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La zia e Tonet.
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Giunto l'ordine, i soldati avean levate fulmineamente le tende, e dagli accampamenti sparsi un po' qua un po' là sotto i filari di viti, sotto gli olivi della collina, eran discesi nella strada che costeggiando il Brenta discende e sale serpeggiando verso il confine. Erano passati ininterrottamente per due giorni e per due notti: uomini, cannoni, carri, muli e cavalli, sollevando nuvoli di polvere, riempiendo la valle di tumulto, d'ordini e di canzoni.
Durante quei due giorni, dai casali arrampicati in alto lungo il Canal di Brenta, remoti fra le cave, accovacciati fra le piantagioni di tabacco, i paesani erano calati a frotte nella borgata pedemontana che le truppe dovevano attraversare.
Gli accorsi erano quasi tutti vecchi, donne e fanciulli, e facevano ala agitando cappelli e fazzoletti, cercando cogli occhi i parenti, gli amici; qualche ardito si insinuava anche nelle file, accompagnava i conoscenti per un breve tratto di cammino; le ragazze, più timide, sorridevano e gettavano fiori dalle finestre, dalle minuscole altane.
Al tramonto della seconda giornata erano passate le ultime batterie: erano scomparse, al galoppo, ad una svolta della strada, come ingoiate dalle montagne nere.
E tosto i crocchi si erano sciolti; il vocìo era cessato; le contrade, le piazze, si eran fatte deserte.
Nelle osterie molta gente era entrata, ma si beveva poco e vi si parlava sommessamente, senza discussioni, senza litigi, quasi per non turbare la serenità di quegli altri, di quegli altri, che se n'erano andati, cantando, nella notte, verso il destino.
E alle dieci s'incamminarono tutti, vecchi, donne e ragazzi, chi di qua chi di là alle loro case.
Non tirava alito di vento; lenta ed alta sul Brenta si era levata la luna; le piantagioni di tabacco, i vigneti, gli olivi, immobili come sotto un incantesimo, guardavano il fiume eternamente scorrere.
Coll'ombra della sera, dopo l'orgasmo e il tumulto festoso degli addii e degli evviva, un improvviso silenzio, un'improvvisa malinconia, eran discesi sulla valle.
Dopo essersi assicurata che nel locale non restava nessuno, Teodora Zampiè, comunemente chiamata zia Teodora, chiuse accuratamente le finestre, sbarrò la porta dell'osteriuccia.
Era una zitella piccola, magra, senza età, dalla figura piatta, dal viso olivigno e come disseccato. Vestita di nero, con un corpetto attillato, una gonna larga a pieghe rigide e fitte, un grembiale color pulce, tutta la sua piccola persona, dalla testa ai piedi, – viso, capelli, mani e vestito, – sarebbe apparsa come intagliata nel legno, dura, angolosa, se non fosse stata ammorbidita e addolcita dalla mansuetudine degli occhi azzurri, timidi, ingenui, pieni di bontà.
Ella si affacciò all'uscio della stanza accanto, deposito di botti, di utensili e di vecchiumi, e chiamò:
– Tonet!
Dalla penombra del magazzino sbucarono fuori un fanciullo ed un gatto.
Il fanciullo poteva avere dodici anni ed era un po' zoppo, bruttino, pallido, coi capelli rossi e il viso lentigginoso. Dietro a lui veniva il gatto, nero, dal mantello lucido e fine.
– Che fai, Tonet? È ora di dir le preghiere.
I due passarono nella cucinetta dove, su di un altarino festonato di carta, un Cristo giallo, spettrale, tutto chiodi spine e magrezza, grondava sangue fra due palme di fiori finti.
Zia Teodora s'inchinò profondamente, si fece il segno della croce, s'inginocchiò sulle nude pietre: Tonet accanto a lei.
La donna pregava intensamente, curva sulle pietre, ripiegata su sè stessa, e come annientata dinanzi al crocefisso. Pregava con un cieco abbandono e una cieca offerta di tutto il suo essere, così inabissata nella preghiera e nella fede, che tutto, tutto quanto la circondava, era per lei momentaneamente abolito e scomparso.
Ripeteva i gesti, le parole, gli atti abituali, ogni sera, da anni ed anni, collo stesso profondo asservimento, colla stessa profonda rassegnazione. Gli avvenimenti non mutavano le parole della sua preghiera, come non turbavano il fervore della sua fede.
Il bimbo invece, che di solito pregava distratto, biascicando insonnolito uno storpiato latino, quella sera, inginocchiato, ma eretto, fissando il Cristo con due occhi ardenti, gli si rivolgeva come a persona viva, gli indirizzava tutto un discorso suo, in dialetto: lungo, veemente, appassionato:
– Bisogna che Tu li protegga, bisogna che Tu li faccia vincere, che Tu li faccia tornare.…
Quei due esseri, così vicini, pregavano Iddio in modo profondamente diverso.
Ma la zia Teodora non sapeva chiedere, ella che aveva sempre rinunciato. In paese, dove la sua storia era conosciuta, dicevano: – È una santa.…
In fatto, non era forse che una povera buona creatura senza volontà.
Da bimba aveva sofferto, come di una malattia, di una timidezza atroce, di quelle timidezze che si turbano per uno sguardo, per un saluto, per una persona nuova; ragazza, – giallina, triste, senza sorriso, – aveva dovuto vivere nell'ombra della bellezza della sorella, una bionda turbolenta e procace che la dominava e la tiranneggiava: quando la sorella se n'era andata – a quel modo, dietro un operaio di passaggio! – aveva dovuto sostituirla nell'osteria, girar fra i tavoli, servir gli avventori, lei, che arrossiva e balbettava se le rivolgevano la parola, lei, che avrebbe voluto farsi monaca.… Ma non aveva osato neppur dirlo, neppur dirlo, finchè erano vissuti i genitori.… Rimasta finalmente zitella e sola a sessant'anni con un po' di ben di Dio, aveva creduto giunta l'ora di dispor di sè stessa e aveva fatto «passi» per cedere l'osteria ed incominciare il noviziato. Macchè!… Alla vigilia di entrare in convento, aveva ricevuto un telegramma, era dovuta partir per Milano, – vestito nero, corpetto attillato e grembiale color pulce che non erano mai andati al di là di Vicenza, – e a capo di una settimana ne era tornata portando seco qualche cosa di ben straordinario: un fanciullo ed un gatto.
– Il bambino?… il gatto?… Dovevano essere l'eredità della sorella, morta chi sa dove, chi sa come.
Ma da Teodora, neppure una sillaba. E nessuno aveva osato interrogarla: inconsciamente il suo silenzio ispirava rispetto.
Addio convento!… Ella aveva tenuto il bimbo con sè: un bimbo gracile, malaticcio, bisognoso di mille cure; gli aveva voluto bene, e aveva voluto bene anche al gatto. Aveva sempre fatto così, zia Teodora; aveva sempre accettato tutto da Dio, senza chiedere perchè, senza ribellarsi.
E così un bel giorno aveva accettato anche l'improvvisa irruzione di venti, trenta, quaranta bersaglieri nell'osteriuccia. Oh, non senza una scossa!… In vita sua, anzi, in tutta la sua vita, ella non aveva mai sentito nell'anima una scossa simile, un urto più violento.
Ella non leggeva giornali; sapeva appena appena che c'era una gran guerra. E, da tempo, teneva l'osteria aperta per modo di dire, la teneva ancora aperta, non sapeva neppur lei perchè, forse per forza d'inerzia, forse per bontà, per non far dispiacere a quei tre o quattro vecchiotti rimasti fedeli.
Ma non veniva quasi più nessuno, d'inverno specialmente, in riva al Brenta, con quel freddo e quel vento, senza stufa, senza belle servotte.… E zia Teodora che aveva di che vivere egualmente, in fondo era contenta di essersi sbarazzata così a poco a poco degli avventori, senza bisogno di una decisione definitiva, di un atto di volontà. Le rimaneva più tempo per pregare.
Ed ora?.… C'era una gran guerra; sì, l'aveva sentito dire anche lei, come si sente dire: C'è il colèra in Asia.… Ma che la guerra arrivasse fin là, che venisse a turbarla fin nel suo rifugio, che i soldati si accampassero proprio nel suo poderetto, che andassero e venissero per la casa come se fossero in casa loro, che riempissero di voci, di canti, il silenzio la solitudine del cortiletto, questo no, no, non l'aveva neppur lontanamente pensato.
La guerra: quella cosa orribile mostruosa iniqua inumana, repugnante alla sua anima mansueta come un castigo di Dio, come un flagello del demonio; dover toccarla con mano, averla sotto gli occhi; incoraggiarla, servirla, personificata in quei soldati che sedevano alla sua tavola, che bevevano nei suoi bicchieri, e parlavano ridendo di bombe, di granate e di mitraglia.… Oppure discutevano.… sì! discutevano sui mezzi migliori per massacrare la gente.
A lei, toccava sentirli: a lei! che non aveva cuore di torcer l'ala neppure a una mosca, che aveva rimorso se inavvertitamente schiacciava una formica, tutte creature del buon Dio.…
Non potevano andare in un'altra osteria? No, non potevano, perchè a quelli accampati al di qua del Brenta non era permesso di passare il ponte. Da lei dovevano restare!
E intanto continuavano a chiamarla, col miglior buon umore del mondo, chi di qua, chi di là, come fossero in casa da cent'anni:
– Zia Teodora! Zia Teodoraaa!…
Oh, se ella avesse avuto la capacità di formulare e di esprimere pensieri energici, avrebbe risposto:
– Vergognatevi, belve feroci, gente senza Dio.
Ma nella sua timidezza, nella sua innata mansuetudine, si limitava a servirli senza un sorriso, senza uno sguardo di benevolenza.
E li osservava, talvolta, con un terrore misto a sorpresa: quei feroci, quegli assetati di sangue, armati fino ai denti per massacrare, nelle sere piovose, sotto la lucernetta, giocavano a carte o scrivevano a casa; il mattino, quando non c'eran manovre, zappavano e inaffiavano una minuscola aiola dove avevano piantato quattro violeciocche.
Ma era avvenuto intanto un fatto imprevisto. Un soldato siciliano, un giovanottone biondo, gigantesco, si era avvicinato un giorno quasi esitando a zia Teodora, l'aveva pregata sottovoce:
– Zia, volete farmi un gran favore?… C'è mia madre che si dispera perchè crede che tutto il Veneto sia «il fronte», e si è messa in testa che io sia ferito: a quello che scrivo io, non vuol credere. Potreste scriverle voi, zia, che siamo qui, sani e salvi, in piena pace, accampati su una bella collinetta, e che per ora non ci battiamo? Quando vedrà una calligrafia di donna, crederà.
Zia Teodora, pur riluttando, non aveva osato rifiutare, e da quel giorno era entrata in funzione di segretaria.
Non passava quasi pomeriggio, ormai, che uno di quei ragazzi non la pregasse, di rassicurare la mamma, la sorella lontana. Ed ella scriveva, docilmente, sentendo a poco a poco svanire la sua diffidenza; scriveva, colla sua calligrafia che rassomigliava alla sua persona: tracciando le parole umili, precise, piccoline; colla sua ortografia di veneta che sopprimeva tutte le doppie. E nella sua bontà trovava le espressioni più adatte per consolidare, per rasserenare, per convincere. Quell'anima semplice aveva l'istinto della carità.
Dalla Sicilia, dalla Calabria, dall'Abruzzo, dal Lazio, le donne sconosciute rispondevano: lettere ingenue, appassionate e riconoscenti; la ringraziavano, la benedicevano, la chiamavano «sorella»: alcune di esse mandavano anche una piccola immagine, un santo miracoloso da consegnare al «ragazzo».…
E a forza di far da intermediaria fra madre e figlio, di penetrare nella toccante intimità dei loro cuori, zia Teodora si era ammansata, si era famigliarizzata coi soldati e colla guerra: li guardava, li vedeva con occhio diverso.
Non potevano esser feroci quei ragazzi che avevano in cuore tanta tenerezza, tanto sentimento per la loro mamma lontana, non potevano essere senza Dio.… Alcuni di essi erano tanto giovani!… Avevano delle facce rosee lisce e dolci come fanciulle.… Avevano raccolto un passerotto ferito che il vento aveva gettato mezzo morto nel cortiletto e lo curavano e lo imbeccavano.…
E la guerra?… Ella l'aveva quasi dimenticata, ma, se vi pensava, era con una stretta al cuore, con un brivido d'inquietudine.
La guerra ormai non rappresentava per lei altro che il pericolo di quei figlioli, il dolore di quelle che li aspettavano.… Le conosceva adesso; conosceva i loro nomi, le loro case, perfino il loro volto.… Di talune aveva visto il ritratto; ed erano vecchie quasi quanto lei, e stanche, e povere, con tre o quattro figli sotto le armi.…
L'istinto materno, latente anche nelle più fredde anime femminili, si risvegliava anche in lei, povera creatura, che non aveva mai conosciuto l'amore, che non aveva mai pensato ad un figlio suo, che mai fino ad allora aveva neppure compreso.… A Tonet aveva voluto bene, sì, ma con una tiepida tenerezza.… E questo era un sentimento nuovo, egualmente puro, ma più vivo, più forte: forse perchè sbocciato così, sul limite dell'incerto domani, forse perchè corso da un fremito d'angoscia.…
Essi cantavano ogni sera, dopo cena, nel cortiletto in riva al Brenta. Cantavano talvolta una canzone amorosa, appassionata, piena di malinconia; ma più spesso un'allegra e spavalda invettiva contro «Cecco Beppe», in cui ricorreva un ritornello ardito che sollevava immancabilmente un'esplosione d'applausi e d'ilarità.
Nei primi tempi zia Teodora era sulle spine durante quel canto; si torceva e si contorceva sulla sedia, non osando nella sua timidezza intervenire, e sentendosi in peccato mortale se tollerava. Anche ora, quando cantavano così, il cuore le dava un balzo, si ritirava e si richiudeva tutto come la sensitiva, ma diceva a sè stessa:
– Lasciali cantare, Teodora, lasciali cantare!… Come sono venuti – improvvisamente – improvvisamente possono andare.… E andar dove!… Dove, non si sa; ma dove certo ci sono i cannoni, le mine e la mitraglia, e forse.… Lasciali cantare, Teodora, lasciali cantare!…
Ed essi cantavano, sereni, in riva al Brenta; e dall'altra sponda altri soldati rispondevano; gli accampamenti si gettavano l'un l'altro le canzoni, e tutta la valle era corsa da un fremito di giovinezza.
Se zia Teodora si era lasciata conquistare lentamente, attraverso alla dura scorza degli anni, dei pregiudizi, del bigottismo, la conquista di Tonet era stata immediata e fulminea.
Fino ad allora il bimbo aveva vissuto una vita oppressa e senza gioia; era come un alberetto venuto su senz'aria, senza sole; striminzito fra la muffa di vecchi muri; per paura dei raffreddori, delle correnti d'aria e dei cattivi compagni, la zia non aveva voluto mai mandarlo alla scuola, l'aveva sempre tenuto chiuso in quelle due camerette, gli aveva messo in mano una Vita dei Santi. Con quel libro aveva imparato a leggere e a scrivere da solo. Il gatto era il suo unico amico, il suo unico confidente; ma era vecchio, anche quello, era un gatto triste, aveva forse cent'anni.…
– .…Non prendere freddo, Tonet! Non correre, Tonet! Tonet, vieni a dir le preghiere!…
E così il bimbo era cresciuto chiuso e taciturno; non sapeva giocare, non sapeva quasi neppur ridere.
Ora, appariva trasfigurato. Quella gioventù, quella gaiezza, quella corrente viva e sana improvvisamente apparsa nella sua vita, l'avevano elettrizzato. Si moveva più rapidamente, con mosse più ardite e più vivaci; si era fatto espansivo, ciarliero; gli occhi, intelligenti e neri, gli brillavano nel visetto pallido. Era divenuto subito l'amico dei soldati, il loro galoppino, il loro commesso, il portalettere, il segretario galante. Oh, non per messaggi illeciti! Ma molti soldati, fra i meridionali, erano analfabeti, e avendo intuito la pudibonda coscienza di zia Teodora, quando volevano scrivere alle fidanzate, laggiù al paese, non si rivolgevano a lei, ma a Tonet.
Era buffo vedere quel piccino, alto come un soldo di cacio, colla testina rossa curva su di un foglio ornato di una colomba o di un cuore trafitto, scrivere sotto dettatura:
– «Angelo mio adorato.… Bruna fanciulla dei miei pensieri.… Idolo mio.…»
E scriveva adagio, colle labbra strette, intingendo appena appena la penna per non far sgorbi, con una tal religiosa attenzione, che per una lettera impiegava due ore; ma quando l'aveva finita i soldati facevano cerchio intorno a lui, battevano le mani, dicevano:
– Che vuoi per premio? Che vuoi, professò?…
Per premio egli voleva che gli permettessero di fare una passeggiatina per l'accampamento. Quell'accampamento aveva per il fanciullo un fascino straordinario. Ormai ne conosceva le tende ad una ad una, sapeva il nome di chi ci stava.…
Com'erano belle, piccole e grige sotto gli olivi!… A una certa distanza non pareva che ci fossero, si confondevano col colore delle foglie; ma poi, avvicinandosi, si scopriva che erano là, le minuscole casette, tutte eguali, di un'estrema pulizia; e ognuna di esse racchiudeva per Tonet un mondo di sorprese; e ognuna di esse, pur essendo tutte eguali, aveva qualche cosa di diverso, di speciale, secondo il carattere e il paese del soldato che l'abitava.
I lombardi, i piemontesi, avevano quasi tutti qualche libro, qualche giornale, magari vecchio di due mesi, che leggevano e rileggevano fino all'ultima parola; ma i meridionali non avevano bisogno di leggere: parlavano: raccontavano le cose, gli episodi di guerra come se li avessero visti, come se vi avessero assistito, con un linguaggio immaginoso e pittoresco, sottolineando il racconto coi gesti vivacissimi, con tutta la mobilità delle loro persone, dei loro volti, dei loro occhi belli e ardenti.
Tonet, per i soldati, si sarebbe fatto tagliare a pezzi. Li amava; li ammirava. A lui, così piccino e delicato, sembravano giganti, esseri soprannaturali a cui tutto doveva riescir facile, tutto possibile. Amava in loro la forza, la gioventù, l'allegria, che egli non aveva, che non avrebbe avuto forse mai.… E anch'essi gli volevano bene. Gli mettevano in testa per gioco uno dei loro cappelli a lunghe piume che gli andava giù fino agli orecchi, poi fingevano di cercarlo, di qua, di là, sotto un sasso, sotto una foglia, dicevano:
– Dov'è Tonet?
Erano più bambini di lui. Oppure:
– Tonet, vuoi venire con noi? Vuoi farti soldato?
Oh, se avrebbe voluto!… In capo al mondo, sarebbe andato, con loro, senza paura. Ma non avrebbe potuto mai esser soldato, lui, povero zoppetto.
Quando la tromba suonava il silenzio, la sera, con quelle poche note lunghe lente malinconiche, una disperata umiliazione gli serrava l'animo a quel pensiero.
Tonet, inginocchiato, ma eretto, fissando il Cristo con due occhi ardenti, pregava:
– Bisogna che Tu li protegga; bisogna che Tu li faccia vincere, bisogna che Tu li faccia tornare.… Guai a te.…
E la zia umilissimamente:
– Sancta Maria .… Sancta Virgo Virginum.… Sancta Dei Genitrix.…
Bussarono. Due colpi leggeri. Tonet balzò in piedi.
– È uno di loro che torna.…
– Aspetta – mormorò la zia. – Aspetta, caro. È forse il vento.
E, fattosi il segno della croce, prese la lucernetta che aveva deposto per terra accanto a sè, si alzò esitando sulle ginocchia indolenzite, e stette in ascolto.
Bussarono nuovamente. Uno, due, tre colpi, ancora leggeri, ma fermi, coll'insistenza di chi vuole assolutamente farsi sentire. Non era il loro modo di bussare. Chi poteva mai essere a quell'ora?
– Apro – insistette il fanciullo, impaziente.
– Va a guardar prima dallo sportellino.… – consigliò zia Teodora un po' preoccupata.
Tonet salì di volo la scala. Si udì l'aprirsi e il chiudersi dello sportello; il passo di lui discendere più lento.
– È una donna – annunciò con espressione delusa e rannuvolata.
Non è raro nelle campagne venete che un passante chieda ospitalità per una notte in una casa sconosciuta per riprendere all'alba il cammino verso la sua mèta. Ed è raro invece che gli si rifiuti un pane, un giaciglio.
– Apri, apri – disse zia Teodora caritatevolmente.
Era bassa e tarchiata; chiusa in uno scialle scuro; un fazzoletto di colore, annodato sotto il mento all'usanza delle vecchie contadine venete, le nascondeva anche parte del volto. Doveva venir di molto lontano perchè aveva le scarpe, la gonna, tutte inzaccherate e sporche di polvere e di fango come chi abbia fatto molto cammino, e per sentieri abbandonati. Aveva l'aspetto di una mendicante.
Zia Teodora le si fece incontro con gentilezza. Ma non le chiese nè di dove venisse nè dove andasse: davanti ai poveri la sua anima semplice preferiva la profonda bontà, la profonda pietà del silenzio.
Seduta a tavola fra la vecchietta e Tonet, l'ospite curva sul piatto mangiava avidamente. Non si era tolto il fazzoletto dal capo, si era sbarazzata soltanto dello scialle scuro; e si moveva goffamente, con delle mosse brusche, a scatti, e pur con impaccio. Doveva essere un'affamata, a cui la tavola e la compagnia, pur così modeste e primitive, incutevano soggezione.
Zia Teodora evitava perfino di guardarla perchè mangiasse con maggior libertà; il fanciullo invece, con una inopportunità insolita in lui, per quanto la zia cercasse di distrarlo, non le toglieva gli occhi di dosso.
Il piccolo aveva, come molti fanciulli cresciuti in solitudine, un'acuta sensibilità, un acuto spirito di osservazione; e quella donna l'attirava e lo respingeva inesplicabilmente.
Era cenciosa come una mendicante, ma non gli pareva una povera; aveva un modo strano di portare il cibo alla bocca: ingordamente, eppur quasi di soppiatto; e quella bocca era grande, nerastra, livida nei contorni, senza labbra. Tonet guardava l'ospite con poca simpatia.
La cena consisteva in tre uova e un po' di formaggio, ben poca cosa in verità; a un certo punto zia Teodora pensò che quel poco forse non poteva bastare alla fame della poveretta, e si alzò per cercare una bottiglia di vin dolce, del frizzante vin bianco della collina.
Ella e Tonet non bevevano che acqua, ma l'ospite, sì, doveva accettare un bicchiere, magari per inzupparvi dentro un pezzo di pane: non aveva altro da offrirle: quel giorno, colla partenza dei soldati, l'osteriuccia aveva dato fondo a tutte le riserve.
L'ospite ringraziò, bevve, e si animò. Già.… i soldati. Aveva anche lei un figlio soldato, che combatteva al fronte dalle parti dell'Isonzo. E un altro era qui fra i bersaglieri. Ella era venuta a piedi dal suo paese per salutarlo, ma era arrivata troppo tardi, poichè, giunta a Carpenè, aveva saputo che i bersaglieri erano già tutti partiti. E per dove erano partiti? Ah, se avesse potuto raggiungere il figlio suo!…
Tonet si era avvicinato vivacemente alla donna sconosciuta. Non ne vedeva più la faccia nerastra, gli occhi inquieti, la bocca senza labbra.
Aveva un figlio tra i bersaglieri?… Com'era questo suo figlio?… Come si chiamava?… Egli li conosceva tutti, i soldati del suo accampamento. Francesco?… Si chiamava Francesco?… Ce n'erano tre di quel nome: uno così e così, l'altro così e così, il terzo.… No, nè l'uno nè l'altro nè l'altro ancora, era quello che la donna cercava. Forse negli altri accampamenti… Ma avrebbe fatto certo in tempo di raggiungerlo, l'indomani. Dove fossero andati, proprio, non si sapeva; non lo sapevano neppur loro, o non avevano potuto dirlo, ma press'a poco.… Tonet conosceva tante scorciatoie per arrivare al confine! Gliele avrebbe insegnate, l'indomani all'alba.
Seguitarono così a chiacchierare un bel pezzo animatamente, dimentichi dell'ora.
La donna, che, parlando, aveva vuotato tutta la bottiglia, doveva voler molto bene a quel suo figliolo bersagliere, e si interessava ai minimi particolari della vita dei soldati: della loro disciplina, delle loro munizioni, dell'equipaggiamento, e quanti cannoni avevano, e se erano contenti, e se facevano la guerra volentieri.… E per l'acqua come facevano?
Tonet raccontava. Trasportato dal suo affetto e dal suo entusiasmo, raccontava. Aveva le guance infiammate; gli occhi lucenti; tutta la piccola persona vibrante di commozione e di tenerezza.
L'altra, immobile, colla faccia tra le mani, seguiva attentissima le parole del fanciullo.
All'improvviso egli si fermò, di botto, nel bel mezzo di una frase; impallidì violentemente. Aveva posato gli occhi sulle mani dell'ospite, e, con un sussulto, per la prima volta le aveva viste: vellose, aspre, quadrate: due mani d'uomo.
Sorpresa dell'improvviso silenzio, zia Teodora disse:
Egli accennò di sì, col capo, macchinalmente.
– Il sonno viene sempre così ai bambini, tutto di un colpo. Andiamo a letto, caro.
Egli, come un automa, si lasciò scivolar giù dalla seggiola, si lasciò prendere per mano dalla zia, s'incamminò.
– Mi dispiace, buona donna, – si scusò zia Teodora con sincero rammarico, – di non avere un letto da offrirvi.… Ma non abbiamo che una stanzetta per noi due. Qui però, nella stalla, c'è del fieno soffice, tagliato di fresco; potrete riposare alla meno peggio.
– Dio ve ne renda merito: è anche troppo! – ringraziò la donna mellifluamente.
La stalla era vuota e aveva un'unica finestrella colle inferriate che guardava giù verso la gola fresca del Brenta, e quella sera lasciava intravedere un quadratino di cielo stellato, un lembo del paesaggio mite e sereno. Subito al di là della stalla, era la cucinetta, col suo altarino festonato di carta, col suo Cristo spettrale dinanzi a cui ardeva perennemente una fiala ad olio; e al primo piano, un po' discosto, sopra il magazzino, l'unica stanza da letto che serviva per la zia e per Tonet.
La zia dal suo lettuccio che era separato con una tenda bianca – pudicamente – da quello di Tonet, stette in ascolto meravigliata.
Di solito, spogliandosi, il fanciullo girava su e giù per la camera, gettava le scarpe di qua, la giacchettina di là, con un disordine e un tramestìo che gli attiravano sempre i rimbrotti della zia così precisa e metodica in tutte le sue cose.
Quella sera invece nella stanzetta si sarebbe sentita volare una mosca. Zia Teodora, già a letto, striminzita in un giubbetto color tabacco, senza treccia finta, colla cuffietta annodata sotto il mento, sporse il capo dalla sua tenda.
Ma non si era neppure spogliato!… Era ancora là, seduto sulla sponda del letto, colle braccia penzoloni, gli occhi sbarrati nel vuoto.
– Che fai, Tonet? Perchè non ti spogli?… Suvvia, suvvia, svelto; che è tardi.
Il fanciullo balzò giù dal letto in mezzo alla camera.
– Ho dimenticato di dar da mangiare al gatto – disse risolutamente – lasciatemi scendere, zia.
Ella, poco persuasa, stava per dir di no, ma lo guardò, e lo vide stravolto, pallido, turbato; pensò che fosse così per gli avvenimenti della giornata e non trovò il coraggio di contrariarlo.
– Va adagio per le scale. Bada che l'ultimo gradino è sconquassato. Te ne vai senza la lucernetta?
Quando egli tornò, dopo parecchio tempo, la zia sonnecchiava già, nel suo giubbetto color tabacco, nella sua cuffietta inamidata: aveva il viso così piccino, scuro e rugoso che sembrava una susina, e soffuso di una gran dolcezza: nelle mani teneva la corona: si era addormentata dicendo il rosario.
Egli le si gettò addosso, anelando, tremando: la scosse, la chiamò; le parlava così accosto che la sua bocca toccava quasi il vecchio volto di lei, e le parole erano un soffio, senza voce, ma così rotte, angosciose e imperiose che sembravano singhiozzi e comandi.
– Zia, zia. Presto. Quella là è un uomo. È un uomo travestito. L'ho visto. L'ho spiato dal buco della serratura. È una spia. È qui per avvelenare i pozzi, per seguire i soldati e tradirli. Presto, zia, presto. Dovete vestirvi, dovete scendere.
E senza aspettare che ella si riavesse dallo stupore, dalla paura, già l'aveva afferrata per le braccia, e le gettava la gonna, il grembiale, la treccia finta, le infilava il corpetto, glielo abbottonava tutto di traverso, la sospingeva fuori del letto. Era scalzo, livido, sudato e freddo, arruffato e fremente: non pareva più Tonet, ma un altro, con un'altra voce, un altro viso.
– Presto, presto, zia. È un uomo, è una spia. L'ho visto. E noi gli abbiamo detto tutto!… e noi gli abbiamo detto tutto!…
L'esaltazione, la disperazione e l'angoscia del fanciullo erano tali, che la vecchietta, attonita, esterrefatta, pur senza afferrar compiutamente quel suo discorso sconnesso e violento, pur senza capir bene che cosa dovesse fare, perchè dovesse vestirsi, obbediva.
Egli continuava a incalzare, convulso:
– Presto! presto! presto!…
E le comunicava così la sua ansia, il suo orgasmo, la sua febbre.
Ella si affrettava, docile, spaventata; pur non dimenticando nella sua toccante timidezza, di dissimulare la sua scarna nudità agli occhi di lui che non la vedeva.
– No, le scarpe no! Soltanto le calze, per non far rumore. Presto!…
Quando la zia fu finalmente vestita, alla meglio, e traballando mosse i primi passi per la stanza, Tonet parve calmarsi. Prese le mani della vecchia, le serrò con tutta la sua forza nelle sue piccole mani arse e brucianti.
– Sentite, zia. State bene attenta. Io corro ad avvertire le guardie di finanza. Voi restate qui in sentinella.
– Vuoi lasciarmi sola.… con lui?… – gemette ella.
Tonet non rispose; non sembrava neppure che avesse udito.
– Ma non bisogna assolutamente che vi scappi. L'ho chiuso a catenaccio dalla parte della cucina, ma l'uscio è così debole! Ho accatastato accanto all'uscio due mucchi di strame. Finchè io torno, voi starete là, in cucina, di guardia. Ma per nessuna ragione, per nessuna ragione al mondo, dovete aprirgli. Avete capito, zia? Guardatemi: avete capito? Ora russa, ma se per caso si destasse, se si accorgesse che noi l'abbiamo scoperto.… al primo atto, al primo movimento, al primo tentativo di scappare, date fuoco.
Atterrita, a bocca aperta, zia Teodora tremava come una foglia e pareva invecchiata improvvisamente di dieci anni, fatta cadente, devastata, decrepita.
– Figlio mio, figlio mio, Tonet.… – implorava – che dici?… Io dovrei?…
– E volete dunque che vi scappi, che li avveleni, che li tradisca? – proruppe il fanciullo a voce bassa e veemente. – Voi non sapete; ma ce ne sono state altre di queste carogne, che si sono vendute così, che hanno fatto tanto male ai nostri soldati, che hanno insegnato i nostri posti ai tedeschi e ci han fatto assassinare.… Voi non sapete; ma essi mi han raccontato tutto.… E se ci scappa, succede così, succede così.… – singhiozzò egli, in un impeto d'esaltazione selvaggia.– Succede così, succede così, se gli aprite, se lo lasciate fuggire.…
– No, no.…
– Sentite, zia. Dovete giurare. Giurate sull'anima dei vostri morti. Se dorme, lasciatelo dormire, ma se si sveglia, giurate!… se tenta di uscire, di buttar giù la porta, fuoco! Avete capito? Date fuoco. Giurate. Presto. Giurate.
Ed ella balbettò:
– Giuro.
– Ed ora venite – comandò il fanciullo.
– No: senza lucerna! Bastano i fiammiferi. E non fate rumore!
Ella discese brancolando la scala, si accoccolò tremula dinanzi all'altare. L'altro russava poderosamente. Tonet socchiuse cauto la porta, dalla soglia si rivolse un'altra volta verso la zia.
– Avete giurato – ripetè, fissandola.
E si slanciò fuori, nella notte.
Il maresciallo, un pancione, svegliato di soprassalto nel bel mezzo del sonno, dai colpi, dai calci frenetici che Tonet aveva sferrato alla porta della caserma, lo seguiva ansimando su per il viottolo.
C'era voluto del buono e del bello a convincerlo, a trascinarlo fuori del letto: era incredulo: da qualche tempo i paesani avevano l'ossessione, la mania delle spie, ne vedevano da per tutto. E intanto le povere guardie di finanza!… Finalmente, trascinato dalla sicurezza disperata di Tonet, si era deciso: si era mosso con sei uomini. Ma si arrestava ad ogni passo, trafelato; si asciugava il sudore e borbottava:
– Benedetto figliolo!… Tu sei zoppo, ma corri più di un dritto!… Come si fa a tenerti dietro?
E Tonet supplicava:
– Presto, presto, presto, per l'amor di Dio!…
Un'improvvisa lucidità era subentrata al suo orgasmo. Ora, egli sentiva il terrore, la responsabilità di quello che aveva detto, che aveva imposto alla zia. Se l'altro si era svegliato, se, accortosi di essere in trappola, aveva tentato in qualche modo di fuggire, di scardinare la porta.… al primo movimento, non c'era dubbio.… La zia aveva giurato. Ed egli aveva dimenticato di dirle: – Date fuoco e scappate. – Le aveva detto invece: – Restate qui fin che torno.
E la poveretta era rimasta, per non mancare al suo giuramento: certo; Tonet la conosceva: ed era forse già abbrustolita, arrostita tra le fiamme insieme allo spione.…
– Presto, presto, presto! – implorava Tonet correndo come un pazzo. E l'altro dietro, colla sua gran pancia, affannoso:
– Uhm!… Ma sei proprio certo che sia una spia?…
Il fanciullo non rispondeva. Coi capelli irti sul capo, vedeva già la casetta in fiamme, sentiva già gli urli e le bestemmie dell'uomo, e la zia, la zia.…
– Presto, presto, per carità!
Ma quando invece, sbucati fuori dalle piantagioni di tabacco, furono più in alto, sul Brenta argenteo, respirò. La casetta era là, tacita e tranquilla, tutta chiusa, col suo cortiletto ben spazzato, colle sue quattro violeciocche. La luna la bagnava tutta di una luce bianca, mite, serena; le montagne intorno facevano la sentinella.
– Auff!! – fece il maresciallo.
– Si entra? – chiesero gli uomini sottovoce.
Seguì un breve conciliabolo.
– A entrare in tanti – disse il maresciallo, che non era un leone – si fa rumore, si va a rischio di dare l'allarme. È meglio agir con prudenza; evitare le colluttazioni. Facciamo un accerchiamento: due uomini entrino di sorpresa dall'abbaino e s'impadroniscano della spia finchè dorme, gli altri circondino la casa. Ssst!… Senza rumore.
Così fu fatto. Pochi minuti d'attesa lunghi come secoli; poi si udì il tonfo di due corpi, un urlo, un breve parapiglia, delle imprecazioni. Una voce gridò:
– Acciuffato!
Il maresciallo e gli altri irruppero baldanzosi nella stalla.
Era tutto buio, ma, quando fu acceso un lume, si vide l'uomo: un uomo quasi vecchio, dalla faccia avvizzita e volgare, ignobile nei suoi cenci femminili, colla testa nuda, una testa rapata, spennacchiata, quasi calva.… Faceva vergogna e pietà.
E non tentava neppure di svincolarsi, di difendersi; guardava qua e là, impotente, coi suoi occhi falsi, come una belva presa al laccio, all'agguato: era brutto e vile.
Lo legarono come un salame, fu consegnato a quattro soldati che gli montarono la guardia colle baionette inastate.
Tutto si era svolto in una mezz'ora. Tonet era senza respiro: allibito e raggiante.
– Ed ora stendiamo il verbale – disse il maresciallo.
Ma non aveva ancora varcata la soglia della cucinetta, pettoruto, levando alta la lucerna, che si voltava indietro, gridava a tutta gola.
– Ohe, ohe!… È venuto un accidente alla siora Teodora!
Col suo vestito nero, il suo corpetto attillato, il suo grembiale color pulce, zia Teodora giaceva infatti, riversa, immota, davanti all'altare.
Nella mano destra rattrappita stringeva la scatola dei fiammiferi, nella sinistra teneva il rosario.…
E i timidi mansueti occhi azzurri, sbarrati verso il Crocefisso, lo guardavano ancora: vitrei, senza chiedere, rassegnatamente.