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— O che miracolo è egli questo? — disse Beppe Arpia alzandosi dal seggiolone posto innanzi ad un banco ingombro di fogli, e correndo incontro ad un uomo, che, aperto l'uscio, s'era fermo in sulla soglia. — Quanto tempo è che non ci siamo visti! Gli è un secolo.
— Buon giorno, Giuseppe — disse l'altro stendendogli la mano e rimanendo pur sempre ritto sulla soglia dell'uscio.
Sembrava piú ombra che uomo. Alto di persona, scarne le membra, strette le spalle, adunco il naso ed acuto, larga la bocca, grossi gli occhi prominenti e con le palpebre inferiori rovesciate in guisa che li contornavano d'una striscia sanguigna; livida la pelle, incavate le guance, rasi e neri i capelli, rasa la barba; il capo declinato sulla spalla mancina. Pareva un uomo tranquillo e dabbene.
Era la seconda edizione di Tartufo, riveduta, ricorretta e rimpastata in modo da apparire un'opera affatto nuova, la perfettibilità della birbonaggine fatta uomo, capolavoro d'assassino, a finire il quale la madre natura, da Molière fino a noi, aveva messo un secolo e mezzo di tempo.
Aveva nome Ignazio Gesualdi, ed era uomo di fiducia della illustrissima marchesa Eleonora Pomposi.
— O bravo, amicone, — riprese Beppe prendendolo per una mano, e quasi trascinandolo verso una seggiola — che piacere ch'io ho di rivedervi! Che fa? Sta bene? O bravo davvero! Accomodatevi: posso io servirvi in qualcosa? Sedetevi e ragioniamo.
— Grazie, mio caro, siete pur buono e lo so. Ma io passavo, e volli salire per sapere le vostre nuove. S'io non vengo piú spesso, come vorrei, a godere della vostra amabile compagnia, non ve l'abbiate per male. Voi sapete in che mar di faccende mi trovo ingolfato; non ho proprio un momento di respiro. Dacché io presi a sistemare quella benedetta casa arruffata, credetemi pure, mi son rifinito; proprio non ne posso piú: ma provo la soddisfazione di avere rimesso su un patrimonio che cascava a pezzi.
— Lo credo io, la vostra prudenza, la vostra accortezza...
— Bontà vostra.
— Non dico per adularvi; se tutti i signori avessero in casa un uomo come voi, e gli ponessero in mano i propri interessi, non seguirebbe piú quello che segue, e voi m'intendete.
— E pure dopo tanti travagli non sono né anche in porto, — seguitò Ignazio modulando la voce in terza minore — mi rimane anche un passo da fare, un solo, e mi parrà di aver proprio compita l'opera, mi parrà d'avere tocco il cielo col dito; se ci riescirò, come spero con l'aiuto di Domineddio, vorrò ritirarmi affatto dalle faccende e pensare alla salute dell'anima, per la quale non si fa mai tanto che basti in questo mondo.
— Io non v'intendo; o via ditemi qualcosa; qui gatta ci cova; e se son buono a nulla, fate pur capitale di me — disse Beppe stendendo la mano e prendendo quella d'Ignazio che glie l'abbandonava compiacente, componeva le labbra ad un certo risino asciutto e lasciavasi spuntare una lacrimetta in un occhio, riso e lacrima che parevano ed erano come dipinti a guazzo sull'epidermide, e non avevano nessuna corrispondenza col cuore, e nondimeno esprimevano bene l'apparenza della gratitudine. — Tanto piú che gli affari principiano ad andar male, a rotta di collo — continuò Beppe — e mi sento un'uggia stamani, mi sento una bile nello stomaco, che davvero la provvidenza mi vi manda per isfogarmi con voi, amicone per tutta la vita.
— Sfogatevi pure — rispose Ignazio — come io abbia a cuore le cose vostre lo sapete: per darvi un nuovo argomento della mia stima voglio farvi una confidenza, voglio rivelarvi la cosa della quale...
— Appunto quella, e stava per chiedervene; o parlate, via.
— Voi conoscete — riprese a favellare pacatamente Ignazio — la marchesa Eleonora che buona e nobile signora ella sia. Cascata nelle mani d'un marito — Dio l'abbia in pace e lo perdoni nella infinità della sua misericordia — che non le lasciava un momento di bene, e stette lí lí per ridurre la casa al verde, per l'onore della famiglia la pagò tutti i debiti di quel dissoluto — e voi l'avreste a sapere — e sofferse tranquillamente la croce che la provvidenza le impose a portare: fiat voluntas tua. Come Domineddio ebbe compassione della povera signora e chiamò alla eternità quel disgraziato del marchese, i nodi vennero tutti al pettine; le dilapidazioni si resero visibili, e avrete forse sentito le infinite ciarle che si sparsero per la città; si parlava di milioni di debiti, di un esercito di creditori, di sequestri, di espropriazioni, di vendite coatte, e lí taglia che è rosso. La mia buona signora, naturalmente tra per la vergogna, tra per il dolore, stava per perder la testa; nella sua inesprimibile angoscia il cielo che sempre aiuta le anime giuste, le mandò la ispirazione di rivolgersi a me. Alla prima parola di consolazione ch'io le dissi, si senti rinascere l'animo, mise i libri di casa nelle mie mani, mi dette carta bianca, raccomandandomi la liberassi da quelle pene d'inferno; e veramente erano pene d'inferno quelle che pativa la buona marchesa. Io era, si può dir quasi, nato nella famiglia, ed amavo la signora piú con affetto di parente che di servitore; mi offersi per la vita e per la morte, e senza metter tempo in mezzo mi posi all'opera. Non fo per dire, dopo pochi mesi la scena era bell'e cangiata in casa Pomposi, e la marchesa mostrandosi su per le Cascine1 con una carrozza ed un paio di cavalli che levavano il lume degli occhi, tanto erano belli! fece tacere le voci sinistre, giacché gli argomenti e le ragioni non vagliono a chetare le lingue mordaci, le quali tacciono alla muta e persuasiva eloquenza de' fatti. Non dico che la illustrissima casa Pomposi non abbia degli altri buchi da rattoppare, ma gli è un fatto che i libri d'entrata e d'uscita di quest'anno, paragonati con quelli de' tempi del defunto marchese, vi allargano il cuore, e non fo per dire, piú di quanto mi aspettavo ci sono riuscito.
— E ne son persuaso, — disse Beppe reprimendo uno sbadiglio che accusava il timore che Ignazio, non ismettesse per un paio di ore — un uomo dabbene ed accorto come voi...
— Non mi fate arrossire, ascoltatemi — ripigliò interrompendolo il Gesualdi, mentre cavata di tasca una gran tabacchiera d'argento, offriva una presa a Beppe, e poi pigliandone una per sé, sporto in avanti il capo, strofinava le narici a piú riprese, pensando in quell'istante le parole con che presentare il proprio pensiero mascherato a uso Talleyrand in guisa che riuscisse ad abbindolare lo astuto e furbo strozzino; — ascoltatemi un poco che non sono anche arrivato a ciò che volevo confidarvi. Se Dio volle amareggiare la vita della mia buona marchesa con un consorte di quella pessima cottoia, altrettanto e piú volle consolargliela facendola madre d'una fanciulla che è un tesoro. Fresca come un fiore, santa come una reliquia, virtuosa, sennata, dotta come una dottora senza che sappia cosa significhi superbia, se la vedeste è un occhio di sole nel viso e per tutta la persona. Dio la benedica e la mantenga sempre cosí. Ora compie diciotto anni, e, come potrete immaginare, molti de' primi signori di tutta Toscana le hanno posti gli occhi addosso; taluni cosa non hanno fatto per introdursi in casa non è possibile il dirlo; ma la marchesa, la quale è lo specchio dell'ottima madre di famiglia, non ha mai permesso in nessuna guisa che il linguaggio seduttore di que' giovanastri contaminasse le caste orecchie della figliuola; la marchesina è pura come una colomba. Ad ogni modo oggimai le si offre un partito stupendo, un vero affarone. Il duca Nottoloni l'ha fatta chiedere con tutte le formalità convenevoli ad un par suo. Ma la mia signora, da quella donna savia ch'ella è, ponendo da canto nobiltà e ricchezza, vorrebbe che la sua figliuola fosse felice accompagnata ad un uomo che vivesse nel santo timore di Dio. Mi richiese di consiglio — sapete che senza me, per bontà sua, non fa mai nulla — ed io le promisi d'informarmi scrupolosissimamente dell'essere e de' costumi del duca, e saputo ogni cosa, si farà il debito nostro.
Beppe Arpia con le braccia incrociate sul petto, senza muovere palpebra, stavasi ad ascoltare le parole d'Ignazio, il quale seguitava:
— E poiché il desiderio di vedervi mi ha condotto in casa vostra, la fortuna non mi poteva far capitare meglio onde trovare ciò che vado cercando. Voi conoscete bene quel signore, non è egli vero?
— Sí che lo conosco, e dimolto.
— Parlatemi dunque schietto; — disse Ignazio volgendo rapidamente la sua seggiola ch'era di lato e ponendola di contro a quella di Beppe in modo che le ginocchia di entrambi si toccavano, e prendendogli la destra e stringendola fra le sue mani — in cosa tanto seria, dove ne va la coscienza, in chi mi potrei io piú fidare se non in voi? Parlate, dite su, non mi nascondete nulla, e vi giuro da galantuomo d'onore, che ciò che mi sarete per rivelare resterà qui dentro; — e toccavasi il petto — acqua in bocca, noi non ci siam visti, intendete?
— Ma non saprei.
— Diffidate forse di me? Mi fareste questo affronto?
— Non è cotesto: ma i signori d'oggigiorno son poco di buono, ecco.
— Lo so pur troppo anch'io, mio buon amico. Ma non sapreste dirmi nulla di particolare? Qualcuno mi ha sussurrato all'orecchio che il duca è un giuocatore.
— E come!
— È un dissoluto.
— E come!
— È un figuro.
— E che figuro!
— Sarà: ma i signori quand'eglino hanno bisogno di quattrini, sono bonini ed agevoli, non pensate. Il duca, io che gli ho fatto piacere tante e tante volte, l'ho trovato umile e cerimonioso; e' s'adatta anche lui.
— Perché ha avuto bisogno di quattrini: ma dietro le spalle Dio sa cosa dirà di voi! Oh! Se potessi... basta, non vo' dir male di nessuno.
Mentre il discorso fra' due teneri amici si riscaldava, ecco spalancarsi improvvisamente un usciolino di contro a quello per dove era entrato Ignazio Gesualdi, ed apparire un giovanotto. Avea del fanciullo e dell'invecchiato, in su' venticinque anni, di statura mezzana, un po' curvo il dosso, se non che una spalla gli si rialzava alquanto sul livello dell'altra; la testa che era legata al busto per un collo lungo pareva gli spiombasse; il naso adunco incurvavasi sul muso, di cui il labbro inferiore sporgeva rilasciato sopra un mento piccino e rinculato verso il collo. Il profilo del volto con un solo dito di fronte depressa descriveva una curva, o meglio un angolo ottuso; le orecchie grandi e lunghe, le tempie schiacciate come una testa di creta che l'artista per bizzarria volle stringere da ambi i lati, e poi indurita rimase a quel modo: la balordaggine gli si leggeva sul viso a tanto di lettere.
— Babbo, babbo — disse egli appena aperto l'uscio.
— Che c'è egli? Caro il mio Babbiolino.
Il giovinetto gli accosta la bocca all'orecchio e gli sussurra poche parole.
— Sí, figliuolo mio — disse Beppe or ora.
— Come gli è fatto grande! — esclamò Ignazio che all'apparire di Babbiolino provò tal sensazione e mostrò segni tali, che stava per rivelare il segreto della sua visita. — Come gli è fatto grande! Bel giovanotto; mi rallegra con voi! sor Giuseppe; Dio ve lo mantenga bello e pieno di salute.
Babbiolino, quasi i complimenti non fossero fatti a lui, rimaneva come un piuolo, ritto, zitto, impassibile, colla bocca mezz'aperta, con gli occhi spalancati, guardando ora il babbo, ora l'amico del babbo.
— Gli è proprio cresciuto — disse Beppe — ma gli è inquieto, mette sottosopra la casa, e non vuole studiare; in appresso, speriamo bene.
E Babbiolino lí fermo come se si parlasse di Confucio. Dopo un momento volta le spalle, infila di nuovo l'usciolino, che gli si richiude dietro; e sparisce.
Dopo l'apparizione di Babbiolino, Ignazio Gesualdi, da spertissimo generale, in un battibaleno aveva cangiato onninamente il piano di guerra, poi riprese:
— Buono gli è, ma conosce poco il mondo; e secondo me, meglio cosí, che in oggi, sor Ignazio garbato, i giovanotti corrono la cavallina, e giù a scavezzacollo, come se la via fosse unta; si sciupano salute e costumi, e mandando a rotoli quel po' di bene che i loro genitori sudano tanto a mettere assieme.
— Cosí non fosse come gli è vero! Meglio avere del minchione che del birbone. — Parole sante, sor Giuseppe, fate bene voi, sor Giuseppe; non gli fate praticare i compagnacci che ve lo sciuperebbero in tre giorni; tenetelo di conto, e quando gli avrete dato stato, la fortunata ragazza che gli avrete scelto a consorte vi manderà ogni giorno mille benedizioni.
— E giacché il discorso è cascato da sé, scusate s'io vi domando: cosa avete voi pensato per collocare il vostro figliuolo? Gli è grande e robusto, e mi parrebbe tempo di spicciarvi. Che vorreste voi fare come que' genitori che mandano in là quanto piú possono il tempo di dare stato ai propri figli, cacciano via l'occasione, e quando poi la cercano, la non si trova piú? Se fossi ne' panni vostri, io vorrei vedere assettato e felice l'unico oggetto che mi rimane al mondo, e vedermi scherzare sulle ginocchia le creaturine della mia creatura.
— Ed è tanto che ci penso! — esclamò Beppe, mettendo dal fondo del cuore un lungo sospiro — ma vuol essere un affar serio, e non so dove gettare le mani.
— Guardate: oramai ne voglio dire una anch'io; tanto serve per chiacchiera: poi siamo a quattr'occhi, e nessuno ci ascolta: datemi la vostra mano, mio caro amico, stringetela forte — bene! bravo! — Ascoltatemi. Posso parlare senza tanti preamboli, non è vero.
— Ma parlate pure, siamo amici vecchi, eh diamine!
— Che ve ne pare della figliuola della marchesa?
— Ma se non l'ho mai vista.
— Che serve? La potete vedere quando v'aggrada: voi non avete a spendere a vederla: ma che ve ne pare cosí come io vi ho detto ch'ell'è.
— Se la è tale, di certo deve essere un tesoro, come l'avete voi chiamata ora ch'è poco.
— Bene: mi conoscete voi, mio caro Giuseppe? Guardatemi in viso. Sapete, ch'io avrei abilità di buttare all'aria il matrimonio della marchesina col duca. Che ne dite, eh?
— I' lo credo io; massime se gli è spiantato.
— Spiantato! Che! Se il suo gli è uno de' piú grossi patrimoni di Firenze.
— E' sarà; ma io so ch'è' fistia a quattrini.
— E' sarà anche questo, e quando lo dite voi sto zitto; i quattrini mancano anche a un re, che è padrone d'ogni cosa: ma le fattorie e i palazzi son lí; e queste mie mani si sono provate a fare un po' di bene in certe case ridotte a peggiori condizioni che non è quella del duca, non fo per dire.
— Be'; ma non so dove vogliate andare a parare.
— Non ci avete anche dato drento? Se, puta caso, io mi mettessi in capo, mi ficcassi qui dentro proprio nel cervello, d'imparentare la vostra famiglia con quella della mia buona ed illustrissima marchesa, l'avreste caro?
— Ora 'ntendo: volete dire che Babbiolino avrebbe a sposare la marchesina? — Cinque minuti di pausa; Beppe guarda fisso il furbacchione d'Ignazio, che dal canto suo teneva gli occhi conficcati negli occhi dell'altro, per leggergli in fondo dell'anima, e in caso di non riuscita del primo colpo, tentarne con piú garbo un altro di maggiore efficacia. — Non è affare — rispose Beppe con una certa cantilena che aggiungeva espressione al nudo significato della parola.
— O perché? Che c'è egli d'impossibile?
— Con chi è uso a camminare a occhi chiusi non ci sarebbe nulla d'impossibile; anzi la cosa, e in ispecie quando c'è di mezzo una persona di garbo come vo' siete, la cosa sarebbe bell'e fatta ma io che gli anni non me li sono giuocati, e che qui dentro non ci ho pan cotto, ma due dita di cervello — vi torna? — non mi lascerò mai tirare né anche da mille diavoli a una simile corbelleria. Gli conosco, e dimolto, i signori, e vanno lasciati star lí. O che credete, che è cotesta la prima volta che ricevo offerte dalle prime famiglie e di Toscana e di Roma e di Romagna e di tutti i paesi del mondo? Per fino un principe napoletano, non sono anche passati se' mesi, per mostrarmi i documenti de' suoi titoli e de' suoi feudi, mi mandò un fascio di carte che ci voleva un ciuco a portarle; ed io alla larga i signori. Ma per venire al fatto nostro, e per darvi tutta la soddisfazione che meritate, giacché l'offerta quando viene da voi è tutt'altra cosa, e mi onora e ve ne son grato...
Ignazio lasciò scapparsi il solito sorriso sull'epidermide delle labbra; espressione concisa, che ridotta in parafrasi, voleva dire: le concessioni principiano, fermo al macchione, il colpo è fatto.
— Per darvi tutta la soddisfazione che meritate — seguitò Beppe — ragioniamo un poco placidamente. O sentite: la vostra marchesina sposerebbe il mio figliuolo e sta bene; la verrebbe in casa; i primi giorni tutta amore, tutta tenerezza e sta bene; ma dopo pochi mesi, se pure saranno de' mesi, o sapete come l'è ita? La signorina ripiglia l'antica superbia, mette su broncio, si vergogna d'avere sposato il figlio di un onesto commerciante; non fa avere un momento di bene a quel povero Babbiolino, che non avrebbe né anche animo di metter mano alla mazza e fare intendere alla signora consorte che lui gli è il marito; e in fine avrò fatto un bel guadagno; mi sarò messo il diavolo in casa. E per non far tanti discorsi, sapete quel ch'io penso? La marchesina sposerebbe il mio figliuolo solo per quel po' di milione di scudi che Dio sa quanti affanni ho durato a mettere assieme...
Un milione di scudi! Punto fermo. Si tratta d'un milione! D'una persona, che possiede un milione! Nel secolo del re quattrino, nell'epoca in cui l'uomo, se potesse, porterebbe alla zecca il proprio cuore per farlo coniare; per farsi coniare anima e corpo, e in forma di ruspone a due piedi, andare su e giù pavoneggiandosi per via Calzaiuoli! Punto fermo! Si vuol sapere chi è, com'è, quant'è, se è grande o piccino, se è nobile o plebeo, si vuol conoscere per ogni lato questo figlio prediletto della fortuna, che ha parlato tanto finora, e ci abbiamo poco badato perché non si sapeva che fosse signore di un milione di scudi.
Non tanta furia, lettore amico, che mi giova di crederti tale, sebbene m'interrompi cosí barbaramente e con tanta boria che dovrei tirare di lungo senza darti retta; se aspettavi un pochino piú, avresti conosciuto da te chi fosse Beppe Arpia e chi Ignazio Gesualdi, avresti veduto qual parte son destinati a rappresentare in questa commedia. Ma perché mi fai fretta, e poi penso che il vocabolo milione fu quello che ti diè volta al cervello come l'ha data a tanti cervelli piú forti del tuo, fai un segno alla pagina, e leggi la seguente cronaca.