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Negli anni della salutifera incarnazione 1769 nel dí 15 del mese di Agosto, nel momento medesimo che in Ajaccio Letizia Romolini partoriva Napoleone Buonaparte, nella bella città di Firenze, in un affumicato e diruto casolare posto in via Gusciana ne' Camaldoli di San Frediano,2 una certa Crezia metteva alla luce, dopo non so quante ore di acerbissimi travagli, un bambino. Esseri portentosi ambidue, non senza arcana ragione venuti nel mondo in un momento medesimo; l'uno era destinato a mandare a spasso i re unti per la grazia di Dio e fare in bricioli i loro troni, l'altro a mettere ignudi in sulla strada i signori e divorare i patrimoni; esseri che la natura di quando in quando crea, e, come suol dirsi, rompe la stampa.
La Crezia era una donnicciuola senza nome, o dirò meglio, senza casato. Le pettegole de' Camaldoli la chiamavano Crezia Frullina, perché, dicevano esse, la vedevano sempre andare attorno come un frullino; non sapevano che arte facesse, né di che campasse: la non s'occupava a tessere, a lavorare di treccia, a star in bottega, a far nulla di ciò che le sue vicine facevano; la sua vita era un mistero per tutti. In un giorno medesimo, e diresti in una medesima ora, il tale l'aveva vista in Borgo San Lorenzo, il tal altro al di là d'Arno, questi l'aveva salutata a Porta alla Croce, quegli le aveva favellato in Borgognissanti: in somma pareva un folletto sempre in faccende. Era su' quaranta anni, di persona piccina, magra senza essere scarna, capelli rossicci, occhi grigi, mani lunghe, cupo il color della pelle, sempre d'un umore. Andava coperta le spalle d'un mantelletto rattoppato; una cuffia di velluto sdrucito le copriva la parte superiore della zucca, lasciandole scoperta la posteriore, donde scappava fuori l'estremità d'una treccia d'inspidi capelli. Vestiva sempre a cotesto modo quando il termometro segnava trenta gradi sopra zero, e quando ne segnava quindici sotto. Carni e vestito avevano presa una tinta uniforme a guisa di quegli antichi casamenti, sopra i quali pare che il tempo col suo gran pennellaccio abbia passato una mano generale di fuliggine. Se un artista l'avesse voluta descrivere ad un altro figlio dell'arte, gli avrebbe detto: è una figura abbozzata con la seppia. Al non artista avrebbe resa l'immagine di uno spazzacammino. A contemplarne la costituzione, spogliandola con la fantasia dal viluppo delle vesti, sembrava una statua coperta di uno strato di fortissima vernice che la rendeva immune dalla forza logoratrice degli elementi. Eppure questa creatura che pareva di metallo tirato all'incudine, ebbe anch'essa anzi tempo a ripiegare le cuoia. Una mattina la levatrice del quartiere, uscendo, con un fagotto sotto il braccio, dal buco, dove stava rintanata la Crezia, alla prima bracina, che le si parò davanti, disse sottovoce: — La povera Crezia è morta di parto; ha fatto un figliuolo — e lo portò a' Nocenti.3
Il bisbiglio con la celerità del lampo si propagò per tutta la strada: in un istante le donnicciuole si fecero tutte chi all'uscio, chi alla finestra; uscita la prima, uscirono le altre: e qui un ire e venire, un formarsi capannelli, un cicaleccio infinito, un diascolio da non potersi ridire. Dopo pochi minuti avviatasi la prima alla casa della Crezia, tutte le corsero dietro, trovarono la puerpera freddo cadavere, si commossero, e corsero ad avvisarne il curato, che nel giorno medesimo la mandò a sotterrare. Requiescat in pace.
E qui finisce la biografia della misteriosa femminuccia; né importa che piú se ne sappia, avvegnaché la sua esistenza fra i numerosi viandanti, che traversano questa vecchia valle di lacrime, avrebbe lasciata la memoria che lascia negli immensi spazi del cielo il volo della rondine, se la fama, cui poscia inalzossi quel bimbo fatale, che le costò la vita, non avesse ne' posteri fatto nascere il desiderio d'indagare chi mai fossero i genitori di questo portento d'animale a due piedi.
— O il padre?
La domanda è ragionevole; ma innanzi che me la facesse il mio lettore se l'erano già fatta le novantanove pettegole che formicolavano in quella strada, le quali interrogandosi a vicenda: — O dove l'aveva ella nascosto cotesto figliolo? — Di dove l'è egli scaturito cotesto negozio? — O il babbo chi era egli? — a vicenda, rispondevansi: — Vattel' a pesca.
Fatto è che la esistenza di lei è involta in un gran masso di tenebre, che un collegio di archeologi tedeschi — i dotti tedeschi son fatti a posta per trattare le tenebre, ve' — non varrebbe a diradare. Ne' tempi de' tempi, quando le nonne non avevano altro in bocca che storie di diavoli, di streghe, di versiere, di fantasmi, si sarebbe detto — massime dopo la parte gloriosissima che il figlio di Crezia rappresentò nel mondo — che un qualche commesso viaggiatore de' banchieri d'Averno, mandato in Toscana a fare incetta di creature battezzate, si fosse innamorato della misteriosa Camaldolese.
— O non c'erano tante signore? E tanto belline!
E che serve? I colleghi di Mefistofele, tuttoché siano educati ed eleganti come parigini, sono ben capricciosi e talvolta amano meglio la selvaggina. Ma è supposizione e la noto come la sola che vaglia a spiegare un fatto, ed è questo, che intorno alla pudicizia della Crezia, in quaranta anni di vita, le lingue piú velenose non trovarono mai nulla a ridire.
È questa la storia vera; e sia detta qui fra noi, ché la storia apocrifa de' nobili progenitori in linea retta del famoso figliuolo di Crezia, la riferirò a suo luogo tale quale fu inventata, comprovata ed evidentemente dimostrata in un albero genealogico, che egli fece formare da un uomo dottissimo nella nobile, difficile ed utilissima scienza del blasone.
In quell'anno il raccolto de' trovatelli era stato abbondante tanto, quanto quello de' fagiuoli era stato scarso. E però agl'Innocenti non essendovi posto per il nuovo bambino, battezzatolo e chiamatolo Beppe, lo dettero alla donna d'un contadino, che abitava in un villaggio tra Firenze e Pistoia. Marito e moglie, vedendolo rigoglioso di salute, vispo e con gli occhi aperti — agli occhi i contadini ci badano — gli messero addosso un affetto grandissimo; e in ispecie la donna lo prese ad amare come lo avesse partorito da sé; ed aveva appena egli sei mesi che la se ne inorgogliva come un artista vagheggia l'opera uscita dalla sua mano creatrice. Beppe adunque, privo delle materne carezze, era cascato in mani buonine.
Cosí nudrito e carezzato, crebbe; sciolse le gambe, sciolse le mani, sciolse la lingua. A' contadini, che son gente, come suol dirsi, positiva, tarda mill'anni di vedere i figliuoli buoni a fare qualcosa, a non mangiare piú il pane a tradimento; e però in tenerissima età gli avviano a qualche mestiere. Se ci fu al mondo fanciullo, che meritasse il nome di precoce, il piccolo Beppe era quello. Fino da quando cominciò a reggersi bene sulle proprie gambe, mostrò segni tali che avrebbero dato ad un astrologo ampia materia d'almanaccare intorno alle sue sorti future. Immaginate il moto perpetuo: corre di qua, corre di là; sale le panche, scavalca i muricciuoli, mena le mani, ficca gli occhi e spia da per tutto; se dà una capata contro la parete, se stramazza sul duro terreno, non mette uno strillo, si rialza e torna ad affaccendarsi come prima. Soprattutto — e ciò fu presto notato — quantunque la casa del contadino non fosse strema di nulla, Beppe amava per istinto piú l'altrui che il suo; s'introduceva nelle case, penetrava sotto le siepi ne' campi degli altri, e rubava ciò che gli cadeva tra le mani. Talvolta gabbava con tanta astuzia qualche villano, il quale, intento al lavoro non s'accorgeva di nulla, che il fanciullo e il villano componevano un quadro, che ti richiamava alla fantasia la pittura, dove gli antichi rappresentavano Mercurio bambino nell'atto di rubare gli armenti ad Apollo omaccione che si diverte a strimpellar la chitarra.
Il priore del villaggio, a cui il monelluccio, introdottosi in chiesa, aveva rapito di sotto al confessionale un pezzo di presciutto regalatogli dalla moglie di un pizzicagnolo, una domenica, in piazza, raccontando il fatto ai contadini, de' quali ciascuno diceva la sua, esclamò: — Quel fanciullo è un'arpia! — e tal nome parve a tutti gli calzasse cosí a dovere, che dal quel giorno in poi lo chiamarono sempre Beppe Arpia.
I genitori adottivi lo ammonivano, lo garrivano, lo picchiavano — nulla: nelle ribalderie piccine di Beppe non vedevano i cenni infallibili delle sue grandi birbonate future; ne ridevano come di scapataggini che, secondo loro, erano buon segno; e invece di attutirgli il genio della rapacità, glie lo fomentavano. Aggiungi che la vanità della donna, la quale non avendo avuti altri figliuoli, né avendo speranza di averne, erasi avvezza a considerarlo come suo proprio, e vi mulinava sopra, non permise che abbracciasse il tribolato mestiere del marito, ma lo volle tirar su per il leggere e lo scrivere, raccomandollo al maestro che gl'insegnasse presto a parlare civile, o, come essa diceva, a parlare in punta di forchetta, poiché divisava farne oggi un sarto, domani un parrucchiere, il dí dopo un dottore, poi un cancelliere, e per fino un canonico, in somma un omaccione d'importanza.
Ma la grulla faceva i conti senza l'oste. Dal decimo sino al quattordicesimo anno dell'età sua il monello — per dire come si dice — fece l'arte del Michelaccio, mangiare, bere, dormire e andare a spasso. Girò tutte le botteghe del villaggio, senza trovare basto che gli stesse bene addosso; dopo pochi giorni o fuggiva, o era cacciato via. In questo perpetuo giro di botteghe un pittore l'avrebbe potuto dipingere con un lanternino in mano, cercando, non come Diogene, un amico, ma un buco da infilare e riescire in un viottolo onde potesse, secondo suo genio, tirare di lungo per tutta la vita.
Una sera — era di venerdí e una malannaggia civetta faceva un diascolìo sulla cappa del cammino: a questo i contadini ci badano — il villano con la vanga appoggiata sopra una spalla, entrava nel suo tugurio, mentre la moglie era affaccendata ad apparecchiargli da cena. Stanco del lungo lavoro, si lascia cadere sopra un panchetto accanto alla tavola: — O Beppe dov'è egli? — chiama Beppe di qua, Beppe di là — nessuno risponde. Marito e moglie atterriti, pensano gli fosse seguito qualche brutto caso; senza toccare il cibo, senza né anche bagnar la parola, si levano, e l'uno verso levante, l'altra verso ponente, corrono in cerca dell'agnello smarrito. Non ci fu casa che lasciassero inesplorata; corsero dal fornaio, dal vinaio, dal salumaio; da Cecco, da Nanni, da Lapo, da Drea, da Tonio, da Pasquale; andarono per fino dal dottore, andarono dal priore, andarono a strappare per forza dalla bettola il sagrestano che spassavasi a prendere un po' di sbornia, fecero aprire la chiesa per vedere se fosse rimasto rinchiuso lí; in somma delle somme non ci fu buco che non perlustrassero — ma Beppe non si trova né morto né vivo. Per le due povere anime quella fu notte d'orribili angoscie.
Beppe trattanto girandolava per le vie di Firenze. Il babbo spesso nel dí del mercato ve lo aveva condotto. La vista della città gli venne un po' per volta slargando la mente. Dapprima principiò a sentire la brama di rompere il guscio; poi si messe a mulinare sul modo di fuggir dal villaggio; finalmente — quasi il suo genio protettore lo volesse condurre in un campo piú vasto per fargli eseguire piú ampie le evoluzioni della sua esistenza — decretò di andare nel mare magno della capitale. — A Firenze — gridò egli, o disse fra sé, la sera fatale che recò tanto affanno a quella povere genti che lo avevano amorosamente nutrito e cresciuto, — A Firenze, a Firenze! — e si mise in via con una voglia simile a quella con che Cesare passò il Rubicone — è comparazione vecchia, lo so; se la volete pigliatela, io l'adopro perché esprime bene la cosa — Il ladroncello aveva l'ambizione della cantante, che, applaudita da' mercatini in Borgognissanti, brama gli applausi de' signori alla Pergola. Un uomo della tempra di Beppe cosa volete che facesse in un villaggio, dove i viventi, tra uomini, donne, ciuchi, maiali, troie, e polli non arrivavano a cinquecento? Che colpa era la sua, se il suo genio lo tirava a sé con un fascino, contro cui non sarebbero valse le arti arcane di Zoroastro?
Che seguisse dopo la sua fuga, se il contadino gli corresse dietro a cercarlo, se gli riescisse di ritrovarlo, come campasse, le son cose che non si sono potute storicamente indagare: sopra quattro anni della sua vita i ricordi de' tempi non versano se non una fioca luce. Immaginate dunque che qui ci sia una lacuna — immaginate di guardare un quadro dipinto sulla parete, dal quale siasi pressoché tutto staccato l'intonaco, e nel quale lí ravvisi una testa, in quell'altro luogo un torso, piú in là una gamba, e pure non ti riesce di raccapezzare quale sia stata tutta la composizione. Cosí dalle memorie, con iscrupolosissima cura raccolte, risulterebbe che taluno l'aveva visto in una taverna sguattero di cucina, tal altro in una bottega di barbiere, questi in mezzo ai facchini di dogana, quegli accanto al ciarlatano in piazza, il venerdí, a tenergli la cassetta, e via discorrendo. E se dovessimo giudicare da ciò che faceva bambino nel villaggio, e piú da' suoi istinti, che erano evidentissimi e prepotenti, potremmo senza timore di sbaglio concludere che i peccati mortali, se son sette, egli ne aveva quattordici alla età di venti anni — epoca certa d'onde ha principio la storia delle sue avventure; allorquando parve che la fortuna dopo mille andirivieni, dopo di averlo sbattuto per ogni verso, condottolo là dove si apre un ampio sentiero, e messolo in compagnia della universa famiglia de' vizi e presolo per le spalle, gli desse la spinta dicendogli: — Via; tira sempre di lungo, e va a farti immortale.
E Beppe Arpia rispose mirabilmente alla prodigalità della sua protettrice: in pochi anni, non ostante che in Firenze strabbondassero gli esercenti il mestiere, al quale egli si dedicò, pervenne a tanta altezza che fra le celebrità degli strozzini, egli risplende come Napoleone fra le glorie militari de' tempi moderni.
O Don Chisciotte glorioso, o Sancio Panza, vera pasta di buona creatura, fortunati voi che trovaste l'uomo che seppe eternare le vostre inclite gesta! Oh! Perché il Beppe Arpia di Firenze non ebbe a nascere ai vostri giorni, o anche perché mai la provvidenza non indugiò un paio di secoli a mandare sulla terra la bell'anima del vostro amabile poeta? La corona trionfale ch'egli potrebbe intessere sulla fronte dell'eroe ch'io ho impreso a celebrare, farebbe sulle vostre chiome apparire pallide le frondi che le adornano. Ma il fatto è fatto, e non ci essendo oramai piú rimedio, bisogna che la grande ombra di Beppe si contenti di questa povera prosa, tirata giù cosí alla buona in istile casalingo, non fosse altro darà l'a ire a qualche romanziere ispirato, che ne farà materia di un poema epico. Dove difatti trovare un protagonista, la storia del quale, al pari di quella dello strozzino, sia tessuta d'innumerevoli, bizzarri e portentosi accidenti? Dove trovare un carattere che con arcano magistero compendi ed armonizzi cotanti caratteri diversi? In lui l'astuzia della volpe, lo strisciare del serpente, la rapacità del lupo, la ferocia della tigre, la timidità della lepre, la lealtà del mulo, la misericordia del coccodrillo: in lui l'arca di Noè in miniatura. La sua storia narrata ampiamente e per bene da un cervello fecondato dalla mistica favilla del genio sarebbe un libro d'oro, dove il banchiere imparerebbe a far fruttare il quattrino il cento per cento, l'economista a impinguare le esauste finanze vuotando senza chiasso e con garbo le tasche de' fedelissimi sudditi, il diplomatico ad intrigare, l'uomo di stato a perseverare, il ciarlatano a gabbare il prossimo, l'imbroglione d'ogni razza e d'ogni paese ad arruffare a suo pro le cose di questo mondo.
Ma io non posso per ora, o lettore, raccontarti se non un solo periodo della sua vita, un solo, ma che racchiude fatti tali da farti supporre le migliaia che io taccio; se ti aggrada, e non hai meglio da fare, siedi accanto al caminetto, apri il libro, leggilo e medita.
Avevamo lasciato Beppe girovago per le vie di Firenze. Un giorno le sue tasche erano vuote, il poveraccio non aveva un becco d'un quattrino, gli era di sera, gli era il mese d'agosto; una fame canina lo pappava vivo. Sdraiato su' gradini sotto il campanile di Giotto, col corpo ripiegato da un lato, appoggiava il braccio, che servivagli di puntello alla guancia, sul ripiano dell'edificio; si rivoltolava ora da una parte ora dall'altra, non trovava riposo. Tutto a un tratto si rizza, sbadiglia eruttando un raglio e stirandosi le membra come fosse pur allora desto da un lungo sonno, e poi lentamente si muove lasciando alle gambe piena balìa di andare, sebbene voglia ne avessero poca. Infilato l'arco de' Pecori, torce a mancina per via de' Succhiellinai e sente uno scroscio metallico, che gli mise per tutte le membra un brivido simile a quello che descrivono i poeti romanzeschi allorquando introducono i loro cavalieri erranti nel pauroso silenzio d'un castello disabitato, dove, appena entrati, sentono lo strascico misterioso di certe catene. Ma il suono che percosse l'orecchie di Beppe era suono argentino, suono di francesconi, che da che il mondo è mondo, ha avuta la virtú potente di rompere l'estasi piú profonda dell'anima. Era qualche industre publicano che faceva il quotidiano bilancio fra i capitali e i guadagni, il raffronto fra le cifre e i quattrini sonanti.
Beppe si senti invadere tutto dallo spirito di Cacco, che lo assaliva, non con una, ma con mille tentazioni, ch'egli cacciava via come sogliamo fare delle mosche nel mezzogiorno d'un mese d'estate, e quelle tali tentazioni, giusto come le mosche, tornavano ostinatissime ad assediarlo e pinzarlo.
Segnatosi, per allontanare lo spirito del demonio, tira diritto e sbocca in Mercato Vecchio.
Chi dal settentrione, che noi malarrivati figliuoli degl'incliti eroi di Roma repubblica, e d'Italia repubblica, sogliamo chiamare col nome di barbaro — nome che se non ha un senso inverso, oggimai non dovrebbe avere piú senso — chi, io diceva, da quelle città grandi e piccine viene in Firenze, e va per caso o appositamente in Mercato, piú presto che un luogo dove si vendono i viveri destinati a nutrire un popolo incivilito, gli deve sembrare una fogna; mal disposto, mal fabbricato, come un abito vecchio, rincenciato e rinfrinzellato, sudicio, fradicio, con un'aria che ammorba, monumento di vergogna e di vitupero, che nella piú bella e gentile di tutte le italiche città, è una enorme dissonanza simile a quella che produrrebbe un piffero stonato nella piú vaga sinfonia di Rossini. Domandane gl'Inglesi che hanno spinto la nettezza fino a tal segno, se i giornali non esagerano — sono giornali dell'ordine, ve'4 — da dare al maiale, destinato alle annuali esposizioni agricole, la nettezza d'un ciamberlano.
In somma la vista di Mercato Vecchio, invece di stuzzicarti l'appetito, te lo porta via per un mese, e per giunta la sola rimembranza serve a farti dare di stomaco.
Tuttociò sta bene quando l'esofago d'una creatura vivente si trova in circostanze normali, ma quelle, in cui il ventre di Beppe Arpia si trovava, erano affatto eccezionali.
E però la vista di quell'abbondanza di commestibili, di quelle schidionate di polli, innanzi le quali il rosticciere stavasi ritto a vederle maestosamente girare come ruote d'oriuolo, di quelle padelle che friggevano a tutto andare; il sentire le varie grida de' venditori che con varie note di musica facevano il panegirico della loro mercanzia, fu per Beppe il cumulo d'ogni tormento. Le pene mitologiche di Tantalo, le torture storiche del Santo Uffizio sono uno scherzo appetto di quell'atroce senso che provò Beppe allorché la fame gli riarse nel ventre, e gli mise in anarchia gli organi digestivi. Tutti i visceri, che si contengono dentro quello spazio che comincia dalla gola e finisce alla forcata, rendevano immagine del club de' Giacobini a tempo della Rivoluzione Francese.
Fra tanto spettacolo, fattosi ardito, cominciò a ragionare del diritto che ha la creatura affamata a impossessarsi delle sostanze superflue alla creatura sazia. Tutto ciò fu la faccenda di dieci minuti, che bastarono per fargli compendiare tutte le piú seducenti e innegabili dottrine del socialismo.
— Animo! — disse fra sé: — lí c'è anche la parte mia, ne ho bisogno e la voglio.
Entra in mezzo alla folla, gira per ogni luogo, indaga, adocchia dove stendere lo artiglio. Mentre un bottegaio litigava con un contadino, Beppe slancia la zampa ad un pan tondo: con un minuto di meno impiegato nello strattagemma, avrebbe conquistato a man salva il pan tondo; ma il bottegaio se ne accorge ed afferra un coltellaccio, e gridando: — Al ladro al ladro! — scavalca il banco per inseguirlo; ma come vide che Beppe gli aveva abbandonata la preda, per non lasciar sola la bottega, si rimase. E Beppe a gambe. La paura avendogli per un momento accresciute d'un tantino le forze, in un batter d'occhio si ritrovò nuovamente con una fame piú scellerata di prima in Piazza del Duomo.
Innanzi all'uscio di Bottegone era allora, come è tuttavia, disposta in quadrato una fila di panchetti; e la gente stavasi numerosissima a sedere lí e godere il fresco vespertino. Quando ne' mesi di estate i venti quasi venissero respinti al confine come liberali che non abbiano passaporto in regola, perdono l'uso di venire a rinfrescar Firenze — né anche la notte dove c'è un'afa che soffoca — in piazza del Duomo un certo venticello non si sa di che razza, poiché non è tramontato, né levante, né libeccio, né scirocco, c'è sempre. Taluno, volendo sapere la ragione di quel singolare fenomeno, ne interrogò il Piovano Arlotto, il quale raccontava come il diavolo, — ch'era uno del corteggio che Belfagor di casa buia condusse seco in Firenze, conforme solennemente racconta il gran Machiavello, — avendo fatto dimestichezza col vento, un giorno andava a spasso coll'amico. Giunti per avventura in Piazza, il diavolo disse al vento: — Aspettami qui ch'io entro drento, do un occhiata e torno subito.
— Fai, fai pure — rispose il vento: — io ti aspetto qui.
Il diavolo entrato, rimase in capitolo e non è piú tornato fuori; il vento sta tuttavia ad aspettarlo.
A guisa di Anteo che, stramazzato in terra, risorgeva piú vigoroso, Beppe Arpia, non disanimato punto dalla mala riuscita del tiro in mercato, da bravo commediante che sappia recitare tutte le parti, smette i panni di Cacco e indossa quelli di Mercurio. Si pone a passeggiare su e giú innanzi il quadrato de' panchetti, studiandosi d'osservare ognuno che arrivava ed ognuno che andava via. Pareva un pendolo d'orologio che oscilli regolarmente: ora tossisce, ora striscia i piedi, sempre spiando i nuovi arrivati. Non era scorsa una mezz'ora, ed eccoti di via Martelli scantonare un uomo in su' quarant'anni; era un cancelliere e sopra la sua rispettabile persona portava cinque anni di paga, spesa in vestiti.
Beppe lo acchita tutto cortese e gli dice:
— Cittadino avvocato — e qui abbassa la voce e gli susurra non so che cosa all'orecchio.
— Grazie, cittadino r . . . . . . . , non ne ho bisogno.
— Ma la venga, l'è una pollastrina.
— Non ne ho voglia.
— La senta, gli è pochi giorni...
— Non mi seccare, sguaiato — ed entra nel quadrato dei panchetti: — Bottega che c'è di gelati?
— Oh! Si dice: crema alla vainiglia, ponce spungato, tutti frutti, mandorla tostata, cedrato, fravola, ananasso.
— Crema, cedrato, fravola, ananasso.
— Subito.
— Piccolo ve', di du' crazie ve'.
— Fo per lei.
Allo sciocco pleonasmo del cancelliere il ragazzo diè in uno scoppio di risa, cui fecero eco tutti gli astanti. Beppe che non gli aveva un solo momento levati gli occhi d'addosso, diceva fra sé: — T'ho capito, sei di campagna e vieni per la prima volta a Firenze: 'un è affare.
Beppe al mal esito del primo colpo si strinse nelle spalle, non si perse d'animo, e postesi le mani dietro strascicando per terra la mazza, ricominciò la sua pertinace oscillazione. Ritenta la pruova con uno, con due, con tre: finalmente quella sera gli riuscí di attecchire tanto da sfamarsi e serbarne pochi per il giorno dopo. Gli parve avere trovato il mestiere tagliato e cucito per lui.
Svegliandosi la dimane, dopo d'avere dormito un sonno di ghiro, effetto infallibile d'un fiasco di vin vecchio, si riconfermò nella determinazione di farsi sensale di carne umana. Ed ebbe tanta fortuna nello esercizio della professione, che acquistossi la fama di primo in quel delicato mestiere, e l'onorevole soprannome di Don Mercurio. Gli è vero che di quando in quando, tutte le volte che dal traffico della roba pubblica volle entrare in quello della roba privata, gli toccavano, cosí per incidenza, legnate sulle spalle e sulla testa, calci nel sedere, scapaccioni e pugni sul muso, nondimeno non ne moveva lamento e li toglieva in santa pace come incerti del mestiere. E che avrebbe egli fatto? A chi avrebbe ricorso, sapendo che non esisteva legge speciale la quale dichiarasse la inviolabilità delle spie e de' r . . . . . . . ?
Cosí datosi moto, e resosi informatissimo di tutte le cose concernenti il ramo d'industria, ch'egli esercitava con tanta perspicacia, seppe che un vecchio marchese di settant'anni sonati andava sempre d'intorno ad una sposina di venticinque. Il marito, che dallo spuntare del giorno fino a mezzanotte stava inchiodato sur una seggiola nello studio di un procuratore senza clienti, non arrivava a mettere assieme tanto da fare mezze le spese di casa. La moglie ch'era bellina davvero, ed aveva la perniciosissima convinzione di credersi dieci volte piú bella di quello che l'era, tormentavalo perpetuamente per ispese di lusso. Nondimeno, sia che ancora la non fosse giunta a quello stadio della vita, in cui il sordido guadagno si ficca nel cuore della donna, lo invade tutto, e quasi con una granata vi spazzi via tutte le nobili e gentili passioni, vi si pianta egli solo come un autocrate circondato da quattro ministri irresponsabili, la vanità, l'orgoglio, l'invidia, e la lussuria; sia che, avente fiducia in se stessa, rivolgesse in capo altri piani di campagna, non solo non aveva voluto dar mai retta al vecchio, ma un giorno ch'egli Lung'Arno dopo d'averla pedinata per tre ore, come la vide giunta in parte dove era poca gente, le si fe' presso e le susurrò: — Che bella sposina! Va ella a casa? — la donna gli si volse rabbiosa dicendogli: — Brutto vecchio rimbambito, non ti vergogni? Tu mi fai schifo: sptuh!
Ma non per questo quella larva d'uomo, che discendeva in linea retta da uno de' vecchi lussuriosi che volevano confiscare la pudicizia della casta Susanna, si mise l'anima in pace. Pareva una mummia, pareva della razza de' presciutti del Casentino, pareva non sentisse piú né caldo né freddo, nonostante le pupille della consorte dell'impiegatuccio — cosí lo chiamava egli, non sapendo che quel tribolato non aveva impiego nessuno, ma strascicava sulla falsariga l'esistenza di sé e di tutta la sua famiglia — quelle pupille ladre avevano acceso in quel cuore di stoppa un mongibello, che gli diffondeva per tutte le vene una certa foia, ch'egli chiamava amore.
Beppe Arpia, alias Don Mercurio, che come dicevamo, aveva cognizione di tutti gli affari di quel genere, i quali giravano in piazza, ponderò bene le cose e si convinse che il caso del marchese era uno di quegli affaroni, che piovono proprio dalle mani della fortuna, e gonzo chi non li chiappa. Come potrete supporre, penò poco ad intavolare le trattative.
Dapprima — tuttoché non ci fosse il minimo pericolo di sciupare il negozio, ma gli era di tale importanza che tutte le cautele dell'arte non sarebbero state mai troppe, pur di riuscirvi — abboccatosi col marchese, gli profferse tutti gli articoli esistenti e non esistenti nel suo repertorio; ma il marchesino ricusava. Allorquando Beppe che si aspettava a quella scena, gli disse: — Ma parli pure; nomini chi vuole, e son qua io, gnene garantisco —; il vecchio senza tante circollocuzioni, gli rivelò l'immenso amore — lo chiamava sempre a quel modo — che sentiva per la bella sposina. E qui bisognava vedere il contegno magistrale di Beppe; bisognava sentire le interrogazioni che gli faceva Beppe: immaginate un medico di grande rinomanza e di maggiore impostura, che facendo pagare uno zecchino per visita, vi fa sopra un mal di capo, mille ed una interrogazioni varie, minute, inintelligibili. Dopo d'avere cosí per bene ricerco dentro la coscienza del vecchio spasimante, dopo d'avergli scoperta una maledetta arsione, che, spinta un zinzino piú in là, lo avrebbe condotto diritto a Bonifazio,5 Beppe Arpia, crollando il capo, esclamò con un profondo sospiro: — Gli è impossibile, sor marchese carissimo!
Poi, fatta una pausa di tre minuti, seguitò: — Giuro a Bacco! Ma proprio s'ebbe ella a incapriccire d'una donna, che, ved'ella, sarebbe piú facile far parlare un morto che rammorvidire quella superbiosa. Bellina ell'è; par proprio un bottoncin di rosa: che occhi, che mani, che bel bocchino, che piedino, che petto, che carni!... Oh! se la vedesse le carni sode e bianche come una statua di Galleria...
Alla seducente pittura, che Beppe faceva con tali tinte e con tale rilievo, il vecchio si contorceva tutto, si scuoteva come sentisse de' brividi, faceva un cotal risolino sulle labbra, dalle quali fra mezzo a due ganasce nude di denti, dimenava la lingua come se assaporasse il nettare; gli occhietti gli lacrimavano lacrime di compiacenza e di desio.
E il destro mezzano incalzava:
— Proprio gli è tempo perso. E' si farà la zuppa nel pianere. Se la sapesse quanti hanno consumato tempo, scarpe, e quattrini, e non si è concluso nulla. Per fare il discorso corto, mezzo il Casino di Firenze, tutti i milordi inglesi, e uno, poveraccio! diventò tisico e andò a lasciare la pelle a Pisa — e nulla. O non potrebbe ella scegliere qualcos'altro? Dica, dica pure, mi mostri qualunque persona le piaccia, sia anche una principessa, la non si riguardi, dopo ventiquattr'ore l'è sua, la 'un pensi. Non dico che sarà belloccia come la superbiosa sposina, ma...
— Ma, caro il mio Geppino, se la non mi dice di sí, io, come è vera la morte, mi butto in Arno.
— Noe, no davvero: la non s'ha a buttare. Vuol ella ch'io tenti? Be' — se po' non ci riesco, non sarà nulla: persone piú destre di me hanno fatto fiasco, sarò anch'io uno di quelli, ma sarà il primo ch'io faccia. Be', tenterò anch'io: la ci ha a cascare; sie sie! — e qui batteva forte il piede in terra — o io non sarò piú quello ch'i' sono. La senta, mi butterò in Arno.
— Sì, amicone, buttati, fai pure; carta bianca: prometti vestiti, scialli, mantiglie, cappelli, trine, gioie, fronzoli, ciondoli, francesconi a palate, prometti il diavolo: in somma carta bianca.
— Noe noe, non c'è bisogno di tanta roba. Superbiosa ell'è, ma venale non credo; gli ha a essere tutto amore. La senta, spesucchiare bisogna: qualche ninnolo, o che so io. Per me poi la non pensi; io, la guardi, piglio questo affare proprio perché gli è difficile, e mi è entrato il diavolo in corpo, e, mondo cane! vo' vedere s'io ci riesco: mi costi quello che può, tempo, scarpe, quattrini, nottolate, picchiate — giacché la sa bene che in simili faccende si corre pericolo di tornare a casa per lo meno con le spalle fracassate, quando non c'entra di mezzo la Misericordia.6 Ora mi par mill'anni di principiare a lavorare.
— Sí principia, Beppe, lesto, fa' presto: a quando la risposta?
— A domattina.
— Addio.
— A rivedella.
Appena il marchese si volse, Beppe Arpia gli appiccò addosso un'occhiata, sí fissa, sí acuta che parve gl'incidesse sopra le spalle: povero grullo! ci sei pur capitato. Poi stropicciandosi celeremente le palme l'una contro l'altra, mormorava fra' denti:
— Che bel pettirosso che mi è calato sul panione — no, gli è tordo — come gli è grasso! Ma qui bisogna spicciarsi, chi sa se un anno di piú, aggiunto ai settanta che ne porta sulla groppa, non me lo fracassi, non me lo stecchisca. Che so io? Lo suol fare: gli anni dopo la settantina e' pesano come fosser di piombo. Lesto! Beppe, che la susina un diventi bozzacchio.
Innanzi di abboccarsi col marchese, Beppe aveva pensato a tutti i modi piú spicciativi per indurre la sposina ad accettare un colloquio col vecchio, assicurandole la non correrebbe nessun pericolo. Nei preliminari del trattato non si mostrò da sé, ma messe di mezzo una volpe pinzochera, che gli serviva di coaiutrice. Taccio le scene che seguirono tra la mezzana e la sposina; taccio i successivi colloqui di Beppe col decrepito cascamorto, cui regolarmente quell'astuto faceva il rendiconto delle sue manovre due volte il giorno. La politica di Beppe fu questa: far giocare il marchese all'altalena; barcamenarlo; tenergli l'anima di continuo sbattuta tra la speranza e la disperazione, come tra Scilla e Cariddi, senza però stancargliela. Tenergli sempre avanti gli occhi l'immagine di un marito geloso; un orso, una tigre, una iena di marito; un coltellatore, un rompicollo che a un miglio di distanza ficcava una palla d'archibugio in un cerchiolino; un accattabrighe, uno spietato che per gelosia ammazzava ogni settimana un cascamorto della moglie — e il povero giovine di studio era invece la miglior pasta d'uomo dabbene in quanto a certe escrescenze ossee che le tenere spose, per vanità, per capriccio, o per vaghezza di cose nuove, fanno proiettare sul capo ai mariti, era convinto che in ciò operava piú la paura della cosa, che la cosa stessa, e che se quelle date escrescenze quando cominciano a spuntare fanno talvolta un po' di male, nate e ammassicciate, tornano poi utili e comode ed aiutano a mangiare, appunto come i denti. E però se avesse potuto sapere l'amicizia e la buona disposizione del marchese per la sua moglie, sarebbe andato da sé a pregarlo gli facesse l'onore d'una visita, si stimasse padrone in casa sua.
Cosi intanto passò il primo periodo, che chiameremo delle trattative generali ed incerte. Quando cominciò il secondo periodo, cioè quando Beppe corse dal marchese, ebro di gioia, coll'aria del me ne imbuschero impressa sul viso, dicendogli: — Abbiamo vinto, caro il mio signor marchese, la bella finalmente ha detto di sí: ma per ora accetta in massima; il come, il dove, il quando si vedrà —; allora in questo secondo periodo principia l'invio di qualche regaluccio. Poi Beppe consigliandolo a scriverle delle letterine, tutte amore e dolcezza, foggiava da sé le risposte, che, messe in mano del marchese, facevano l'effetto d'una favilla cascata in mezzo ad una polveriera. E qui principia la interminabile processione de' regali. Beppe ogni giorno riferiva al vecchio un nuovo desiderio, un capriccio nuovo della signora, e il vecchio pronto a soddisfarlo. Di quando in quando il perfido mezzano ne faceva arrivare qualcuno alla sposina, ma ci guadagnava per lo meno l'ottanta per cento.
La storia innanzi che venisse alla conclusione, durò circa tre mesi. In tre mesi il povero marchese spese parecchie migliaia di scudi — c'è chi dice centinaia, ma per onore tanto del minchionato quanto del minchionante, seguirò l'opinione di quei che dicono migliaia.
Alla fine giunse il momento solenne. Il marchese studiava nell'Alcorano la descrizione del paradiso di Maometto, e ne faceva un compendio. Un giorno — gli era d'agosto — e lo noto perché a trenta gradi di calore in Firenze non c'è frigidità che resista — gli era d'agosto, e Beppe si presenta al marchese, col cappello fitto sul capo e ripiegato sulla parte manritta, col pugno appoggiato sopra una mazza, con una gamba in avanti, col ventre sporto in fuori, e gli dice in tono solenne: — Stasera, dopo le ventiquattro, Via dell'Amorino, numero... ultimo piano: l'affare è bell'e concluso.
A quelle parole il vecchio, che stava sdraiato sopra un seggiolone, balza come un razzo, saltella per la stanza, pareva volesse ammattire: butta all'aria la parrucca, abbraccia Beppe, frugasi nelle tasche con ambe le mani; con ambe le mani sconvolge tutti i ninnoli di cui era pieno il suo tavolino, cerca una chiave, non la trova; la trova, apre un cassetto, vi ficca le mani dentro, le riempie di monete e gli dice: — Tieni. — E Beppe, mentre lasciavale cascare dentro il cappello, rispondeva: — Ma le pare? Signor marchese mio, la non s'incomodi, io l'ho fatto soltanto per amor proprio; ci sono riuscito? ed eccomi contento: nonostante, la ringrazio; berrò una bottiglia alla sua salute; Iddio le dia anche mill'anni di vita; dice bene il proverbio: servi i signori e servili per nulla. — Non si dimentichi, lustrissimo, che c'è Beppe in Firenze per la vita e per la morte.
Alle furbe parole di Beppe il marchese non rispondeva nulla, girava per tutta la stanza, come uomo che assalito da mille pensieri non sappia a quale dar retta. Scampanella con furia, stride che pare un insatanassato; compariscono due camerieri, ch'egli rimanda via e poi torna a chiamarli e non sa cosa comandare, e seguita a girare come una girandola attorno la stanza.
Poscia voltosi a Beppe Arpia: — Dunque alle ventiquattro ci troveremo in piazza Madonna.
— Lustrissimo sí; lí puntuale.
Alle ore ventitré e tre quarti l'eccellentissimo marchese era in piazza Madonna; e dopo di avere rivolto in giro lo sguardo, vide Beppe che stava ritto come un piuolo all'angolo che fa cantonata a via de' Conti, la quale attacca con via della Forca. Dopo tre minuti eccoli in via dell'Amorino, all'uscio, numero...
Lettore che s'ha egli a fare? L'ho io a descrivere o no la scena che passò a quattr'occhi a uscio chiuso fra il marchese e la leggiadra donnina? Col soggetto principale, te lo confesso, c'entra di mattonella; è uno episodio, è una digressione; e comunque piacevoli, le digressioni, anche eseguite con tutte le regole del De Colonia, qualora non facciano perder la pazienza a chi legge, spiramidano il gruppo principale, direbbe un pittore. Nondimeno te ne sarò mallevadore di due cose, la bizzarria e la verità. In quanto a lei, mia lettrice garbata, non v'è pericolo che io intinga i miei pennelli nella sudicia tavolozza di certi romanzieri francesi; la si assicuri, con que' signori rispettabilissimi non ci ho nulla che vedere. E poi la sappia che la penna è come la spada, bisogna saperla maneggiare. Noi altri italiani siamo espertissimi nell'arte di velare le cose senza sfigurarle: quest'arte un po' l'Inquisizione, un poco il gendarme ce l'hanno resa facile e tradizionale; la non pensi, si può fidare di me. Aggiunga che su questo tratto di storia la farò andare come un baleno, come sulla strada ferrata; c'è ella mai stata sulla strada ferrata? Cinquanta miglia l'ora, e non canzona. Gli è vero che la brevità, recando detrimento agli interessi dello scrittore potrebbe provocare reclami d'inferno; ma in Italia questa paura non c'è, la letteratura mercantile principia ad introdursi anche fra noi, ma finora non ha attaccato bene. Non nego però che se Monsieur D... avesse tempo di leggere anche questo mio libro, farebbe un chiasso maledetto. Che mi fa celia! La storia d'un vecchio che assedia una bella donnina e vuole espugnarla, richiederebbe due volumi di descrizioni; parallele, fossati, ridotti, ricognizioni, giravolte, battute in breccia, scalate ecc., faccia i conti a ragione di quattromila franchi il volume — e sciupare tanta roba ficcandola in una pagina e mezzo? Oh! Monsieur D... farebbe l'ira di Dio: — Mais c'est une indignité, c'est incrovable, c'est horrible, morbleu! Ventreble! C'est un vrai assassinat! — Non tanta, furia, Monsieur D... la roba vostra non può cascare di prezzo: tuttoché siate capace di mettere diciassette duelli, quindici assassini, una diecina di galeotti, una ventina di birri, parecchie coppie di sgualdrine e simili galanterie in un dramma storico, come voi lo chiamate, diviso in tre serate e in cinquantadue tableaux, tuttoché lo strazio che fate del buon senso, faccia rabbrividire per fino le panche della platea, le nostre spettabilissime dame da' sensi sciatti, dalle carni floscie, dagli occhi vizzi, vi compreranno; siete di moda, non temete, fatevi stampare; vi compreranno, non foss'altro de' vostri fogli se ne serviranno come di stimolanti e di senapismi al cuore: ne convenite anche voi? Finché le cose staranno cosí, la dama vi ficcherà fra gli articoli di prima necessità del suo spillatico. — Dunque, che s'ha egli a fare, signora? La comandi, l'ho io da mettere o l'ho da lasciare nella penna questo episodio? — Sí? La servo subito.
Beppe Arpia dopo d'essersi rampicato col suo nobile cliente per una scala stretta, erta, buia, divisa in settantanove scalini, picchia tre volte.
S'apre uno sportellino sí stretto che appena lascia vedere un naso ed un occhio, e di lì esce una voce che domanda: — Chi è?
— Son io — rispose Beppe — aprite, son io.
— E' c'è, e' c'è; la passi, la passi — disse una ragazzuccia spalancando l'uscio.
Beppe rimase fuori: — Dunque a rivedella a domani, lustrissimo.
Il marchese gli rispose con un cenno, e seguí la fante che procedendo innanzi per fargli lume, aperse una bussola di contro, e lo introdusse in un salottino come parato a festa.
La leggiadra donnetta, vestita alla milordina, degli abiti migliori del suo guardaroba — giacché da due mesi a questa parte, grazie alla generosità del marchese ed alla discrezione di Beppe, aveva un guardaroba — lisciata, acconciata, infusita, impettita, che aveva versato su per tutta la persona una mezza libbra d'acqua di melissa, si leva in piedi dal piccolo divano dove stava seduta affettando un abbandono sentimentale — e non ci riusciva una maledetta, poiché non era avvezza a far quelle parti — si rizza e si fa incontro al vecchio spasimante, il quale, messosi in posizione di figurino di Parigi, strette le gambe, piegata mezza la persona, col cappello sotto il braccio mancino, stese la mano destra, e prese quella della signora per baciargliela.
— Ma che! Le pare? — disse la sposina ritirando celeremente la mano e ponendosela dietro — La s'accomodi: che fa? Sta bene?
Qui vi fu un intervallo di venticinque minuti di complimenti insipidi e generali, che parevano quel quarto d'ora che i sonatori dell'orchestra, accordando gli strumenti, fanno precedere alla sinfonia. Poi vennero i complimenti saporiti e speciali; e qui il marchese le raccontò per filo e per segno tutti gli spasimi che da tanti lunghi mesi gli avevano portato via il sonno e l'appetito — e non era vero nulla, poiché i servitori affermavano ch'egli mangiava sette piatti di forte il giorno, e dormiva regolarmente undici ore e tre quarti tutti d'un fiato —. A quel patetico racconto la sposina ora teneva gli occhi bassi, ora li rialzava alla soffitta; ora incrociava le mani, ora mandando sospiri protestava che ella aveva sempre resistito a tutte le tentazioni, ch'erano state molte, ma dimolte, e che aveva sempre desiderato cascar morta piuttosto che dar retta a nessuno di que' tanti giovanotti, che l'assediavano; gli erano tutti cavalieri; gli ufficiali poi, le guardie nobili, gl'inglesi di Lungarno, o di Santa Maria Novella, bisognava vedere; era proprio disperata; non sapeva che si fare: se usciva di casa non c'era cantonata in cui non ne trovasse uno, e poi un altro, e poi un altro, e tornava in via dell'Amorino con una processione dietro; se stava in casa gli era un continuo andare e venire per la strada, e lei poverina, uh! che vergogna! Delle Cascine poi non se ne discorre; appena comparsa lei, tutti i signori saltavano giú dalle carrozze e le girandolavano attorno come uno sciame di farfalle: uno le diceva: — La si volti; — un altro: — Verrò a casa a farle una visita; — questo tossiva, quell'altro strisciava i piedi — il tale sospirava che pareva avesse l'asma; il tale canterellava sottovoce: — Volgi crudele il ciglio / A un disperato amante — ed ella poverina, zitta, badava a sé, e tirava di lungo; proprio le pareva di essere in berlina, tutte le Cascine la divoravan cogli occhi. Chi glie l'avrebbe mai detto che dopo tanto star ferma, si avesse avuto a innamorare sodo sodo del sor marchese!
Tutto questo sproloquio di proteste e di elogi che la donnetta con candore veramente infantile faceva della sua vaga personcina, e che il marchese ascoltava, tese le orecchie, semiaperta la bocca, gli occhi socchiusi ed accesi di speranza, con le mani giunte e il capo sporto in avanti e ripiegato sopra una spalla, facevano sulle fibre di lui, l'effetto che produrrebbero sul sistema nervoso d'una persona sensibile i trilli del violino di Paganini. Non appena la donna fece la prima pausa, ed abbassò gli occhi, il vecchio... il vecchio...
— Ebbene! Il vecchio?
Il marchese zitto, la donna zitta.
Il silenzio precede o accompagna i momenti solenni della vita: quel silenzio, tradotto nel frasario comune della galanteria, voleva dire che i preliminari erano finiti, gli articoli determinati, e che le parti erano d'accordo, e oramai il trattato poteva attuarsi.
E davvero il trattato era piú facile ad attuarsi che non è a descriversi...
— Avanti! Animo!
E che animo! Mia veneranda lettrice, io non ho faccia di presentarmi a lei, io abbasso gli occhi a terra, io mi confondo. Mi trovo nella terribile necessità di ritirare la mia promessa; questa è descrizione che con l'aiuto di tutti i santi del calendario io non potrò mai fare. Ho frugato in tutti i libri di rettorica, e specialmente in uno rarissimo, scritto dugento anni fa da un gesuita e intitolato De meteoris orationis, la si immagini le meteore del discorso! Mi sono provato d'intonarla su tutte le figure del De Colonia, la metafora, l'allegoria, la metonimia, la sineddoche, l'ipotiposi, la prosopopea et reliqua; la mi creda, mi stanno qui sullo scrittoio quarantasette minute di quarantasette tentativi e vedo che non c'è fondo. Quando io promisi, i suoi begli occhi mi mitragliavano e mi facevano forza come un popolo ribelle che strappa una costituzione di mano ad un principe; in que' terribili momenti il povero principe non concederebbe spontaneamente e non giurerebbe anche sugli Evangeli la repubblica? E poi la lo sa come finisce.
Or bene — per carità! Non creda ch'io abbia gl'istinti e la coscienza di principe — la guardi, per non farla andare senza compenso, io le lascio una pagina in bianco, la pigli la penna e la faccia lei questa arcana descrizione. Oltre che la sua fantasia in tali lavori deve essere sublime, potrebbe darsi che la si sia trovata anche lei nel caso, quando aveva le guance di rose, le labbra di corallo, il collo di neve ec., i vecchi d'allora, si dice, erano tanto piú audaci e rompicolli di que' de' giorni nostri, e le dame non canzonavano! Dunque ecco qui il foglio in bianco, la scriva, la faccia lei.
— Ha ella fatto? — sta bene: ora tocca a me.
— Ah! — sclamò l'infelice marchese rinculando all'aspetto de' suoi settant'anni, che gli stavano schierati dinanzi come settanta bersaglieri e lo incalzavano alla ritirata.
— Aaaah! Chiò! Chiò! — si sentì, partendo il marchese, rispondere da una voce chioccia, che muoveva dall'angolo della stanza. Si volge e vede un pappagallo maestosamente appoggiato, come un pascià turco, sulla cima d'una gabbia. Per tutto quel tempo la povera bestiolina era stata zitta tanto che il paladino non se ne era accorto; ma come gli udí mandar fuori dagli imi precordi quel significativo epifonema, si sentí smuovere l'anima e gli rifece il verso.
A quel disgraziato il grido misericordioso dell'uccello parve la voce dell'opinione pubblica, parve il popolo fiorentino, trasformato in pappagallo, che lo sonettava per tutte le vie. — L'infelice si rifugia dal vicino speziale.
I consigli e il nuovo contingente di rinforzo fornitigli dallo speziale, gli richiamarono alla mente un tratto di storia italiana — sembra che il marchese fosse di que' nobili che in gioventú hanno il vizio plebeo di leggere — rammentossi come l'imperatore Federico Barbarossa venisse cacciato sette volte oltre le Alpi dagli italiani, quando erano italiani, e tornasse ben sette volte con nuovi rinforzi, non foss'altro per ottenere una pace onorevole, e di fatti l'ottenne nel famoso trattato di Costanza. Spesso la speranza delusa fa lo effetto del vino: come chi piú beve, e piú vorrebbe ribere perché gli cresce l'arsione, cosí chi spera e fallisce, ritorna a sperare ed a creder certa la riuscita.
In una seconda pruova il marchese credeva rivendicare l'onore compromesso al cospetto di un pappagallo, che uscendo dalle proprie attribuzioni, aveva avuta l'impertinenza d'interloquire anche lui. Ma la sposina, con una catena di ragionamenti degni di Grozio, avendo puntualmente osservati gli articoli del trattato, credette doversi arrogare il legittimo possesso de' regali. Tanto piú che non rivide né anche una volta la faccia di Beppe ch'era stato in quelle trattative il ministro plenipotenziario.
Al marchese, il quale due giorni dopo tornò a farle una visita, fece dire che la non era in casa — quindi gli mandò per la posta una lettera cieca, scrivendogli che il marito aveva sospettato ogni cosa, che stava sempre con due pistole cariche a doppia palla, determinatissimo di ammazzare il rivale appena lo vedrebbe porre piede in casa — e se fosse stata in pericolo la vita del solo marchese era poco male; ma quel satanasso di marito avrebbe ammazzato anche lei; e quindi lo pregava per amore di Dio, per amore di tutti i santi del paradiso a non andare. — Povero marchese! — dico io. — Che bestia di marchese! — dite voi — e torna tutt'uno.
Intanto il cancelliere capo-birro de' regni bui, notava nello specchietto generale il fatto, e metteva a debito del signor marchese una punizione di cento frustate da darglisi in pubblico come spettacolo offerto ad ammaestramento de' vecchi lussuriosi. — Se ne aggiunga altre cinquanta per me — disse Asmodeo, prefetto della Polizia Infernale — coll'inserzione del processo verbale in tutti i giornali del mondo, a spese del primo vecchio immorale che si renderà delinquente.
Beppe tra quello che aveva rubato su' regali, e quello che aveva scroccato in quattrini sonanti, il giorno dopo in cui seguí il preveduto fiasco del suo illustrissimo cliente, considerando come gli avesse in tre mesi pappata mezza la parte disponibile del patrimonio, e come oramai non solo ci fosse poco da sperare, ma il seguitare quel giuoco potesse a un tratto mutare la scena, si trovò padrone di un bravo sacchetto di monete d'oro e d'argento. Seduto sopra una rozza seggiola colla guancia appoggiata sulla palma della mano, ripiegando il corpo sull'orlo di un lettuccio, teneva gli occhi fissi al sacchetto, che sorgeva un terzo di braccio sopra un nudo tavolino, come una torre d'un signore in mezzo ad una campagna deserta. Beppe pareva ed era sepolto in profonda meditazione.
Macinava nella sua testa mille diavolerie. Speculava sul modo di applicare a' suoi quattrini la profezia fatta ai patriarchi, desiderando loro — cioè ai quattrini — da tutta l'anima che moltiplicassero come le stelle del cielo e le arene del mare.
Era il suo Genio protettore che scendeva dalla sua stella a visitarlo una seconda volta; segno infallibile che per la sua vita cominciava un'epoca di nuove vicissitudini. Non che sentisse disgusto dell'onorata professione finallora esercitata; che anzi un dotto accademico, di cui aveva servita la moglie, gli aveva assicurato che un tempo l'arte del mezzano era uno de' requisiti essenziali di un primo ministro irresponsabile; e fra gli altri esempi numerosissimi, tratti da tutte le corti d'Europa, gli adduceva quello del conte di Lerma e del duca d'Olivarez, secondo che narra la storia di Gil Blas di Santillana, che finora in ciò non è stata contradetta da nessuno. Ma egli non era né ministro, né conte di Lerma, né duca d'Olivarez, e nella sua condizione i guadagni erano meschini; ed egli si sentiva la irresistibile vocazione di mutare stato e diventare un signore.
Inoltre, l'anima sua provava il bisogno, pativa l'irrefrenabile brama di spaziare in un campo piú vasto; a' suoi polmoni, per respirare tutto il volume d'aria che potevano contenere, faceva mestieri un immenso orizzonte. Soffriva la inesprimibile ambascia che tormenta gli uomini creati a cose grandi, ma scaraventati dalla fortuna fuori del cammino che a quelle conduce.
Il sole era giunto sull'orlo de' monti e pareva fermarsi un tantino ad augurare la buona notte agli uomini ed alle bestie, su cui, senza nessuna parzialità, egli dispensa il beneficio de' suoi raggi. Di lí a poco l'aria imbruní. Beppe non accese la lucerna; gli occhi suoi, rivolti dentro la coscienza, non avevano mestieri di lume: al buio la fantasia non fa tanti complimenti a gonfiarsi, e a guisa di globo areostatico percorrere a perdita d'occhio la interminata regione aerea delle illusioni.
Si determina, prima di concludere qualcosa, a dare irrevocabilmente la sua dimissione a Mercurio. Poi, come un maresciallo di campo, innanzi di muovere ad una spedizione esamina tutti i mezzi di offesa e di difesa che possiede, cosí Beppe Arpia si dà a fare una rivista generale di tutte le professioni, alle quali il sacchetto, cui egli, nonostante il buio, seguitava a tenere conficcati gli occhi, concedevagli d'aspirare. Chiamatele una per una, dopo d'averle fatte passare per la tortura di tutti i pro e contro possibili ed escogitabili — lavoro che durò passa due ore — su tutte la vinse l'Usura, che gli apparve in forma d'una regina, con una acconciatura di testa singolarissima, dove erano non si sa con che arte misteriosa accozzate le forme dell'efod della tiara, e della corona; dell'oro e delle gemme che aveva addosso non se ne discorre, figuratevi la statua della California. Era seduta maestosamente sopra un gran sacco di monete, e in una mano teneva un cartellone, e coll'indice dell'altra indicava ciò che v'era scritto, ed è questo:
GUADAGNO DEL CENTO PER CENTO
SEMPRE A MOLTIPLICARE
UNO SCUDO
IN CINQUE ANNI
A tale visione Beppe si scuote dalla sua immobilità, si slancia come un razzo — Sí, giurammio! In cinque anni un milione! — urla con quanta ne ha nella strozza, dando un solennissimo pugno sul tavolino; e le monete alla scossa risonarono, quasi con voce argentina gli rispondessero: Amen!
La mattina seguente, come uomo che abbia fermo l'animo suo, senza altri ragionamenti, senza tentennare si messe all'opera. Naturalmente aveva bisogno d'un pratico del mestiere, che gli servisse di pilota nel nuovo ed immenso mare del commercio. Gli corse subito alla memoria un certo Sandro, che egli conosceva cosí di volo, e che, vedendolo sempre armeggiare co' signori, egli credeva abilissimo nell'esercizio della professione.
Né s'ingannava.
Sandro Imbroglia era uno di quegli uomini che invecchiano prima del tempo; a quarantacinque anni era canuto. Di persona tozza, ma piena ed ossuta, larghe le spalle, poco sporto il ventre, rotonda la testa, agli angoli degli occhi piccini la pelle gli si raccoglieva in un infinito numero di grinze; con gli occhiali sempre cavalcioni sul naso; naso e mento si ravvicinavano come attratti da una forza magnetica lasciando la bocca spaziosa con sottilissimi labbri rintanata in fondo. Era lindo negli abiti e portava fitto sulla testa un cappello sbertucciato, che con larghissime falde gli ombreggiava le ciglia, e dava ai suoi sguardi un certo che di volpino. Avea l'umiltà d'un cappuccino, la contentezza di un fattore, la chiacchiera d'un procuratore ciuco ed affamato; parlava con certe manierine che anche non soddisfacendoti, non ispiaceva. Pareva un buon diavolaccio alla corteccia, ma nella sostanza era un ladro che ti cavava la roba di tasca, era un boia che ti dava ammodo una stretta di corda, che ti strozzava senza lasciarti gridare: «Ohi!».
Perché un ritratto cosí originale si potesse godere nel suo pieno effetto, bisognava, vederlo col fondo, cioè bisognava vedere Sandro in casa propria.
Abitava una stanzuccia, o a dir meglio un buco da ciabattino nel chiasso de' Lanzi, e pagava cinque lirette il mese di pigione. Un paio di seggiole e un tavolinaccio marci si che cascavano a pezzi, e un canile sul quale dormiva, erano tutti gli arredi di quella stanza. Finite le faccende e rimessosi in casa, deponeva gli abiti come un commediante depone il manto di re, e indossava una veste che non era né giubba, né soprabito, né carniera, ma una specie di casacca di mille toppe e di mille colori, che seminava brindelli da tutte le parti; strascinava ai piedi un paio di vecchie ciabatte: insomma se ne stava cosí in confidenza, ma in quel buco non lasciava penetrare anima nata, non si lasciava vedere né anche da un cane.
Il suo ricapito era in un caffè, ch'era il convegno degli strozzini di bassa sfera, e de' sensali, convegno dove i battezzati e i circoncisi si trovavano d'accordo. Andava a desinare in Baccano, e giornalmente spendeva mezzo giulio; né si creda che campasse male, poiché in Firenze, dove il popolo ha trovato il mezzo di applicare il calcolo infinitesimale di Newton alla crazia, mezzo giulio serve a tenere ritto un uomo.
Sandro, infine, era la miseria incarnata; negli organi del suo cranio prevaleva prepotentemente l'organo dell'avarizia; e tale si mantenne fino a quando, dopo d'avere servito lungo tempo, come lancia spezzata, Beppe Arpia, crepò a settantatre anni nella miserabile stanzuccia, dove trovarono seppellito sotto il letto un sacco di centomila lire in rusponi; splendida collezione numismatica, che formava la sua delizia, ch'egli amava con tutte le viscere in modo da lasciarsi morir di fame, da lasciarsi mutilare d'un braccio piú presto che perdere una sola di quelle idolatrate e nobili monete.
Ho sentito sempre dire che gli avari sono scarni, gialli, asciutti; e davvero gli avari tutti delle commedie antiche e moderne sono lucidati sopra un medesimo disegno, gettati in una medesima forma: ma Sandro era sazio, era colorito, era grasso, di guisa che si sarebbe detto che ogni ruspone nuovo che egli aggiungeva al suo tesoro, accrescevagli un'oncia di sangue alle vene e una mezza libbra di grasso alle costole.
Beppe Arpia, condotto a casa propria il buon Sandro, gli mostrò il sacco delle monete, dicendogli che quelle non erano se non piccolissima parte delle grosse somme di cui poteva disporre; che un ricco signore lo proteggeva e lo faceva forte; e che era ormai risoluto di trafficarle onestamente ma con sicuro e subito guadagno. Gli offre buoni patti; Sandro accetta; ambedue danno moto alla macchina, e quasi anticipassero la scoperta del vapore, in un anno nell'ampio oceano del commercio fecero tanto viaggio, quanto co' mezzi ordinari e conosciuti non se ne fa in dieci. In un anno il signor Giuseppe Arpia teneva fronte a quanti suoi colleghi c'erano in Firenze. Sandro era diventato il cucco de' signori; chi si trovava in urgentissime strettezze rivolgevasi a lui; e Sandrino su e Sandrino giú, Sandro era il medico piú famoso della città per curare le infermità delle borse — cura, a dir vero, che presto o tardi faceva morire di consunzione, ma addolciva le pene presenti dello infermo, e non era poco. Sandro, in fine, era uno strumento eccellente, che in mano di un uomo di genio come Beppe, faceva portenti: principale e mezzano, congiunti insieme, formavano il piú grande taumaturgo del mondo.
Piantata solidamente la baracca, per tenerla sempre ritta e prosperevole, per tutelarla da ogni procella, si attennero scrupolosissimamente ad un sistema di condotta, che in ogni evento avrebbe salvato la loro pelle e i loro quattrini. Fra le carte di Beppe fu trovato un abbozzo di regole, che si possono considerare come la Magna Charta degli strozzini. Forse le compilò Beppe, forse Beppe e Sandro congiunti in consiglio di stato: forse — e ciò pare piú simile al vero — il caso le pose nelle mani di Beppe, siccome è fama che il caso ponesse nelle mani di un altro povero diavolo la ricetta di uno sciroppo purgativo, ora diventato celebre. E questa opinione a me pare la piú ragionevole, perocché certi articoli olezzano di metafisica, pruova evidente che chi li compilò, prima di far l'arte dello strozzino, aveva compito il corso regolare degli studi all'Università di Pisa. Sono scritti con un certo disordine che nel lavoro accusa il difetto dell'ultima mano; e però de' tanti ne scerrò pochissimi che mi paiono i piú sostanziali e significativi
1
Il commercio (sotto questo vocabolo s'intende sempre il mestiere dello strozzino, che Beppe amava di coonestare chiamandolo commercio) mostra la via che conduce al paese del francescone dove, se l'uomo pone piede e vi prospera, diventa onnipotente in questa mondo.
2
Il francescone è lo spirito animatore dell'universo, è il logos primordiale di Platone, è la forza armonizzatrice degli elementi. Senza il francescone cessa il moto del globo, il quale si scomporrebbe negli atomi d'Epicuro preesistenti alla formazione delle cose: il francescone è il mistico amore che fece cessare la guerra degli elementi e diede forma alla natura.
3
L'uomo deve prima amare il francescone; poi sé; poi la famiglia; poi il prossimo; poi, se vuole, anche le bestie, che, secondo l'autorità di San Francesco, sono anch'esse nostro prossimo.
4
Il fine di acquistare il francescone giustifica ogni mezzo: se il commerciante per arrivare al francescone è mestieri che traversi un lungo cammino di colpe, tiri diritto ad occhi chiusi, ché lo splendore dei francescane fa sparire la distinzione di nero o di bianco, rende per fino invisibili le macchie di sangue.
5
Il francescone fa dotta la mente, robusto il corpo, purifica il sangue, addolcisce gli umori, fortifica i nervi, ammassiccia i muscoli: il francescone è panacea universale.
6
L'appetito del francescone è innato nell'animale umano socievole, sta nella macchina umana come la forza di attrazione nel centro della terra; l'uomo quindi, desiderando quanto piú può il francescone, ubbidisce alla sua stessa natura, alla piú prepotente delle sue tendenze.
7
Il cercatore del francescone prima d'ogni altro deve, come il diplomatico, studiarsi di rendere ferreo il proprio cuore: la petrificazione del cuore che in altri è principio di morte, nello strozzino e nel diplomatico è condizione sine qua non d'esistenza.
8
Se il commerciante deve scegliere tra il salvare la vita ad un povero diavolo e acquistare un solo quattrino, acquisti il quattrino che è seme prezioso e può farsi generatore di migliaia e migliaia, mentre perdendosi un uomo, scema d'uno il numero de' consumatori, e indirettamente si benefica la società.
9
Se la differenza d'un quattrino in un conto, puta, di un migliaio di lire porta seco rottura di amicizia, si rompa l'amicizia, ma si salvi la esistenza del quattrino.
10
La mente del commerciante deve esser sempre fredda e serena, s'ei se la lascia riscaldare dalla prospera o dall'avversa fortuna, irreparabilmente precipita: la sua condotta deve essere simile a quella di un certo soldato Corso chiamato Buonaparte. In mezzo alla furia d'una battaglia, tra le palle che come grandine gli piovono e gli fischiano attorno la persona, fra il tuonare de' cannoni, il nitrito de' cavalli, le strida de' morenti, le bestemmie de' soldati il suo cervello è diaccio come un sorbetto: quindi la fortuna, in coscienza non solo non gli ha potuto mai strappare di mano la vittoria, ma con nuovo esempio nella storia de' popoli, è rimasta zitta quando egli ha presi a calci nel sedere i principi consacrati d'Europa. E questa è regola cardinale: ci badi il commerciante.
Negli affari imbrogliati il commerciante abbia uno o due commessi, come un re costituzionale ha i suoi ministri responsabili, che in caso di bisogno per isnodare un imbroglio, si possano mandare in galera o sulle forche, ec.
Navigando con questa bussola, con la coscienza fortificata da queste comode regole, non è da maravigliare se Beppe Arpia vedesse nelle sue mani, quasi per virtù magica, centuplicare ogni giorno i suoi capitali. Come i suoi tesori venivano crescendo, gli si accresceva la fame d'accumulare, slargava la sfera delle sue operazioni, finché diventò, starei quasi per dire, enciclopedico in commercio, non c'essendo specie d'industria e d'imbroglio dove non volesse ficcare lo zampino. Soprattutto predilesse il mestiere di stampar libri, mutilandoli secondo il volere degl'inquisitori, coi quali stette sempre d'amore e d'accordo; e di quei libri che nelle culte città d'Italia erano aborriti, allagò le Romagne, e le provincie piú rozze del regno di Napoli. — Non è nella storia assassino di borse che gli si possa agguagliare; ma se la coscienza incallita non gli recava il minimo disturbo; se la fama di quattrinaio lo scampò qualche volta dalla galera, non v'era un cane che gli facesse di berretto; il suo nome suonava infamia, e su tutti i muricciuoli di Firenze leggevasi scritto a caratteri sconci, segnati col carbone «Beppe Arpia ladro». L'aggettivo ladro divenne inseparabile dal suo nome di battesimo. Egli era consapevole dello aborrimento universale in cui era tenuto, faceva sempre le viste di non se ne curare, ma prese tanto in odio il genere umano che, come quell'imperatore di Roma, desiderava che la città avesse un collo solo, ed egli avrebbe volentieri fatto da boia. Le Parche non filarono mai una vita piú lorda della sua, sí che parrebbe inverosimile la esistenza d'una creatura cosí abietta e schifosa.
Lettore! tu mi guardi con certi occhi! Forse la cronaca ti è parsa lunga? Ma la colpa è piú tua che mia: io so dirti che a dare il solo sommario di tutte le birbonate di Beppe Arpia ci vorrebbero una diecina di volumi: ma non t'impaurire, qui fo punto. Ritieni intanto ch'egli per molti anni esercitò il mestiere dello strozzino, che ne aveva sessanta circa, e che era milionario all'epoca cui si riporta la storia ch'io avevo principiato a raccontarti, e alla quale ora è tempo di ritornare, ripigliando la interrotta conversazione fra i due piú notevoli eroi della nostra bizzarra dipintura.