Launay a Cairolitelegramma n. 294Berlino,22 marzo 1880 (già citato alla nota 302 di questo capitolo).



p. 689
309 ASDE fondo Moscati 6 – busta 1397  (27 dicembre 1880-30 giugno 1881).

Boerescu ai rappresentanti diplomatici rumeni all’esteronota  4912Bucarest,28 marzo 1881.

Tornielli a Cairolirapporto n. 127- serie politicaBucarest, 29 marzo 1881.

D.D.I. serie secondavolume XIII (3 maggio 1880-28 maggio 1881).

Doc. 758Cairoli a Torniellitelegramma n. 214Roma,29 marzo 1881.

“Ciò che vogliamo evitare ad ogni costo è condurre una politica isolata”.

ASDE fondo Moscati 6 – busta 1397  (27 dicembre 1880-30 giugno 1881).

Tornielli a Cairolirapporto n. 128- serie politicaBucarest, 30 marzo 1881.

Tornielli a Cairolirapporti n. 129 e 131 - serie politicaBucarest, 30 marzo 1881.



p. 691
310 D.D.I. serie secondavolume XIII (3 maggio 1880-28 maggio 1881).

Doc. 766Cairoli a di Robilanttelegramma n. 223Roma,30 marzo 1881.

Doc. 767Cairoli a de Launaytelegramma n. 225Roma,31 marzo 1881.

“… tutte le caratteristiche di una necessità politica e parlamentare”.

Doc. 768 – di Robilant a Cairolitelegramma n. 428Vienna,31 marzo 1881.

Doc. 769Menabrea a Cairolitelegramma n. 429/ 681Londra, 31 marzo 1881.

Doc. 772Cairoli a Torniellitelegramma n. 228Roma,31 marzo 1881.

Doc. 774Cairoli a Torniellidispaccio n. 46 – Roma,31 marzo 1881.

Doc. 776 – de Launay a Cairolitelegramma n. 433Berlino, aprile 1881.

Doc. 779Cairoli a de Launaytelegramma n. 232Roma,2 aprile1881.



311 Ibidem, doc. 782Cairoli agli ambasciatori de Launay (Berlino), Corti (Costantinopoli), Menabrea (Londra), Cialdini (Parigi), Nigra (San Pietroburgo), di Robilant (Vienna), ed al ministro plenipotenziario Tornielli (Bucarest) – telegramma n. 236Roma,3 aprile 1881.



312 Atti Parlamentari  Camera dei DeputatiDiscussioniLegislatura XIV – I sessionevolume  V (24 febbraio-9 aprile 1881). Tornata del 3 aprile 1881, pp. 4977-4979.



p. 693
313 ASDE fondo Moscati 6 – busta 1397  (27 dicembre 1880-30 giugno 1881).

Tornielli a Cairolirapporto n. 133- serie politicaBucarest, aprile 1881.

Tornielli a Cairolirapporto n. 131- serie politicaBucarest, aprile 1881.

Tornielli a Cairolirapporto n. 135- serie politicaBucarest, 5 aprile 1881.

Tornielli a Cairolirapporto n. 136- serie politicaBucarest, 5 aprile 1881.

Tornielli a Cairolirapporto n. 141- serie politicaBucarest, 7 aprile 1881.

Tornielli a Cairolirapporto n. 142- serie politicaBucarest, 13 aprile 1881.

Tornielli a Cairolirapporto n. 143- serie politicaBucarest, 15 aprile 1881.



p. 695
314 Ibidem, Tornielli a Cairolirapporto n. 134- serie politicaBucarest, 2 aprile 1881.

Tornielli a Cairolirapporto n. 148- serie politicaBucarest, 19 aprile 1881.

Tornielli a Cairolirapporto n. 138- serie politicaBucarest, 6 aprile 1881.

“Noi non abbiamo né socialistinichilisti. Ciò del resto è ben naturale: noi non abbiamo la malattia-il proletariato-, non abbiamo bisogno di medicine… Le agitazioni sociali e politiche degli altri paesi ci hanno spesso inviato, è vero, dei rifugiati alla ricerca di asilo presso di noi… La Romania è stata ospitale con tutti. Noi li abbiamo accolti, ma noi li abbiamo addolciti, disarmati, per così dire, lasciandoli vivere tranquillamente in mezzo a noi; ed essi non sono più stati un pericolo per coloro dai quali fuggivano. Pertanto i nostri vicini non hanno ragione di preoccuparsi per le nostre abitudini ospitali. E non ne abbiamo neanche noi romeni”.



p. 700
315 Journal des Débats – 28 marzo 1881.

“Le riforme da essa compiute sono di vario tipo ed alcune di esse richiedevano, per essere accettate, una  forza di volontà ed una fiducia nell’avvenire che non si trovano sempre, anche presso i popoli più progrediti civilmente. Soprattutto quando si è trattato dell’emancipazione degli Ebrei una vera angoscia si è impadronita dei più notevoli e più liberali statisti rumeni. Essi tuttavia hanno soddisfatto su questo punto come sugli altri le esigenze dell’Europa; era il prezzo da pagare per l’indipendenza del loro paese, ed anche a quel prezzo essi non la pagavano troppo cara”.



316 Cfr. le pubblicazioni citate alla nota 218 di questo capitolo.



p. 701
317 Archives Israélitesannée 1880tome XLI.

n. 12 18 mars 1880Correspondances particulières de l’Étranger  - Bucharest, le 4 marssiglata X – pp. 97 -98.

n. 13 25 mars 1880Correspondances particulières de l’Étranger  - Bucharest, le 11 marssiglata X – pp. 104 -105.

n. 25 17 juin 1880Correspondances particulières de l’Étranger  - Jassy, le 10 juinsiglata Bp. 205.

n. 27 1er juillet 1880Correspondances particulières de l’Étranger  - Bucharest, le  17 juinsiglata K. – pp. 220 -221.

n. 45 4 novembre 1880Correspondances particulières de l’Étranger  - Jassy, le  28 octobresiglata W. – pp.365366.

n. 46 11 novembre 1880Correspondances particulières de l’Étranger  - Bucharest, le 5 novembreanonimop. 371

n. 48 25 novembre 1880Correspondances particulières de l’Étranger  - Jassy, le 9 novembresiglata W. – pp. 389 - 390.

n. 51 16 décembre 1880Correspondances particulières de l’Étranger  - Jassy, le 3 novembre (recte décembre) –  firmato Louis Posner; pp.421-422.

“… ed  il mezzo per affrettare la loro sparizione non è recriminare in ogni occasione: è con la moderazione dei giudizi e con la rigorosa esattezza dei fatti che noi ne avremo ragione più facilmente…”.



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