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Il volontariato di Torquemada.
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In sul principio tutti coloro che entrando in farmacia intravedevano il bel marmocchio stretto come un salame nelle fasce, tra le braccia di una robusta contadina, all'udire quel nome cascavano dalle nuvole.
– Che bel bambino!… Come si chiama?
– Torquemada – rispondeva in fretta, burbero, il signor Prospero, senza levar gli occhi dalle sue pillole.
– Come ha detto?… Torquemada?!… E che significa?
Per lo più il signor Prospero evitava di dare spiegazioni; per il suo lutto recente aveva sostituito la papalina di velluto verde con una berrettuzza di merinos nero e aveva la fascia nera anche al braccio: si muoveva compunto e silenzioso fra i barattoli e le sanguisughe.
Ma un sabato – era mercato, al tempo del raccolto della canapa, quando la febbre e il chinino sono all'ordine del giorno a Cernedo, la farmacia piena di gente, e l'interlocutore, quel maledetto dottor Fulcis, sempre ironico, sempre con un risolino beffardo sotto i baffi mozzicati – il signor Prospero, stanco delle continue punzecchiature, aveva risposto una volta per tutte.
– Finitela. È stata lei a volerlo, la poveretta che è lassù.
E da quel momento tutti lo avevano lasciato in pace.
Ognuno sapeva in paese che la defunta signora Zenobia – requiem aeternam – era stata in vita un'arrabbiata lettrice di romanzi, un'esaltata, un'isterica, a cui la maternità, giunta tarda e inaspettata dopo sedici anni di sterile imeneo, aveva finito di sconvolgere il cervello.
Durante i nove mesi di gravidanza, quante non ne aveva fatte quella donna!… Prima si era disperata; aveva pianto e singhiozzato per settimane intere, giorno e notte, impedendo al marito di dormire neppur per mezz'ora; poi era entrata in una fase di bigottismo acuto per cui cominciava a pregare all'alba e non smetteva che a sera; all'approssimarsi del termine, era ricaduta in una crisi di spavento: urla e convulsioni. Infine, messo faticosamente al mondo il marmocchio, aveva avuto il buon senso di morire. Non senza aver fatto giurare al signor Prospero di non riprendere moglie. Niente da meravigliarsi che gli avesse anche fatto giurare di metter nome Torquemada al bambino.
Del resto, che fa un nome o l'altro? – Non sono i nomi che fanno gli uomini, ma gli uomini che fanno i nomi – aveva sentenziato il maestro di scuola.
E se v'era qualcuno che dimostrasse in modo inoppugnabile la verità della sentenza, era il piccolo Torquemada.
Paffuto, roseo, placido; con un viso da cuor contento; due occhi tondi celesti attoniti a fior di testa: dormiva per ore ed ore, poppava gagliardamente, non piangeva mai. E quando fu fuori dalle fasce, quando cominciò a muovere i primi passi, a far capolino in farmacia, tentennando, più largo che lungo, in una vesticciola di bordatino bianco e rosa, non c'era pericolo che tirasse la coda al gatto, o che scompigliasse i barattoli dei papà; e più tardi, a sei, a sette anni, nè schiacciava le formiche, nè rubava le pasticche di zucchero d'orzo; stava per ore ed ore a giocare, solo, buono, con un pezzetto di carta, con un sassolino, sulla soglia della farmacia; o più spesso si addormentava sulla sua seggioletta, colle mani intrecciate sulla pancia, come un piccolo parroco.
Questo, veramente, gli avveniva un po' troppo di frequente anche a scuola: ma che importa? Non lo faceva apposta; ed era così buono, docile e obbediente, teneva i suoi quaderni con tanta diligenza, zeppi di errori, sì, ma con una calligrafia da buon bambino; chiara, tonda, precisa; sapeva tanto bene le lezioni a memoria!
Del resto ormai nessuno, tranne il perfido Fulcis, lo chiamava più Torquemada; anche il signor Prospero, collo scorrer degli anni, passato lo spavento di veder scaturir di sotterra l'ombra vendicatrice della defunta metà, aveva finito per chiamarlo come tutti gli altri: Toma.
E lo adorava, quel suo Toma: quell'inaspettato rampollo venuto a riposarlo di sedici anni di burrasche; quel pane di burro, che non apriva bocca se non per dire: «Sì, papà».
Per sedici anni, il povero Prospero aveva portato ai polsi i ceppi del servaggio: fino a che punto, nessuno poteva neppur sospettarlo; per sedici anni, non era stato padrone neanche di accender la pipa senza veder sbucar fuori, allampanata, la sua Zenobia a ricordargli che non doveva fumare, che si rovinava la salute; non aveva potuto una sola volta uscir di sera a prendere una boccata d'aria senza buscarsi al ritorno una scena di gelosia, nè terminare un solitario, pazientemente architettato, senza sobbalzar sulla seggiola al richiamo imperioso della consorte che dal talamo nuziale, coi ricciolini accartocciati, comandava: «Prospero, a letto!»
Ed ora?… Oh, l'aveva pianta sinceramente la sua Zenobia, che, dopo tutto, era una santa donna, e della sua libertà riconquistata poco ormai gli importava, vecchio e gottoso com'era: ma aver anche lui – finalmente! – qualcuno a cui comandare, a cui imporre la sua volontà, da cui farsi temere, era una felicità tale, che egli non osava confessarsi, ma che aveva bisogno di accertare, di provare a sè stesso, dieci, venti volte al giorno, perchè in fondo ne dubitava sempre un pochino.
Come Napoleone, come Cesare, come Alessandro Magno.
Per anni ed anni, egli l'aveva compressa, soffocata nei più profondi abissi del suo animo, della sua timidezza; l'aveva offerta in olocausto sull'altare della pace domestica; ma ne aveva sofferto, oh, se ne aveva sofferto!
Ora, il despota che dormiva in lui, esasperato dalla lunga prigionia, balzava fuori ad ogni piè sospinto, col bisogno inesausto di esperimentare il suo indomato potere, e la vittima era Torquemada: a proposito di qualunque inezia, a proposito di un paio di scarpe, di un fiammifero, a proposito di nulla, il padre gli spalancava in faccia due occhi terribili, tempestava:
– Sono o non sono il padrone? In casa mia comando io.
– Sì, papà.
Caro e buon ragazzo!… Il signor Prospero lo adorava e lo terrorizzava, ma egli non mostrava neppure di accorgersene.
Aveva compiuto i dieciassett'anni, superata faticosamente la quinta ginnasiale, ed era sempre più largo che lungo, con una grossa testa rapata, con un faccione da luna piena, e gli occhi celesti, un po' attoniti, bovini, pieni di dolcezza. Aiutava il padre in farmacia; dormiva; e la sera suonava il flauto.
Ma intanto avvenne un incidente spiacevole.
Il dottor Fulcis, il quale, dacchè gli avevano sostituito un medico giovane, non aveva più nulla da fare, e passava le intere giornate in farmacia, sempre più acido, sempre più amaro, a dir male di tutto e sgarberie a tutti, un giorno aveva gettato là questa frase, così, con noncuranza, col suo risolino sarcastico:
– Buona pasta di figliolo, quel vostro Torquemada. Ma non ha nervi, non ha energia. Tutto lardo e burro. Non ne farete mai nulla.
Il signor Prospero non aveva risposto verbo, affettando di non udire, ma che colpo al cuore gli era stata quell'osservazione!… Tanto più profondo, inquantochè suo malgrado riconosceva che quella lingua sacrilega del Fulcis, una volta tanto, aveva ragione; tanto più doloroso, inquantochè della poca energia, del lardo e burro del suo figliolo, si riteneva in certo qual modo responsabile lui, suo padre, che, fin dai tempi più remoti, ne aveva conculcata, abolita, sequestrata, la volontà.
Che rimorso!… Ma era giovane, il suo Toma, perbacco!… Il male non era irrimediabile. Poteva mutare. Possibile che non una goccia del sangue della povera Zenobia, non una goccia di quel suo sangue bizzoso, rabbioso, dispotico, scorresse nelle vene del figliolo?…
– Nervi, nervi, muscoli, energia! – cominciò a tempestare il signor Prospero improvvisamente, con grande sorpresa del placido Toma, a proposito di ogni inezia, di un paio di scarpe, di un fiammifero, a proposito di nulla.
Ma si avvide tosto che se era stata una cosa facile, anzi una sinecura, fare di quel ragazzo un agnello, non era altrettanto facile farne di punto in bianco un leone. Bisognava procedere gradatamente, cum grano salis, dal fisico al morale.…
– Tu sei troppo grasso per la tua età, non fai moto. Su, su, all'alba; fuori, a passeggio! Ginnastica, moto, aria aperta.
E il buon Toma, obbediente, su all'alba, e via a gran passi per la campagna.
Non era bella, quella campagna: tutta eguale, bassa e monotona: un'immensa piantagione di canapa a perdita d'occhio, come un mare.
Toma rincasava, a parer del padre, sempre troppo presto; dunque non osava più presentarsi prima del mezzogiorno, ed era l'agosto. Ritornava rosso come un gambero, trafelato, ansante, mezzo liquefatto, ma il desinare era pronto: padre e figlio si mettevano subito a tavola e Toma dopo la passeggiata mangiava come un lupo digiuno da quindici giorni.
Con quel sistema lì, non c'era verso che dimagrisse; il lardo e il burro non volevano andarsene; diventava anzi sempre più grasso.
Il padre, indispettito, lo tormentava; era in sospetto; l'accusava di essere pigro, di non camminare abbastanza, di sedere sotto un albero appena fuor del paese, per dormire.
Toma a quelle ingiuste accuse si sentiva quasi voglia di piangere; guardava il padre con quei suoi buoni occhi tondi che non sapevano mentire.
– Papà, ho camminato sempre, sempre, dalle cinque a mezzogiorno.
Povero figliolo, era una cattiveria sospettarlo di un inganno; il padre sapeva, in fondo, che era un'anima candida incapace della minima menzogna, un'anima sommessa incapace di trasgredire gli ordini, ma appunto per questo si indispettiva, si accaniva maggiormente.
– Nervi, nervi, muscoli!… Un ragazzo della tua età deve essere asciutto e nervoso.
Per maggior sicurezza aveva intrapreso a seguirlo nelle passeggiate. Ma per non dar troppa soddisfazione a quel maledetto del Fulcis, aveva inventato il pretesto della caccia. Anche perchè la caccia, colle sue emozioni.…
Partivano all'alba, padre e figlio, l'uno colla sua giacchettina di merinos nero, svolazzante, e un cappellaccio messo alla sgherra sulla testa mezzo pelata; l'altro tondo tondo nei vestiti troppo stretti; andavano, per la campagna piatta affogata nella nebbia: il padre davanti con un'aria da guerriero, il figlio dietro, docile, portando il fucile colla precauzione con cui avrebbe portato l'Ostia consacrata, camminando guardingo per non inciampare, per evitare le pozzanghere, i sassi, le buche.
– Ecco un uccello.… Tira dunque, tira! – imperversava fra i denti il padre.
Pumm!… Toma tirava, ma così lento, colla mano così tremante, sbagliando talmente la mira, che non solo l'uccello non piombava a terra, ma sporgeva il becco e gli occhietti vivi ed ironici di tra il fogliame di un albero appena un po' più lontano, e cinguettava.
– Marameo, cacciatori:
E immancabilmente, al rientrar nella borgata, per quanto cambiassero strada e facessero giro largo, immancabilmente si imbattevano nel Fulcis, colla sua barbetta rada, coi suoi baffi mozzicati, colla sua cera color dell'olio fritto.
– Oh, chi si vede!… Buona caccia?… – E aveva l'aria più innocente del mondo.
Ma Toma non dimagriva. Però, un aspetto un po' più marziale, più energico, pareva al padre che l'avesse acquistato; e ne era tutto rasserenato, e lo covava cogli occhi, mentre a tavola, col faccione sul piatto, col colletto sbottonato, mangiava finalmente tranquillo, in silenzio, girando qua e là gli occhi tondi, pieni di bontà.
– È forse ancora un po' grasso.… – sospirava fra sè il padre. – Forse, se facesse all'amore.…
Ma pareva che Toma non ne avesse la minima idea.
E come poteva un padre, un padre degno di questo sacro nome, additare al figlio le vie del peccato?
Sono cose che devono venir da sè.
Era inutile; energico, svelto, coraggioso, lo era diventato; la trasformazione era visibile ad occhio nudo; doveva accorgersene anche il perfido Fulcis; ma magro, proprio magro, no; non gli era possibile, povero Toma; era nato così; non si poteva farlo diventare un'aringa, neppure a costo di farlo morire.
*
Ma che importa il fisico?… «Il corpo, il miserabile corpo, non è che il fodero della spada; la lama è l'animo».
– Chi l'ha detto?… Socrate? Mazzini? Esculapio?… Un grande uomo di certo.
Dacchè la sentenza gli era ritornata alla memoria, chi sa da quali profondità delle sue remote letture, il signor Prospero si era rasserenato. «La lama è l'animo.…».
E la sera, in farmacia, a saracinesche calate, solo tra il figlio e il gatto, ruminando nella mente un suo grandioso progetto mentre manipolava con gesti da romano antico un nuovo torcibudella, gli avveniva di uscir fuori a cantare a gola spiegata:
Il gatto si svegliava di soprassalto; guardava il padrone severamente; Toma, che stava suonando il flauto, si voltava anch'egli sorpreso colle due gote enfiate a guardare il padre; non capiva nulla, ma, pago di vederlo meno truce, sorrideva, e poi riprendeva a suonare.
*
Fra i vari mutamenti verificatisi in casa dopo la morte della signora Zenobia, il principale, il più importante, era stato certo quello – come dire? – quello dell'indirizzo religioso e politico della famiglia.
Finchè ella era stata in vita, la buona donna, in casa e in farmacia era stato tutto uno sgonnellare di tonache: preti e frati dalla mattina alla sera, e novene, e fioretti, e rosari, e digiuni, per tutti i santi del calendario.
In tinello, sopra il divano, un ritratto a carboncino di Pio IX; dirimpetto, una veduta di San Pietro; in farmacia, un Sant'Antonio di legno col giglio in mano.
E, quasichè tutto ciò non bastasse, proibizione assoluta di nominar Garibaldi, Vittorio Emanuele, il 20 Settembre, tutti argomenti scandalosi e diabolici.
Cose che sembrano impossibili, non è vero?… Eppure, in provincia, nei paesi, dove la vita è come uno: stagno immoto, chiuso alle nuove correnti, lontano dall'attrito violento dei fatti e delle idee, gli stati d'animo tendono a cristallizzarsi, a durare all'infinito: sono cose che avvengono, di essere in arretrato di mezzo secolo.
Ma quanto ne avesse sofferto il signor Prospero, un patriota, un italianone puro sangue, lo sa Iddio.
E la prima cosa che aveva fatto, tre settimane dopo «la disgrazia», era stata quella di far discendere dalla soffitta un Giuseppe Garibaldi a olio, col poncio e la camicia rossa, che era stato gettato là con disprezzo fra la polvere e le ragnatele.
Lo aveva portato giù egli stesso, un po' timidamente a dir vero, sbirciando all'intorno, e camminando sulla punta dei piedi, quasichè temesse – che sciocchezza! – di veder ricomparire la consorte inviperita. (La sua gonnella verde-pisello era ancora là, appesa all'attaccapanni.)
Poi si era rianimato, aveva pulito accuratamente il ritratto dalla polvere, ridato il lucido alla cornice con un po' di petrolio: ed ecco Garibaldi, colla sua barba, il suo poncio, e la sua camicia rossa, in tinello, al posto d'onore, sopra il divano.
Pio IX, partenza! In soffitta!
Ma questo piccolo dramma, svoltosi clandestinamente fra le pareti domestiche, non era stato che il preludio di un altro dramma ben più grave, e destinato a suscitare un putiferio.
Da tempo immemorabile l'insegna della farmacia portava questa scritta: «Antica Farmacia Cominotto. Al giglio di Sant'Antonio». Un bel giorno, col pretesto di farne restaurare i caratteri, l'insegna era scomparsa, e due dì dopo era stata sostituita da un'altra, fiammante: «Farmacia Cominotto. All'Eroe dei due mondi».
Ce n'erano voluti, degli anni, per maturare l'audacia del signor Prospero fino a farlo arrivare a quell'estremo, ma infine c'era arrivato.
I buoni Cernedesi, trasecolati, erano sfilati tutti, naso all'aria, davanti alla nuova insegna; il paese intero si era levato a rumore, si era diviso in fazioni: bianchi e neri, guelfi e ghibellini, come ai bei tempi.
Il partito nero, capitanato dal parroco, era furibondo: parlava di oltraggio, di sfregio; minacciava di boicottare la farmacia. Il dottor Fulcis che faceva il portavoce tra sacrestia e farmacia, in mezzo a tutte quelle bizze, gongolava.
Ma anche in quest'occasione, il signor Prospero aveva tagliato il nodo gordiano con una delle sue frasi lapidarie:
– A casa mia comando io. Sono padrone di intitolare la mia farmacia a chi mi pare e piace, anche a Belzebù, puta caso. Chi non è contento, vada a provvedersi d'olio di ricino da un'altra parte: io vivo lo stesso.
Il partito nero non se l'era fatto dire due volte, e, come un solo uomo, si era riversato a far provviste di decotti di camomilla nella farmacia dell'ospitale.
Ma la lotta aveva continuato, in sordina; con quell'accanimento, con quella ferocia, con quella pedanteria delle lotte di paese, dove le menti hanno il tempo di indugiare lungamente su di un'inezia, dove mancano i fatti nuovi a distrarre gli animi; e la vita, quasi immobile, si attacca avidamente a un puntiglio, a un pettegolezzo, forse per bisogno d'alimento, forse per bisogno di sfogo.
Questa ed altre piccole cose intanto, avevano avuto il risultato di mettere bene in chiaro le idee politiche del signor Prospero e di dissipare i dubbi che, volere o non volere, la sua lunga acquiescenza al bigottismo della consorte aveva alimentato.
Lo si designava ormai apertamente come il leader del partito liberale, ed era stato eletto con votazione unanime presidente del Circolo Mazzini e Garibaldi.
Egli continuava, del resto, ad andar tutte le domeniche alla messa grande: traversava la piazza seguito a due passi dal suo Toma, passava fieramente tra due ali di popolo, guardava severo chi lo guardava, come a dire:
– Si può essere patrioti e credere in Dio: se tutti avessero la coscienza pulita come me!
Le cose erano a questo punto quando il Fulcis gli aveva gettato in faccia l'offesa sanguinosa contro il suo Toma.
*
Svanita l'illusione di ridurlo snello e flessuoso come un giunco, il signor Prospero, abbandonato il fisico, decise di dedicarsi al morale del suo ragazzo.
«Il corpo, il miserabile corpo.…, ecc.». Quanti uomini grassi non erano stati battaglieri, intraprendenti, audaci, indomabili? La storia insegna.…
Il progetto del signor Prospero era grandioso e semplice nello stesso tempo: lanciare il figlio nell'agone delle lotte politiche. Toma aveva diciannov'anni: poteva, e doveva, prendere posizione.
Infilata la sua redingote, inaugurata una cravatta nuova a lunghi capi svolazzanti, il signor Prospero si recò un giorno ad ora insolita al Circolo Mazzini e Garibaldi: seguì un lungo e misterioso conciliabolo: la sera, fu annunciata solennemente al figlio la sua nomina a segretario del Circolo stesso.
– Devo accettare, papà?… – chiese Toma timidamente.
– È il tuo dovere d'italiano. Alla tua età devi incominciare a prendere parte attiva alla vita pubblica.
– Che dovrò fare?…
– Assistere alle sedute, leggere i verbali, tenere i registri, e, quel che più importa, redigere i proclami per il 20 settembre, per il 2 giugno, per il genetliaco di Vittorio Emanuele. Bada: tutta Cernedo ti guarda; devi farti onore; devi far onore al nome dei Cominotto.
Da quel momento, Toma cominciò a disimpegnare scrupolosamente il suo «dovere d'italiano»; teneva i registri colla precisione con cui aveva tenuto i suoi quaderni di scuola: senza una cancellatura, senza uno sgorbio; e accompagnava il padre ogni sera al Circolo, dove si leggeva, si fumava, ma, più che tutto, si discuteva.
– Ecco il vero ambiente per educare l'animo di un giovane – pensava il signor Prospero.
I soci non erano molti, una trentina, alcuni dei quali, molto vecchi, avevano preso parte alle guerre dell'Indipendenza: uno di essi aveva una gamba di legno, un altro era senza un occhio; ma in generale costoro tacevano. E che avevano da dire? Anchilosati dai reumi, quasi tutti un po' sordi, sdentati, pieni di tosse, pareva esprimessero col loro aspetto:
– Non abbiamo bisogno di parlare, noi!
Ma chi parlava per cento, chi sbraitava anzi come un energumeno, era un ricevitore delle imposte in ritiro, era un ex negoziante di zucchero e caffè, era il signor Prospero, tutta gente che non si era mai allontanata dal campanile di Cernedo, spiriti battaglieri, che, di battaglie, non ne avevano visto altro che sulle oleografie. Come gridavano, gran Dio!… Si sentivano fino in piazza.
Discutevano, in pieno 1914, del potere temporale dei papi; discutevano l'Obbedisco di Garibaldi. Collo scoppiar della guerra europea, poi, la questione di Trento e Trieste era stata rimessa sul tappeto, e bruciava dove toccava: strano a dirsi, tutti essendo dello stesso parere sull'argomento, litigavano egualmente come gatti arrabbiati, si scalmanavano, battevano i pugni sul tavolo.
E Toma?… Fra quei crani pelati, fra quei volti congestionati e rugosi, fra quelle vecchiaie tremule e sdentate, il suo faccione placido esprimeva più che tutto una deferenza, un'ammirazione e un rispetto senza confini. Quando parlava il padre, approvava incondizionatamente, cogli occhi, col naso, colle spalle, colle mani, con tutta la sua grossa e bonaria persona; quando parlavano gli altri, taceva, rispettoso.
Oh, i più vecchi in sul principio l'avevano sbirciato in cagnesco, con quell'istintiva diffidenza, che ha quasi del rancore, della vecchiaia verso la gioventù: che ci veniva a fare tra loro quel ragazzaccio, quell'intruso…? Ma egli si era mostrato subito così pieno di riguardi, così sollecito a cedere la sua seggiola, a sbarazzarli del cappello e del bastone, a raccoglier loro i fiammiferi o il giornale, che anche i più burberi si erano ammansati. Del resto, bastava vederlo sorridere per capire quant'era buono, incapace d'ironia, incapace di scherno: aveva un sorriso infantile che gli illuminava tutta la faccia, inaspettatamente; che dava un'espressione, un rilievo improvviso alla sua goffa fisionomia: non si poteva guardare quel sorriso senza fiducia, senza benevolenza.
E se in qualcuno rimaneva un dubbio sulla qualità, diremo così, del suo silenzio, i suoi proclami erano là, prove lampanti, a convincere gli scettici che egli era un uomo di poche parole, ma di molti fatti, uno spirito riservato, ma un'anima di fuoco.
– Belli, quei proclami, perdio!… Stringati; elettrizzanti!
I maligni dell'altro partito andavano insinuando che erano copiati di sana pianta, ma chi sa mai a questo mondo dove finisce la verità, e dove incomincia la menzogna?…
E Toma godeva ormai di una popolarità che nulla gli poteva più togliere; non soltanto per i proclami, ma perchè dirigeva la banda municipale: disorganizzata, dispersa dai partiti politici succedentisi nell'amministrazione comunale, egli l'aveva ricomposta, disciplinata, istruita, riportata in piazza trionfalmente; e suonava ora due volte al mese, sotto la sua direzione: tutti inni patriottici, con un'anima, con una foga, con un ardore, da lanciare alla carica un battaglione.
Bisognava vederlo, congestionato nell'uniforme nera a bande rosse, coll'elmo a pennacchio in testa, agitare la bacchetta, brandirla come un'arma, gettare fiamme dagli occhi tra i suoi venti suonatori pennuti: era quasi bello, quasi eroico, quasi feroce: dalla soglia della farmacia il padre lo guardava fiero e commosso, cercava tra la folla la faccia biliosa del Fulcis, e, scopertolo, si tratteneva a fatica dall'agguantarlo per lo stomaco:
– Lo vedi? lo vedi?… Pezzo d'asino, se tutti fossero di lardo e burro come lui!…
E intanto, elettrizzato dagli inni guerreschi, sbrigliava la fantasia in sogni ambiziosi. Quel suo figliolo poteva, doveva, arrivare a grandi cose.
Sindaco? Certo. Deputato.… Perchè no?
Che cosa gli mancava? I requisiti più necessari non li aveva forse tutti?
Essere ricco. Appartenere a un partito politico. Avere un carattere. Delle tradizioni. Un programma.
Ricco – veramente ricco – non era, ma agiato in modo da poter gettare serenamente qualche migliaio di lire, sì (e questa era la condizione essenziale). Appartenere a un partito politico? Vi apparteneva. Avere un carattere? Lo aveva, e come! (ma questo forse non era proprio necessario). Delle tradizioni? Eccole là: suo padre, l'insegna della farmacia. Un programma? Il programma di Cavour.
*
Correvano fieri tempi per Cernedo.
La politica dilaniava il paese; i partiti si divoravano fra loro. La neutralità italiana aveva scisso gli animi e turbato gli spiriti a tal segno da far temere la guerra civile. Dopo il tramonto chi girava per Cernedo camminava rasente i muri e guardandosi sospettoso d'intorno non senza portar seco un grosso randello.
– Non si sa mai, col vento che spira.
Il signor Prospero, che era il capoccia del partito guerrafondaio, non attraversava neanche la piazza, di sera, senza essere armato fino ai denti, inferraiolato, col cappello a larghe tese calato sugli occhi, come un cospiratore ai tempi della Giovine Italia.
Ma il fatto più inaudito, più strabiliante negli annali di Cernedo, era stata indubbiamente la calata dei soci del Circolo Mazzini e Garibaldi, una sera, nella sala di mezzo del caffè Commercio. Quella sala, lunga e stretta, coi due specchi verdastri coperti di garza rosa, coi due divani duri di finto cuoio stinto e bucherellato, era il covo dei clericali, dei neutralisti, degli austriacanti più inverecondi; era la fucina di dove partivano gli strali più velenosi contro i «guerrieri», i «massoni», i «Don Chisciotte», del partito guerrafondaio. E una sera i soci del Circolo, anche i vecchi, anche i vecchioni, anche quello della gamba di legno, anche quello senza un occhio, erano comparsi inaspettatamente, in falange serrata, nella sala di mezzo.
Oh, non era stata una mossa inconsulta!… I più tempestosi conciliaboli l'avevano preceduta. Erano venuti arditamente a scovare il nemico proprio nella sua rocca, per guardarlo bene in faccia, per far capire al paese che essi, del Circolo Mazzini e Garibaldi, avevano il coraggio delle loro opinioni, che essi, del Circolo Mazzini e Garibaldi, non avevano paura.
Si erano seduti tutti in fila sul divano duro e bucherellato; gli altri, un po' disorientati dall'invasione inattesa, si erano ritirati tutti in fila sull'altro, e fingevano di leggere il giornale con profonda attenzione.
E sta lì, e sta lì, e sta lì… da un'occhiatina sprezzante a un sorrisetto ironico, da un'alzata di spalle a una parola acida, era successo un pandemonio: erano volate chicchere, piattini e zuccheriere: ogni dignità, ogni decoro era stato posto in non cale.
Toma, che quella sera era a letto con un'indigestione complicata da un forte raffreddore, e dormicchiava sotto una montagna di coperte, con una gocciolina di sudore per ogni capello, si era visto balzar in camera il padre, come un colpo di vento, stralunato, livido, con una bozza sulla fronte, mezza chicchera di caffè su di una spalla, uno strappo nei calzoni.
– Mi hanno insultato. Hanno insultato i miei capelli bianchi. Hanno osato dirmi.… Hanno osato dirmi.…
Ciò che avessero osato dirgli, non riusciva a ripetere; soffocava; era strangolato dalla tosse; aveva gli occhi fuori della testa.
Toma, spaventato, aveva dovuto scendere di letto in camicia, a costo di buscarsi una polmonite, acquietarlo, farlo sedere, calmarlo, fargli portare un'acqua e zucchero. Soltanto dopo qualche minuto il padre aveva potuto parlare.
– Mi hanno detto – quei vili, quei porci – che coloro che più gridano: «Guerra! guerra!» sono i vecchi slombati che restano a casa; mi hanno detto – quei vili, quei porci – che ci sono certi padri guerrafondai che hanno speso qualche biglietto da cento per far esonerare il figliolo.… Alludevano a me, a me, capisci?… Hanno detto che ci sono dei giovani capaci di pavoneggiarsi coll'elmo e colle bande rosse per la piazza di Cernedo, ma che al primo colpo di fucile se la darebbero a gambe.… A me, a me, hanno detto tutto questo! Ma adesso ci torno, da quei banditi, da quei venduti, da quei croati, e faccio un massacro, quanto è vero Dio, faccio un massacro! A me, di queste cose, a me!… a me!…
Ripreso da una crisi di furore e di dolore, il vecchio si mise a singhiozzare.
Toma, sempre in camicia, lo guardava impietosito, allibito; e si sentiva struggere di tenerezza per il suo vecchio papà vilipeso; cercava di placarlo, gli rifaceva il nodo della cravatta, gli asciugava le lagrime, gli lisciava i radi cernecchi scompigliati.
– Non ci tornar più, non ci tornar più, papà.…
– Sì, ci torno, ci torno! Faccio un massacro! – singhiozzava il vecchio senza muoversi.
Rosa venne ad annunciare intanto che eran già per le scale alcuni signori, quelli del Circolo.
Toma si infilò rapido sotto le coperte, il signor Prospero si asciugò precipitosamente le lagrime, mosse loro incontro a mani tese.
– Amici miei.… amici miei.… venite, sono qui, col mio figliolo.
Erano sei, reduci dalla mischia, ma abbastanza calmi; il ricevitore delle imposte apriva la marcia; i due veterani senza una gamba e senza un occhio formavano la retroguardia.
– Che ha il vostro Toma? È malato?
– .…Ha un po' di febbre.… è molto infreddato.… ma entrate, entrate pure senza riguardi.
I vecchi entrarono e sedettero tutti in circolo attorno al letto di Toma. Dopo qualche minuto di silenzio il signor Prospero domandò dolorosamente:
– Avete sentito.… quante ingiurie?…
I sei vecchi scossero la testa con un sospiro. Poi il veterano senza un occhio, che aveva anche un difetto di pronuncia e non poteva pronunciare l'esse, ma era un omino svelto, energico, di poche ciancie, prese la parola solennemente.
– Fentite, Profpero. Come è andato il fatto dell'efenzione del voftro Toma? Perchè è ftato efonerato dal fervizio militare? Dove ha paffato la vifita?
– È andata.… è andata così. Toma è stato esentato.… chi sa perchè?… non so.… perchè era forse.… forse un po' grasso. Ha passato la visita a Ferrara sotto il capitano medico Devincenzi. Ma vi giuro sull'anima della mia povera Zenobia che non ho speso un centesimo – rispose precipitosamente e affannosamente il padre. – Anche voi osereste sospettarmi, anche voi?… – aggiunse con un gemito, accasciandosi sulla seggiola.
– Calmatevi, Profpero. Neffuno di noi vi fofpetta. Ma vogliamo sapere esattamente come sono andate le cose; ne va dell'onore del Circolo, ne va del nostro onore. Vogliamo poter ricacciare in gola le ingiurie a quei vigliacchi, non solo, ma querelarli accordando la prova dei fatti. Perdio, ma sapendo come stanno le cose, sapendo di aver la coscienza pura, dovevate rispondere più vibratamente, dovevate scattare!…
I convenuti assentirono con un altro sospiro. Il signor Prospero aveva chiuso la testa fra le mani, ed ogni tanto la scuoteva desolatamente.
– Il mio patriottismo risponde per me – disse alfine, emettendo con fatica una delle sue frasi lapidarie.
Nessuno parlò. Infine il vecchio che aveva la gamba di legno, quello che taceva sempre, ruppe il silenzio.
– Mi pare che la risposta più bella sarebbe che il nostro Toma facesse domanda di essere riveduto e accolto come volontario in caso di guerra – disse con dolcezza.
Il signor Prospero, con un sussulto, si raddrizzò sulla seggiola, si passò le due mani sulla fronte; guardò il vecchio: colla sua gamba di legno distesa rigida sul pavimento, colle sue labbra esangui, coi suoi pallidi occhi azzurri; poi guardò intorno, gli altri; e vide che essi guardavano invece lui, Prospero: tutti; fissamente; in attesa.
Ed era un tribunale temibile e venerando.
Allora egli si alzò, si avvicinò con passo fermo al capezzale del figlio, gli posò la mano sulla fronte.
Dalle coperte uscì la solita voce, mansueta, affettuosa:
– Io dico di sì, papà; se credi, posso far la domanda.
*
L'indomani la Provincia Ferrarese, che aveva una diffusione enorme a Cernedo, stampava a gran caratteri questo trafiletto:
«Il signor Prospero Cominotto, nostro beamato farmacista, in seguito alla nota deplorevole scena svoltasi ieri sera al caffè Commercio, ha dato querela per ingiuria e diffamazione ai sigg. E. F., N. C., V. U., T. O., accordando le più ampie ed esaurienti prove di fatto».
E più sotto, in un'altra colonna:
«Un Valoroso. – Ci consta che il signor Torquemada Cominotto, valente e solerte direttore della nostra Banda Cittadina, nonchè segretario del Circolo Mazzini e Garibaldi, ha fatto domanda di arruolamento volontario in caso di guerra, al fronte. Al valoroso giovane, che tiene alte le tradizioni artistiche e patriottiche di Cernedo, la Provincia invia i suoi voti augurali».
Il dottor Fulcis si precipitò in farmacia colla barbetta al vento e agitando il giornale.
– Ma siete matto?… Avete un figlio solo e lo cacciate sulla bocca del cannone?… Pregate Iddio che la domanda non sia accolta!…
E il signor Prospero, austero e pallido:
– Tacete. Noi, di casa Cominotto, facciamo il nostro dovere fino all'ultimo; noi, di casa Cominotto, abbiamo una parola sola.
*
Quindici giorni dopo, la guerra era dichiarata.
Quando il signor Prospero, un dopopranzo, spiegò il Corriere della Sera e vide in prima pagina quelle parole nere, immense, fatali, ne provò un colpo così violento da vacillare. Non gli sembrarono soltanto parole, ma lame di coltello, ma fucilate, che gli penetrassero nelle carni. Alla guerra, in fondo, alla guerra dell'Italia contro l'antica alleata, egli aveva sempre creduto poco. Negli ultimi giorni poi, con tutti quei tafferugli che succedevano a Roma, colla caduta del ministero, ecc., ecc.…, vi aveva creduto ancor meno, checchè ne dicessero, litigando come gatti, i soci del Circolo Mazzini e Garibaldi.
Eh, la guerra non si fa per quattro ragazzacci che strillano per le piazze.
E invece era così. L'Italia faceva la guerra. E la domanda era stata accolta: Toma riveduto ed accettato, Toma doveva partire.
*
– Toma Cominotto va al fronte, va al fronte! – sussurravano le ragazze spenzolandosi dalle finestre per vederlo passare, già insaccato nella divisa di fantaccino, col viso paffuto e gli occhi buoni sorridenti sotto la visiera, ora a braccio del ricevitore delle imposte, ora a braccio del veterano senza un occhio, che se lo portavano in giro trionfalmente per Cernedo.
E i sorrisi piovevano su di lui, su di lui che era sempre stato considerato come un partito desiderabile dalle ragazze da marito, ma che ora aveva aggiunto intorno alla sua grossa testa rapata una seducente aureola di poesia e d'eroismo.
– Toma Cominotto va al fronte, va al fronte!… – E chi gli regalava un portafoglio ricamato, chi un portasigarette, chi una veduta di Cernedo, dipinta a mano, per ricordo: chi lo fermava per la strada e lo abbracciava stretto, senza parlare, colle lagrime agli occhi. Di richiamati ce n'erano tanti, a Cernedo, bella forza!… Ma di volontari, uno solo: lui!
Furono pochi giorni, – e passarono in un lampo – giorni di ebbrezza, di trionfo, di ininterrotti pranzi e cene d'addio, di brindisi, di allegrezza, di indigestioni, durante i quali il signor Prospero, travolto dall'entusiasmo generale, parve scordare la segreta ambascia, e a capo dei quali Toma fu sollevato per aria, sballottato, portato di peso, tra fiori, grida, e sventolìo di bandiere, fino alla stazione. Evviva!… Evviva!!!…
*
Allora il signor Prospero depose finalmente la redingote che aveva indossata dall'alba alla sera durante un'intera settimana, e si cacciò sotto le coperte. Ordine perentorio: chiudere porte e finestre; non lasciar passare nessuno.
E allora là, solo, nel buio, sotto le coperte, nella casa deserta, le lagrime che aveva ringoiate eroicamente dinanzi al treno in partenza, le lagrime che aveva ricacciato in gola dinanzi agli occhi pietosi degli amici, dinanzi agli occhi ironici dei nemici, cominciarono a grondargli fitte giù per le guancie, come un diluvio.
Se n'era andato, il suo Toma. Se n'era andato, verso la bocca del cannone. Non c'era più verso di farlo tornare indietro. Ormai se n'era andato, se n'era andato, se n'era andato. Ed era stato lui, suo padre, a mandarlo là. Perciò non aveva neppur diritto di piangere, doveva nascondersi come un ladro, per piangere. E giù, le lagrime, giù, come un diluvio.
Quando la vecchia Rosa entrò, con una candela in mano, a chiedergli timidamente se desiderasse prendere almeno un brodo all'uovo, indietreggiò colpita all'aspetto spiritato del padrone. In quarant'anni di servizio, non l'aveva mai veduto così. Aveva la febbre, la tosse, strabuzzava gli occhi, batteva i denti.
– Non crede.… che sarebbe meglio far venire il medico?…
– Lasciatemi in pace, lasciatemi in pace, lasciatemi in pace!
Si era addormentato, molto tardi nella notte, di un sonno pesante, affannoso, e pieno di incubi. Ed ecco la sua Zenobia apparirgli improvvisamente a piedi del letto: lei, che in vent'anni di vedovanza aveva avuto la delicatezza di lasciarlo sempre dormire in pace; la sua Zenobia, che egli aveva così poco rimpianta, anzi dimenticata, anzi misconosciuta: era vestita di nero (non era più così magra, un po' più nutrita), aveva un'aria dolce e triste. Gli aveva detto:
– Dov'è il nostro Toma?
Ma egli si era destato di soprassalto, sudato e freddo, coi capelli irti, la febbre altissima, tremando per ogni vena; aveva sentito il rimorso riafferrargli più ferocemente il cuore, si era morsicato le mani, aveva balbettato parole supplichevoli ed incoerenti, poi aveva pianto di nuovo, al buio, di un pianto lungo e querulo come quello dei bambini.
– .…Dov'è il nostro Toma?…
– Ah, Zenobia, Zenobia, senti; ascoltami!…
Sì, ella era stata dura, forse; rabbiosa, esigente, dispettosa, con lui, col marito; ma col figlio no, se fosse vissuta: colla sua creatura no, non sarebbe stata così; l'avrebbe custodito come un tesoro, come una gemma, come una reliquia, quel figlio suo buono; non l'avrebbe gettato allo sbaraglio, come aveva fatto lui, per un malinteso orgoglio, per un malinteso amor proprio.
– Zenobia, Zenobia!… – gemeva e supplicava il vecchio.
Ma ella non tornava.
L'indomani mattina all'alba, malgrado le proteste esterrefatte di Rosa, aveva voluto vestirsi, uscire, e, sotto la pioggia dirotta, si era incamminato verso il cimitero.
Ecco: la tomba della sua Zenobia era là, sotto le erbacce, sotto le ortiche; abbandonata e squallida, colla corona di fiori di perle penzolante miseramente al vento, sconquassata e sbilenca. Povera Zenobia!… Inginocchiato per terra, colla fronte sulla pietra fredda e verdastra della sepoltura, egli era rimasto là tanto a lungo, tanto a lungo, da impensierire il custode che vigilava da lontano.
Che cosa avesse detto alla morta, egli stesso forse non sapeva; forse le aveva chiesto perdono, forse si era giustificato, forse l'aveva pregata di vegliare sul figlio.…
Ed ella, forse, gli aveva risposto di sì, lo aveva tranquillizzato.… Chi sa nulla dei colloqui tra i morti e i vivi?…
Fatto sta, che dopo qualche tempo egli si era levato, aveva liberato la tomba dalle ortiche, pulito la pietra col fazzoletto, ricomposto la sbilenca corona di perle, dato due lire di mancia al custode. Poi se n'era andato.
La vecchia Rosa, che l'attendeva inquieta, se l'era visto ricomparire a sole alto, inzuppato d'acqua come un pulcino, inzaccherato fino a mezza gamba, ma calmo. Riparato al disastro del suo abbigliamento, era disceso subito in farmacia, aveva ripreso il suo posto dietro il banco, fra i barattoli e le sanguisughe. E dal suo contegno dignitoso e tranquillo nessuno avrebbe potuto immaginare il dramma svoltosi durante la notte.
*
Nessuno avrebbe potuto immaginarlo neppure nei giorni seguenti, dalle risposte calme e serene che dava a coloro che gli chiedevano notizie del suo Toma.
– È al fronte; sta bene; mi ha già scritto una cartolina.
E mostrava a tutti la cartolina.
«Caro papà. Sto bene. Qui non fa caldo come a Cernedo. Presto li scriverò più a lungo. Evviva l'Italia!»
– Che bravo ragazzo! Si farà onore – dicevano le donne. – Siete bene fortunato ad avere una perla di figliolo così!
– Nulla di straordinario: fa il suo dovere.
Era una specie di ferrea armatura che indossava il mattino, colla mezza manica di merinos nero, per non gettarla che a sera.
Oh, le sere, le notti, erano terribili per lui. Cominciava a intorbidarsi a cena, alla vista di quel posto vuoto a tavola, di quel portatovaglioli di fettuccia rossa e nera che aveva proibito a Rosa di toglier di là, di quel flauto silenzioso e polveroso nella sua custodia di cuoio giallo. Non mangiava nulla e non si decideva mai ad andare a letto. Non che temesse di veder riapparire l'ombra della sua Zenobia. Al contrario, come l'invocava, come la supplicava di tornare, magari per accusarlo, come quand'era in vita, magari per inginocchiarsi davanti a lei come un delinquente!… Come avrebbe pianto volentieri colla faccia tra le pieghe della sua gonna verde-pisello!…
Ma ella non tornava, non aveva voluto tornare più, dopo quella prima notte.
E il vecchio, quando finalmente si decideva a salire nella sua stanza, vi si chiudeva dentro, vegliava per ore ed ore. Tirava fuori i vecchi quaderni di scuola del suo ragazzo, incominciando da quello delle aste, degli a, e, i, o, u; fino a quelli di prima, di seconda ginnasiale: Alauda est laeta. Formica est sedula; fino a quelli di quarta e di quinta dove erano più segni rossi che parole. Li aveva conservati tutti, religiosamente, dal primo all'ultimo. E rivedeva le mani del suo Toma, quelle mani paffute, buone, colle dita corte e grosse come salsicciotti; quelle care mani piene di geloni, l'inverno, ma così diligenti, così pazienti, che scorrevano sulla carta lentamente, attentamente, senza uno sgorbio, senza una cancellatura.…
Caro Toma!… Gli aveva mai dato un dispiacere, quel figliolo, mai una delusione? mai un semplice grattacapo?…
Mai, mai, mai! Ed ora? – Toma, dove sei? dove sei?…
Ecco, cavava dal più profondo di un cassetto la collezione dei ritratti di lui, li contemplava ad uno ad uno, avvicinandoli, allontanandoli, fino ad averne offuscata e confusa la vista.… Era lui; sempre lui; sempre la stessa faccia buona e contenta: eccolo là, piccino piccino, più largo che lungo, nella sua vesticciola di bordatino bianco e rosa; poi coi primi calzoncini; poi coll'abito nero della prima Comunione; ed infine vestito da fantaccino, alla vigilia della partenza.…
Non era bello, forse, quel suo figliolo, non aveva l'eleganza, la spavalderia, la sfrontatezza dei giovanotti moderni, ma aveva la bontà, la bontà.… Per quella sua bontà si era sacrificato in tutto, sempre: fino a dimenticar sè stesso, fino ad andare sulla bocca del cannone.…
– Toma, – farneticava il padre, stringendo fra le mani l'ultimo ritratto di lui – Toma, dimmi, se non ci fossi stato io, se non ti avessi influenzato, saresti andato laggiù?… Dimmi, saresti andato laggiù?…
E il figlio lo guardava, placido, coi suoi tondi occhi un po' attoniti, col suo sguardo bonario e affettuoso, ma a furia di fissarlo pareva al padre che diventasse triste, crucciato, carico di rimproveri.
– No, no, no, non ci saresti andato!… Sono stato io, sono stato io!…
Era quella la sua idea fissa, il suo rimorso, il serpe che gli divorava il cuore.
E, col rimorso, un inconfessato terrore gli si insinuava gelido nel petto, ingigantiva via via che i giorni passavano.
Via via che i giorni passavano, quel pensiero, sempre più orrendo, sempre più tremendo, come una pietra immane che gli schiacciasse il petto, lo seppelliva sotto il suo peso, lo soffocava, lo rendeva demente.
.…Se quel suo figliolo, così mite, così timido, così alieno da ogni violenza, non avesse cuore di battersi?… Se si rifiutasse di obbedire? (No, questo non avrebbe coraggio di farlo). Ma, peggio, se si desse prigioniero al primo apparire del nemico, gettando le armi, alzando le braccia.… se si nascondesse, se fuggisse?…
– Non scrive più, non dice più nulla.… Dio, che ho mai fatto? che ho mai fatto?…
Rivedeva il suo Toma a caccia, tondo tondo nei vestiti troppo stretti, che camminava guardingo per non inciampare, che portava il fucile come l'Ostia consacrata, che sbagliava la mira, o sparava troppo tardi, e, in fondo, mandava un respiro di sollievo quando l'uccellino se ne volava via.… E l'atroce presentimento di ignominia gli attanagliava sempre più forte il cuore, insieme al bisogno di giustificare, di difendere, di rialzare quella sua creatura buona, come la vedesse là dinanzi a sè, inchiodata alla gogna, tra una folla di accusatori.
– Come potrebbe correre su per i monti?… – inveiva, acceso in volto, gesticolando, rivolto a un immaginario giudice. – Come potrebbe, lui, che è così grasso?… Come potrebbe slanciarsi alla baionetta?… Lui, non può inferocire, non può incrudelire, non può far male neppure a una formica; è troppo buono, non può, non può.… non può.… non volete capire che non può?…
E le lagrime gli troncavano le parole.
.…La fucilazione nella schiena, il disonore, il fango gettato a piene mani sulla sua creatura, sull'intemerato nome dei Cominotto.…
Nelle rade ore di sonno l'idea fissa assumeva le forme dell'incubo, dell'allucinazione.
.…Una montagna nera, un cielo nero. Senza stella, senza luna. Un soldatino grasso sbuca fuori carponi da una trincea, percorre strisciando pochi metri, poi si mette a fuggire a precipizio giù per la costa. Dalla trincea si affacciano tosto altre teste, si grida: «Dove vai?» Ma Toma non risponde, fugge, fugge sempre, colle braccia alzate, e i sassi rotolano sotto i suoi piedi. «Fermati!» si grida ancora «Fermati, vigliacco!» e tutti si mettono a rincorrerlo, correndo, urlando, coi fucili spianati. Ma egli non si ferma, pare una palla che rotoli giù per la china. Ma ecco da un cespuglio balzar fuori dieci, venti, cento soldati in agguato, non più italiani, tedeschi, e tirano tutti insieme sopra di lui. Ah, adesso si ferma, gira su sè stesso, cade.… E i tedeschi si mettono a sghignazzare e a ballare intorno al morto. Poi tutti, uno per uno, gli sputano in faccia.… Gli sputano in faccia.…
– Ah! – singhiozzava il vecchio delirando – ah, no, vi supplico, non fate così! È la mia creatura, la mia creatura innocente!… La colpa è mia.… Insultate me, uccidete me! Sono stato io a mandarlo! Sono stato io! Pietà per lui, abbiate pietà!…
I frequentatori della farmacia sussurravano:
– Come è andato giù il signor Prospero!… Non par più lui. Mostra cent'anni.
Che fosse un po' invecchiato, era evidente anche per il fatto che ultimamente aveva sbagliato due volte a interpretar le ricette, pur chiarissime, del nuovo dottore, a rischio di mandare all'altro mondo il povero malato; poi non frequentava più il Circolo Mazzini e Garibaldi a causa di un reuma che, diceva lui, si era in quel tempo riacutizzato.
Rosa che sola aveva intuito l'atrocità delle serate solitarie del padrone, aveva fatto in modo di pescargli fuori un commensale, il dottor Fulcis, che, col suo umore bizzarro e la sua lingua maledica, le pareva adattatissimo come distrazione.
Ma quel pagliaccio del Fulcis, a guerra dichiarata, era diventato un guerrafondaio dei più focosi, e poi, come commensale, si credeva in obbligo di accarezzare il notorio patriottismo dell'anfitrione: arrivava sempre con tre o quattro giornali, batteva le mani a tempo di musica, saltava come una capra:
– «Fratelli d'Italia, l'Italia s'è desta!… Vittoria, vittoria! Hanno preso San Michele! Hanno preso Sei Busi!»
E Rosa, che girava intorno alla tavola con certi intingoletti da far resuscitare un morto, aveva un bel schiarirsi la gola – «ehm, ehm», – un bel strizzar l'occhio per avvertirlo che stesse un po' zitto.… Macchè! Quel bestione non capiva mai niente.
*
Finalmente, un pomeriggio, era arrivata una lettera di Toma, datata da dieci giorni innanzi.
Era al Carso, in prima linea, in trincea.
Non era lunga quella lettera: già Toma era sempre stato scarso di parole e di fantasia; anche parlando, sapeva esprimersi male e stentatamente; ma era una buona lettera, affettuosa, tranquilla, con pochi particolari di guerra, nessun accenno a combattimenti; parlava del caldo e del freddo, delle gran pioggie che c'erano state laggiù; chiedeva notizie del papà, di Rosa, del gatto; domandava le novità di Cernedo, pareva scritta da un ameno sito di villeggiatura.
Il signor Prospero stava rileggendola per la terza volta nella penombra del pomeriggio afoso, dietro le verdi tendine della farmacia, quando un messo municipale era apparso con un telegramma.
Vederlo e stramazzare a terra, era stato tutt'uno.
Rosa era accorsa, aveva spruzzato abbondantemente d'acqua il suo vecchio padrone, l'aveva sollevato, adagiato sul sofà del retrobottega, gli aveva fatto annusare dei sali, aveva letto il telegramma.
– Nulla, nulla, padrone. Si faccia coraggio, non è che ferito.… leggermente.… È a Ferrara, all'ospitale di Ferrara. Coraggio, coraggio, venga a vestirsi, coraggio.… Vada a riprenderselo, padrone, vada a riprenderselo.…
Il vecchio era tornato improvvisamente alla vita.
– Sì sì.… A riprenderlo, a portarlo via.…
Rosa e il dottor Fulcis, accorso a precipizio, gli avevano fatta indossare la redingote, gli avevano ravviato i capelli, messo in tasca il telegramma, e poichè treni non ce n'erano a quell'ora, l'avevano caricato su di una carrozzella da nolo. Egli lasciava fare, in silenzio, come un automa.
– Vengo anch'io?… – aveva proposto il Fulcis, inquieto.
Ma il vecchio si era inaspettatamente ribellato.
– No: lei qui, con Rosa a preparar tutto.… Me lo porto a casa: che sia tutto pronto!
La rozza balzana era partita a gran corsa: via, per la campagna bassa, bruciata dal sole, per la campagna vasta come un mare, via, via, di corsa, verso Ferrara.
Lungo la strada il vecchio si era un po' scosso dal suo torpore, aveva tentato di diradare la nebbia della sua povera testa sconvolta. Toma era a Ferrara. Ferito. Era ferito, il suo Toma, la sua creatura!… Ma avevano potuto trasportarlo, fargli fare un viaggio così lungo… Doveva dunque trattarsi di una ferita leggera, come aveva detto Rosa.… Come? Dove?… Forse una palla di rimbalzo, una semplice scalfittura.… Ma ecco, sotto il sole torrido, ad occhi aperti e fissi, ecco l'allucinazione ghermirlo nuovamente, con più atroce certezza, ecco la pietra immane schiacciargli il petto, togliergli il respiro.
Una montagna nera, una notte nera.… Toma che scappa, e tutti che tirano su di lui.… Gli italiani gli gridano: «Vigliacco!» e i tedeschi lo uccidono, e sghignazzano, e gli sputano in faccia.… Ballano in tondo, ed egli non si muove più. Ah, che orrore, che orrore, che angoscia!…
Riprendersi, riprendersi la sua creatura, portarla via da quell'inferno, nasconderla in capo al mondo!…
Non si arrivava mai. Ecco, ecco Ferrara.
– L'ospitale militare?… L'ex convento delle Orsoline?.…
– A destra, e poi a sinistra: dopo la piazza, a destra ancora. Bisogna attraversar tutta Ferrara.
Oh, che angoscia, che angoscia!…
Arrivarono finalmente dinanzi a un grande edificio bianco, tetro, cinto da muri altissimi. Una sentinella era alla porta. Il vecchio con mano tremante le porse il telegramma.
– Il soldato Torquemada Cominotto?… Ferito.… proveniente dal Carso.… Sono il padre.
– Attenda un momento. Piantone!
Il piantone accorse, scomparve col telegramma, tornò dopo qualche minuto.
– Passi.
E precedette il vecchio per un cortile quadrato dove alcuni soldati convalescenti passeggiavano chiacchierando e fumando; lo guidò su per una scala larga e pulita. Sull'ultimo pianerottolo una porta si aperse pianamente, una suora anziana, pallida e pingue, accennò al vecchio di entrare.
.…Era una sala tutta bianca, lunga e chiara, dove si allineavano l'uno accanto all'altro due file di letticcioli di ferro. C'era nell'aria un acuto odore d'acido fenico, di medicinali, di febbre; due suore giovani andavano e venivano da un letto all'altro portando acqua, bende, filacce; sostavano un attimo ad accomodar qualche guanciale, a rimboccar qualche coltre, con passo rapido e silenzioso.
A capo scoperto, in punta di piedi, il vecchio procedeva per la larga corsia di mezzo, collo sguardo cercava ansiosamente il figlio; ma lo cercava invano: non vedeva che facce ignote, austere, contratte dal dolore, ma calme, che posavano su di lui uno sguardo indifferente o severo.
E istintivamente cercava di curvarsi, di rimpicciolirsi, di raggomitolarsi nella sua redingote, agghiacciato da quel senso di pudore, quasi di rimorso, che afferra l'essere sano di fronte alla malattia, alla decadenza, allo strazio fisico dei suoi simili.
La suora che lo guidava gli raccontava sommessamente qualche cosa, gli pareva dicesse: «urgente, impossibile aspettare, telegrafalo subito.…» – che mai diceva?… – infine sostò dinanzi a un letticciolo.
– È qui.
Con un sussulto, il vecchio si chinò sul ferito. Non aveva riconosciuto suo figlio.
Era quello il suo Toma, il suo ragazzone paffuto, dal viso di cuor contento, dagli occhi un po' attoniti, ridenti, quasi infantili? Colui che giaceva supino sul letto, era un uomo, dalla faccia scarna, abbronzita, solcata ai lati della bocca da due rughe profonde; una barba rada, ispida, metteva su quel volto delle ombre livide e violente; gli occhi aveva chiusi, ma non dormiva, chè dalle labbra aride, gonfie, semiaperte, il respiro usciva faticoso, insieme a qualche incomprensibile parola.
– È ancora sotto l'influenza del cloroformio – spiegò la suora. – È stato operato stamattina.
Allora il vecchio si accorse che la sua creatura era stata amputata di una gamba fino alla coscia.
Entrava in quell'istante nella sala un ufficiale alto, canuto, dagli occhi neri vivacissimi, accompagnato da due ufficiali più giovani. Passava tra i feriti soffermandosi al letto dei più gravi, lasciando qua e là una parola d'incoraggiamento, un'esortazione, un elogio: al suo passare molti si sollevavano faticosamente per salutarlo, per farsi notare da lui: pareva che tutti gli volessero bene, lo aspettassero, e fossero orgogliosi di un suo sguardo.
Giunto presso al letto di Toma, si arrestò.
– Come va? – chiese sottovoce alla suora.
Ella scosse il capo senza rispondere.
– È arrivato il padre – mormorò, accennando al vecchio.
L'ufficiale canuto stette un attimo in silenzio, colpito da quel dolore senile: marmoreo, orrendo, senza lagrime, senza parole.
– Lei è il padre? – disse infine ad alta voce. – Mi congratulo con lei. Il suo ragazzo si è fatto molto onore. Poteva esser salvo, e non ha voluto; si è fermato a raccogliere il suo tenente ferito, se l'è caricato sulle spalle, e, in quello, è stato colpito da una granata. È proposto alla medaglia d'argento. Con soldati come questi – aggiunse gettando intorno lo sguardo degli occhi vivacissimi – non c'è da temere. Coraggio! – proseguì rivolto al padre; e nella sua voce vibrava un'emozione forte e contenuta.
Passò oltre.
Il vecchio aveva udito, aveva ascoltato; ma pareva non avesse compreso.
Nelle tenebre orrende della sua sventura, dove tutto si confondeva, s'inabissava, – l'oggi, il domani, la vita, la morte, tutto crollava in un caos di follia, – una voce gli aveva parlato, una mano gli era stata tesa.… Come?… Perchè?… Che gli avevano detto?… Si erano congratulati con lui.… con lui perchè.… perchè Toma era là. Ma perchè Toma era là?… perchè?… perchè?… Ah sì, la guerra, la guerra. E poi il tenente ferito.… Poteva salvarsi e non ha voluto.… Non ha voluto.…
Improvvisa un'onda di luce, di tenerezza, d'orgoglio, di smisurato amore, di smisurato dolore, gli illuminò il cuore. E le lagrime, finalmente, le lagrime, gli grondarono giù ardenti per la vecchia faccia devastata.
– Toma, Toma, tu hai fatto questo! tu hai fatto questo!… Ed io che.… Mio piccolo Toma, figlio mio!…
Inginocchiato presso il letto del ferito, ma senza osar toccarne la coltre, singhiozzava forte e parlava ad alta voce, chiedendogli perdono, perdono, perdono.…
Dai letti vicini alcune facce si levarono, pallide, a guardare.
– Cerchi di dominarsi – ammonì dolcemente la suora. – Si alzi; segga. Se il suo figliolo viene in sè all'improvviso, e la riconosce, al vederla così agitato può impressionarsi. E poi anche per gli altri.… Vede? – aggiunse con un pallido sorriso. – Qui nessuno piange.
Il vecchio ringoiò le lagrime; si irrigidì; sedette accanto al letto del figlio. Timidamente, umilmente, prese una delle mani di lui tra le sue: una mano arida, bruciante, che tratto tratto sussultava e si contraeva con dei movimenti incoscienti e spasmodici; e cogli occhi non lasciava il volto del suo Toma, quel volto nuovo, diverso, quel volto ignoto, che al primo sguardo non aveva riconosciuto.
Ma ora, ora, ora vedeva, capiva: era pur sempre lui, era sempre la stessa bontà, impressa su quel volto con impronta incancellabile e profonda: la bontà, per cui fin dall'infanzia aveva rispettato e obbedito ciecamente il padre; la bontà, per cui tante volte aveva respirato di sollievo al veder volar via garrulo e illeso un uccellino del buon Dio; la bontà, per cui si era fermato a raccogliere il suo tenente ferito.… Ma pure, oltre a questo, c'era su quel volto caro, su quel volto ardente e convulso, un'espressione nuova, più nobile della bontà, più toccante della mansuetudine, un'espressione che lo rendeva quasi bello, e austero, e virile: la coscienza di una dignità, il riflesso di un pensiero alto, di un sentimento.…
E intorno intorno altri volti segnati dalla sofferenza, devastati dall'insonnia, bruciati dalla febbre, riflettevano lo stesso pensiero con una semplicità tragica e solenne, con un'incosciente grandezza.
Era vero; non si piangeva in quel luogo. Si soffriva; si moriva: ma non si piangeva. Se i parenti arrivavano al letto dei loro cari stravolti di paura, di esaltazione e d'angoscia, tosto, all'entrare colà, placavano incoscientemente il loro orgasmo, contenevano il loro amore e il loro dolore, si facevano fermi e tranquilli, quasichè, giunti per dar conforto, per dar coraggio, essi ne attingessero invece improvvisamente dall'esempio semplice e grande che si imponeva alle anime ed agli sguardi.
.…Oh, come tutto, del mondo lontano, appariva piccolo, inutile, comico e meschino!… Le discussioni, le lotte, i dissensi, i litigi, le chiacchiere.… La verità era là: in mezzo a quegli uomini che soffrivano e morivano serenamente; in mezzo a quelle madri, a quelle spose, che dinanzi ad essi sentivano di non dover piangere.
Entrò un medico, in lungo camice bianco, seguito dagli assistenti; si fermò qua e là, infine al letto di Toma. Gli ascoltò il cuore.
La febbre non era aumentata, il ferito era sempre in uno stato di sopore e d'incoscienza.
– Non c'è nulla da fare. Aspettare. Nessuna emozione, tranquillità assoluta. Stasera, un'altra iniezione di caffeina.
Su quel letto giaceva un alpino gigantesco, le cui larghe spalle emergevano poderose dalle coltri; era arrivato da poche ore, aveva la testa avvolta di bende sanguinolente, ed altre ferite aveva all'addome e alle gambe. Presso a lui stava una donna incinta, quasi una giovinetta, pallida e timida nelle sue vesti di contadina.
– Soffri molto?
– Così, un pochino. Ora è quasi passato.
– Ma cosa senti?
– Un gran bruciore dentro negli occhi come se mi frugassero con un coltello.
– Coraggio, adesso vedremo. Come sei stato ferito?
– In ricognizione.
– Questa è tua moglie?
– Sissignore.… Gliela raccomando.
Il medico parlò sottovoce cogli assistenti; questi trasmisero immediatamente un ordine alla suora anziana. Tosto due infermieri apparvero colla barella, vi adagiarono cautamente l'infermo, s'incamminarono verso la sala chirurgica. Dai letti vicini si staccarono due donne, due contadine, certo le madri di qualche ferito men grave, si avvicinarono alla giovinetta sconosciuta, la presero affettuosamente in mezzo a loro. Una suora offerse la sua corona. Uscirono.
Allora un altro alpino, un ragazzo che non poteva avere vent'anni, biondo, gentile, che stava seduto sul letto con un braccio al collo, raccontò:
– Lui non dice nulla. Io sono della sua compagnia. Lui si è offerto con altri due per una ricognizione pericolosissima. Era notte; ma non aveva fatto neppur mezza strada, strisciando per terra, che son stati scoperti. Gli altri due son caduti subito fulminati, lui, ferito, ha continuato ad andare avanti finchè l'han ferito un'altra volta, e avanti.… e un'altra ancora, e avanti.… per tre volte. I nostri l'han raccolto l'indomani, quasi morto, in fondo a un burrone. Ma ormai aveva visto quel tanto che bastava, e non ha voluto lasciarsi portare all'ospitale prima di aver riferito tutto, parola per parola, al capitano. Dicono che perderà gli occhi.
Poi, in quel silenzio, dal fondo della corsia, una voce femminile disse sommessamente:
– Volete che preghiamo anche noi?
. . . . . . . . . . . . . . . . .
Calava la sera. Le ombre scendevano sulla terra, s'incavavano più fonde sui volti estenuati. Barbe incolte, cave occhiaie, mani tremule erranti sulle coltri con gesto stanco.…
Finalmente Toma aperse gli occhi, e lo spasimo convulso di una acuta sofferenza lo contrasse tutto. Passò un attimo. Poi riaperse gli occhi, li richiuse, li riaperse ancora, e li posò due o tre volte stupitamente sul padre. E all'improvviso parve riconoscerlo, capire: poichè un sorriso, il suo sorriso buono, fanciullesco, affettuoso, gli illuminò tutta la faccia. La sua mano, ancora stretta alla mano del vecchio, si agitò un poco come per una carezza, e dalle labbra gonfie una voce quasi timida balbettò:
· Non disperarti, papà.… Sono stato ferito.… sono stato ferito.… volentieri.
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