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CAPITOLO II
Se amor vi prese delle belle storie, leggete quella di Carlo Dossi, intitolata la Colonia Felice, e farete conoscenza con questa coppia, i cui sponsali diedero appunto nome a quell'isola di deportazione.
La Colonia Felice originariamente, infatti, prima di diventar felice, era stata, per venti anni, la colonia del delitto del dolore e del rimorso.
Una turba di galeotti maschi e femmine, per la massima parte Corsi d'origine, ai quali la pena di morte era stata mutata in perpetuo esilio in mezzo alle solitudini dell'Oceano, era stata sbarcata su una di queste isole nel 1852.
Tutta gente scapestrata nel senso etimologico della parola!
Originariamente non erano stati più di quaranta, fra uomini e donne; ma in più di vent'anni di convivenza e di matrimonii i coloni erano cresciuti a un centinaio. La generazione nuova, la generazione giovinetta ed innocente, forse anche inconsapevole dei delitti dei padri, o perchè anche questi fossero ridiventati onesti, aveva fatto sì che quell'isola, dianzi maledetta, potesse venir chiamata la Colonia Felice.
La primogenita di questa generazione innocente, era stata appunto la Forestina, figlia di Gualdo e della Nera, lui beccaio assassino, lei infanticida e avvelenatrice.
Il sole aveva dato il colore alle chiome della fanciulla e il cielo alle sue pupille.
Forestina era nata nel 1856. Aveva dunque 20 anni nel 1876, al momento che la troviamo sul transatlantico.
Mario invece apparteneva alla torva schiera dei primi deportati. Egli era stato condannato per fratricidio. Di nascita era Corso.
Aveva commesso il delitto a Roma nel 1850 dove giovinetto era stato condotto da suo padre in coda all'esercito di occupazione francese. Questi aveva sposata una romana.
A quel epoca Mario il fratricida non era che diciassettenne; fra lui e Forestina correva dunque la distanza di ventitre anni.
«Un poco in là dei tre lustri — scrive il Dossi — i parenti di Forestina avevano veduto che la di lei tonda gota si affilava. Forestina che, quando rideva, rideva tutta e se piangeva tutta piangeva, ora sorride o canta col singhiozzo nel cuore.
Un giorno, memorabile giorno per essi, il Mario gelosissimo le confessò il suo delitto.
— Ah! Se tu sapessi chi sono!...
— Quello che io amo! — sclamò la fanciulla riavviticchiandosi a lui.
— Non toccarmi — rispose egli con ansia — l'ira di Dio è contagio!
— Dio non è che perdono, — sorrise la giovinetta — Vedilo fitto in croce, con le braccia aperte.
— Ma inchiodate — ribattè Mario sconsolatamente — Vi hanno colpe per cui non nacque ancora il perdono; dietro di me cadde il ponte; irrevocato è il passato; odiami.
— Neppur potrei volendolo.
Mario esitò, commosso a tanta fiducia, poi:
— Oh Forestina — seguì egli mestissimo — i morti vanno obliati; schiusa è per sempre la tragicomedia della mia vita; io non sono più mio; sono del rimorso, spasimo muto, insaziabile fame. Perchè tu devi sapere, e meglio sarebbe che la tua vergine mente potesse ignorare, devi sapere che in un ben altro paese, lontano, lontano di qui, in altri tempi lontani, lontani da questi, anch'io aveva un padre, al quale non si sarebbe potuto rimproverare che la troppa clemenza, e che per me avrebbe dato tutto il suo sangue, se la metà non ne fosse spettata a un secondo figlio; ed ei faticava per noi, e si struggeva e pregava. Io intanto, giuoco di una petulante salute, e di un riottosissimo ingegno, gozzovigliavo, impaludato nei vizii, per le taverne e pei chiassi, tra falsi liquori attizzanti a più false passioni, tra pestiferi baci, fra gente, la quale, fuorchè onesta, era tutto.... E mi potresti tu amare?
— Il signore ti perdonerà, che non portasti la taverna nel tempio — proferì la fanciulla in accento di fede.
— Ma nelle taverne, — ei riprese — sì dileguava il paterno risparmio. E tuttavia colui che a me dava una facile gioventù, e al quale io, in compenso, apparecchiavo una vecchiaia di stenti, trovò scuse al mio fallo, ed il babbo pagò di nascosto del padre; ma inutilmente pagò; diminuisce il pudore aumentando il delitto; io più non chiesi, esigetti; non più esigetti.... gli tolsi.... Mi ameresti tu ancora?
Trasalì la fanciulla; pure disse:
— Tuo babbo in cuor suo ti avrà scusato, che non togliesti ad altri.
— Ma venne una notte in cui a me bagordante fu sussurrato di un padre e di un'agonia. Balzai. Come in sogno corsi alla casa, implorai di vederlo; era la prima volta dopo tanti anni che comparissi da lui per chiedere solo di lui. Ma sulla porta, ecco mio fratello, che mi contende l'entrata, e mi dice: Fuggi, sei maledetto.
E qui Mario chinò turbatissimo il capo.
— La maledizione di un padre — disse Forestina — non arrivò mai al Signore.
— Ma io, — fece disperato il suo amante. — Copriti il volto, o fanciulla, io ho ucciso il fratello.
Forestina esalò un gemito lungo.
— Vedi, disse Mario amaramente.
Il giovane saltò all'aperto, su un masso che sovrastava al pendio, e tosto un rintruono; due o tre palle fischiando schiacciaronsi contro alle rupi.
Amore, diè un acutissimo strido. Rifatta anima è la pietra, e già Forestina precipitasi verso Mario, e lo ha circonfuso di lei gridando:
— Uccidetemi seco, io, l'inseguitrice.»
Da quel giorno furono sposi, e quando, cessato il rimorso, avrebbero potuto vivere felici nella loro Colonia, fu la nervosa curiosità di Forestina, quella che spinse suo marito a far ritorno in Europa.
S'imbarcarono su un brick contrabbandiere inglese, che li portò a Madras, e di là sul transatlantico salparono per l'Italia.