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CAPITOLO VIII.
Se passeggiate sul Corso, dalle cinque alle sei, chi sa che non vediate Steno Marazzi, uno dei giovani più simpatici di Milano.
Steno è laureato in non so quale diritto; ma è poeta ed è pittore.
Egli è l’amante en titre della Miette, allieva di canto del maestro Fortuzzi.
Quando qualcuno, sulla soglia dell' Hagy o del Rainoldi, vede passare la Miette, col suo paletò mascolino, il tôcco alla cacciatura, con una lieve penna di fagiano piantata nel nastro, un fascicolo di musica sotto il braccio e...certi piedini, che avrebbero fatto dire a Karr: non val la pena di averne per averli, tanto piccoli! — se domanda al vicino: — Chi è quella francesina tanto simpatica? — l'altro risponde:
— Non la conosci? È la Miette del Marazzi!
La Miette del Marazzi, a Milano, è una frase come a dire: la Ebe del Canova.
Ed ecco dove e in qual modo avevan fatta la relazione.
D' estate, quando dal fessolino delle imposte socchiuse, una striscia di sole entra nella camera buia, vi si vedono vagare per entro milioni di pulviscoli luminosi e bizzarri!
Ebbene il Marazzi era stato anche lui uno degli innumerevoli pulviscoli luminosi di quel magnifico e glorioso raggio di sole, che splendette nella storia del valore italiano nel 1870 e 1871.
Non vi narrerò fazioni di guerra! Ma, colla scorta del mio personaggio, amo di poter ricordare questa gloria della nostra Italia; gloria purissima, a cui tutti i partiti fanno plauso, tranne un solo: il nero.
1870 e 1871 sono per l'Italia i due anni più importanti della nostra epopea nazionale.
L'aiuto prestato ai fratelli di Francia e l'acquisto della città eterna costituiscono due fatti eccelsi, di cui siamo tutti immensamente superbi.
Di quei due anni si può dire ciò che Vittor Hugo, abusando dell'iperbole, ebbe a scrivere del 1830 e del 1831 francesi: «In mezzo a quelli che li precedettero e che li seguirono il 1830 e 1831 sono come due montagne che s' innalzano fra umili colline».
Steno Marazzi era stato fra i chiamati da Garibaldi. Già a Storo nella campagna del 66 — che aveva soli 18 anni — il generale lo aveva chiamato il suo gamin.
Quando nel 1870, Garibaldi fece sapere ai suoi fidi essere necessario dar una mano ai Francesi, non passò neppure per la testa, a Steno, che si potesse mancare all'appello. Era il meno strepitoso, ma il più magnanimo degli appelli.
Se non che per lui, artista e scapigliato, sarebbe stato facile il partire, se non avesse avuti dei debiti, e una madre! Quanto ai primi non ci pensava più che tanto. Ma la seconda? Egli rammentava il 66, quando gli era toccato di fuggire da una finestra, per poter andare ad arrolarsi.
Tra due madri che lo volevano con sè, egli aveva tradita la meno grande! Non è un'altra madre la patria?
Imaginate, dunque, ciò che provò la vera mamma, quando il suo unico amore, entrando una mattina del 1870 nella camera da letto, le disse tutto d'un fiato:
— Io ormai ho ventidue anni, i miei compagni partono, io non sposso restare, giacchè sarei come disonorato, e tu non lo vorresti; ti avverto che vado in Francia.
Egli aveva messe fuori tutte queste parole, senza interruzione, perchè prevedeva le lagrime ed il rifiuto. La signora Elisa si piccava di tutt'altro che di spartanesimo e di magnanimità; ella non sapeva far altro che voler bene a suo figlio; questo amore riassumeva la sua vita intera; tutto in lei parlava, vibrava, rispondeva a seconda di questo sentimento: il resto le era perfettamente indifferente.
E così pur troppo sono molte madri lombarde. Ed ecco perchè tanto meritamente si esalta la Cairoli.
— Ma pensa, madre mia, che cosa si direbbe di me, sapendo che il generale mi chiama ?
— Si direbbe che non hai voluto farmi morire. Sai che io vivo di te. Vuoi tu che io muoia?
— No, mamma, non dir così. Se tutte avessero detto così, che cosa ne sarebbe stato del nostro paese?
— Io non so, nè m'importa saperlo. Io sono tua madre, io; non sono una donna politica. Io so che non posso lasciarti andare contro i Prussiani.
Steno non insisteva. Soffriva troppo di vederla soffrire. E poi sapeva che nè la ragione nè la logica non sarebbero valse. Come sono spuntati gli argomenti dell'amor di patria contro gli eroismi dell'amor materno!
Qualche poco dopo, era ritornato alla carica. Ci vollero quindici giorni a convincerla, non a persuaderla.
Una sera Steno potè finalmente gettarle le braccia al collo, e bevere le sante lagrime, che scorrevano sulle guancie dell'afflitta, a cui egli aveva strappato il consenso.
E in ottobre egli partiva per Dòle col maestro Fortuzzi, un vecchio garibaldino.
Intanto che si aspettavano i Prussiani, Steno studiava quelle belle montagne.
Un giorno, mentre si parlava dell'armistizio, che Thiers era andato a proporre a Bismarck, Steno e il maestro Fortuzzi erano partiti a cavallo dal quartier generale, felici di errare alla ventura per que' sentieri sconosciuti, ed erano giunti dinanzi a un amore di paesaggio, che avrebbe entusiasmato anche un cretino!
In generale i Vosgi non sono molto pittoreschi; ma, qua e là, la natura alpina non ismentisce la selvaggia maestà.
Respiravano largamente quell'aria balsamica, discorrendo delle cose loro e lasciando che i cavalli cercassero la loro strada fra i sassi, finchè, venuto loro il pensiero di retrocedere, capirono di aver perduta la via.
Errarono qualche tempo, tentando di orientarsi, e giunsero dove alcune capre pascolanti, alzarono sorprese la testa cornuta al loro mostrarsi. E udirono poco lungi una voce fresca di fanciulla, che cantava a piena gola una canzone provenzale con un timbro e un intonazione mirabili.
— Corpo di Faccio! Senti che voce! — sclamò il maestro arrestando il cavallo.
— Vediamola! — sclamò Steno il viveur, spingendo il suo.
A sentire lo scalpito dietro lo spalla la guardiana di capre si alzò in piedi, fissando i due garibaldini, con quella ingenua arditezza, che è tanto naturale nelle montanare del mezzodì francese.
— Ah! vous m'avez fait une belle peur, messieurs — diss’ella ravviandosi colle due mani i capelli sulla fronte.
Poteva avere un sedici anni; i piedini scalzi, le chiome al vento, gli occhi sgranati e vivacissimi.
— Come avete nome, bella ragazza? — le domandò Steno.
— È un nome provenzale.
— Appunto.
— Siete di Dòle?
— Appunto.
— Vorreste voi farmi sentir ancora la vostra voce? — le domandò Fortuzzi il maestro.
— Perchè fare?
— Perchè è bella e potrebbe essere la vostra fortuna.
— Vero ?
Miette si rimise a cantare la sua canzone colla più bella disinvoltura del mondo.
— Corpo di Faccio! — ripetè il maestro a Steno — quest'è una trovata preziosa! In quella gota ci sono dei milioni a saperla coltivare.
— Come avete detto che vi chiamate?
— Miette.
— Dite un poco, Miette, avete voi un babbo, una mamma?
— Ho mio padre.
— Vorreste voi imparare il canto?
— A che scopo?
— E poi?
— E poi diventar famosa e guadagnare dei quattrini sul teatro.
— Vero? — domandò ridendo la capraia.
— Verissimo!
— Io sì, ben volentieri! Ma bisognerà parlare con mio padre, perchè è lui che può darmi il permesso di far questo.
— Parleremo anche a vostro padre — rispose il maestro. — Ma verreste voi in Italia volontieri, finita la guerra?
— Io sì che ci verrei! — sclamò la fanciulla già tutta felice per quell'idea. — M'hanno detto che l'Italia è tanto bella! E che non ci fa tanto freddo, come qui da noi.
— Ebbene! Volete voi condurci sulla strada per scendere al villaggio?
— Siete forse perduti?
— Sicuro!
Miette diede in un nuovo scoppio di riso adorabile. Non era una bellezza, ma faceva vedere dei dentini così bianchi, che tiravano i baci da lontano un miglio.
Steno non rifiniva di ammirarla.
Egli aveva allora 22 anni, ed era artista e garibaldino.
— Tu le insegnerai il canto — disse egli sottovoce al Fortuzzi — ed io le insegnerò a far l'amore in italiano.
— Se voi non sapete la strada, è difficile che la troviate da soli — disse Miette. — Bisognerà che io vi conduca giù almeno fino al bivio.
Steno le offrì uno scudo pel suo disturbo. Essa lo rifiutò con molta naturalezza e si mosse dinanzi a loro, con un passo degno di una contessa.
Le grazie native di questa creatura avevano un tal quale miscuglio bizzarro di selvatichezza e di fierezza, che i due amici ne restavano ammirati!
La storia della seduzione della povera Miette non ha nulla di particolare. Essa assomiglia, pur troppo, a tutte le seduzioni di fanciulle inesperte e ignare delle cause e degli effetti del così detto amore.
Steno si sarebbe guardato bene di non far tutto il possibile per far cader nei suoi lacci quella fresca e simpatica ragazza, e non poteva immaginare allora che ne sarebbe uscito fuori un dramma molto sentimentale. La poverina, dal canto suo, si diede ad amare il giovine garibaldino con tutto l'entusiasmo de' suoi sedici anni e senza pensare più in là del suo grande affetto.
Il padre di Miette rifiutò al maestro di musica il permesso di lasciarla partire con lui, terminata la guerra.
Non ci furono nè promesse, nè pronostici. Voleva una caparra e il maestro non aveva danaro.
Sbalestrati, lui e Steno, per quelle montagne dagli eventi delle battaglie e dalla strategia di Garibaldi, avevano già dimenticata la povera sedotta, quando, conchiusa la pace, se l'erano trovata un bel giorno a Macon, dove si stava sciogliendo l'esercito dei Vosgj.
Il maestro le domandò se suo padre le avesse dato il permesso di seguirli.
— No — rispose Miette — io gli sono fuggita, per non morir di dolore, se avessi dovuto stare lontana da Steno.
— E che cosa conti di fare?
— Venir in Italia a studiare il canto, per vivere con lui!
— È un affar serio, cara Miette — rispose il maestro. — Tu non hai ancora 17 anni, non è vero?
— Io potrei essere accusato d’aver rapita una minorenne, se non ottengo il permesso da tuo padre.
— Capisco! — gemeva la povera fanciulla — Ma io seguo il mio Steno. Egli non può lasciarmi... io sono sua.
Il fatto è che, permesso o non permesso, la Miette seguì i reduci fino a Milano.
Il maestro, ad ogni buon conto, mandò al padre di lei un contratto in tutta regola, col quale si obbligava a istruire sua figlia gratuitamente nel canto, per sei anni, promettendogli il venti per cento sui profitti, che le scritture fossero per procacciargli in seguito.
Non ne seppe più nulla.
Mietta stava accasata col maestro e colla Dorotea.
Dotata in buon grado di sentimento artistico e di una stupenda voce di soprano sarebbe riuscita splendidamente, se la passione per Steno e la iraconda gelosia della Dorotea non avessero in parte stroncate fin dal principio le speranze dorate del maestro.
Così erano passati i cinque anni; ed essa si preparava a debuttare, quando le doveva accadere la più terribile sciagura, che possa capitare ad anima innamorata.