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— Voi sarete curiosi di conoscere come io mi sia salvato — disse il principe ad Osvaldo, ed a Mario quando furono soli.
— Potete imaginarlo!
— Io non credo che la mia avventura sia molto diversa da quella di tutti naufraghi, che riescono a salvamento. Certo, fu terribile. Al momento che voi Mario nuotavate verso l'isola, e che voi Millo lo stavate guardando, io mi cingevo intorno al corpo il mio scafandro, quando una terribile ondata, che strappò la sponda a cui stavano abbrancati i nostri compagni, mi portò netto in mare. Nel cadere io mandai un urlo disperato, ma nessuno deve averlo udito, giacchè il mugghio delle onde contro il legno arenato era diabolico. Fortunatamente, trovai una tavola, e, fra questa e lo scafandro, stetti a galla; e debbo a questi aiuti d'essere qui ancora. Avvolto nel buio profondo, mi sentivo portato lontano da voi dalla corrente, e dalle stratte dell'uragano. I marosi schiaffanti mi coprivano, mi travolgevano, mi levavano il respiro, e mi abbeveravano di amaro e di angoscia. In quel momento vi confesso, pensai a Gesù Cristo, che sotto gli insulti de' Giudei dovette bere la tazza di fiele. Ma il Dio uomo, se non altro, aveva i piedi sulla soda terra, e sperava che la preghiera al Padre avesse a togliergli dalle labbra l'amaro calice della passione. Io no! Ogni volta che mi sentivo sprofondare nella valle delle onde, sapevo di avere sotto di me l'abisso; ogni volta che mi sentivo portato in alto, sulla loro cresta, assaporavo maggiormente la disperata agonia. Tutta quell’acqua forsennata e mugghiante, che continuamente mi rotolava addosso, trasportandomi lontano, mi pareva la vendetta di Dio, che castigasse i miei peccati. Pure lottai sostenuto dalla tavola e dall'ordigno. Lasciarmi andare doveva essere l'ultima disperazione. Finchè la provvidenza mi conservava gli spiriti avevo il dovere di tenermi in vita. Io povero atomo di forza già quasi sfinito, avevo il coraggio di combattere contro l'infinito.
Per qualche tempo continuamente schiaffeggiato com'ero da quella continua demenza dei marosi, non vedendo intorno a me che buio e onde, gemetti e mi disperai e piansi e pregai; ma a un certo punto la calma mi prese. Ero agonizzante di debolezza e di disperazione; mi rassegnai a morire. Quand'ecco sentii un urto nella tavola a cui stavo abbracciato; uno spigolo di essa aveva battuto contro un corpo che mandò un rumor sordo, come di cosa vuota. Fosse una botte galleggiante? E nell'oscurità mi parve di veder un'ombra nera. Alzai un braccio, brancolai colla mano su quell'ombra, e mi abbrancai colla energia della disperazione. Era la sponda di un guscio. Certo una delle nostre lancie perdute. Voi potete imaginarvi, amici, a trovare quel soccorso non isperato, quale sia stato il mio ringraziamento alla divinità, che me l'aveva mandato. Hanno un bel dire gli increduli, che Iddio non possa starsene lassù a provvedere ai bisogni delle sue creature. Perchè? Che cosa ne sanno loro di preciso? Dov'è l'assurdo? Qual fatto vi ripugna? Se ha creato tutto il resto perchè non può aver provveduto anche a questo? Io vorrei che un Giacobino si fosse trovato nel mio caso, se non avrebbe pensato ad una grazia del Creatore. Quella lancia era vuota. Leggera e solida galleggiava con sicurezza. Io intanto era salvo. Nondimeno corsi rischio che le forze mi mancassero per scavalcare la sponda! Pur finalmente entrai e, mi distesi sul fondo a riposare e ad aspettare il mattino. Come vedete io non ero ancora sopra un letto di rose. Solo, in mezzo all'Oceano, senz'acqua dolce per calmare la sete, che cominciava a straziarmi, io vi lascio pensare; eppure, cessata l'agonia, in confronto di prima ero felice. Quelli che dicono che a questo mondo non c'è felicità ripetono una cosa insulsa: la felicità non risiede che nel confronto; nel momento che io mi sdraiai più morto che vivo sul fondo di quella lancia mi sentii felice, e m'addormentai. Quando mi svegliai era sorto il mattino. Mi alzai a guardar intorno. Più nulla. Le correnti e l'onda chissà quante miglia mi avevano fatto viaggiare nella notte. Non una vela in vista. Io ero là solo, in mezzo al grande Oceano, privo di ogni cosa tranne la fede e la rassegnazione. L'agonia ricominciava. Che fare? Nulla. Aspettare. La sete e la fame cominciavano a farsi rabbiose. Oh se debbo morire così, dicevo pregando, perchè buon Dio m'avete mandato questo prolungamento di spasimo?
All'alba del giorno seguente, mentre stavo inerte e moribondo aspettando l'ultimo minuto, una vela mi si mostrò all'orizzonte. La tempesta era cessata. Il legno veniva da ponente. Fui veduto e fui raccolto. Era un brik a vela olandese, che faceva rotta per Batavia. Ma ebbimo venti giorni di bonaccia lontani della terra. Prima di discendere io fui preso da una febbre tifoidea, che mi ridusse di nuovo in fin di vita. Stetti a letto più di due mesi fra la morte e la vita, senza avere coscienza del mio male, e cominciai a sapere di essere vivo ai primi di dicembre. La cintura che portavo sotto al farsetto, in cui si contenevano tre mila roupie, che ero stato li lì per gettar via, onde alleggerirmi in mare, fu quella che poi mi salvò nella fiera malattia. Appena potei connettere un'idea, pregai i miei ospiti cercassero di far sapere a Genova il mio salvamento. Legni a vapore che partissero per l'Europa non ce n'erano prima di otto giorni. In quel frattempo speravo di rimettermi in modo da poter partire io stesso. E così fu. Arrivai iersera a Genova e partii subito per Milano.