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CAPITOLO VI.
A Milano — come in tutti i centri di una certa importanza — esistono due classi di signori — o per meglio dire di ricchi — le quali, sebbene vivano nello stesso ambiente, e abbiano, suppergiù, le stesse abitudini, pure non s'annasano volontieri.
Il lettore ha già capito, che voglio parlare dell'aristocrazia e de' nuovi ricchi.
L'aristocrazia milanese vanta dei meriti insigni... ed antichi, fin troppo. Essa si considera come la rappresentante e la depositaria delle vecchie virtù ambrosiane: non ha jattanze smisurate ed è convinta d'aver sempre fatto, più o meno, il proprio dovere.
Certo è che, mentre gli errori della nobiltà francese nel secolo scorso suscitarono il 93, e mentre in Francia la corruzione di quella imperialista diede una spinta alla Comune, e mentre in Germania lo spirito feudale è tuttora ostacolo allo sviluppo delle istituzioni liberali, da noi in passato non s'avverò mai nulla di consimile. Forse comincia ora! Nessuna troppo dolorosa rimembranza la nobiltà milanese può destare nel popolo, il quale, a tutte le generose aspirazioni, vide da secoli associati i nomi de' migliori patrizi, e sa non esserci istituto di beneficenza, che non faccia fede della operosa carità di questa casta.
L'altra classe è composta, anch'essa, come tutte, di onesti e di bricconi, di schietti e di ipocriti, di liberali e di nèri; però a Milano vanta molte stimabili individualità, che portano il cappello fuori degli occhi e possono dire con orgoglio: se diventai ricco, se diventai conte lo debbo a me stesso e me lo sono meritato!
Ma fra costoro ve n'ha poi di quelli che darebbero, ancora oggi, un occhio del capo, se potessero cancellare dalla memoria dei Milanesi gli anni che passarono dal 48 al 66. Questi signori costituiscono un curioso ed interessante demimonde politico, finanziario. I francesi hanno i loro Ganaches, i loro Rougon, i loro legittimisti del sobborgo San Germano. Noi abbiamo i nuovi ricchi italianissimi dall'altroieri.
Darne una fisiologia complessiva sarebbe cosa impossibile. Codesto demimonde maschile è troppo mutabile, moltiforme, vario, guizzante. Ciascuno ha una propria fisonomia, una propria clientela, un proprio partito politico. I tratti, le ombre, le sfumature, i lumi, i riflessi del quadro oltrepassano i limiti d'una sia pur ricca tavolozza. Un discendente del valoroso vincitore dell'Armagnacco, un pronipote di San Carlo, o di colui che chiamò il popolo alla repubblica ambrosiana, o del famoso Giangiacomo amico di Francia, è tratteggiato in due colpi; vedeteli! son tutti suppergiù gli stessi nasi! E, schizzato uno, sono schizzati tutti! Ma i nuovi ricchi, sórti dal nulla, e già austriacanti, gli è un altro pajo di maniche! Essi per fisonomia, per indole, per tratti, per educazione, per tradizioni, per abitudini, per convenienze, riescirono assai differenti fra loro; non hanno una caratteristica, non hanno un tipo comune ed uniforme.
Il barone Leopoldo Valli... fratello del sergente Michele, e zio di Claudia Valli, vedova di Bettino Delmonte, l'ucciso in duello dal conte Osvaldo Millo, da povero operajo ch'egli era a dodici anni, aveva saputo guadagnar molti denari a Vienna, e aveva poi favorito con animo così deliberato i progetti dell'arciduca Massimiliano, come corriere di gabinetto, che l'imperatore Francesco Giuseppe lo aveva creato barone dell'impero. La sua nuova arma gentilizia portava tre stelle in campo d'oro. Egli si firmava Valli di Trestelle.
Nessuno, alla sua maniera, più galantuomo di lui; soltanto che, come Italiano, aveva avuto la disgrazia di ingannarsi in quel deplorabile modo. E oggi lo sbaglio non gli è perdonato ancora del tutto dai progressisti milanesi, i quali non vollero mai saperne di pigliarlo sul serio come candidato alla deputazione.
Forse, a giudicarlo con una giustizia molto superiore alle passioni politiche, lui dovrebbe essere finalmente assolto; giacchè, in coscienza, facendo il proprio vantaggio, egli aveva creduto di fare il vantaggio del regno lombardo-veneto. Questione di miopia! E aveva per complice un Cesare Cantù! Lo dice sempre! Come avrebbe potuto imaginarsi che un Cesare s'ingannasse così, e che un altro Cesare volesse poi fare quel colpo di testa del 59, in favore d'Italia? E Sadowa, chi l'avrebbe sognata? E il fallimento di Vienna su tutta la linea? Santo cielo! Egli alzava le spalle a chi gli parlava della Prussia potente in armi! L'Austria, secondo lui, non poteva essere battuta da nessuno. La sua vecchia Austria! Diniguardi!
Ora qualche volta si lascia vedere nell'ufficio d'un giornale democratico molto diffuso.
Pochi dì fa raccontava appunto a Cesare Cantù, che, a Vienna, Beckerath, in gran segreto, gli aveva detto d'essere stato una notte intera a persuadere il re di Prussia ad assumere la corona imperiale, e che Guglielmo gli aveva risposto: Se in me ci fosse lo spirito di Federico il Grande io mi risolverei. Ma in me non esiste lo spirito di Federico il Grande!
— Eh già, sicuro! — aveva risposto Cesare Cantù, col suo famoso sguardo d'aquila ferita.
L'aspetto del barone Leopoldo di Trestelle è quello di un uomo ardito, leale e destro. Oggi a lui non resta più nulla di austriaco. Che dico? È diventato un italiano per la pelle. Nel suo fare, però, un osservatore arguto potrebbe scoprire ancora un non so che di incerto, di nervoso, di inquieto; il che se non è l'effetto d'una piccola malattia, non può essere che il segnale d'un grave imbarazzo di coscienza. Ed è infatti così! Nessuno si preoccupa tanto del suo passato, quanto lui. Ci pensa ancora tutto il santo giorno e ne sogna la notte; gli pare che tutti glielo rinfaccino; gli pare che tutti, parlandogli, vi alludano continuamente, e ne soffre di cuore.
Lui, che potrebbe godersi il papato, co' suoi settantamila franchi all'anno da spendere, va a cercarsi quel rammarico col lumicino.
La sua amabilità è fino un poco soverchia, le sue liberalità inesauribili; non c'è stata sottoscrizione patriottica o di beneficenza, dal 1871 in poi — epoca in cui venne a Milano — a cui non abbia largamente contribuito.
Che pranzi in casa sua! Per conciliarsi i consorti e i progressisti, s'è raccomandato anche ad un famoso discendente di Vatel. Egli sa che un buon cuoco vale talvolta più di un comitato elettorale, quando si tratta di bene pubblico e di concordia nei partiti.
Un giorno d'estate dello scorso anno 1875, dopo aver salutato caramente il cassiere della sua banca — era un sabato — egli aveva lasciato Milano, per andar a godere l'aria aperta presso la sua famigliola, che già da quindici giorni villeggiava nel così detto castello su quello di U...
La famiglia del barone Leopoldo di Trestelle era composta dalla baronessa, una buona viennese bionda e cicciosa, e dalla nipote Claudia, da essi adottata nel 1873, poco dopo che era stata abbandonata da Osvaldo, e sposata al letto di morte dal suo seduttore Bettino Delmonte.
La Nina invece aveva finito col maritarsi al signor Gasparino, che l'aveva seguita a Milano e mercè la dote dello zio, viveva agiata in casa propria, punto invidiosa della sorte di sua sorella.
Alla bellissima vedova la zia baronessa preparava più splendido partito, quantunque essa avesse risposto parecchie volte, che non aveva fretta.
Non vi dico che cosa facessero in quel punto le nuvole in cielo, nè come splendesse il sole all'orizzonte. Certo non pioveva, e la famiglia del barone se ne stava raccolta sul terrazzo della villa, aspettando l'amico caffè.
Da quel lieto belvedere si godeva tutt’all'intorno la vista di uno dei più incantevoli tratti del territorio di U... che è assai più decantato di quello che non sia conosciuto. La villa del barone sorge su un colle, dal dolce pendìo, le cui falde, digradando a scaglioni ed a poggetti, finiscono alla pianura.
Dal lato opposto, dove la collina è più erta, passa una strada maestra, dalla quale si spicca il viale, che, a larghe giravolte, conduce su al castello.
Il quale, quantunque di castello non avesse il benchè minimo merlo, così, e non altrimenti, è chiamato dai contadini a dieci leghe all’ingiro.
Il viale al basso è chiuso da un magnifico cancello rosso, che porta in cima a un battente lo stemma baronale, in cui il cognome della famiglia appare così chiaro, che lo potrebbe leggere anche un analfabeta.
Sul terrazzo, erano usciti allora allora, dalla sala da pranzo la famiglia e gli ospiti, bene desinati. Erano sei persone e due cani; la Miss e Cenisio.
La Miss era l'idolo della baronessa. Non appariva essere proprio come la Lilla del Porta, ma giù di lì. Cenisio della razza del Sanbernardo, nobilissima razza, amica dell'uomo, prediligeva il barone. Se ne stava accosciato ai piedi della poltrona di lui, e co' suoi occhi languidi e un po' cisposi, seguiva i movimenti della sua mano, che in quel punto, per non saper che fare di meglio, palleggiava i bréloques appesi alla catena dell'orologio.
La buona baronessa s'era sdrajata lunga e distesa in una sedia in bilico, e dondolava mollemente.
Gli altri erano il curato e il sindaco del paese — un sindaco grande contradditore — un ex consigliere di governo — tipo prezioso di ingenua sufficienza, tutto godibile fino alle cimosse — e due visitatori, venuti poco prima alla villa da uno Stabilimento idropatico, che distava mezz'ora, nei dintorni. Erano il marchese Cacciaterra e Ugo Stacchi sopranominato dalla Claudia l’imbecille.
L'ex consigliere, chi vuol conoscerlo vada la domenica ad una messa in Sant'Ambrogio.
Egli non ci crede alla messa... e lo dice; ma ci va perchè è di buon genere, e per condurvi le figliole.
A prima vista si resta offesi dall'aria di sufficienza che spira da tutta la sua persona. A sentirlo parlare, poi, c'è da non credere alle proprie orecchie. Lui, in tutto quanto di più mirabile s'è fatto in Europa, dal 47 in poi, ci ha messo lo zampino. Lui conosce e dà del tu a tutti i monarchi, a tutti i diplomatici, e a tutti i grandi uomini dell'orbe terracqueo! L'imperatore dei Francesi non era già Napoleone III per lui. Ohibò! Era il suo Gigi! Pur troppo ei gli aveva scritto, ogni settimana, dandogli fior di consigli... che se li avesse ascoltati!... Basta! E Cavour? Figurarsi! Come pane e cacio! Anzi, a sentirlo lui, Cavour era stato il pane, e lui il cacio! Lord Palmerston? L'aveva nel taschino! Il Sultano? Non se ne parla.
Nessuno però aveva voluto dargli ascolto, pel suo meglio, come lui avrebbe tanto desiderato.
— Fra tutti — diceva qualche volta — non c'è stato che quel buon diavolo d'un Guglielmo che m'abbia veramente, esaudito... col farsi... imperatore di Germania! Povero Guglielmaccio! Gran brava persona! Gli voglio un bene all'anima.
Ma, lasciando l'arte del governare i popoli, che dire dell'influenza esercitata da lui sul maestro Wagner? Wagner non avrebbe pensato mai a riformare la melopea, nè a costruire il teatro di Beyruth, se non glielo avesse suggerito lui.
La baronessa — un ex lavandaja di Vienna — non aveva nè lo spirito, nè la coltura bastante per capire in tutta la sua sterminata buaggine questa specie di monomaniaco!
Ma la Claudia ne faceva scempj!
Povero signor Filandro! Egli c'è riuscito finalmente, poco tempo fa, ad essere cavaliere d'un'ordine... La fu una delle ultime nomine del ministero caduto.
Egli ha il coraggio civile da un lato di portarne all'occhiello il nastro e la debolezza dall'altro lato di dargli ogni dieci minuti una tenera occhiatina.
La Claudia lo chiama il consigliere Narciso all'occhiello.
La baronessa era la personificazione della volgare bontà viennese.
Prima di sposar il barone era stata la sua lavandaia di panni di colore nelle acque del Danubio. A sentirla parlare l'italiano era un piccolo divertimento!
La Claudia la conosciamo già; aveva ormai 21 anni, ed era nel pieno rigoglio d'una splendida bellezza vedovile!
La prima volta che sua zia l'aveva condotta al ballo del Casino de' Negozianti, ella aveva prodotto nella folla uno di quei piccoli tumulti che non lasciano luogo a dubitare del successo. Vissuta a Firenze la Claudia era pressochè sconosciuta a quel ballo. La baronessa aveva saputo, per caso, farla abbigliare così squisitamente, ed ella vi si era prestata con tanta grazia, che a primo incontro aveva ottenuta la palma su tutte.
Il barone ne giubilava. Egli pensava che mercè questa splendida influenza, la propria riabilitazione sarebbe accaduta in poco tempo. Per dirla con una idea, forse un po' cruda, ma vera, la Claudia doveva essere in casa sua... un incantevole richiamo di uomini politici e di elettori influenti.
Il curato intanto stava cercando nella vuota zucca, un soggetto di conversazione.
E lo trovò!
L'annuncio della venuta a Milano dell'imperatore Guglielmo di Prussia.
Intanto che Guglielmo fa le spese del dialogo fra il curato, il barone e l'ex consigliere, il signor Stacchi s'avvicinò alla Claudia, che stava appoggiata alla spalliera della poltrona della baronessa e si mise a guardarla vezzosamente.
I di lei occhioni neri e ombreggiati da palpebre lunghe giravano lentamente sull'orizzonte, come se andassero in traccia di un'idea, d'un imagine, d'una rimembranza.
— Signora Claudia, a che cosa pensa? — le domandò il patito.
La bella staccò gli occhi dall'orizzonte, come trasognata; li fissò in quelli di Stacchi e rispose.
— Pensavo all'Alpe del Romitorio.
— L'avrei scommesso! — sclamò Stacchi ridendo!
Claudia gli diede il braccio e s'allontanò con lui dal gruppo dei seduti a discorrere.
— Giacchè ora siamo soli — cominciò Stacchi, — la mi permetta di dirle quello che da tanto tempo, va bene?... non ho il vantaggio di esprimerle.
— Cioè?
— Che io alle acque, mi sono persuaso sempre più, che il mio amore per lei invece di dar giù sotto le doccie, ha avuto un gran rialzo nel listino del mio cuore.
— Ma, caro Stacchi — rispose Claudia — la avverto che adesso lei fa una terribile confusione fra l'amore e la rendita, fra il cuore e la Borsa!
— È un modo di esprimersi! — sclamò Stacchi.
— Io invece non le risponderò un bel nulla su tal proposito, anzi le proibirò di parlarmene ancora, se prima non mi avrà detto quel tal segreto che sa sul signor Steno Marazzi.
— Oh Dio mio! Non è un segreto: è una cosa semplicissima. Egli non può soffrire il marchese Cacciaterra, il suo assiduo spasimante, e perciò non vuole aver contatto nè con lui nè con lei, che è per così dire la di lui sposa en titre.
— Io sposa del marchese Cacciaterra? Che le frulla?
— Se ne parla da tutti!
— È una calunnia, io non sposerò mai un uomo di cinquantasette anni che non amo, per diventare marchesa!
— Questo sentimento la onora! Il fatto è che loro due si odiano a morte.
— Lo so! Ma sarà dunque un vero odio da medio evo codesto? Non si usa più adesso!
— Siete un imbecille! Continuate.
— E dalli!... Io non avrei più nulla da dire su di lui. La mi permetta che invece io ripigli a parlarle di me, come avevo incominciato?
— Ah sì è vero! Parlatemi di voi. V'ascolto volontieri.
— Le dicevo dunque, signora Claudia — ripigliò Stacchi colla più imperturbabile delle filosofie — che se lei potesse immaginare qual'è l'incendio che ha acceso nel mio....
— Vedremo però — lo interruppe Claudia — come si porterà dopo che il suo mortale nemico sarà partito anche dallo Stabilimento.
— Si porterà chi?
— Che imbecille! Ma il vostro amico Marazzi!
— Ah! l'avverto, signora, che è già la seconda volta, in due minuti, va bene?... che la mi dà dell'imbecille!
— Ma non capite mai nulla!
— Siccome lei mi aveva permesso di parlarle di me.
— Dunque le dicevo, che se lei mi amasse, va bene? soltanto la millesima parte di quello che io amo lei, le mie azioni amorose monterebbero alla pari.
— Lo sa il signor Marazzi che il marchese partirà a giorni per Milano?
— Ancora lui?
— Sì, sì, ancora lui!
Stacchi questa volta lasciò il braccio di Claudia, e fece una gira volta sui talloni. Poi riprese:
— Ebbene, quando la vuol proprio saperla, mi disse che anche lei, dopo che l'ha veduta al braccio del marchese, va bene? gli è divenuta cordialmente antipatica, e che le vedove come lei si amano sì, ma non si sposano!
— Ha detto questo?
— Glie lo giuro.
— Badate bene, Stacchi, che la cosa potrebbe diventar seria.
— Lo sostengo. Accada ciò che vuole. Infine non sarebbe il mio primo duello!
— Antipatica o è troppo, o è troppo poco! Convenite con me, Stacchi, che io non posso essere antipatica, come, poniamo, la signora Trifoletti, che ha quattro o cinque escrescenze alla gola e che pur crede d'essere bella; oppure come la signora Martinoli, che si veste nel modo che sapete....! Dunque è segno o che io gli sono odiosa o che ha paura di me! Una delle due.
— Ah Claudia lei non mi parla che di Steno, mentre io, va bene? languo da un anno ai di lei piedi.
— Chi?
— Oh che genio! Ma il signor Marazzi!
— Ah, lei mi farà disperare in questo modo!
— Ma, caro il mio Stacchi, ormai credevo che foste persuaso di gettare assolutamente il vostro tempo a fare il galante con me. Per una vedova che si rispetta, e credete che io mi rispetto e molto, pensateci bene, non ci sono che due strade in amore. O una passione forte, prepotente, irresistibile, e allora, tal sia di lei; essa può far senza anche del matrimonio: e questo, dal mondo, più o meno, lo si scusa! Oppure un matrimonio ragionevole, freddo, calcolato, senza nessun bisogno di passione; e questo, dal mondo, più o meno, lo si usa! Con voi, capirete bene che io non potrei fare nè l'una cosa, nè l'altra. Sarete persuaso spero che io non vi amo.
— Ma perchè?
— Oh perchè! Perchè no. Tanto meno poi potrei sposarvi...
— Ma perchè?
— Perchè sarei infelice, perchè vi renderei infelice anche voi, perchè vi tradirei dopo quindici giorni, perchè infine io voglio sposare l'uomo che adorerò; non m'avete ancora capita?
— È vero, è vero! Lei ha ragione! Sono un pazzo! Anch'io come potrei sposare la donna, va bene? che mi dà dell'imbecille ad ogni quarto d'ora?
— Vi pare?... Però, voi, di questa donna pretendereste diventar l'amante?
— Ma che colpa ne ho io se l'amo?
— Bella ragione! Siete dunque arrivato alla vostra età senza sapere che non è già coll'amarla una donna che la si può conquistare, ma è forse col fare tutt'all'opposto?
— Ah sì? — sclamò Stacchi credendo sul serio di fare una trovata. — Allora aspettate.
Indietreggiò due passi e disse:
— Io vi odio!
— Pas plus malin que ça! — sclamò Claudia ridendo — Ditemi dunque piuttosto, è veramente povero questo signor Marazzi?
— Ho capito. Voi volete proprio, va bene? che io vi prometta domani al Romitorio di condurvelo dinanzi mani e piedi legati?
— Non vi dissimulo, che se ne foste capace mi fareste piacere; mi cavereste un puntiglio.
— E dopo non mi darete più dell'imbecille1?
— No, vi prometto di tenervi per un genio.
— Accettato!
A questo punto il marchese Cacciaterra venne a interrompere il colloquio intimo.