Gerolamo Boccardo
Manuale di antichità romane

CAPO SECONDO   La patria potestΰ – Stato e doveri dei figli – Adozione – Arrogazione – Emancipazione – Schiavi.

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CAPO SECONDO

 

La patria potestàStato e doveri dei figliAdozioneArrogazioneEmancipazioneSchiavi.

 

 

§ 9. Patria potestà è il diritto del padre sui figli; ed eraestesa presso i Romani, e tanto era il rispetto di cui la volevano circondata, che Livio ben la nomò Patria Maestà!

a) Il padre aveva sui figli jus vitæ et necis; talchè se nel loro sangue si bagnasse le mani, non era passibile delle pene portate dalla Legge Pompeia contro i parricidi, di quelle che la Legge Cornelia pronunciava contro gli omicidi. – Vero è che, in processo di tempo, questa eccessiva autorità, utile forse nella prima età di Roma, quando il maggior bisogno che avesse lo Stato era di una forte ed austera organizzazione, fu diminuita e ristretta in certi determinati casi.

b) Una legge di Romolo dava al padre il diritto ter vendendi filium. Nel che maggiore era il diritto del genitore sui figli, che del padrone sui servi. Lo schiavo, infatti, una volta venduto, se dal novello padrone liberato, apparteneva a se stesso; il figlio invece doveva tre fiate vendersi ed altrettante dimettersi colla cerimonia della manumissione di cui parleremo in appresso, pria di uscire dalla patria potestà.

Numa Pompilio apportò una prima restrizione a questa paterna facoltà, ordinando: Si pater permiserit filio uxorem ducere, quæ ex legibus particeps sit sacrorum et bonorum, patri post hac nullum jus esto vendendi filium. Il diritto Costantinianeo permise di vendere filios sanguinolentos, cioè appena nati, in estrema necessità di fame. Le Pandette finalmente proibirono assolutamente di mettere i figli in vendita od in pegno.

c) Una terza conseguenza della patria potestà era che tutto ciò che dal proprio lavoro o da altra fonte i figli lucravano, tosto apparteneva al padre. – I beni dei figli per tal modo acquistati dicevansi Peculium. Ma in appresso, si distinsero quattro sorta di peculii: il Prefettizio, che per opera del padre, o d'altrui per causa ed in considerazione del padre, al figlio profittava, e questo di pien diritto acquistavasi dal padre; l'Avventizio che veniva da altri, e per altro titolo, come dalla madre, da amici ecc., e questo restava in proprietà del figlio, avendone il genitore l'usufrutto; il Castrense, che in occasione della milizia il figlio si era guadagnato, e questo gli apparteneva in proprio; e finalmente, il Quasi-Castrense, che, nell'esercizio della milizia togata, cioè nella professione del foro, il figlio aveva lucrato, e questo era assimilato al peculio castrense.

d) Il padre poteva diseredare il figlio, senza addurne causa alcuna. La legge delle XII. tavole diceva: Pater familias uti legassit, ita jus esto. La parola testamentaria del padre era la legge, era il diritto.

Tanta e sì grande era l'estensione che il romano legislatore, soprattutto curante di dare all'ordinamento dello Stato una base salda ed incrollabile nella famiglia, avea stimato necessario di conferire alla paterna autorità.

§ 10. Perdevasi la patria podestà: Colla morte naturale; Colla morte civile, con la diminutio capitis, con la perdita dei civili diritti: Coll'acquisto del Patriziato, da parte del soggetto alla patria potestà; Colla cattività in potere dell'inimico: in questo senso che se il padre fu preso dai nemici, e muore prigioniero, dal tempo in cui fu colto, il figlio ritiensi suo jure; Colla emancipazione, mediante la quale il figlio davanti al giudice competente si dimetteva dalla anteriore soggezione.

§ 11. Gli effetti dell'emancipazione erano: Che il figlio diventava plene sui juris, cioè acquistava pieno dominio sopra se stesso e sui propri beni avventizi, eccettuata solo la metà dell'usufrutto, che rimaneva al padre; Che al padre restava, all'incirca, lo stesso diritto sul figlio, che al padrone sul liberto, e per conseguenza, gli succedeva ab intestato, ed era legittimo tutore dell'impubere.

§ 12. L'adozione era l'atto giuridico col quale un individuo ne prendeva un altro in luogo di figlio. Era di due specie: adozione propriamente detta, ed arrogazione. La prima era di coloro i quali, essendo sotto la patria potestà di un altro, si trasferivano dalla famiglia del padre naturale in quella dell'adottante, e questa poteva farsi presso qualsiasi magistrato giusdicente, quale il Pretore o il Proconsole. mediante una cerimonia consistente in una finta vendita dal padre naturale al padre adottivo.

L'arrogazione, invece, era il trapasso di chi fosse sui juris sotto la potestà di un altro; e così fu chiamata perchè non poteva farsi se non mercè di espressa rogatione davanti al Popolo raunato nei Comizii curiati. Quando però, mutato lo Stato da repubblicano in imperiale, i poteri popolari passarono nel principe, cominciarono le arrogazioni a farsi per semplice autorità di quest'ultimo.

§ 13. Veduto così quanto concerneva la patria potestà ed i reciproci rapporti tra padre e figli, giova ora esaminare quelli che esistevano tra il padrone e gli schiavi.

La schiavitù, questo grande delitto sociale, che rimonta all'origine delle nazioni, che sussiste ancora oggidì, più o meno modificato ed attenuato, nella maggior parte del mondo, e che la civiltà europea si adopera con magnanimi sforzi ad abolire, trovava nell'antica società la sua ragione d'essere nella mancanza di forti capitali e di perfezionati strumenti produttivi. In un'epoca in cui non esistevano macchine che lavorassero come uomini, faceva mestieri che vi fossero uomini condannati a lavorare come macchine. È ciò che disse stupendamente Aristotele: quando la spola ed il martello lavoreranno da , la schiavitù cesserà di essere necessaria!

§ 14. In due grandi categorie distinguevansi gli schiavi, a seconda che nascevano, o che divenivano tali. – Nascevano schiavi del padrone della madre coloro che erano figli di schiava. Tra gli schiavi non erano vere nozze, e il loro matrimonio chiamavasi Contubernium. Gli schiavi nati in casa dicevansi Vernæ e Vernaculi; ed erano d'ordinario i più procaci e viziosi, siccome quelli coi quali solevano i padroni mostrarsi più indulgenti e corrivi.

Divenivano schiavi coloro che o erano fatti prigioni fra i nemici, od erano venduti.

Il prezzo degli schiavi dipendeva dal numero, dalla concorrenza e dai bisogni; variava eziandio giusta l'età, il sesso, la forza, la salute, l'abilità del servo. Plauto, che viveva nel sesto secolo di Roma, dice che un buono e robusto schiavo valeva allora 20 mine, ossia 1829 fr. 55, ed un ragazzo 6 mine (548 fr. 86).

§ 15. Liberavansi i servi dalla schiavitù mediante la Manumissione; la quale era o Giusta, quando conferiva la pienezza della libertà e dei diritti di cittadino, o Meno Giusta, quando, mercè della legge Giunia Norbana, il liberato facevasi Latino Giuniano, godente minori prerogative. Anco inferiori a quest'ultima classe erano i Liberti Dedititii.

In tre modi facevasi la Giusta Manumissione: per censum, quando il servo, a saputa o per ordine del padrone, veniva registrato dal Censore, al pari degli altri cittadini, nel censo; per vindictam, se il padrone in presenza del Pretore diceva dell'astante servo: Hunc hominem liberum esse volo jure quiritiario; e per testamentum, allorchè il padrone, testando, legava al servo la libertà.

La Meno Giusta Manumissione facevasi inter amicos o per mensam, quando il padrone invitava il servo a seder secolui, o per epistolam, cioè in una dichiarazione epistolare.

 


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