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Il fantasima.
Al vederlo Osvaldo e Mario balzarono in piedi con un grido. Rimasero un momento estatici a fissarlo: il loro occhio spalancato su quelle sembianze pacate e severe, aveva una espressione di indicibile stupore, e quasi di sgomento.
Fu primo Osvaldo, a muoversi. Levò in alto le braccia, poi giunse le mani e corse incontro al nuovo venuto, sclamando:
— Possibile! Voi! Miracolo del cielo! Voi, principe salvo!
Tomaso Bussi, principe di Bandjarra, ricevette l'amico sul petto, e lo strinse nello braccia; poi diede la mano a Mario colle lagrime agli occhi.
Nessuno dei radunati capì di che cosa si trattasse.
— Ma perchè tanta commozione allora?
— Chi sarà mai? — si domandavano curiosamente il pretore ed il notaio.
Il principe sciolto dall'abbraccio ascoltava le precipitate interrogazioni de' suoi compagni di viaggio, tra il serio e il sorridente.
— Vi racconterò tutto, più tardi — disse — quando avremo messo a posto questa gente, che avrà il diritto di credere ad una colossale mistificazione da parte mia. Ma io potrei giurar loro, che arrivo in questo punto a Milano.
— Lo crediamo!
— Ah, mister Millo, io, sì, posso dire di aver veduto il dito di Dio! Fui a un filo dalla morte, anche dopo essere stato raccolto dal mare...! Ma è necessario parlare a questi signori — riprese il principe. — Presentatemi al pretore.
Il Millo prese per mano il principe e lo condusse dinanzi al magistrato.
— Signor pretore — disse — le annuncio un avvenimento, che sarebbe difficilmente credibile se in prova della sua verità non fosse presente nella persona che le sta dinanzi. Questo signore è Tomaso Bussi, principe di Bandjarra, di cui poc'anzi abbiamo letto il testamento.
— Oh diamine! — sclamarono ad una voce il pretore, il notaio e il cancelliere, balzando in piedi commossi.
Nè trovarono altra esclamazione,
— Così è signori — disse il principe inchinandosi a loro. — La provvidenza pare non abbia voluto che io fossi morto. Se non che, dicevo appunto al mio buon amico Millo e al mio segretario Fox, che questo fatto deve avere tutta l'aria d'una burla solenne; giacchè, a prima vista, parrebbe che in questi tre mesi, che scorsero dal naufragio, io avessi dovuto avere tutto il tempo di prevenirli della mia salvezza. Se non che, non per mia colpa, la cosa sta molto diversamente. Se avessi potuto volontieri lo avrei fatto; ma mi fu impossibile, per delle peripezie molto terribili, che ora sarebbe troppo lungo raccontare. Signor pretore, la prego a sciogliere l'adunanza, ritenendo che tutto quello che fu fatto oggi debba ritenersi come per non fatto.
Il pretore si mostrò terribilmente imbarazzato. Si trovava per così dire, compromesso nella dignità della carica da quella colossale gherminella della sorte.
I morti,di solito, non ritornano!
— Il caso che succede, dinanzi a noi, è così inaspettato e grave, che più d'ogni altro ha bisogno di prove.
— Le prove che io sono Tomaso Bussi, il testatore — disse il principe, movendo un passo verso la tavola — saranno presto trovate.
— Se non si vuol credere alla attestazione di questi signori, — e additava Osvaldo e Mario — io porterò cento testimonii, i quali attesteranno la mia identità.
— Allora a me non resta che rivolgere alla signoria vostra le più sincere congratulazioni — disse il pretore.
— Dichiaro dunque, fino d'ora, che per parte mia ritengo come non avvenuta la lettura del testamento. Ma giacchè mi trovo presente, permettano questi signori, che io prenda cognizione dello stato delle cose. La lettura di questo codicillo, mi fa avvisato, che il mio primo erede non si presentò.
— Infatti non fu trovato — disse il Millo.
— L'erede sostituito, Nataniele Rota, non poteva essere presente, perchè non s'immaginava d’esser sostituito a mio figlio. Ora però compiacetevi di presentarmi i debitori della Banca dell'Onore, che io ho premiati nel mio testamento. Sono parecchi?
— Ohimè! — sclamò Osvaldo Millo — sopra quarantasei, non furono che quattro soli.
— Quattro! Oh moralità del nostro paese! — sclamò il principe — Ebbene, ch'io conosca almeno questi eletti.
— Due si presentarono, e sono già partiti, il terzo non lo si vide ancora, il quarto non fu ancora chiamato.
— Sono io — disse il venditor di giornali presentandosi.
— Sta bene — disse il principe — lei avrà ugualmente il premio. Ora ditemi chi sono gli altri due che si presentarono1?
— Anch' essi avranno ugualmente il premio fissato nel testamento, giacchè non voglio che provino un dispiacere della mia salvezza. E chi è quello dei tre, che non si è presentato?
— Steno Marazzi, pittore — rispose il Millo.
A questo nome il principe balzò in piedi sclamando: Marazzi!
Sulla sua fronte, e nello sguardo passò una procella d'idee.
— Sì principe, nè più nè meno.
Il milionario tornò in calma. Nella lunga convivenza cogli Inglesi, aveva acquistata l'abitudine di mostrarsi in pubblico tanto più calmo, quanto più forte era l'emozione che provava.
Con tutto ciò il contrasto appariva sulla di lui fisonomia intelligente e mobilissima. Degli Inglesi possedeva la regola, non il temperamento.
— Dov'è, ch'io lo veda? — diss'egli, il più freddamente che gli fu possibile.
I lettori, a cui mi parrebbe fare un torto, misurando a spizzico la curiosità, come fanno gli autori di romanzi scritti colla ricetta, hanno capito già che il principe, nel cognome di Marazzi, che era quello della moglie del generale Kollestein, la nonna di Steno, sospettasse quella verità, che essi conoscono già da un pezzo. La signora Elisa Kollestein aveva assunto il cognome di sua madre.
Giacche una paternità ci aveva da essere — la storia vera essendo questa, e non altra! — io non ho voluto abusare del solito effetto del riconoscimento. Non è tanto alla fantasia quanto all'intelletto de' miei lettori, che io bramo parlare, e questa ne sia una prova.
D'altra parte quel nome, non poteva dare al principe che un lontano indizio e nulla più. Di Marazzi a Milano e altrove, ce ne sono moltissimi ricchi e poveri, nobili o plebei.
— Fu avvisato di comparire? — domandò egli al Millo.
— Certo, gli fu rimessa la lettera d'invito. Non c'è nessuno fra i presenti, che possa darne contezza? — domandò il principe di Bandjarra, girando sugli astanti il suo sguardo inquisitore.
Non ebbe risposta.
Se non che, scivolando coll'occhio sugli aspetti ancora attoniti di quei radunati, parve a lui di scorgere sulla fisonomia d'uno di essi, un certo guizzo, che interpretò a proprio vantaggio. Per la qual cosa, soggiunse:
— Dò cinquecento franchi, a chi mi sapesse indicare con certezza, dove si possa trovare questo Steno Marazzi.
Così dicendo, senza dargli sospetto, teneva d'occhio colui, che gli pareva dovesse saperlo.
Lo vide infatti fare un piccolo moto, come di chi abbia la ispirazione di rispondere, ma ritrarsi subito sotto un altro pensiero.
— Ne do mille — riprese il milionario — qui dinanzi a testimoni. Io non li tengo indosso, ma li garantisco. E se non basta, ecco il pegno.
Sì dicendo, si levò dal mignolo un anello in cui splendeva un brillante da cinquanta mila franchi,
Ma neppure i raggi che uscivano da quella gemma indussero alcuno a parlare.
Il principe stette un buon minuto ad aspettare la risposta, poi fece l'atto di chi, disperando di ottenerla, vi rinuncia, e pensò fra sè: m'ero ingannato!
Allora s'udì una voce nella sala.
— Io potrei dirlo, se la delicatezza non mi vietasse di far danno a questo signor Marazzi.
Il principe sorrise con una certa ironica amarezza.
Chi parlava, era appunto colui, ch'egli aveva fissato dianzi.
— Quale delicatezza? — domandò.
— Vostra signoria apprezzerà i miei scrupoli, quando saprà dove si trovi al presente il nominato Steno Marazzi.
— Io spero che dicendo il vero, lei, vorrà mantenere la sua promessa.
— Quale promessa?
L'interrogato, il quale non era altri che Bamboccia, rivolse gli occhi e l'indice verso la destra del principe su cui brillava l'anello.
— Quando sia riconosciuta la verità della sua rivelazione ella avrà i mille franchi promessi — rispose il principe.
— La verità è questa — disse Bamboccia tirando fuori di tasca un foglio stampato.
Era un giornale un poco sudicio sulle piegature, lo spiegò, e mostrandolo al principe disse: Ecco qua; legga!
«Cronaca giudiziaria. Un caso pietoso avvenne nel corridojo degli Uffici d'istruzione criminale del palazzo di Giustizia di X... La madre di un imputato, certo Steno Marazzi, accusato di falsificazioni di valori di credito privato, vedendo suo figlio passare fra le guardie, cadde al suolo priva di sensi. Quando il medico accorse, ella era cadavere. Egli constatò la rottura di un vaso del cuore. L'infelice figlio che veniva condotto all'esame se la vide morire dinanzi».
— Io sono pronto a giurare, che non è lui! — sclamò Osvaldo Millo,
Bamboccia aperse le braccia, piegando leggermente il collo, come a dire: è possibile anche questo.
Riprese il foglio dalle mani del principe, e se lo rimise in tasca.
Allora questi disse una parola ad Osvaldo, che gli rispose affermativamente.
— Domani io partirò per X...., col mio amico Millo, che mi accompagnerà. Intanto prego lei, signor notaio a stendere due righe condizionate, che io firmerò. Se lo Steno Marazzi, di cui parla quel giornale, è veramente colpevole, ed è quello che io cerco, lei, al mio ritorno avrà le mille lire.
Dopo di che Bamboccia ringraziò, e corse all'ufficio telegrafico.
Mandò a Nataniele Rota questo dispaccio in cifre: «L'uomo è vivo! Tutto è perduto. Io mi metto in salvo»