Paolo Emiliani-Giudici
Beppe Arpia

III

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III

 

Dal quarto d'ora di colloquio fra Ignazio e Beppe si sarà potuto intendere che l'uno era andato in casa dell'altro per concludere un matrimonio tra Babbiolino e la figliuola della marchesa.

La marchesa Eleonora, nata dall'antichissima famiglia Boria di Milano, alla quale fu ceppo uno de' tirannelli delle città Lombarde, era stata, da bambina, rinchiusa ed educata in un convento come un fiore dentro una stufa; ed era da marito allorquando il marchese Pomposi, che andava a caccia d'una ricca dote, fu da' parenti della fanciulla condotto in quel vivaio di nobili ragazze. Dopo d'averla veduta una sola volta, chiamandosene contento e satisfatto, il negozio fu concluso nella guisa stessa che un dilettante di cavalli va in Maremma e ne sceglie uno dal branco: compratore e venditore stabiliscono il prezzo senza che l'innocente animale ne sappia nulla. La donzella come cosa senza volontà, come un pezzo di mobilia, dal convento passò nella città e nel palazzo dello sposo. Marito e moglie per un paio di mesi, invasi da una caldissima febbre che scambiavano per amore e non era se non affare di sangue caldo, rimasero in una villa chiusi ad ogni umano consorzio: in sessanta giorni votarono la coppa delle delizie coniugali; quando si provarono di riportarvi il labbro sentirono nausea della sentina che vi trovarono nel fondo, ed a curarsi di quella mortalissima noia che a guisa di un nugolo nero aveva intorbidate l'anime loro, determinarono di fare ritorno alla città.

Spenta quella breve e falsa poesia di vita, cominciò per loro l'epoca della prosa. Quelle due creature rimasero congiunte di tetto e forse di letto, ma le anime loro, che esse credevano, o almeno lo dicevano, avvincolate dal nodo d'amorenodo, che secondo la scritta matrimoniale, doveva essere eterno — si divisero. Gli sposi ingolfaronsi nel vasto e sudicio gorgo del mondo e si dettero a percorrere il doloroso cammino della vita come due viandanti che il caso o l'interesse abbia accoppiati per poco, e giunti in un medesimo luogo, ciascuno bada alle proprie faccende.

La marchesa spese la sua giovinezza a lasciarsi sciupare dalle lusinghe, dalle sconce passioni, dal lusso; il marchese si abbandonò come giuocatore inebriato a tutti gli usi e le pratiche de' suoi pari: i loro nomi corsero celebri nel gran mondo, finché l'una e l'altro si ridussero a quell'età in cui, viziati e logori i sensi, il cuore si rimane in petto come vecchio cronico sdraiato sur una poltrona, inabile a muoversi aspettando che cessi la noia di battere.

Fra gli adoratori della marchesa era un principe russo, il quale amando meglio le fiorite rive dell'Arno che i diacci della Neva, e mandato dal suo governo in Italia a promuovere la rovina dell'Usurpatore, stanziava in Firenze. Costui, che passava due terzi della giornata in compagnia della marchesa, aveva cooperato a corromperne l'indole, ed accrescerne la natia superbia. Le diceva cose orrende della rivoluzione francese, e massime quando trattavasi di arringare contro il popolo, ch'ei sempre chiamava canaglia, faceva tali scappate oratorie che pareva volesse disputare la palma della eloquenza a quel terribile figuro di Mirabeau.

Un giorno raccontava all'adorata amica — onde farle vedere che la nobiltà vera non esisteva altrove che in Russia — come egli la prima volta che uscí dal patrio territorio, regnante Paolo I, passato appena il confine, in un villaggio di Prussia venisse in litigio con un postiglione. Il tono della voce della bestia bipede che guidava le bestie quadrupedi, offese tanto la dignità sua che cavata una pistola, con un colpo lo freddò per .

L'evento attirò molta gente, accorse la polizia; ed egli senza scomporsi, tratta una borsa di tasca, chiese — E bene! Quanto costa un postiglione? Lo pago e la faccio finita. E rimase maravigliato allorquando gli fu detto che il prezzo della vita d'un uomo in Germania non è compreso nella tariffa delle mercanzie.

Questo fatto è completa pittura dell'uomo, e l'ho voluto riferire, perocché il russo era l'autorità sopra la quale giurava la marchesa, egli era il suo Mentore, il suo angelo custode o qualcosa di simile; e dice il proverbio: dimmi con chi pratichi e ti dirò chi sei.

Nonostante, tutto il veleno piú barbaro che aristocratico, tutto l'odio ispiratole dal russo contro la Francia, tutto l'abborrimento contro il caporale Corso, che con isfacciataggine inaudita da un immenso vortice di casi era sorto col capo cinto d'una corona imperiale, non impedí alla illustre marchesa che sollecitasse ed ottenesse l'onore di essere annoverata fra le dame della corte napoleonica. E quando l'immenso colosso ridivenne uomo del peso e della misura degli altri miserabili figli d'Adamo, tappato in uno scoglio al di dell'Equatore, la nobile signora seguitava a gloriarsi del titolo di dama dello impero.

Nella prima giovinezza ebbe fama di bella, e di certo tale sarà stata, poiché i piú tale la dicevano; io che la vidi quando non era piú giovane nel teatro della Pergola, la dipingerò come a me parve.

Era di personabassaalta, o come suol dirsi de' cavalli — mi si perdoni l'impertinenza del paragone — fra le due selle. Le sue forme erano per pinguedine convesse; il viso aveva rotondo, il naso un tantino camuso, gli occhi neri e piccoli, le labbra tumide, il mento triplicato; il colore della pelle tirante al bruno, ma non di quel brunetto pallido che è colore del sentimento, ma d'una tinta dove fra gl'ingredienti abbondi il vermiglio. Portava il vestito troppo scollato in guisa che le larghe e carnute spalle e l'enorme petto formavano una massa, che in contrasto col nero del velluto, splendeva e attirava gli sguardi. Un'altra signora, asciutta di tisi e di libidine, che le sedeva di contro, famosissima per ispropositare in francese, fu udita; esclamare: — Elle est bien, mais elle a trop de viande. — Con le spalle sempre volte al proscenio, non rivolgendo il capo né anche se gli attori o le attrici gridassero come spiritati, essa dal suo palco si offriva spettacolo al pubblico, circondata sempre da un branco di uffizialini, i quali con mille cascaggini l'assediavano che pareano i guerrieri greci all'assedio di Troia.

Frutto di que' due primi mesi di febbre coniugale fu una bambina da ambedue i genitori amata d'inesprimibile amore. Amalia era quanto di piú bello potesse ideare ed eseguire la mente angelica di Raffaello d'Urbino. Alta di persona e prestante, snella di membra, candida la pelle, giusto e dritto il naso e ben piantato fra due grandi occhi bruni, che volgevansi ora dignitosi, ora soavi, ora fieri, fedeli interpreti de' moti dell'animo; spaziosa la fronte, nere, folte e crespe le chiome, bello e maestoso l'andare, leggiadre le movenze: il riso, come diceva Dante della sua Beatrice, le lampeggiava sulle labbra. Tante bellezze erano condite da una certa costante soavità d'espressione che affascinava gli altrui sguardi e richiamava alla fantasia la immagine di Psiche purificata ed assunta in cielo fra gl'Immortali; gli sguardi di tutti erano attirati alla sua faccia bella, alla sua leggiadra persona da una misteriosa forza cui era vano resistere: la sua perfezione era tale che le donne, quasi la reputassero superiore ad ogni agguaglio, non l'invidiavano, né potevano odiarla perocché la sua beltà non eraprovocantesoverchiatrice.

A tanta esterna formosità era di certo uguale se non superiore la bellezza dell'anima. Per sua somma ventura la madre l'aveva cresciuta in casa propria; non che abborrisse di farla vegetare in un collegio, ma non ebbe mai cuore di scompagnarsi da quest'unica creatura, ch'era la sola cosa nel mondo, la quale in tanta sentina di falsi piaceri le facesse provare la pura dolcezza di un vero affetto. Il caso piú che il discernimento de' genitori, aveva posta la giovinetta nelle mani d'un educatore, nel quale l'onestà era pari al senno. Senza sovraccaricarle la mente d'erudizione pedantesca, senza impiastrarle la memoria di quella vernice enciclopedica, che lasciando pressoché intatta la nativa asinità, accresce la vanità e la impertinenza, vegliava cautamente a sviluppare le doti della natura, a secondarle senza forzarle a piegarsi al tormento di metodi fittizi. Facendole detestare le svenevolezze, le allumacature, le asme amorose, le fredde brutalità, le artefatte disperazioni, le impossibili e sformate fantasie, di che son pieni certi romanzi stranieri, l'aveva avvezza ad amare gli eroi della storia patria. Le immagini di quegli incliti mortali stavano nella sua mente come tanti capolavori d'arte disposti in ordine dentro una vasta galleria, intorno alla quale ella sempre girava lo sguardo ad inebriarsi di vita e d'illusioni; erano come i personaggi d'un immenso poema che la sua immaginazione faceva muovere in mille guise. E però nella tranquilla serenità della propria esistenza l'anima della giovinetta era di continuo affaccendata in un moto morale, che tenendola sollevata in una sfera sublime, non le lasciava scernere le miserie e le sozzure della tralignata umanità. Spirito puro, bèati della tua vita interiore; maledizione a chi ardirà avvelenartela turbandone il sereno a guisa di malvagio fanciullo che intorbidi la queta e limpida onda d'una fonte solitaria!

Come siffatta creatura tutta anima fosse uscita dalle viscere d'una madre tutta materia è tale mistero, che può essere dichiarato solo da colui che crea ed armonizza le infinite discrepanze dell'universo.

A prima vista parrebbe impossibile come gli esempi della marchesa, la quale in certe faccende fu quasi per emulare la fama di sua maestà imperiale Caterina II, signora di tutte le Russie, non corrompessero il puro candore dell'animo dell'Amalia, come l'alito pestifero d'un pantano contamina la freschezza di un fiore. Nondimeno sovente avviene che le madri dissolute siano gelosissime dell'onestà delle figliuole; o perché la propria coscienza faccia loro sentire l'abiezione dove sono cadute inabili a sollevarsi ad aura piú pura, o che imitino il costume de' mercanti i quali per vender meglio una gioia la conservano con tutti i riguardi, gli è certo che la virtú d'una fanciulla non può essere affidata ad Argo piú vigilante.

Il lusso, e le intemperanze d'ogni specie cui spensieratamente in gioventú erasi abbandonata la marchesa Eleonora, piú che i numerosi stravizi del marito, avevano vuotate le casse della famiglia; il patrimonio, scema oggi, scema domani, era tutto bucato e rattoppato d'ipoteche, in modo che si ridusse strappato e malconcio come una bandiera di un vecchio reggimento. Morto il marchese, la malarrivata signora trovossi gonfia di superbia, ma smunta della sostanza che l'alimenta, e se non la giustifica, la rende tollerata e quasi rispettabile; voglio dire povera di fortuna e abbandonata alla discrezione d'Ignazio Gesualdi suo maestro di casa.

Quando i suoi adoratori ad uno per volta spopolarono le sue già splendide sale, allontanandosi come gente a festa finita; quando ella, venerabile d'anni, altro conforto non aveva che quello di vivere di memorie come un guerriero storpio e mutilato che si glori delle proprie gesta, lasciata la parte di prima amorosa nella commedia sociale, si mise a recitare quella di madre nobile: e dichiarata irreconciliabile guerra ai piaceri che la fuggivano irridendola, andò a cercare le sue delizie in sagrestia. E poiché Ignazio le era diventato necessario, per affezionarselo si servi dello specifico di madama di Warens, secondo che racconta Gian Giacomo Rousseau nelle sue Confessioni; poscia per moralizzare lo specifico si congiunse in santo matrimonio col maestro di casa, congiunzione che ella studiavasi di tenere nascosta, ma ch'ei coglieva le minime occasioni per farla indovinare. Cosí Ignazio era la colonna della casa, era il tiranno della padrona. Non ostante la confidenza con che egli trattava la madre, l'Amalia l'aveva sempre tenuto al suo posto, o come direbbe una signora inglese, in una rispettosa distanza. Ella, benigna e cortese con tutti, lo trattava benignamente, ma sempre da servo. Per la qual cosa quel maligno la prese in odio mortalissimo, ma, maestro solenne di dissimulazione, non ne faceva le viste a fine di non guastare certi suoi arcani disegni.

La giovinetta, giunta a diciotto anni, in tutto il rigoglio della sua beltà, agli occhi d'Ignazio era un capitale che andava senza indugi impiegato, un articolo che andava messo in vendita.

Accettare il partito d'un signore che l'avrebbe condotta in casa propria come cosa comprata a pronti contanti, non gli conveniva; voleva serbare per sé l'utile maggiore del negozio: e quindi dopo lungo meditare aveva concepito il disegno di accalappiare destramente l'amico strozzino. Disse siffatto pensiero alla marchesa, la quale in prima ebbe orrore perfino della idea di contaminare lo splendore del proprio blasone con un simile osceno parentado; ma Ignazio dopo di averle posto innanzi lo sguardo gli esempi di altre nobilissime famiglie, dopo d'averle sciorinata una filastrocca di argomenti antiaristocratici — lui sanfedista a tutta prova! — facendole una spaventevole pittura del patrimonio in rovina, pervenne in un solo colloquio di qualche ora a piegarla non che a farle abbracciare con fervore il suo piano di campagna.

Il matrimonio dell'Amalia col figlio di Beppe Arpia, fu concertato e giurato tra Ignazio e la marchesagiuramento esecrando che si fece cagione dei lacrimevoli casi che servono di subietto al nostro racconto.

Beppe Arpia, diguazzando fra i tesori, sebbene fosse simile a chi standosi fra la putredine si avvezzi a non patire piú l'incomodo del puzzo, sentiva la brama di scrostare il suo nome delle lordure del suo infame mestiere. L'unico ed ordinario mezzo sembravagli quello di imparentarsi a qualche famiglia signorile. Furbo ed astuto consumatissimo in ogni altra cosa, in questo era mirabilmente debole ed agevole a lasciarsi trappolare dal meno sparvierato degli uomini.

Il Gesualdi non indugiò punto a subodorarlo; e nel colloquio che lasciammo interrotto e che durò parecchie ore, nulla curando gli altri lati per dove potesse assalirlo, si propose di aprirsi la breccia da questo, e mitragliarlo senza compassione. Ficcandogli a poco per volta e con grazia dentro il cervello l'idea di quel matrimonio, lo convinse in modo che lo strozzino, stringendogli la mano nel punto di partire, gli disse: — Dunque fai tu Ignazio; ordina tutto; è affare di comune interesse, mi fido di te. Ma facciamo presto: le cose lunghe diventano serpi.

Il Gesualdi gli prese la destra, se la strinse al cuore e dandogli un bacio sulle gote, gli rispose: — Stai tranquillo, vado subito; stasera vieni da noi, e discorrerai con la marchesa. Addio.

Beppe Arpia, briacato con astutissimi ragionamenti dalla birba d'Ignazio, la sera medesima si condusse a casa Pomposi. Ignazio quel giorno studiò tutti gli espedienti per mascherare la miseria della casa onde illudere il già ingannato strozzino: prese a nolo tre servitori, ai quali fece indossare certe immense livree, che comunque sdrucite, luccicavano di larghissime frange d'oro falso. Ordinò come meglio seppe gli arredi vecchi: il palazzo in quel giorno aveva l'apparenza d'una gala che da gran tempo non esisteva piú in que' vasti stanzoni deserti.

L'anima gretta e sudicia di Beppe, il quale aveva sempre abitato in una casaccia piena di casse, di cassoni, di colli di mercanzie, di botti e di barili, si lasciò imporre da quella magnificenza. Ricevuto all'uscio di caposcala da due camerieri in guanti bianchissimi, che facendogli ala da ambe le parti, gli dicevano: — Passi, lustrissimo —; entra in una immensa sala, dalle pareti della quale pendevano in giro parecchie centinaia di ritratti all'impiedi. Erano le immagini di famiglia disposte attorno per ordine di tempo. La blasonica processione principiava con certe figure di guerrieri tutti coperti d'armi, e finiva con certi venerandi parrucconi in giubbe gallonate, e adorne di decorazioni, e con certi visini gentili di dame le cui sottilissime vite poggiavano sopra guardinfanti ricchissimi, gonfiati come palloni pronti a volare.

Tale spettacolo comprese di tanto rispetto lo strozzino, che, malgrado il principio fondamentale della onnipotenza del francesconeprincipio che era il primo e supremo articolo del suo credo — s'egli era rimasto convinto delle ragioni del Gesualdi, gli si accrebbe oltremodo la foia del parentado.

Riavutosi un po' dallo sbalordimento, mentre i camerieri si ricambiavano certe occhiate canzonatrici, e lo lasciavano fare, mosse le gambe e si lasciò condurre ad un'anticamera, in fondo alla quale da un uscio spalancato Ignazio gli corse contro, lo prese per la destra e con solenne contegno lo introdusse nel salone della signora.

La marchesa stavasi assisa in atteggiamento maestoso sopra un divano di velluto cremisi un po' sdrucito, che sarebbe stato un argomento parlante di quella finta magnificenza se il cervello dello strozzino fosse stato in condizioni da dedurre conseguenze da innegabili premesse.

— Il signor Giuseppedisse Ignazio appena entrato, e inchinandosi.

— La s'accomodi, signoredisse la marchesa.

Lo strozzino confusamente fece un inchino sgarbato, e s'assise sopra un seggiolone di contro, appoggiando i gomiti sui bracciuoli, e tenendo le mani ficcate dentro il cappello; zotico atteggiamento che un artista non avrebbe potuto meglio immaginare per ottenere un contrasto di mirabile effetto.

— Ho veramente piacere di vederlaripigliò la signora.

— Il piacere è mio, lustrissima.

E qui si fermò il dialogo come fosse percosso da sincope improvvisa. Lo strozzino aveva la lingua inchiodata al palato. La marchesa se ne accorse, trattenne a stento uno scoppio di risa, poi rompendo il silenzio

— Come va la salute?

— Non c'è male, mi contento.

— Ne ho piacere davvero. Come si diverte?

— Poco, signora mia; non ne ho tempo, gli affari...

— Lo so che il signore è sempre in affari.

— Dalla mattina alla sera lavoro come un cane.

— Ma gl'interessi vanno bene?

— Alla meglio coll'aiuto di Dio.

— È stato alle Cascine?

— È tanto tempo che non me ne ricordo.

— E la Pergola come le piacque ieri sera?

— Io non vado mai al teatro.

Il discorso sarebbe durato un pezzo su questa chiave e sdrucciolando sempre piú verso la scempiataggine, avrebbe potuto far nascere qualche scena pericolosa; ma Ignazio che aveva già dipinto Beppe come persona adorna di maniere signorili, avvisando con una strizzatina d'occhio la marchesa e rompendo le cerimonie, aprí senza tanti preamboli la discussione con queste parole:

— Col signor Giuseppe ho ragionato a lungo stamani; abbiamo fissato ogni cosa, ed è venuto da sé a dargliene la certezza e vedere la marchesina.

Credetemi, signore, — disse sospirando affettuosamente la marchesa — è un gran passo questo che io fo; dividermi dall'unica figlia, da una vera gioia, che sarà la ricchezza e la delizia di quella fortunata famiglia che l'avrà in seno, credetemi pure, è uno di quel dolori che non ho mai provati in vita mia. Cara delizia! È buona...

Signora mia, lo credo bene, ed altrettanto potrei dire del mio figliuolo; non già perché gli è mio, ma una creatura piú buona, piú cara, piú docile, la creda, sarà difficile trovarla. Se Dio vorrà che questo negozio si concluda, noi genitori avremo a esser contenti di avere accoppiati due sposi che saranno l'invidia e l'ammirazione delle famiglie.

— E questo gli è ciò che mi consola. Gradirebbe di vedere adesso la mia bambina?

— Se le fa piacere.

Volentieri. — Scampanella con piglio aristocratico. Comparisce una vecchia, cameriera vestita come la moglie di un ministro, alla quale, la marchesa stendendo la mano con atto imperioso comanda: — Dite alla marchesina che venga subito qui.

La veneranda fantesca s'inchina senza far motto ed obbedisce. Dopo un brevissimo istante entra l'Amalia con incesso semplice e maestoso, e dirigendosi verso la marchesa senza badare allo strozzino, dice:

Mamma a che mi vuoi?

Ignazio aveva pronta una seggiola per porgerla alla giovinetta collocandola a poca distanza da Beppe, mentre la marchesa: — Siedi, Amalia, — diceva — volevo presentarti il signor Giuseppe, nostro amico di casa.

L'Arpia non spalancò mai tanto gli occhi, non li conficcò mai con tanta espressione di compiacenza ad un sacco di rusponi, con quanta maraviglia si mise a guardare la nobile donzella; erasi cosí per impulso rizzato dalla seggiola, aveva principiato un inchino, che rimase a mezzo quasi fosse tocco da catalessia; non sapeva articolare una sillaba di complimento all'Amalia che lo aveva riverito con un graziosissimo saluto. Ma vedevasi bene che egli diceva fra sé: — Perdincibacco! Se il mio figlio ha un milione, costei ne vale due; la sua sola presenza serve a nobilitarmi la casa. Se il negozio riesce, me ne impipo di quante ce n'è.

Nella mezz'ora che la giovinetta rimase tra' suoi carnefici, la marchesa le fece mille frivole interrogazioni, alle quali l'Amalia rispondeva con la ingenuità d'una fanciulla, e col senno d'una matrona, senza né anche sospettare che essa era in mostra come mercanzia, intorno la quale doveva concludersi un contratto.

Finalmente la signora alzatasi dal divano, e salutato con dignitosa gentilezza lo strozzino, appoggiandosi al braccio della figlia, s'avviò con passo lento e maestoso alle vicine stanze.

Il Gesualdi il quale aveva misurata la impressione di sbalordimento che la fanciulla aveva prodotta nella fantasia dello strozzino, senza dargli né anche un istante a riaversi, gli domandò ansiosamente

— E bene?

Va benone! Dobbiamo fissare con la marchesa?

— Non importa. Degl'interessi parleremo noi: in due parole ci accomoderemo, e condurrai subito qui Babbiolino.

— È giusto.

— Mentre noi qui si dispone la marchesina, parla col ragazzo, e spicciamoci.

Sicuro: discorsi corti, e facciamo lo sposalizio.

I due teneri amici, datosi un bacioIgnazio era sempre pronto a baciare, poiché se n'era fatto un costume che aveva imparato da Giuda Iscarioto — si dissero addio.


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