Paolo Emiliani-Giudici
Beppe Arpia

La storia si riporta al 1831 A TOMMASO GHERARDI DEL TESTA

Precedente

Successivo

Link alle concordanze:  Normali In evidenza

I link alle concordanze si evidenziano comunque al passaggio

La storia si riporta al 1831

A TOMMASO GHERARDI DEL TESTA

 

 

A renderti solenne testimonio della stima in che tengo il tuo peregrino ingegno, t'intitolo questo libretto. Il tuo nome, scritto sulla prima pagina del mio lavoro, mi vaglia di guida per presentarmi al pubblico in un genere di scrivere, in cui il concorde sentire della patria ti reputa maestro: perocché io non ho inteso di fare se non un componimento, che, toltavi la parte narrativa, e ridotto tutto a dialogo, sarebbe né piú né meno che una semplice commedia.

Essendomi finora, non so se bene o male esercitato in altri studi di grave argomento, prevedo purtroppo che l'Italia quanto in quelli mi è stata indulgente, tanto mi sarà severa in questi apparentemente cosí diversi. E dico apparentemente, poiché non vi è cosa che piú fomenti l'ingegno comico, di quello che faccia lo studio della storia, la quale, se guardata nelle umane sciagure, ti invita a piangere, guardata nelle umane frenesie, ti riesce ridicola all'estremo. E però lo storico, per diventare scrittore comico, altro non ha da fare che, senza mutar punto di veduta, smettere il serio carattere di giudice, ed assumere quello di brioso moralista. Chi piú profondo politico di Niccolò Machiavelli, e chi piú arguto e festevole scrittore comico di lui? Non ostante che l'esempio di tanto uomo dovesse servirmi di conforto, non illudendomi intorno al pericolo, cui espongo il mio nome, non che la borsa del mio editore, per isgravarmi la coscienza, gli ho abbandonato il manoscritto dicendogli: — Leggetelo innanzi ad una numerosa comitiva, ed in questo pubblico in miniatura sperimentate il giudizio del pubblico in grande; spiatene le impressioni, e se vi parrà, stampatelo; se no gettate le carte nel cammino, e consegnatele, come direbbe il Petrarca, a Vulcano. —

L'editore seguí il mio consiglio, radunò buon numero di gente d'ogni colore e d'ogni misura; v'erano fra gli altri un Gallomano, un Anglomano, un Critico, un Poeta, un Accademico, una Signora, una Giovinetta, uno Strozzino, uno Strozzato, un Ipocrita e simile genia; e dopo la lettura di quasi tutto il componimento ne nacque la seguente conversazione, che puoi considerare scrupolosissimamente riprodotta con l'esattezza con che un giornale officiale stenografa la discussione di un parlamento.

Io la prepongo al racconto, onde prevenire le censure che mi verranno fatte, e levarmi l'incomodo di giustificarmi, qualora l'ira di Dio acciecandomi., mi facesse allontanare dal mio vecchio costume, tanto da darmi pensiero delle improntitudini della critica a vapore de' giornali.

Oh! mi fosse dato di non annoiare i miei lettori, ed avvezzarli a vedere le nostre miserie contemporanee descritte da penne italiane e con colori italiani, e persuaderli a non tollerare lo strazio disonesto che gli stranieri, senza conoscercipunto né poco, fanno di noi e delle cose nostre. — Finita la lettura di gran parte del manoscritto, gli astanti si dettero a conversare nel modo seguente:

 

L'editore: Dunque che ve ne pare egli, o signori?

Il critico: Non c'è poi tanto male; si fa leggere; si può anche andare sino alla fine senza dormire.

Il gallomano: Oh! ci mancano tante cose.

Il poeta: Come sarebbe a dire?

Il gallomano: Guardate; ci mancano: l'energico colorito di Vittor Hugo, i colpi di scena di Dumas, l'analisi delle passioni di Balzac, la pittura delle grisettes di Paolo de Kock, la poesia intima di Giorgio Sand; non ci sono né prigioni buie, né sotterranei, né guigliottine, né assassini, né briganti, né galeotti, né carnefici: in somma non c'è nulla che faccia rizzare i capelli, e quando il romanzo non mette in convulsione i nervi e non commuove perfino i peli del corpo, secondo me, non vale un fico.

L'anglomano: Di tutto questo non me ne importerebbe niente, se le descrizioni fossero piú accurate ed abbondanti, gli accessori piú minutamente descritti; per esempio, dove lo scrittore parla del mercato...

Il poeta: O che vorreste che vi avesse reso conto di tutti i baccalà, i presciutti, i salami, le acciughe, le insalate, che si trovano in mercato: che vi avesse compilato un manifesto di tutte le grasce e i commestibili co' loro rispettivi prezzi?

L'anglomano: Per l'appunto. Il romanzo storico oggigiorno non usa piú; ci vogliono cose non di fantasia, ma reali e palpabili; i piú rinomati scrittori di novelle che oggigiorno fanno di gran quattrini, descrivono tutte le scene della vita comune; se v'introducono in una taverna, siete certo, dopo letto il libro, di conoscerne il contenuto meglio di un oste, di sapere esattamente quanti soldi costi una buona bistecca o un piatto di patate. Questa specie di romanzi gli leggono oggigiorno anche i ministri di stato. Quante cose non ha scavato Dickens, che gli stessi cagnotti della polizia non se le sognavano né anche?

Il critico: In quanto a questa roba da bettola e da taverna lo scrittore si potrebbe scusare. Che ci volete voi fare? La musa italiana è musa signora; nacque per bene, è cascata in bassa fortuna, ma è sempre signora; se abborre di entrare in taverna, scusatela, teme d'insudiciarsi. Ma dove non glie la passerò mai buona, è in questo che egli ha avute mille occasioni per isfoggiare gran facoltà descrittiva, e se le è lasciate quasi tutte sfuggire di mano; che mi canzona? La descrizione della povera Amalia farla cosí breve? Una malata di tisi farla morire cosí in un paio di pagine, come fosse morta d'un accidente?

Il poeta: Ho capito: avreste voluto che parlasse del primo, del secondo, e del terzo stadio, della tosse, de' sudori, degli spurghi sanguigni, dei tubercoli; in somma di tutti i sintomi dell'etisia in modo da fare una descrizione patologica per inserirsi nella «Gazzetta Medica».

L'accademico: Io poi bado ad una cosa sola: la lingua. La vorrei piú pura, piú purgata, piú classica. Che vi par poco? Lo scrittore si piglia certe libertà che attestano l'anarchia avere anche turbato la pacifica repubblica delle lettere, e quasi quasi sospetterei ch'egli fosse socialista in letteratura. Giusti Dei! Dove ci ridurremo? I romantici di Lombardia, a guisa de' barbari del settentrione, irruppero ne' campi di Parnaso, vi saccheggiarono la mitologia, fecero man bassa su tutti i numi de' classici, e non ne lasciarono un solo ritto in piedi. Questi altri poi, che si chiamano letterati indipendenti, hanno rotto il mistero, hanno aboliti i privilegi; e le lettere che un tempo costavano tanto ed erano accessibili ai soli signori, ora — mi si perdoni la metafora, — si danno con un ribasso dell'ottanta per cento, cosí che ne possa godere anche il popolo. Conciossiaché...

Il poeta: La mi faccia il piacere; gli è piagnisteo vecchio, la smetta. Anche quando venne la moda di tagliare i codini, e allungare le brache dalle ginocchia ai piedi per nascondere le gambe storte, qualche superstite contemporaneo di Gian Gastone non rifiniva di maledire ai sarti come se il mondo corresse a rovina: ma il mondo va da sé, diceva sua eccellenza Fossombroni, e prima di lui lo avevano detto tanti grandi uomini. Il mondo è fatto per muoversi.

L'accademico: Contra negantes principia non valet argumentatio. Ella è troppo giovane; il suo cervello è ammorbato dalle teorie de' novatori, quindi è meglio non ragionare, perché non arriveremo ad intenderci.

Il poeta: La parla benissimo: ma dica, cosa avrebbe ella a ridire intorno alla lingua di questo libretto?

L'accademico: Che lo scrittore usi delle voci plateali, finché, come fa, le derivi da' parlari della gente di Mercato Vecchio che è ammesso agli onori della Crusca, transeat; e' ci si vede che egli ha piú studiato nella lingua del popolo che nelle facciate del Vocabolario; peggio per lui! Ma i frequenti neologismi che gli scappano dalla penna...

Il poeta: Gli schizzano...

L'accademico: Gli scappano dalla penna, guastano lo stile, e gli tolgono via quel poco di merito, che a buon diritto non gli si potrebbe negare. La sintassi è scellerata; le particelle non sono collocate secondo le regole del Salviati o del Buommattei, solennissimi scrittori di grammatica; è proprio uno scandalo. Per me, provo cento volte piú diletto a leggere una cicalata de' nostri antichi e chiarissimi accademici, delle quali cicalate di Dati ha raccolto ampio tesoro nelle sue Prose Fiorentine: almeno quegli insigni intelletti, anche strambottando sull'uovo, sulla gallina, sull'insalata, sui cocomeri, favellavano con una locuzione che era alle mille miglia dalla pedestre loquela del volgo. Præterea, non ha egli inteso di scrivere un romanzo? E che è egli mai il romanzo se non una novella allungata...

Il poeta: Un brodo lungo...

L'accademico: Una novella allungata? E perché mai dunque non ricorrere al padre della novella italiana o ai suoi imitatori? In tal guisa sarebbe stato osservatore scrupoloso de' canoni dell'arte, la sua lingua spirerebbe fragranza di Decamerone o di Pecorone, che congiunta con la imitazione fedele dello stile del celebre Monsignor della Casa, avrebbe formato un libro da potersi porre utilmente in mano ai giovani.

L'ipocrita: Piano co' giovani: o non vedete che ci sono certi frizzi che pinzano come fossero vespe arrabbiate? E la maldicenza e gli epigrammi non li contate per nulla? Non vedete certe descrizioni che indicano, come quattro e quattro fa otto, le persone che lo scrittore ha voluto canzonare?

La signora: Canzonare: bravo! Guardate, io scommetterei tutto l'oro del mondo che lo scrittore ha voluto fare il ritratto di certe mie amiche: proprio io ce le vedo nate e sputate.

Il poeta: Adagio, signori! Un argutissimo ingegno, parecchi mesi fa mancato alle lettere nostre, e senza tante circollocuzioni, il poeta Giusti, parlando del genere di scrivere cui appartiene questo componimento, dice che esso è simile ad una bottega di vestiti bell'e fatti: non sono tagliati addosso di nessuno, ma se la ne trova qualcuno che le stia bene, la s'accomodi pure, la lo prenda, la se lo metta. Lo scrittore studiandosi di dare verisimiglianza alle sue descrizioni, è mestieri che prenda dalla natura vivente i modelli per incarnareincarnare, non è questo il vocabolo tecnico, signor Critico? — le sue idee. Come si conduce egli il pittore quando ha voglia di fare un quadro? Dapprima getta giú il pensiero, o come gli artisti lo chiamano, lo schizzo; quindi fa il bozzetto, dove si ravvisa, sviluppato alquanto non solo il concetto, ma la forma; in fine nella natura, cioè in mezzo agli uomini che mangiano, dormono, bevono, e vestono panni, cerca i modelli, ne fa gli studi, e dopo tanti apparecchi eseguisce il dipinto in guisa che le figure sembrino gareggiare con la natura. L'ufficio dello scrittore è tale quale. Inoltre — non isbadiglino, signori, che in due parole li spiccio — l'arte degradandosi a lodare o satirizzare l'individuo, tradisce il suo scopo, s'impiccinisce, intisichisce, imbruttisce, ed ove non torni noiosa, dopo pochi momenti di vita, la diventa cadavere, e non se ne parla piúpunto né poco. La creda, l'individuo in se stesso è cosa meschina, e l'arte è cosa grande, ed ha bisogno di spaziare in una sfera vastissima, nella sfera dell'ideale che è infinita. Quindi, signori riveriti, dicano ciò che vogliono intorno al pregio del libro, ma non facciano allo scrittore l'insulto di crederlo capace di prostituire l'arte facendola servire a cosí misero scopo. Con questi principi raffrontino l'indole del libro e vedano l'enormezza della calunnia. La storia segue venti anni addietro; e i personaggi sono tutti morti. Beppe Arpia morí annegato; Ignazio Gesualdi impiccato; la marchesa d'idropisia; Babbiolino d'indigestione; l'Amalia tisica; Roberto nella giornata di Curtatone; e gli altri, chi d'un accidente, chi di migliare, chi di colica. In somma sono tutti all'altro mondo. Ne vogliono le fedi di morte? So che lo scrittore le serba fra' suoi numerosi documenti. E questo ha voluto egli significare con quelle poche parole, che a guisa d'epigrafe ei pose dietro il frontespizioLa scena si riporta al 1831. — Gli è stato furbo, sa ella; l'arte sua la sa fare. Egli ha voluto anticipatamente satisfare al regio procuratore; e poscia si è provato di far tacere certe linguacce che avvelenano ciò che toccano: non è vero, signorina?

La signorina: Io poi sono innamorata matta di quel conte Roberto; che bel giovanotto, che animo generoso, che amabile scapato! Davvero io non so cosa avrei fatto per lui. Ma la dica, sarà poi vero che tanto amore avesse una fine cosí infelice? Io ho pianto tanto per l'Amalia! Poverina! Ma ho pianto piú assai per Roberto. Perché fuggire il mondo? Per consolarsi non avrebbe potuto fare all'amore con un'altra ragazza? Questa poi io non gliela perdonerò mai: peccato che non ce ne siano piú di quelli.

Il poeta: La parla saviamente, anch'io ho pianto.

Uno strozzino: In fondo qual'è la moralità del libro? Nessuna. Dio guardi se riuscisse a disanimare gl'industriosi che rischiano, prestando, il proprio danaro per far piacere al prossimo! In Firenze avverrebbe lo stesso danno che seguí riguardo alla paglia da cappelli; il commercio passerebbe nelle mani degli stranieri, ci sarebbe da vedere invadere Firenze da un esercito di occupazione d'usurai. Supponete che tra noi gli strozzini, per servirmi della parolaccia con che solete chiamare chi vi fa del bene, siano cinquemilapiglio il minimum ve' — e gli strozzati cinquantamila, ci sarebbe da romper l'uova nel paniere a cinquantacinquemila persone.

Uno strozzato: Sicuro: e sarebbe lo stesso che ridurre alla disperazione tanti figli di famiglia: se togliete loro questo scappatoio, eccoli belli e spacciati, li avete messi tra l'uscio e il muro.

Il vecchio: Si puole una sola parolina? Io che porto sulle spalle un fagotto di sessantacinque anni e sette mesi, ed in vita mia ne ho viste assai delle belle, io non m'intendo di libri, ma questo lo leggo volentieri, perché pratica di mondo ce n'è, e mi par proprio di conversare con antichi conoscenti.

Il poeta: Pur troppo gli è cosí.

Il gallomano: Ma non c'è Balzac.

L'anglomano: Ma non c'è Walter Scott.

L'accademico: Non c'è il Boccaccio.

L'anglomano: Non c'è Cooper.

L'accademico: Non c'è Firenzuola.

Il gallomano: Né anche Vittor Hugo.

L'accademico: Né il Bandello.

Il gallomano: Né Dumas.

L'anglomano: Né Washington Irving, né Bulwer, né Dickens.

Il gallomano: Né Paul de Kock, né Soulié, né Lamartine, né Sue.

L'accademico: Né il Casa, né il Giraldi, né il Porto, né il Molza.

Il poeta: Concedo, ma c'è il vero.

L'accademico, L'anglomano, Il gallomano: E tutt'al piú, lo scrittore non potrebbe pretendere ad altro che al meschino pregio d'avere fatto una esatta pittura del vero.

— E questo precisamente è ciò ch'io ebbi in animo di fare. Li ringrazio, signori, della loro indulgenzadiss'io, mentre la fante del mio editore, apertomi l'uscio del salotto m'introduceva in mezzo a quella amabile comitiva. L'accademico e l'ipocrita rizzaronsi entrambi e mi vennero incontro colmandomi di complimenti.

L'accademico: Mi rallegro con lei del suo bel libro. Che immaginazione! Che eleganza di stile! Che purità di favella! Proprio pare che la si sia nutrita alle fonti dei classici. Ci sono de' tratti che farebbono onore al Boccaccio; ci sono dei periodi sonori ed armonici che si scambierebbono con quelli del Casa.

L'ipocrita: E poi, che mi fa celia? La moralità del libro, le belle massime di cui rigurgita! Si dovrebbe porre in mano a tutti i giovanotti perché lo leggessero e facessero senno.

Il poeta: Che birbe! Gesú mio, che figuri!

Due della conversazione: La dica, dopo questo ne stamperà qualche altro?

Io: Forse e forse no. Dipende dalla fortuna che farà questo.

L'accademico: Certamente i giornali tutti...

Io: Non dipende da' giornali, io non guardo alla opinione de' giornali come fo al termometro quando voglio vedere a quanti gradi sia la temperatura dell'aria. Guardo al numero degli esemplari che ne venderà il mio editore: se con questo libro mi riesce di metterlo in carrozza o per lo meno in tilbury, non pensino, verrà da sé a chiedermi qualcos'altro gli mostrerò tutti gli embrioni della mia fantasia, ne sceglierò quello che mi parrà di meritare la precedenza della natività, e tra qualche anno gli darò licenza di viaggiare per il mondo. Allora, accompagnato ai suoi fratelli, questo racconto diventerà un atto della gran Commedia di carattere che lo studio della storia contemporanea mi ha spinto a scrivere. Ed a proposito di siffatta licenza, tutte le volte che io ho fatto stampare qualche gingillo, gli ho dato un consiglio, il quale, perché mi sgorgò dal cuore e dalla coscienza, fu da me ridotto alla seguente formula inalterabile. «Libretto mio, figlio delle mie viscere, vanne cosí nudo come nascesti, senza impostura, senza raccomandazioni, senza credenziali nel mondo. Se sei buono, vivi mille anni e anche due o tre mila qualora avrai gusto di starci; se sei scempio, abbi pazienza e rassegnati; è meglio che, appena nato, tu muoia d'un accidente, meglio per te, meglio per me. Se hai meriti veri, non ti perdere d'animo a tutte le procelle in cui l'invidia, la mala fede, la calunnia, l'ipocrisia ti potrebbero gettare; senza che tu accatti il voto de' chiarissimi e delle gazzette, verrà il giorno lieto anche per te: se non ne hai, quantunque io non mi senta il cuore di imitare il costume degli Spartani, che precipitavano i figli mostri nell'Eurota, buttati in Arno da te, e buona notte».


Precedente

Successivo

Best viewed with any browser at 800x600 or 768x1024 on Tablet PC
IntraText® (VA1) - Some rights reserved by EuloTech SRL - 1996-2009. Content in this page is licensed under a Creative Commons License