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Codino.
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Un urlo più lungo e più acuto degli altri risuonò, e la grossa comare Pacifica, curva sul letto in atto d'attesa, afferrò con un sospiro di sollievo il piccolo essere che balzava alla vita.
Un vagito fievole s'intese. Gli urli cessarono.
– Coraggio, Angela. Se Dio vuole è finita.
La madre che si era abbattuta mugolando sollevò la testa dal giaciglio e chiese con voce rotta:
– Vivo?…
– Viva, – rispose la donna. – È una femmina; rossa come le altre, colla pelle come un guscio d'uovo di tacchino: tutto il ritratto del vostro uomo, Angela. Non c'è che Codino – aggiunse ella – che somigli a voi.
Il fanciullo che rispondeva al nome di Codino, alzò gli occhi neri e vivaci in volto alla donna che parlava, poi guardò la testa di sua madre, dalle trecce mezzo sfatte, brune, miste di fili argentei, sprofondata nel letto.
Era un fanciullo di otto anni, con un viso rotondo e rosso, una bocca larghissima, due begli occhi neri, e un berretto di maglia verde cacciato giù fino alle orecchie immense che gli sbucavano fuori come due vele. Seduto sulla pietra del focolare, insaccato in una vecchia giacca da uomo, larga, lunga, tutta toppe e topponi, coi piedi nudi negli zoccoli, egli cullava fra le braccia una bambinetta di poco più di un anno, già vestita da donna: giubbetto e gonnella, con una grossa testa arruffata di capelli rossi.
– Mettila giù, mettila giù insieme colle altre – esortò la grossa comare che stava fasciando la nuova arrivata.
Codino obbedì, e delicatamente si chinò a deporre il suo fardello sul pagliericcio dove altre quattro piccine, rosse, magre e lentigginose, l'una a ridosso dell'altra dormivano il sonno dell'innocenza sordo ed ignaro.
Ma non appena la femminuccia si accorse dell'atto, cominciò a contorcersi e a strillare disperatamente aggrappandosi al collo e agli orecchi del fratello con tutta la forza delle sue manine.
– Non vuol dormire dunque mai, quell'uccellaccio spaurito? – brontolò la comare con dispetto seguitando a srotolare le fascie.
– Non può dormire – rispose Codino. – È malata.
E se la riprese in collo, ricominciò a cullarla dolcemente e regolarmente come una nutrice. La piccina si quietò.
– Ecco – disse comare Pacifica deponendo sul letto accanto alla madre il nuovo involto di cenci da cui sbucava soltanto una pallottolina rossa e grinzosa.
La madre non rispose, nè si mosse.
– E il vostro uomo? – interrogò l'altra in tono di biasimo. – Come mai non è qui il vostro uomo?
– Che volete, Pacifica?… Il male mi ha colto all'improvviso; stavo al torrente a lavare.… Egli è fuori.… – aggiunse, abbassando ancor più la voce e guardandosi intorno.
– Con questo tempo! Dio lo protegga! – disse la donna abbozzando il segno della croce. – Ed ora, come farete? Io debbo tornare a casa: ho piantato tutto per correr da voi.
– Non importa – disse la madre. – C'è Codino. Andate, andate pure, Pacifica, e che Dio vi renda merito della vostra carità.
La comare se ne andò; restarono soli nel tugurio la madre e le creature.
Fuori un gran vento rabbioso si era levato; pareva si partisse cautamente da lontano quasi lambendo le pareti delle montagne; ululava lungo la gola del Brenta come una belva che stia per infrangere i ceppi; si scatenava nella valle in raffiche pazze e furibonde. Dalle mal connesse imposte del tugurio l'aria passava sibilando, e ad ogni raffica più forte la fiammella che guizzava nella fiola appesa per un gancio alla trave vacillava verdastra e fumosa e pareva prossima a spegnersi. Poi si rianimava, e per un attimo indugiava più ferma sulle teste rosse delle dormienti, sull'incerta bianchezza del letto, sull'unico secchio di rame. Il focolare, l'imagine sacra appesa al muro, le pannocchie votive, la tavola zoppa coi tre piatti istoriati col gallo, la rosa, e il leone, restavano in ombra. Altro non c'era, se non la capra in un angolo, sopra un mucchio di strame.
– Codino, – disse la madre dopo un lungo silenzio – ho sete.
Il fanciullo depose risolutamente la sorellina mezzo assopita accanto alle altre e, presa una scodella d'acqua, la porse alla madre sollevandosi in punta dei piedi per arrivar fino a lei. Ella bevve avidamente, poi ricadde a giacere, tese una mano aspra e bruciante ad accarezzargli la testa. Si guardarono, pensando insieme lo stesso pensiero.
– È tardi?… – diss'ella con timidezza tendendo l'orecchio.
Il fanciullo non rispose, ma tirò il catenaccio, scostò alquanto la porta, sporse il capo nel vento.
Il paese addormentato, nero, senza un lume che brillasse, senza una voce, si annidava freddoloso nella gola, si arrampicava esitando lungo i fianchi del monte, scendeva fino a specchio del Brenta. Alle sue spalle e incontro, la montagna: livida, tragica, solenne, nel brivido dell'uragano veniente. E al balenìo dei lampi si denudava: lacerata di cave; fremente e fosca di pini verso la cima; ininterrottamente tagliata, a quadrati, a rettangoli, a striscie, dalle piantagioni di tabacco, verso la base. La caserma delle guardie di finanza, massiccia, greggia, quadrata, vigilava l'ingresso della valle come un gendarme in sentinella. In fondo, il Brenta segnava di una linea glauca la gola ventosa. Fra un mugghio di tuono e l'altro, nell'intervallo di silenzio ansioso, si udiva distintamente il chioccolìo della fontana in via Ezzelino il Monaco e lo stridere delle civette sopra la tomba di Merlin Cocaio.
– Ancora nulla – diss'egli sottovoce. – Ma non è tardi, mamma. L'altra notte egli è tornato molto più tardi.
Il piccolo finse di non sentire e sedette presso di lei su di un panchetto.
Egli adorava sua madre di un'adorazione cieca, tacita e profonda. Quando era nato, otto anni innanzi, su quello stesso letto alto e stretto, la stessa comare Pacifica l'aveva accolto con questo pronostico:
– Ha il codino: dietro di lui ne verranno altri sette1. – E aveva mostrato ai genitori un piccolo ciuffetto di capelli bruni che dalla nuca gli si prolungavano come una minuscola coda giù per il collo.
E il nome di Codino gli era rimasto, e il pronostico si era quasi avverato.
Una dopo l'altra cinque sorelline erano giunte – l'ultima era arrivata da un'ora appena! – scortate dalla fame, col becco spalancato come cinque uccelletti. E se le due prime egli se le era viste capitare accanto senza rendersi conto del come, troppo piccino lui stesso per capire, dai quattro anni in poi, dacchè aveva coscienza, aveva assistito all'avvenimento con occhi ben aperti, aveva sentito le grida, era accorso al sopravenire delle doglie, si era precipitato a chiamare Pacifica, aveva portato l'acqua e le fascie.
Ed oramai lo spettacolo non aveva per lui nulla di strano nè di impreveduto: era come il levare e il tramontare del sole, come il succedersi delle stagioni.
Il soffrire di sua madre soltanto l'inquietava.
La penultima volta ella si era accasciata all'improvviso sulla soglia del tugurio: il padre assente, comare Pacifica chiamata lontano per un altro parto; la bimba non voleva nascere: che urli, che urli, nell'attesa!…
Codino non lo dimenticava, e adesso, seduto presso al suo letto, non distoglieva gli occhi dalla madre.
Si assomigliavano, era vero: ella era stata una così bella ragazza! Alta, bruna, fiorente; ma ora, pur tanto giovane, era già incanutita, solcata di rughe, cogli occhi smorti, la bocca sdentata, il seno cascante, devastata ed esausta dalla maternità e dalla miseria come la terra dagli uragani; egli invece, rosso, paffuto, coi begli occhi vivi, la gran bocca ridente, era una pianticella ancora illesa e fresca, impavida contro il gelo e la siccità.
Eppure faticava: da mattina a sera faticava; ed i suoi otto anni erano pochi per il grosso peso addossato alle sue spalle. Il padre e la madre, pur amandolo, lo caricavano di lavoro; ma ella, benchè abbrutita dalle privazioni, taciturna ed ottusa per giornate intere, si risvegliava tratto tratto improvvisamente con impeti di appassionato rimorso verso la sua creatura, ma, vergognosa di sè, l'esprimeva soltanto in qualche fuggitiva carezza, in qualche sguardo, che parevano domandargli scusa. E la miseria era tale, il bisogno così aspro e pungente, che non lasciava tempo di soffermarsi a lungo su altri pensieri.
Codino accendeva il fuoco, Codino governava la capra, Codino rifaceva il letto e il giaciglio, vestiva le sorelle, attingeva l'acqua, recava la polenta alla madre in riva al fiume e al padre fra i solchi delle piantagioni di tabacco. Di corsa, poichè la penultima sorellina, la zoppetta che non poteva mai dormire, rósa da un'irrequietudine febbrile e lamentosa, voleva sempre essere portata in collo, e quando lo vedeva partire strillava disperatamente: – Coin! Coin! Coin!
Paffuto, colle grandi orecchie spalancate fuori del berretto verde, col giacchettone che gli pioveva giù da tutte le parti, al cantare del gallo egli sbucava di tra le larghe foglie spampanate del tabacco, e via di galoppo col bigoncio in ispalla fino alla fontana; al ritorno si affaccendava per la casa, e verso il tramonto, seguito dal suo codazzo di sorelline, guidava la pecora a brucar l'erba corta presso alla tomba di Merlin Cocaio. Ma quando il sole calava dietro i monti e il cimitero segnato di croci e di bandierine bianche palpitava al soffio dell'aria della sera, Codino spingeva innanzi a sè la pecora e le femminucce e rincasava in fretta per paura dei morti. Si gettava a dormire accanto alla capra: essa gli voleva bene, e lo salutava con un belato. Codino era molto contento della sua vita.
– .…Ti pare?… – chiese la madre.
– Nulla, nulla.… è il vento.
Gli alberi staffilavano l'aria con lunghi gemiti quasi umani; il tuono mugghiava sordo e veemente; le prime goccie di pioggia, grosse, rade, pesanti, cadevano crepitando sulla terra affascinata.
I due si guardarono negli occhi, ascoltando il tempo passare. Egli posò la testa sulla sponda del letto.
– Ora pro nobis.
– Ora pro nobis.
Ed ecco.… ecco.… un passo cauto e precipitoso, due colpi all'uscio.
Codino accorse, tirò il catenaccio, si fece da parte. E un uomo entrò; così alto che la sua testa rossa toccava quasi la trave della cucinetta, coi capelli incollati sulle tempie, coi chiari occhi di gatto, trafelato, ansante, e pur così pallido, così pallido, come se non avesse goccia di sangue nelle vene.
La donna balzò a sedere sul letto.
– Ancòra?…
– Ancòra – rispose l'uomo accasciandosi sul focolare.
– Hai dovuto gettare il carico? Ti hanno riconosciuto?
Egli strinse i denti con uno sguardo d'odio e di disperazione, senza rispondere levò il pugno chiuso e minaccioso contro nemici invisibili.
Ella si accorse allora che era ferito. Dal polso gli colava il sangue, aveva le mani graffiate, la camicia a brandelli.
Ed era la seconda volta, in poche settimane, che rientrava così, che sfuggiva alle guardie di finanza appostate sulla montagna come bracchi in agguato della selvaggina, gettandosi di roccia in roccia, scivolando lungo il letto dei torrenti, dilaniandosi per i dirupi delle cave, accapigliandosi coi rovi della macchia, e terminando, per salvarsi, coll'abbandonare in fondo a un burrone il tabacco di contrabbando, il pane sperato per le sue creature, il piccolo bene per cui arrischiava la vita….
Senza una parola la donna balzò dal letto; cercò affannosamente un cencio per fasciar la ferita e non lo trovò. Allora afferrò la nuova nata, e srotolò un pezzo della fascia sdrucita che l'avvolgeva, la strappò, si accostò all'uomo, e gli bendò il braccio.
Egli lasciava fare, inerte. Codino aveva staccato la fiola dal gancio e faceva lume. Nessuno parlava.
Quand'ella ebbe finito, si ricoricò in silenzio, cogli occhi pieni di lagrime. L'uomo si gettò vestito sul letto e si addormentò. Codino prese posto accanto alla capra. La pioggia incominciò a scrosciare a torrenti.
E a un tratto, nel silenzio del tugurio, la voce della creatura appena nata si levò imperiosa ad annunciar che aveva fame.
*
A metà della notte, arso da una febbre gagliarda che lo scuoteva da capo a piedi, l'uomo si svegliò, e cominciò a parlare, a parlare, a parlare.
– Non l'ho gettato, il carico. L'ho nascosto nella macchia. Quei cani non lo troveranno. Tornerò a riprenderlo. Lo riprenderò. Non l'ho gettato. So dov'è, quanti passi ho da fare per arrivarci. È nella macchia di nocciole, dopo la croce, dietro lo stagno della Casera dei Gatto. È mio, è il sangue delle mie creature. Dammi le scarpe!… Maledetti cani!… Ahi, ahi!… Mi hanno accoppato, quelle bestie malnate. Dieci contro tre, contro tre miseri, che hanno moglie e figlioli che muoiono di fame. Vigliacchi venduti, maledetti cani, ma questa volta non me lo ruberete, il pane di bocca. È nella macchia. So la strada. Non mi prenderete vivo. Dove sono le scarpe? Maledetta, maledetta anche tu, che me le hai nascoste!
Le aveva ai piedi, grevi di chiodi, cariche di fango, e le cercava intorno, bestemmiando, ansando, smaniando. Cogli occhi iniettati di sangue, le braccia magre irte di peli rossi, il gran corpo scosso da brividi, si gettò giù di letto. Ma tosto vi si riaccasciò pesantemente comprimendosi il petto colle due mani.
– Ahi! Ahi!
La donna si curvò su di lui, gli scostò la camicia sul petto velloso.
Una chiazza violacea, rossastra, forse prodotta dalla punta di un sasso, forse dall'attrito delle corde che reggevano il carico, forse dall'urto contro qualche albero, si disegnava, tumefatta ed accesa. Prima non se n'erano accorti.
Ella staccò dal muro la pidella dell'acqua santa, polverosa, brunastra, di vecchia terra cotta slabbrata.
L'uomo le sbarrò in volto i chiari occhi felini: vide; e istantaneamente la sua dura fisionomia sconvolta dal furore e dalla febbre si raddolcì, nel suo sguardo passò una cieca infantile espressione di reverenza e di fede.
Ella intinse le dita, umettò leggermente la chiazza dolorosa; egli serrò i denti per non gridare, tese la mano a toccar l'acqua benedetta, si fece il segno della croce.
Dopo qualche minuto si riaddormentò.
L'indomani mattina all'alba, erano in piedi entrambi. Ella, scarmigliata, distendeva al sole i panni lavati il giorno innanzi; egli, con zappa e vanga, era uscito a riparare i guasti prodotti dall'uragano della notte nella stretta striscia di terra che dal tugurio si allungava fin verso il Brenta.
Le foglie del tabacco, umide e fresche, palpitavano ancora di stille, ma le montagne ridevano sotto il sole, i nidi si destavano pispigliando, il fiume luccicava con un tremolìo d'argento. Sulle minuscole altane uscivano ragazze, canterellando. Dalle stalle giungevano belati. Era il Venerdì Santo. Silenzio di campane.
A mezzogiorno preciso rientrarono tutti: Codino e le sorelle armati di minuscoli fastelli di legna.
Non c'erano che due sedie, perciò le piccine sedettero in fila sulla soglia della porta, e Codino si accoccolò sulle ginocchia aspettando che la madre avesse finito di menare la polenta.
Parlavano fra loro il padre e la madre.
Egli diceva:
– L'ho nascosto. Lo riprendo. Come fare, se perdiamo anche questo? La rata scade fra un mese e il padrone non aspetta.
Ed ella, senza voltarsi, seguitando a girare il mestolo, e scuotendo tratto tratto la catena, tutta illuminata di sotto in su e accesa in volto dal riflesso e dal calore della fiamma:
– Tu no. Tu sei sospettato, ormai. Ti spìano. Vuoi farti prendere? È già la seconda volta che ci scappi per miracolo. Tu devi farti vedere in paese: oggi, stasera; mostrarti a quei dannati, passeggiar loro sotto il naso; e, dopo la processione, devi restare all'osteria fino a tardi, in mezzo a tutti, a bere e a giocare.
Egli disse:
– E allora?…
Ed egli:
La polenta fu versata; i genitori si misero a mangiarla in silenzio insieme a pochi fichi secchi; ne diedero quattro a Codino. Le bimbe grandi mangiavano polenta e latte tutte e quattro nella stessa scodella, quella del leone, che Bettina, la maggiore, teneva stretta con religioso rispetto.
Ad ogni cucchiaiata guardavano tutte e quattro nel fondo del piatto con grande attenzione, e quando vedevano apparire e sparire di sotto al latte la testa, la coda, o una zampa del leone, ridevano a piccoli scoppi.
Codino teneva fra le ginocchia la zoppetta e le dava i più grossi bocconi; egli non aveva fame; guardava di sfuggita sua madre, e la polenta gli restava in gola.
Come sembrava vecchia, quel giorno! E più piccola, pareva: piegata in due, incavata, disseccata; le labbra bianche, le occhiaie così profonde che gli occhi apparivano enormi: due caverne nere.
Quando ebbero finito di mangiare, il padre disse ancora:
– Hai ben capito? Dopo la croce, nella macchia di nocciole, dietro lo stagno della Casera dei Gatto.
Ed ella, che si era attaccata al petto la nuova nata:
– Siamo intesi.
Non uscì più se non per raccogliere i panni già asciutti e riportarli in Canonica.
Ella era lavandaia della chiesa, e le tovaglie d'altare, le trine, le tende, occorrevano laggiù per addobbare a festa la chiesa per la giornata di Pasqua. L'arciprete era buono, ma la Perpetua, una vecchia bisbetica con barba e baffi, non ammetteva scuse, non voleva sentir ragioni, e minacciava ogni volta di cambiar lavandaia se il bucato non era riconsegnato puntualmente.
La donna contò la roba capo per capo, la piegò accuratamente, e la dispose in un gran cesto da vendemmia, poi s'incamminò.
A metà strada, allo sbocco d'una scorciatoia sulla via maestra, vide saltar fuori Codino, trafelato, colla zoppetta a cavalcioni sulle spalle.
– Che fai? – diss'ella aspra, arrestandosi ansante col cesto in capo. – Dove hai lasciato le altre?
– Venivo.… se volevate che vi aiutassi a portar la roba, madre.… – balbettò egli, colle guancie, la fronte, i grandi orecchi, imporporati di rossore.
– Non hai di meglio a fare, scioccone?… Guai a te se non galoppi a casa subito, e se muovi un passo di là prima del mio ritorno.
Egli fece dietro-front; si arrampicò come un camoscio su per l'erta col suo carico, scavalcò un muricciolo, scomparve fra le piante di tabacco.
Al suo ritorno la madre lo trovò seduto sul focolare colla zoppetta in collo.
– Perchè non hai spazzato la cucina? perchè non hai attinto l'acqua? perchè non hai legato i fastelli di legna, fannullone? – inveì ella, ferma sulla soglia del tugurio; e scaraventò il cesto vuoto in mezzo al cortile.
Era in uno dei suoi giorni cattivi; accigliata, dura, violenta, ingiusta; i suoi sguardi si posavano sui figli senza nessuna tenerezza; le sue mani toccavano ruvidamente gli oggetti, i suoi piedi si trascinavano l'un dietro l'altro, lenti, pesanti, con grave strascichìo di zoccoli. Codino la sentì sgridare acerbamente le piccole perchè avevano diguazzato nel fango, sentì due ceffoni, secchi, sonori, cadere sulle guancie di Bettina che rientrò in casa e si mise a piangere silenziosamente con un dito in bocca.
Anche la madre rientrò, e si accostò al letto, offerse il seno all'ultima nata.
Codino non poteva vederla in volto, ma il suo atteggiamento, le linee rilasciate e affrante della sua persona dicevano tanta stanchezza, tanta miseria, tanto abbandono, che il fanciullo si sentì stringere il cuore. Guardandola, e non sapeva perchè, un impeto gli veniva, di piangere, di baciarla, di chiederle perdono.…
Perdono!… non sapeva di che; forse di essere nato, forse di essere così poveri, forse di essere ancora così piccino ed inutile.… Ma non aveva coraggio, temeva di lei, e la guardava soltanto: intensamente, con uno di quegli sguardi che i bimbi hanno talvolta per le loro madri che soffrono, e che se si comprendono non si dimenticano più: nessuno può dare alla donna in uno sguardo quello che sa darle talvolta il figlio: tenerezza, pietà, dolore, amore, rimorso, umile adorazione: tutto quanto l'anima umana ha di più semplice e grande si legge talvolta nello sguardo di un bimbo.
Ma ella era così affranta che non vedeva e non sentiva più nulla se non la sua miseria, la sua stanchezza, e la necessità implacabile, feroce, di andare sempre, di andare ancora, finchè il suo còmpito fosse esaurito, e poi ricominciare.…
Salì sull'altana e staccò e arrotolò la corda del bucato; cavò di sotto il letto le sue grosse scarpe ferrate, e le unse accuratamente col grasso.
– Si prepara per stanotte – pensò Codino, e il sangue gli diede un tuffo.
Tutto il suo piccolo essere si avvinghiava a lei, gridava, supplicava:
– No! no! fermati! siedi!… Riposati! riposati!…
Egli si mise allora febbrilmente a cullar la zoppetta. La cullava, e cantava: colla gola stretta da un nodo di pianto, cogli occhi disperati e lucidi attaccati alla madre. Cantava:
– Vuoi smettere? – borbottò la madre curva sulle scarpe.
– Pasquina ha sonno – mentì egli risolutamente, e continuò a cantare.
Infatti, caso straordinario, alla nenia monotona la zoppetta aveva finito davvero per addormentarsi. Egli la depose con ogni precauzione sul letto accanto all'altra, staccò la capra dall'anello, prese la sua bacchettina, e disse alle sorelle:
– Andiamo.
Esse gli si aggrupparono intorno lietamente; andarono; la madre non voltò neppure la testa.
*
La capra saltava qua e là capricciosamente, felice della sua libertà; si arrampicava su per la costa del monte, con un balzo tornava sulla strada, posava le zampette anteriori sulla siepe; brucava le tenere punte verdeggianti dei cespugli, immergeva il muso nelle zolle d'erba. Il suo campanello faceva incessantemente: – Tintin! tintin! – e le bambine ridevano a quel suono. Tutto loro serviva per ridere e per giocare.
Si erano sedute per terra nel piccolo spiazzo che divide la tomba di Merlin Cocaio dal cimitero di tutti, e avevano fabbricato una torre coi sassolini. Avevano chiamato Codino a partecipare alla loro felicità, ma egli non aveva risposto, non aveva mostrato neppure di udirle. Seduto su di un tronco d'albero abbattuto, succhiando la sua bacchettina, silenzioso, assorto, pareva dimentico di tutto quanto gli stava dintorno.
Grande, fresca, serena, lavata dall'uragano recente, essa gli stava di fronte, ed egli era così piccino, ai suoi piedi!…
E nondimeno la guardava, da un'ora; osava interrogarne i fianchi tormentati dal passar dei torrenti, dilaniati dalle cave, scrutare fra il cupo verde delle macchie, spingere lo sguardo nelle fosche gole.… Essa, superba e indifferente, si lasciava guardare, ma via via che l'ora avanzava si velava languidamente di vapori, si avvolgeva come una vergine di un velo di viola e d'oro. Cominciava a far freddo. Lungo la gola del Brenta, il vento annunciatore della sera si destava allegramente coll'aria d'un padrone di casa. Le bandiere del vecchio cimitero s'inchinavano salutandosi fra loro, le civette intonavano il primo grido.
Codino trasse di tasca la britola ricurva, e tagliò un piccolo ramo dalla siepe; lo consegnò a Bettina. Serio e pallido, le disse:
– Va a casa colla capra. Di' alla madre che sono rimasto qui a fare il falò.
Le bimbe s'incamminarono docilmente; Bettina, trionfante dell'onorifico incarico, batteva la capra colla sua bacchettina e si voltava ad ogni passo a guardare il fratello.
Quando esse furono finalmente scomparse, allora egli si slanciò. Scavalcò con due salti la siepe, fu sulla costa ripida della montagna segnata appena da un sentieruolo.
Egli ripeteva a sè stesso, avanzando – e già da prima, – da quanto! – se lo ripeteva!:
– Dopo la croce: nella macchia di nocciole: dietro lo stagno della Casera dei Gatto.
Ed una voce, così forte che non gli pareva neppure umana, tant'era forte; così da schiantargli il respiro, da arrestargli il cuore, comandava:
– Vacci, vacci! Se non vai tu, va tua madre.
Ed egli correva.
Correva; e il sole era calato dietro la montagna, e le ombre si allungavano intorno intorno; si avvicinava l'ora in cui i morti sorgono dalle loro fosse per danzare sotto le quercie, e Merlin Cocaio vestito di rosso esce a chiamare la stralusenta Zanina.
Codino aveva molta paura dei morti. Ma, correndo, pensava:
– È il Venerdì Santo; stasera, fra poco, nei paesi usciranno le processioni, si accenderanno i falò: i morti non verranno, stasera, a danzare sulla montagna; anch'essi vorranno guardare.
E correva, trasalendo ad ogni fruscìo di fronde, ad ogni batter d'ala, ad ogni scricchiolìo di sasso.
– Se non vai tu, va tua madre.
Era la prima volta che poteva correre senza sorvegliare la capra, senza portar la zoppetta, senza bigoncio in ispalla, senza il codazzo di quattro bambine. Si sentiva le ali ai piedi; aveva lasciato il viottolo, e si arrampicava come un camoscio su per la costa; si aiutava colle mani e coi piedi; era già in alto, in alto, sopra il Brenta argenteo, ed era piccolo e nero come una formica sul corpo d'un gigante addormentato.
– Se non vai tu, va tua madre.
Sapeva la strada sicura per averla percorsa l'anno innanzi coi pastori: ce n'era una più breve per arrivare alla Croce, ma neppure i contrabbandieri – aveva udito dir da suo padre – osavano avventurarvisi.
Ecco, era quella: a sinistra della Casera dei Zaglia, sospesa alta franante fra le cave che le si spalancavano ai lati come voragini, sepolta fra i ciuffi di ginepro e di rose selvatiche.
Il fanciullo girò dietro la vecchia casera deserta; una secchia squarciata giaceva a terra nel fango; sul davanzale d'una finestra c'era una gabbiuzza vuota. Altre casere chiuse, abbandonate, segnavano d'incerta macchia la solitudine alpestre.
E ormai la sera precipitava, la menta e il timo sprigionavano forti odori, la solennità della montagna si faceva austera e terribile.
– Se non vai tu, va tua madre.…
Le roccie assumevano strani aspetti di giganti, di nani e di folletti, i cespugli si agitavano come anime in pena; faceva un freddo intenso. E i morti, i morti.…
Codino tremava; aveva la fronte imperlata di sudore; gli orecchi brucianti, le mani intirizzite. Correva e piangeva.
Presto! presto!… Quanto lunga ancora era la strada? quanto ripida?… E sempre quei fantasmi.… e l'angosciante silenzio.…
– Presto! presto!… Ancora pochi passi, ancora un ultimo sforzo! Ecco la Croce colle sue scarne braccia spalancate.… ecco la Casera dei Gatto.… ecco la macchia di nocciole.…
– Alt!
Egli si arrestò di botto: livido, battendo i denti, cogli occhi sbarrati innanzi a sè. Più nulla. Credette di aver sognato, credette che non fosse vero. E riprese ad avanzare, cauto, guardandosi intorno, coi capelli irti.
– Alt! – ripetè l'aspra voce di comando.
Alcune forme nere sbucarono dalla macchia, un sinistro occhio rosso brillò fulmineamente.
– Alt!
Il fanciullo non gridò. Perdutamente si gettò giù per la china: a salti, a balzi, inciampando, scivolando, rotolando, rialzandosi e cadendo ancora.
E giù, giù.… per la scoscesa riva senza traccia di sentiero, e giù, giù, follemente, perdutamente.… Ed essi dietro, col loro sinistro occhio rosso spalancato su di lui.…
A un tratto si arrestarono tutti, alzando la lanterna cieca, tendendo l'orecchio.
Colui che inseguivano – certo era il contrabbandiere che aveva nascosto il tabacco nella macchia e che da tante ore attendevano all'agguato – era scomparso all'improvviso alla Casera dei Zaglia, ma qualche cosa rimbalzava, rotolava e precipitava ancora giù per la montagna.
Forse un sasso. Poi più nulla: silenzio.
Ed essi si gettarono nella vecchia casera abbandonata, squarciarono porte e finestre, salirono nel fienile, frugarono nella stalla.…
Nessuno: non c'era più nessuno. Maledetti briganti! Con quel freddo, bisognava tornare ad appostarsi, e aspettar che tornassero.
. . . . . . . . . . . . . . . .
Codino, colla faccia sulle pietre, in fondo alla cava, respirava ancora. Aveva le costole fracassate, dalla fronte gli colava, morbido e tiepido sul volto, un rivoletto di sangue. Ma il sinistro occhio rosso non l'inseguiva più, ed egli poteva dormire.
Finalmente!… Era tanto stanco!… Aveva tanto sonno!… Non sentiva dolore: soltanto, lento lento, un torpore lo prendeva, una nebbia lo fasciava.… Non sentiva freddo, non aveva paura… Chi, chi l'accarezzava così dolcemente sul viso, con una carezza così lieve, così tiepida, così lenta?…
– Mamma.…
Silenzio. Ed ecco, egli si addormentava.…
La menta e il timo odoravano più forte: tutta la montagna in basso si accendeva di fuochi: i canti della Passione si levavano a piangere Gesù.
Canal di Brenta. Venerdì Santo.