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CAPITOLO III.
Tomaso Bussi principe di Bandjarra.
Uno strano personaggio, in piedi, sul castello di prora, abbrancato ad una sartia, stava, collo sguardo fissato sul tramonto; ma si capiva che non lo osservava. I suoi occhi guardavano, ma non vedevano; erano rivolti al di dentro. Essi avevano dei bagliori significativi, come quelli d'un fakiro che prega!
Pochi momenti prima un rifolo di libeccio gli aveva portato in mare il cappello, ed egli o non se n'era accorto, o non se n'era dato per inteso! Di quando, in quando gli sbuffi del vento, che rinfrescava, gli turbinavano nei capelli grigi, tirandoglieli sugli occhi, senza che a lui venisse in mente di dar loro, colla mano, una ravviata.
Di quando, in quando un'ondata schiaffante la sponda del fuggente legno, mandava sulla tolda la sua schiuma fulgida e crepitante, che lo sguazzava da capo ai piedi. Egli crollava leggermente il corpo, scuoteva le braccia e pareva goderne.
— Sì! — fu udito sclamare a un tratto — Anche tu, santo padre, puoi star certo, che appena giunto in Italia verrò con tutte le mie forze in tuo soccorso. Io posso molto, ormai! Questa idea mi esalta e mi consola. Povero prigioniero degli infami giacobini, tu mi benedirai nella tua povertà e dalla tua prigione!
Quest'uomo dai passaggeri e dalla ciurma era tenuto per matto glorioso. Lo chiamavano per ridere, il Milionario e sul registro di bordo era iscritto sotto il nome di Tomaso Bussi di U.... principe di Bandjarra.
Era sui cinquant'anni, e aveva una certa distinzione ne' tratti e ne' modi. Uso di quel gallicismo, che l'illustre Fanfani, a ragione, vorrebbe dimenticato, perchè esso rende l'imagine straniera di questa nobiltà del tutt'insieme, che gli Inglesi hanno inventata. La distinzione, generalmente, la si ha dalla nascita, ma si può acquistarla da chi ne abbia l'altitudine. Il Milionario se l'era fatta da sè, giacchè era nato povero.
In questo la signora, imbacuccata contro il vento, seguita dai due compagni, gli comparve davanti.
Il Milionario le stese le mani in atto amichevole e confidenziale;
— Eccolo qui — disse ella volgendosi a suo marito, mentre accettava la doppia stretta di mano.
Poi di nuovo a lui:
— Stavo facendo conversazione col sole, che sta per andar sotto — rispose il Milionario.
— E il vostro cappello, principe, dov'è? — gli domandò sorridendo quello dei due, che la signora aveva chiamato conte Millo.
Il principe portò la destra mano al capo e non trovandovi il panama, si guardò intorno istintivamente come per cercarlo.
— Forse mi fu portato in mare dal vento!
— Volete che ve ne procuri un altro? — gli chiese Mario.
— Volentieri — rispose il principe, — mi favorirete.
L'altro si allontanò.
— Credete voi, principe, che in sei o sette giorni saremo a Genova? — domandò la signora.
— Speriamo, se altro non accade! Voi Forestina, non ne vedrete l'ora, m'imagino.
— Potete imaginarvi! Chi non fu mai in Europa come me e pure la conosce tutta dalle descrizioni e dai romanzi, non può che essere molto impaziente di giungervi.
— Dunque non avete viaggiato mai ?
— Tranne che nella mia piroga, da un punto dell'isola all'altro. Prima di montare sul legno che mi portò a Madras io non era uscita mai dalla mia isola.
— Voi fortunata! — sclamò il principe.
— Perchè?
— Perchè l'Europa è un paese di serpenti più velenosi di quelli che si trovano nei paesi sotto 1'equatore. Non è vero, conte Millo?
— Tutto il mondo è paese! — rispose il giovine fiorentino con gran dolcezza.
— Io fui allevato a Milano, ma terminai la mia educazione a Genova sotto i santi padri Gesuiti, e ad essi porterò, finchè vivo, riconoscenza ed amore, perchè essi sono i soli uomini forti che possano meritare la stima di un galantuomo.
Forestina guardò in viso a Osvaldo Millo con sorpresa.
— Come! Lei è gesuita, principe?
— E me ne vanto — rispose il Milionario colla sicurezza, tanto e quanto altera, di chi sa che dietro le proprie convinzioni ci sono molti biglietti di banca a far lume. — Io non sono di coloro che tentano dissimulare questo fatto. E spero, tornando a Milano, di trovare che i miei compatrioti abbiano smesso se non altro quelle arie provocanti e superbe, che avevano quand'io li lasciai giovine ancora. Io manco di Lombardia si può dire dal 1848, e allora tutti parlavano, nessuno ascoltava; e l'impopolarità, e i grossi aggettivi cadevano come gragnuola sulle spalle della Compagnia di Gesù. Che ne dite, conte Millo?
— Io manco dall'Italia da soli quattro anni, e allora si era cominciata già da un pezzo a lasciar parlare, ad ascoltare e a diventar seri.
— Serii? — sclamò il Milionario. — Fin troppo! L'ultimo atto importante degl'Italiani fu una rapina,
— Una rapina!
— L'occupazione di Roma!
— Lei principe chiama rapina l'occupazione di Roma? — domandò Forestina.
— E come altrimenti? — tuonò il Milionario.
Risparmierei volontieri a' miei lettori questo dirizzone del dialogo, che arrischia di farsi politico, se da esso non fosse per uscir chiara l'idea del carattere del principe di Bandjarra.
— Io ho maledetta — sclamò — ogni occupazione fatta dal signore di Savoja, e tanto più quella del patrimonio di San Pietro!
Quel signore di Savoja in bocca del creduto pazzo parve arguto, e fece ridere gli astanti.
Il principe girò intorno lo sguardo, come a domandar ragione di quella ilarità, poi soggiunse:
— Io sono repubblicano, signori, come lo era Gesù Cristo. Oh mi ricordo! Io, Carletto De Cristoforis, Emilio Visconti-Venosta, che siamo della scuola, ammettiamo un diritto solo in fatto di possesso di Stato, Dio e il popolo; giacchè dal diritto di Dio nel popolo, emana ogni certezza autoritaria, senza di cui non si saprà mai dove si vada a finire, nè a chi si debba credere ed ubbidire.
— Che strano cervello!— pensò il Millo — Repubblica, diritto divino e gesuiti.
— A chi creder infatti?
Ai retrogradi, ai clericali, ai moderati, ai progressisti, ai democratici, ai repubblicani, agli internazionalisti, ai socialisti?.. E poi! Ai Depretini, ai Minghettisti, ai Lamarmoristi, ai Nicoteriani? — Tutti e ciascuno pensano di aver ragione e che l'avversario abbia torto! Se non altro il diritto che emana da una potenza fuori di noi è indiscutibile. Così io sostengo che Genova, mia seconda patria, non dovrebbe essere soggetta al signor di Savoia, se la legge di natura e il diritto divino non andassero continuamente a rubello. Genova deve ritornar repubblica, sotto la protezione di Maria Santissima, ed io forse la riscatterò! Ne ho la potenza.
— Ipocrita, nefanda e vigliacca fu la occupazione di Roma! — ripigliò il principe — e così è considerata da milioni e milioni di stranieri, ancorchè non lo dicano apertamente.
— Ipocrita! — sclamò il conte Millo.
— Sì. Perchè si è sempre parlato da Cavour in poi, di mezzi morali e furono invece palle da cannone!
— Nefanda, perchè ogni spogliazione della proprietà altrui è sempre nefanda...
— Tranne che le espropriazioni forzate per bene pubblico — osservò Osvaldo Millo.
— Vigliacca, perchè si aspettò i rovesci di un'altra nazione per assalire il santo debole. Se non che: mala parta male delabuntur. Io lessi le storie e vidi che la Provvidenza ha sempre vegliato sulla santa sede. Per quanto si sia cercato di spogliarla de' suoi possessi mai non si riuscì che a renderne maggiore la gloria. Vedo un pontefice ricevere un imperatore ribelle col capo coperto di cenere e la corda al collo; ne vedo un altro fulminar anatemi e abbattere Manfredi; un altro ritornar da Avignone trionfante in Roma, e sempre e tutti insomma li vedo fiaccare i prepotenti ed i ladri.
Forestina cominciava ad annoiarsi.
Cercò di volgere ad altro la conversazione.
— Deh non parliamo di politica! —sclamò — raccontateci piuttosto la mirabile istoria che ci avete promesso,
— La storia della mia fortuna? — disse il principe, non senza un certo mal celato dispetto di essere stato interrotto nelle sue sfuriate contro i liberali. — Ci tenete molto?
— Non è la curiosità il nostro peccato ereditario? — rispose ella con un delizioso sorriso.
Arrivò, in questo, suo marito il segretario, che era andato a cercare al Milionario un nuovo cappello.
Questi lo prese, senza guardarlo, se lo pose in testa di traverso e continuò:
— Io sono nato a U.., in un villaggio di Lombardia... e facevo il corso di filosofia e matematica a Milano, quando nel 48, dovetti fuggire e andai a Genova. Là riuscii professore di fisica e matematica in un istituto privato e stampai un'opera in cui si conteneva un'idea utile e grande, che avrebbe avuto bisogno di una società o d'un ricco capitalista, per essere applicata e per dare risultati enormi. Ma nessuno ci badò! Chi si occupa in Italia di ciò che un italiano pensa, scrive e scopre?
— Ora so che la mia idea mi fu rubata da un Belga e fu applicata da una società di Bruxelles, che fece dei milioni: l'ho letto nei giornali a Madras. I miei compatrioti a quella stessa idea, di cui non avevano voluto sentir a parlare, finchè era un'idea italiana, fecero una festa maravigliosa, quando la videro applicata da uno straniero! Io avevo avuto il torto di non mantenere il segreto, sperando che gli Italiani mi avrebbero aiutato. Eppure ci sono ancora degli ingenui in Italia, che non parlano d'altro che della necessità di svelare le scoperte, senza garantire lo scopritore contro il furto.
Qui il principe s'arrestò. Sorrise a Forestina che lo stava ascoltando e coll'accento mutato, come chi sia sopraffatto da un dubbio repentino, disse:
— Forse vi annoio ancora, signora?
La era una lieve vendetta per la interruzione di poco prima.
— No — rispose, negando col capo, la bella. — Ora non è più politica.
Il principe le prese una mano, gliela baciò e riprese:
— Gli stessi miei amici, ai quali avevo spiegata a lungo quella mia scoperta e che forse per umiliarmi non se ne volevano occupare, scommetto che poi si saranno mostrati entusiasti pel ladro belga. Ma allora io non ero ancora nè gesuita, nè gentiluomo!
C'era nella voce del principe un'ironia, che andava al sangue!
— Tralascio di raccontarvi altre traversie della mia vita. Un giorno mi venne la smania di sapere che cosa avrebbero detto di me i miei compatrioti dopo morto e disposi le cose in modo da essere creduto tale. Noleggiai un guscio, uscii dal porto, e abbandonai in alto mare il canotto, con entro il mio cappello il mio abito e una lettera, nella quale confessavo la mia risoluzione di suicidarmi.
— E che cosa dissero di voi i vostri compatrioti appena morto?
— Mi portarono alle stelle e rivendicarono al mio nome la scoperta. Oh come furono teneri per me i fratelli d'Italia, quando mi credettero in fondo al mare! Io aveva fatto pratiche segrete con un bastimento che salpava per Bombay e che mi raccolse. A Bombay tenevo uno zio materno, e avevo il presentimento che vi avrei trovata fortuna.
— Anche voi, principe, credete ai presentimenti? — domandò Forestina.
— Perchè non credervi? Essi sono avvisi misteriosi di Dio o del Diavolo. La storia umana è tutta piena di presentimenti! Immaginatevi il generale Napoleone Buonaparte, il quale sul ponte di Rivoli non avesse avuto il presentimento, forse diabolico, che dei mille pezzi di scaglia vomitati dai cannoni austriaci, non uno lo avrebbe colpito. La morte era quasi certa; eppure egli si slanciò sul ponte. Se fosse stato ucciso, come diversa sarebbe stata oggi l'Europa! Lo spirito delle tenebre lo salvò.
Osvaldo fece un atto di sorpresa.
— Vedo che voi mi giudicate un visionario! — disse il Milionario al conte.
— Io non ho il diritto di giudicarvi — rispose il giovane modestamente.
— A Bombay trovai che mio zio era morto. Ma i padri San Vicentini mi aiutarono. Un giorno stavo meditando sulla mia sorte, passeggiando sulla grande piazza, quando mi venne fatta la proposta di partire per l'interno con una spedizione inglese. Dovevamo esplorare le regioni del Kotah, che è una provincia del Radjastan, fra le meno conosciute dagli Europei, dove si trovano a migliaia i monumenti dell'antica grandezza indostana. L'idea mi sedusse e partii. Viaggiammo più di sei mesi, in mezzo a pericoli e difficoltà incredibili, e giungemmo finalmente a Baroda, presso le cascate del Chamboul, dove c'è un famoso tempio dedicato a Siva, il Dio che dà la vita. Noi avevamo con quel Radjà delle intelligenze per una certa guerriciattola, che ei voleva dichiarare ad un principe vicino, che era sostenuto dai Diemas. Giunti a poche miglia dalla città mandammo innanzi un Indiano ad avvisare il principe del nostro arrivo. Egli ci mandò incontro delle bajadere, con dei canestri di frutta, che ci affrettammo di assaporare, giacchè dipendeva dall'accoglienza, che avremmo fatta a quei frutti l'essere creduti veri amici o traditori. Non vi racconterò la mia vita a Baroda, nè le avventure della guerra, che durò due anni, e che finì col trionfo da parte nostra. Un giorno passò da Baroda una comitiva di Bandjarri. Se non lo sapete, i Bandjarri sono una specie di zingari indiani, che commerciano di grani e di buoi. In benemerenza di aver guarito il loro capo essi mi nominarono loro principe ad honorem, e me ne rilasciarono in tutta regola il brevetto in lingua silka. Il mio titolo non mi fu dato da un monarca, ma dalla riconoscenza d'un popolo e lo tengo caro lo stesso. Se in Europa non lo si vorrà riconoscere poco mi importa. Ma lo riconosceranno, perchè n'ho ben d'onde!
Il giorno della partenza della truppa dei Bandjarri, una vecchia cadde gravemente ammalata, e restò colla sola guardia del cane sotto la sua tenda di pelli, nella speranza che io la guarissi. I Bandjarri sarebbero ripassati di là fra otto giorni a raccoglierla. Alla mattina la trovai migliorata assai, e per mostrarmi la sua riconoscenza mi disse tal cosa che mi diede la febbre. Mi disse che durante la notte, aveva provato una sete infernale, e che avendo il cane rovesciato l'orcio dell'acqua, s'era trascinata presso il fiume, dove inosservata aveva udito un dialogo fra due Diemas in cui si parlava di un ripostiglio di gemme e di roupie sottratte al Radjà, che era stato vinto dal nostro signore. Voi sapete che in India, anche in tempo di pace, tutti i ricchi nascondono le loro ricchezze sotterra. La Beghum Sumro, famosa principessa, che aveva una entrata annua di sei milioni di franchi, non ne spendeva più di due, e sotterrava gli altri quattro ne' suoi giardini. Perfino Randjit Sing, re di Lahore, che era pure il più furbo dei monarchi indiani nascondeva le sue roupie e le sue gemme invece di farle fruttare e di farle risplendere.
Nella notte che seguì questa rivelazione scoppiò nel paese un terribile uragano, e il fiume ingrossato a di misura, travolse forse con sè la povera vecchia col cane. Al mattino, quando io tornai alla sua tenda non trovai più nessuno. Ma poco stante si mostrò in cielo uno di que' famosi arcobaleni, come non se ne vedono che nell'India equatoriale: spettacolo indescrivibile per chi non l'ha veduto! Quell'arcobaleno fu per me il pronostico della fortuna. Se m'avessero dato un milione a rinunciare alla ricerca del tesoro non avrei accettato. Un tesoro nemico era buona preda, anche dinanzi alla mia coscienza. Perlustrai le rive del fiume, i boschi, i canneti.... nulla. Non si presentava la più lontana probabilità di scoprir qualche cosa. Il paese era piano. A tre miglia di distanza cominciavano le colline e c'erano caverne nei contorni; ma troppe! Non mi si presentava altra probabilità, che quella di attendere al varco qualche trafugatore, che mi insegnasse la strada del ripostiglio.
Venti giorni e venti notti di seguito stetti ad attenderlo, munito del mio fucile a due canne, d'un revolver e d'una sciabola, appollaiato su un albero. Quante volte vidi la tigre venire strisciando ad abbeverarsi alla riva. Finalmente una notte intesi un passo, e vidi un indiano passare sotto l'albero con un carico sotto il braccio, avviato verso le colline. Imaginate se il cuore mi voleva balzare dal petto.
Passato che fu discesi dall'albero e lo seguii; dopo un discreto cammino, arrivammo ad una caverna sulla entrata della quale l'indiano depose il sacco, che portava in spalla ed entrò. Io lo spiavo dal di fuori. Si avvicinò ad una parete della grotta, rimosse una specie d'edera che la copriva, introdusse una chiave in una toppa, schiuse un'apertura e scomparve.
Qui il Milionario si arrestò. Si passò una mano sulla fronte madida di sudore e ripigliò:
— È inutile che io vi dica in qual modo... potei avere quella chiave. È un segreto fra me, il deserto... e Dio! Io credetti di avere il diritto di fare ciò che feci e lo credo ancora, perchè il fine giustifica il mezzo. In ogni modo ne ebbi la piena approvazione da chi può perdonare in terra i peccati degli uomini. L'importante è che io avevo la chiave. Tastai la parete, rimossi l'edera, trovai la toppa, introdussi l'ordigno, spinsi, e la parete di marmo girò su un cardine. Entrai e mi trovai al buio e sentii un esecrabile tanfo di chiuso e di umidore. Per la fretta m'ero scordato di munirmi di una fiaccola. Presi dunque il partito di chiudere di nuovo l'apertura e ritornare al villaggio, per procacciarmi delle torcie, un martello, una leva, del rhum e delle funi... Potete imaginare lo stato dell'animo mio, in tale frattempo. La probabilità di riuscire era combattuta dalla possibilità del disinganno. A Bombay dagli Europei, si parlava spesso di fortune colossali fatte da inglesi in questo modo. La Compagnia delle Indie aveva già scoperti per più di trecento milioni nei sotterranei dei radjà, dai quali ereditava. Tutto stava a poter trovare. La notte seguente, adunque, feci ritorno alla caverna munito degli ordigni necessari e, accesa la fiaccola, mi spinsi avanti. Dati pochi passi mi toccò di abbassare il capo per continuare il cammino, quindi il dorso e poi di strisciarmi fino a terra. La volta si abbassava spaventosamente; vestigio di nascondiglio nessuno. L'atmosfera pesante e il fumo di resina mi mozzavano il respiro. Dovetti retrocedere, perchè sentivo che ci sarei rimasto. Dopo qualche tempo mi posi in vita una nuova cintura di coraggio, come direbbe un indiano, e ritentai la prova. Spintomi oltre la gola angusta riuscii in un'ampia caverna, dove, per quel poco che mi faceva scorgere la torcia, stalattiti e stalagmiti pendevano dalla volta in forme vaghe e bizzarre; il suolo scabro rendeva difficile il camminarvi sopra. Mi arrestai nel mezzo e girando la fiaccola intorno consultai le pareti ed il suolo. Nulla. Vi fu un momento che lo sconforto mi prese; cominciava la vista a vacillarmi, le stalattiti mi rappresentavano figure deformi, gigantesche, mostruose; le loro ombre che s'allungavano e s'accorciavano, a seconda del muoversi della fiaccola, mi mettevano paura; lo stesso rumore de' miei passi che produceva… un non so quale sordo eco, m'era insoffribile. Stavo per perdermi l'afa quasi mortifera mi toglieva il respiro, e mi impediva la libera circolazione del sangue... Se non che atterrito dal mio stesso spavento, ripigliai coraggio e ritentai il suolo. Allora fui tutto sorpreso, di non aver veduto prima, un anello di ferro, che m'avrebbe dovuto indicar subito il luogo bramato. Posi qualche sforzo a sollevare quella pietra; ma infine essa fu rovesciata e allora...
— E allora? — domandò Forestina estatica, impaziente.
— Mi trovai su una buca, da cui al chiarore della fiaccola uscivano raggi e guizzi e riflessi di luce bianca, verde e d'oro da dar il capogiro anche ad un re.
— Che bellezza! — sclamò la figlia di Eva giungendo le mani palma a palma.
— La cosa era grande, ma non era tutto. Ciò che mi restava a fare era il più difficile. La sparizione del Diema trafugatore, avrebbe potuto dar sospetto al radjà padrone di quelle ricchezze, e da un momento all'altro potevo essere assalito in quel deserto. Era necessario, dunque, trasportare immantinenti altrove quell'ammasso di oro e di gemme. E ci riuscii in parte; giacchè non potei asportarne che una sola metà. Dal nuovo nascondiglio provvisorio, impiegai, poi, un altro anno a portare a Madras, a Bombay e a Benares quell'ammasso di gioie, dal solo ricavo delle quali realizzai venti milioni di franchi, che uniti al danaro sonante, mi formarono una sostanza di ventotto milioni, che oggi sta ad aspettarmi sulla banca d'Inghilterra.
Il principe avea parlato con troppa naturalezza per poterlo credere ancora un visionario. Nel suo racconto non c' era nulla di romantico, come non c'è nulla di più comune in India dei tesori nascosti! Lo si sa da tutti!
— Ventotto milioni! — sclamò Forestina. — Dio mio quante stupende cose farei io se possedessi ventotto milioni!
— Sentiamo, signora — disse il principe — fateci il vostro programma.
— Innanzi tutto vorrei avere un palazzo in tutte le capitali d'Europa e ville nei luoghi più belli del mondo.
— Non bastano trecento milioni allora! — rispose il Milionario sorridendo.
— Le sale, la camera, il gabinetto tappezzate di moerro bianco e oro e i tappeti di Persia alti così.
— Oh, vedo già le stoffe di quà!
— Poi vorrei avere i più belli equipaggi di Europa, e dare dei pranzi a migliaia di persone.
— Qui, tanto, comincia la filantropia!
— Aver sempre un'orchestra de' migliori professori a mia disposizione!
— Ho capito!
— E nelle mie serre tutti i fiori più rari e più fragranti delle cinque parti del mondo!
— Non siete del mio avviso, principe?
— No signora.
— Perchè?
— Perchè io non amo, nè quello strepito che per voi è delizia e che chiamate la musica, nè la fragranza dei fiori che mi dà il mal di capo.
— Oh guarda che disgrazia! — sclamò ingenuamente Forestina. — E quali sono dunque i vostri progetti?
— Progetti?! È una parola arrischiata! Io ne ho uno, intanto, che non è indifferente, quando si pensi che ci sono molti milionari, i quali accumulano i loro redditi, non sapendo come spenderli....
— Ed è?
— Ed è appunto il progetto di spendere intero il mio.
— Sta bene! Anch'io l'avrei speso col mio metodo. Tutto sta a veder in che modo?
— S'io vi rispondessi: a far del bene, voi mi potreste ridomandare: qual bene? E avreste ragione. Ciò che par bene a me, a voi forse par male. Le mie idee sono così lontane dalle vostre, in ogni ramo della vita, che forse voi non trovereste di approvare che due istituzioni di cui ho già presi i concerti col conte Millo.
— E sono?
— Un grande opificio nel mio villaggio nativo, allo scopo di sconsigliare dall'emigrazione, e una Banca dell'Onore in Milano.
— Sono vostri suggerimenti? — domandò Forestina volgendosi a Osvaldo Millo.
Questi assentì sorridendo.
— Allora sono belli! — disse Forestina.
— Quanto a me — riprese il principe — io non avrò che un riguardo: quello di non parere un uomo molto diverso dagli altri. In Italia di molto più ricchi di me ce ne sono parecchi, e vedo che ve n'ha anche di buoni. Il Galliera, per esempio, che come ho veduto dal Times ha dato 20 milioni, per il porto di Genova, è un brav'uomo. Quanto a me nessuno, nel vedermi, dovrà accorgersi che io possieda ricchezza, io mi propongo la più schietta semplicità nella mia vita di 50 anni, giacchè nulla mi dorrebbe quanto l'essere segnato a dito.
— E lo credono pazzo! — pensava Osvaldo.
— Io, ci tengo, ad essere filosofo; ma ad esserlo davvero e non a parerlo soltanto. Ora io so che un vero filosofo non dev'essere un uomo strano, diverso dagli altri, inimitabile; ma conviene che sia come il migliore fra gli uomini che praticano quella che si chiama la virtù. Gli Alcibiadi, che tagliano continuamente la coda al cane per far parlare dei fatti loro, io non li amo.
— Chi avrebbe detto che voi foste tanto ragionevole! — sclamò Forestina.
— Bon! Questo si chiama parlar chiaro — sclamò ridendo il Milionario. — Voi credevate forse che io fossi un visionario o un pazzo?
— Nè l'uno nè l'altro — rispose la signora — però....
— Però?
— Giù di lì. Io vi avevo giudicato un entusiaste.
— Entusiaste! Ecco una parola che aggiusta ogni cosa! E perchè no, del resto? L'entusiasmo è una virtù. La società in cui stiamo per entrare è così diversa da quella in cui abbiamo vissuto sinora, che non è difficile, noi tutti vi facciamo un poco la figura di entusiasti.
— Davvero?
— Dovete sapere, signora, che nella così detta buona società italiana è di moda e regna sovrano il motto epicureo: nil admirari; là si ritiene che l'ammirazione sia indizio di mente piccola, e che il disprezzo e il compatimento segnino la superiorità dell'animo! Il che è sovranamente falso e ridicolo... La è una massima lasciata da quell'antipatico di Saint-Evremont, che di santo non aveva che il nome.
— Io credo di conoscerla un poco la società italiana!
— Voi nata in un'isola dell’Arcipelago indiano ?
— La conosco, per quello che ne ho letto. Io ho letto molti romanzi: Oh sono così belli! Ora sto terminando l’Homme-Femme di Dumas. Lo conoscete?
Il principe sporse in fuori il labbro inferiore e rispose:
— No signora. Io non leggo i libri che mi dicono cadere non solo sotto il divieto di Santa Chiesa, ma, quel che è peggio, sotto la sanzione del codice penale, che condanna a morte gli istigatori e i complici dell'assassinio premeditato. Dumas, che consiglia di uccidere la moglie, sia pure adultera, è per me nè più nè meno di un volgare istigatore all'assassinio premeditato. Del resto — ripigliò dopo un breve silenzio — per tornare alla mia sostanza, vi dirò, cara Forestina, che io non sono libero di disporre del fatto mio, giacchè debbo pensare a mio figlio dato che egli sia ancora vivo.
— Voi avete lasciato un figlio in Europa? — chiesero ad una voce Mario e Forestina.
— Nulla di più naturale! Ogni uomo in gioventù può avere avuto un figlio. E, ora che sono ricco, oso sperare che egli sarà il conforto della mia vecchiaia...
— Voi, forse, ignorate se egli vive ancora?
— Egli non conosce me, nè io conosco lui. Anzi a quest'ora deve credermi morto, giacchè i giornali di Genova avranno divulgata la notizia del mio apparente suicidio. E i tribunali avranno già decretata la mia morte in Italia.
— E perchè l'avete abbandonato?
— Ah signora! — sclamò il milionario con un sospiro — perchè necessità non ha legge! Eravamo nel 48; io miserabile; sua madre, figlia di un colonnello austriaco, feroce e sanguinario. Nè io, compromesso e povero, nè lei, avremmo potuto mantenerlo pubblicamente. Essa doveva ritornare presso suo padre, che rientrava vincitore in Milano; io profugo dovevo partire pel mio destino.
— Lo amate voi?
— Non lo so! Forse lo amerò dopo che lo avrò conosciuto. Non vorrei però compromettermi con un briccone. È d’uopo che io usi prudenza nel cercarlo. Nondimeno, comunque egli sia, in caso di mia morte è giusto ch'egli riceva gran parte delle mie ricchezze, giacchè forse l'esser riuscito un briccone sarebbe stata tutta mia colpa!
Così dicendo aveva posta la mano sulla borsa che portava ad armacollo; poi soggiunse:
— Qui ci sono i documenti per ritrovarlo, col mio testamento. In mare è sempre prudente cosa far testamento. E nominerei voi, conte Osvaldo, mio esecutore testamentario. Accettereste?
— A condizione che nel testamento non si parli del Danaro di S. Pietro, nè di istituzioni nocive al nostro paese.
— No — rispose il Milionario — voi mi avete convertito su questo. Qui si parla soltanto di mio figlio, del mio villaggio nativo, della fabbrica che sapete, e della Banca dell'onore.
Intanto s'era fatto buio, e la tempesta aumentava.
— Avremo burrasca stanotte? — domandò il principe a un marinaio.
I marinai non dicono che ci sarà burrasca neppur al momento di sprofondare.
I marosi flagellavano il legno da orza. Di quando in quando l'onda massima, che Vittor Hugo chiama l'onda tigre, montava sul ponte, sguazzando tutto colla sua schiuma piena di fosforo.
— Qui non ci si può più stare! — disse il capitano — giù staranno meglio.
Per lo scappavia discesero tutti nel salone.