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CAPITOLO II
Il conte Osvaldo Millo di Firenze — famiglia già illustre ma decaduta, — era nè più nè meno di un modesto dirigente di tipografia: un magnifico stabilimento, che andava sotto una ragion sociale torinese.
Era un di quei rari giovani, a cui Natura ha fatto il brutto tiro di farli nascere, nel secolo decimonono, con tutti i sentimenti e con tutti gli istinti di un cristiano del primo secolo, e a cui la Fortuna ha fatto quell'altro, peggior ancora, di far provare la povertà, dopo d'averli lasciati ricchi fino a 18 anni!
Egli aveva ereditato da sua madre — discendente dagli Strozzi — insieme ad una bellezza straordinaria di persona, quella dote funesta, la quale non piace che alle donne molto fini, ma per la quale nel mondo volgare non c'è perdono, nè indulgenza, nè scusa; che è la causa di ogni più atroce delusione, e d'ogni più squisito tormento; che è continuamente frantesa e calunniata e che si chiama la delicatezza. Nello stesso modo che la panna è il fiore del latte, così la delicatezza è il fiore della bontà di cuore. Ma, al punto in cui siamo, in società, essa non riesce ad altro che a costituire una continua rinuncia de' propri diritti in favore del formidabile e feroce egoismo altrui. Disgraziato chi la possiede in città! Corra nei boschi! Starà meglio!
Comunque sia, Osvaldo, stoffa di apostolo e di martire, era forse il più delicato giovine che contasse Firenze, in quell'anno di grazia 1871. E, mentre dinanzi a un pericolo si sentiva leone, cogli amici e colle donne specialmente si trovava morbosamente timido.
Nè egli le conosceva le donne; che tranne sua madre, sua zia e sua sorella, egli, fino allora, non aveva mai trattato con femmina al mondo. E sì che queste le lasciavano dietro gli occhi, tanto egli era piacente! Per usare d'una frase fatta, egli era bello come un angelo di lassù in paradiso — e non già di quei bambagioni, che fanno la bella vita sulle nuvole soffici, intorno al trono del Padre Eterno; ma, dirò quasi, un angelo convalescente e reietto. A vederlo con quei capelli a profluvio, splendidi e quasi turchini per mille riflessi, e que' suoi occhi grandi e pieni di genio, era impossibile non restarne ammirati, e innamorati.
Egli aveva poi certe arie di testa e certi atteggiamenti di cui era inconscio, degni di un San Paolo! Era stato allevato da sua madre con una fede vivissima in Dio grande e misericordioso! A 18 anni, l'avea perduta, sua madre, e quello che aveva patito lui non lo si può assolutamente imaginare se non lo si ha provato!....
Oh santa madre mia! Che frase ineffabilmente cara, per un figlio che l'ha perduta! Madre mia! Come anch'io ti risaluto, dolce guida e conforto della mia adolescenza! Che tu sia benedetta, là dove, la mia fede, ribelle a crederti volata — dove dicono i preti! — pur vorrebbe rivederti felice in spirito ed in corpo. Tutte le fibre si scuotono per rammarico e per dolcezza al suono di quella soave frase: madre mia! Per rivederti un'ora, per risentir la tua mano appoggiata al mio braccio, come regalerei volontieri al nulla questa ormai spregiata esistenza. E come mi sembra che avrei reso ridenti e gloriosi gli anni della tua onorata vecchiezza!
L'idea, la speranza di rivedere un giorno sua madre nell'altra vita avevano consolidato, per così dire, — la è così! — il misticismo ortodosso nel cuore di Osvaldo. Un altro affetto avrebbe dunque potuto difficilmente aver presa in quell'anima tutta esaltata di amor divino e di amor filiale. Voluttà non gli aveva ancora susurrata all'orecchio la sua misteriosa e ardente parola! Egli era casto! Parola assai pericolosa in arte, ma, per lui, vera!
Povero Osvaldo! Egli era così rettamente, buono, da non sapere perfino che cosa fosse quello spirito dell'ironia e del motteggio — oggidì tanto in voga — col quale, spesso, per passar meno noiosamente la vita, si colgono al volo i difetti e le ridicolaggini del carattere altrui.
A ridere degli imbecilli e dei vanitosi egli non ci pigliava alcun gusto. Questo vezzo volterriano, che forma la delizia di molta gente arguta del nostro tempo, non lo tentava punto. Ciascuno ha il suo modo di sentire! A lui un calembour, se lo capiva, metteva i brividi, se no, non lo capiva, nè voleva capirlo; e quei brividi non erano di parata, tanto per riderne di più. Erano molto sinceri!
Tutto quel lusso della conversazione artistica e scapigliata, che fra amici si effonde in sottintesi, in finezza, in maldicenze, in furbeschi e in calembours, lui, invece di esilararlo lo facevano restar mortificato; erano come una lingua straniera, che si comprende all'ingrosso, ma che non si sa parlare.
Talvolta gli passavano pel capo delle strane idee, o, per meglio dire, andava soggetto a delle strane allucinazioni. Gli pareva di poter diventare un Giordano Bruno, un Savonarola, o anche un Francesco di Assisi; e sentiva ribollir nel sangue come una smania di azione e di predicazione, e gli pareva poter compire cose inaudite, e che, evangelizzando di pace e di amore, avrebbe redento di nuovo il mondo dalle odierne brutture!
Pur nondimeno non amava le rime canore. Pensava poeticamente, ma in prosa. Amava più i Promessi Sposi che l’Edmenegarda, e dei Promessi gli episodi di Fra Cristoforo e dell'Innominato.
Talvolta, quando gli affetti traboccavano, domandava un permesso al direttore, e correva a vagare fuori di porta, nei campi, invitando il creato a benedire la memoria di sua madre.
Si danno nel cuore di un giovine della sua età e della sua tempra certe rivelazioni di armonie, di cui i soli credenti possono avere la chiave.
Il conte suo padre, aristocratico venuto al meno, come ve n'ha tanti a Firenze, era un buon diavolo, ma nulla più. Gli aveva dato una educazione squisita; ma caduto in povertà gli aveva anche detto di pensare a procacciarsene. Oh non aveva boria, lui!
Un giorno Osvaldo, che aveva corretta in tipografia un'opera sulle missioni nelle Indie, uscì a chiedere a suo padre se per esser missionario fosse d'uopo far il prete.
— Ma che ti bolle? — gli aveva dato sulla voce il signor Gioachino — il migliore missionario del nostro tempo è quello che lavora e che fa il galantuomo.
Uscito dalla casa della salvata dall'Arno, egli corse alla propria, e montò due a due i gradini della scala. Prima di entrar in sala da pranzo volle mutarsi sottopanni, e, mentre si mutava, la sua mente faceva un lavorìo insolito, sconosciuto ancora, e dolcissimo. E i sensi ve lo aiutavano assai e gli suggerivano mille idee nuove e mirabilmente fiammeggianti!
Aveva dinanzi agli occhi l'imagine bella e pietosa della fanciulla svenuta, risentiva, per così dire, il contatto, e il palpito di quelle membra voluttuose, e il profumo di quelle carni giovanili e fiorenti, che aveva strette fra le sue braccia. E gli pareva di avere veduta, oltre sua madre, per la prima volta, una donna; delizioso mistero di cui il velo non era squarciato ancora a suoi occhi. Se non che sua madre non era una donna per lui: era ancora la mamma!
Che cosa provava dunque per la salvata?
Egli se la fece questa domanda. E ad essa risposero un gran desiderio di rivedere quella fanciulla, una grande pietà del suo caso, un miscuglio di molte impressioni, delle quali non poteva render conto preciso a sè stesso, ma che lo mettevano in un orgasmo nuovissimo. E si trovava tutto turbato, giacchè la indecisione dei propri sentimenti turba quanto il dubbio..
La fantesca entrò e gli disse:
— Signor Osvaldo, lo aspettano a tavola. Sono tutti seduti.
Il giovine indossò in fretta la giacca di casa e corse nella stanza dove si pranzava; si scusò, raccontò schiettamente l'accaduto, senza vanto e senza falsa modestia, e disse di non aver appetito!
Suo padre lo rimproverò aspramente d'aver arrischiata la vita per una pettegola sconosciuta. La zia gobba rincarì la dose. — A rischio di restarci! — Per essi l'eroismo non era mai stato altro, che una esagerazione della sciocchezza umana. Fu soltanto l'Adelina, sua sorella, che arrischiò questa osservazione:
— Però se fossi stata io la pettegola e che un giovine m'avesse salvata non direste così di lui, spero!
Il padre e la zia gobba tacquero.
L’Adelina scambiò con suo fratello uno sguardo ironico.
Il giorno dopo Osvaldo, tornato a casa dalla stamperia, trovò questa lettera:
«Scrivo queste righe per dirle che crederei di essere senza cuore a non comunicarle che, come le debbo la vita, così le debbo anche il perdono de' miei cari parenti e la pace del mio povero cuore. La ringrazio, colle lagrime agli occhi, e non credo essere troppo ardita se aggiungo che io e i miei parenti nutriamo un vivissimo desiderio di stringerle di nuovo la mano e l'aspettiamo stasera in casa, per ripeterle le nostre benedizioni. Spero che vorrà esaudire la sua riconoscentissima:
È facile imaginare quale scompiglio producesse questa lettera, pur così semplice, nel cuore di Osvaldo. Era la prima lettera di donna che ricevesse, dacchè aveva aperti gli occhi alla luce. Nè egli se l'aspettava. Tutto quel giorno egli aveva mulinato sul modo di poter rivedere la sua sconosciuta, ma aveva capito di non avere il coraggio di andarla a cercare. E pensava che forse ella non lo avrebbe neppure ravvisato, scontrandolo per la via.
Ebbro di una gioia nuovissima... pure a un tratto fu preso da una specie di rimorso e gli fu forza vincere il sospetto, che, dinanzi a quella nuova luce dell'anima sua, potesse impallidire l'amore per la memoria di sua madre. E corse a portarle molti fiori al cimitero.
Alla sera andò nella nota casetta e venne accolto con entusiasmo da tutti. Il baffone, che era il padre della Claudia, e la nonna lo baciarono come figlio. La fanciulla fu perfetta per modesta riconoscenza e per riguardosa tenerezza; talchè Osvaldo passò quella serata deliziosamente.
Egli non ebbe a notare, con un po' di disgusto, che una piccola scena fra la nonna e la ragazzina, la sorella minore della Claudia.
Prima di mandarla a letto la vecchia volle ripassarle la lezione. La ragazzina frequentava le Scuole Pie, dove naturalmente studiava la dottrina cristiana. La nonna teneva appunto in mano il librattolo, stampato dal cartolaio Formigli nel 1866, ad uso di quelle scuole, e scartabellando... andava chiedendo alla ragazzina di otto anni:
— Che cosa vuol dire: Iddio ha preso carne umana?
E la bimba, con quella voce falsa e cadenzata, che nei ragazzi non significa sempre il non capire quel che dicono, ma piuttosto un vezzo imparato a scuola, rispondeva:
— Vuol dire che ha preso un corpo e un'anima, come l'abbiamo noi.
La nonna fè cenno col capo che andava bene, e proseguì:
— Che cosa si chiede a Dio quando nel Pater si dice et non inducas in tentationem?
— Vuol dire — rispondeva la ragazzina — che ci dia la grazia di non essere tentati.
— Che cos'è la tentazione?
— La tentazione è... la tentazione è...
— Uno stimolo — suggerì la vecchia leggendo.
— La tentazione è uno stimolo al peccato, risvegliato dal demonio o dal mondo o dalla propria lussuria,
— Che cosa è la lussuria? — continuò la stolida vecchia.
Il padre non udiva, perchè parlava vivamente con Osvaldo, che invece prestava orecchio.
— La lussuria è un affetto disordinato ai piaceri carnali — rispose quella creaturina di otto anni.
Osvaldo avrebbe gridato volontieri: basta! ma la timidezza lo trattenne.
La nonna seguitò leggendo l'infame catechismo.
— Sì — rispondeva la Gigia, ripetendo parola per parola la lezione, che sta stampata in quell’incredibile testo di scuola. — Sì; ella fu sempre vergine, avanti il parto, nel parto, e dopo il parto.
E si diè a ridere crollando il capo.
— Che cosa proibisce il sesto comandamento?
— Ci proibisce di fornicare, cioè l'adulterio e con esso ogni sorta di disonestà.
Chi fosse tentato di non credermi apra quel sacro libriccino a pagina 18.
— Va bene, va bene — disse la vecchia chiudendolo — vedo che la sai; va pure a letto.
Osvaldo non osò chiedere alla Claudia la causa del tentato suicidio, nè gli altri gliene toccarono.
Solo il padre, con una vaga allusione al proprio carattere iracondo, gli lasciò supporre che fosse stato per effetto d'una potente intemerata per un fallo inconcludente.
Fra noi, che non ci dev'essere questo riguardo, vediamo invece che cosa fosse accaduto in quella casa, prima che la fanciulla fosse incontrata da Osvaldo, mentre correva a buttarsi nell'Arno!