Paolo Emiliani-Giudici
Beppe Arpia

V

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V

 

Sei mesi innanzi il giorno in cui fu concertato il matrimonio tra l'Amalia e il figlio dello strozzino, sir Riccardo Glutton, ricorrendo l'anniversario della sua nascita, dava una solennissima festa di ballo. Come da Calcutta a Nuova York, e da Stoccolma a Capo di Buona Speranza, vale a dire per centosettanta gradi di longitudine, e cento di latitudine, ovvero diecimila e dugento miglia da levante a ponente, e sei mila miglia da tramontana a mezzogiorno, in questo secolo in cui la civiltà aspira a cancellare le sembianze nazionali e ridurre l'umanità tutta ad una sola famiglia, il figurino di Parigi è legge ai vestiti de' signori e delle signore, cosí tutti i balli del mondo incivilito hanno pressoché un solo e medesimo aspetto. Cavalieri in giubba nera e cravatta bianca, dame cogli abiti scollati e lucenti di gioie — siano vere siano false non importavecchie che cinguettano, oziosi che ciarlano, maligni che sparlano, uomini che giuocano, zerbini che armeggiano, ragazze che hanno il diavolo addosso per ballare, musici che strimpellano il cembalo e fanno scricchiolare strepitosamente la tastiera a uso Listz: e polke, e mazurke, e walzer e cotillons; e servitori in moto perpetuo; bottiglie di sciampagna: che spumano, sorbetti, confetti, pasticcetti: tutti questi e simili ingredienti mettili in parecchie stanze di fila, fanne un mixte, ed avrai la ricetta universale infallibile d'ogni qualunque descrizione di ballo. — Naturalmente intendi bene che qui non c'entrano le danze popolari, come la tarantella, il trescone, la monferrina, la curenta, la furlana, la catena, la giga, il saltarello ed altrettali divertimenti plebei: io parlo di balli secondo che si costumano in quella che con moderno vocabolo si chiama società. — Si scansi quindi la noia scambievole, a me di farti la pittura della festa di sir Riccardo, a te di leggerla.

Avvertirò solo che la scena di cotesto nobile intertenimento era in una magnifica villa — lo sai che razza e che numero di ville sorgono su per gli ameni colli che circondano la bella Firenzesituata a due miglia dalla città sul pendio de' monti di Fiesole. La qual cosa fece che chi aveva carrozza di suo o chi possedeva uno zecchino da prenderne una a nolo, vi andò, chi si lasciò persuadere dalla natia parsimonia fiorentina o dalla logica della borsa asciutta, si rimase con la polizza d'invito. Di novecento invitati che dovevano tutti entrare in un appartamento che ne poteva contenere trecento, appena ce n'erano un centocinquanta: circostanza disgustosissima per il nobile baronetto, ma oltremodo avventurosa per gli ospiti, la quale tolse alla festa la caratteristica inglese — perocché è cosa ben nota a tutti che gl'inglesi reputano tanto piú splendida una festa quanto piú pigiati, stipati, urtati, accatastati vi siano uomini e donne — e le diede aspetto italiano; non solo l'aria vi circolava comoda e salubre, ma gl'invitati vi stavano a bell'agio.

Nella immensa sala da ballo, dove la gente si andava distribuendo a gruppi, ciascuno composto di una figura maschile e d'una femminile, un giovane, fattosi cortesemente presso all'Amalia, le chiede gli conceda l'onore di far seco due giri di walzer.

L'Amalia quantunque fra tante donzelle leggiadre e squisitamente adorne splendesse come astro piú lucido in mezzo a un gruppo di stelle minori, rimaneva per avventura in quel momento priva di cavaliere. Il giovane, che le si fece dinanzi, era bello come un dio greco scolpito da Fidia: forme snelle e ben fatte, quadre le spalle, spazioso il petto, brune le chiome, bruna e folta la barba che mozza con bel garbo gli copriva tutto il mento: schietto e franco di modi, senza affettazioni, senza stiracchiature: sopra la sua persona la nobiltà vera si stava come padrona di casa.

Non conosceva e forse non aveva mai veduta l'Amalia; o come dunque, direbbe un inglese, ebbe l'audacia di oltraggiarla con l'insolenza di un invito? — Per un inglese ciò sta bene; perocché si racconta che un giorno un povero diavolo cascato in un fosso stava per affogare mentre un inglese che a caso passava di , fermossi come un piuolo a guardare, ed alle persone che gridavangli da lungi stendesse una mano e salvasse quello sciagurato, rispose freddo ma gentile: — Non mi è stato ancora presentato. — Ma in Italia le cose procedono in modo diverso, e comunque essa un tempo sia stata maestra di gentilezza a tutti i popoli già barbari che adesso con vecchio rancore gotico la chiamano terra di morti, e ai nostri non abbia dimenticato le piú squisite delicatezze del Galateo, in Italia, io diceva, la innata cortesia avvicina le persone e il cuore le accoppia; e però il contegno del giovane non ebbe nulla di riprensibile agli occhi dell'Amalia, la quale con un sorriso d'ingenuità gli rispose:

Volentieri; grazie, l'onore è mio.

Come costumasi innanzi che cominci la girandola del walzer, Roberto — che tale era il nome del cavalierecominciò a intrattenere la compagna con le solite bagattelle, con le celiette, che, quando talvolta non riescono insipide e noiose, non concludono mai nulla. Ma né l'AmaliaRoberto erano persone da durare a lungo in quel giuoco di frasi scempie: bastò che si fissassero un istante gli occhi scambievolmente sui volti, perché da quel rapido sguardo nascesse simultaneo un sentimento, o dirò meglio un consentimento, o come vuole il moderno frasario degli innamorati, una simpatia tale che parve ad entrambi quella non essere la prima volta che si vedessero e si parlassero. La giovinetta nel secondo sguardo, accortasi che Roberto aveva la fronte segnata d'una larga cicatrice trasversale, mossa da curiosità, o come io credo, dalla bramosia di chiarirsi di un certo sospetto, lo interrogò:

— Quella cicatrice che le sta sulla fronte, è forse conseguenza di qualche disgrazia?

— È il segno di una ferita che ho riportata in Rimini dove fra tanti generosi anch'io corsi per versare il mio sangue a pro della nostra patria infelice! — rispose Roberto con la dignitosa semplicità di un eroe d'Omero; e pronunziò l'ultima parola con un sospiro, mentre una repentina malinconia turbavagli il sereno del viso, a guisa di nuvola che, errabonda per l'aria, veli per un istante la gloriosa faccia del sole, ed estingua il riso della natura.

Quella cicatrice apparve all'Amalia la piú splendida decorazione che possa adornare la persona di un uomo valoroso; e se ella fosse stata avvezza agli usi di corte, di certo avrebbe profferite parole simili a quelle che Isabella d'Aragona duchessa di Milano disse a Francesco di Pescara, che si sarebbe desiderata uomo per ricevere qualche ferita sul viso, onde vedere se le stesse cosí bene come stava su quello di lui.

La giovinetta piegò soavemente il capo con una espressione mezza tra il duolo, la compiacenza e l'ammirazione, volse i begli occhi al cielo, e lasciandoli tosto cadere sul volto di Roberto, gli prese la destra e glie la strinse.

La mano d'Amalia tremava; le fibre di Roberto si scossero repentinamente: i volti di entrambi si colorarono d'una tinta vermiglia.

Amalia e Roberto in quell'istante si sentirono nel cuore una amicizia di dieci anni.

Le due anime gemelle, o dirò meglio, le due metà d'un'anima sola eransi trovate: in quello sguardo si faceva loro la prima confusa rivelazione di quello avvenimento, che è il supremo ed essenziale di tutti i fatti nella vita della creta animata; fatto incomprensibile ma vero, problema intricatissimo che ha travagliati indarno i piú vigorosi intelletti, e che nondimeno dopo tanto ordine di secoli si rimane in quel medesimo stato e con quel debole raggio di luce di cui lo rischiarò la vetusta filosofia, che la nostra scienza loquace, decrepita ed inetta, suole chiamare bambina.

A spiegare quel mutuo sentimento, quella simpatia che avvincola due creature al primo vedersi, senza né anche parlarsi una sola parola, gli antichi de' tempi di Socrate divino, fra tanti altri sistemi, sviluppati col sussidio di miti e metodi vari, avevano trovato anche questo. Pensavano che un tempo l'individuo umano fosse in uno stato diverso da quello in che oggi si vede. Era forte, era bello, bastava egli solo a se stesso: ma era tracotante. Giove ne patí gelosia, ed onde punirne l'orgoglio, considerando come, se avesse trattata l'umana famiglia con la legge stataria adoperata contro i giganti, sarebbe rimasto dio d'un campo santo, divise in due parti la figura umana, che in origine era rotonda con membra raddoppiate, ed armonizzanti non si sa in che modo. Cosí partite le due metà, le disperse; per la qual cosa in ciascuna di quelle rimase una innata, invincibile, inesplicabile, e nondimeno evidentissima tendenza a desiderarsi, a cercarsi, a congiungersi. Il cenno annunziatore del mutuo ritrovamento è dato dai cuori di entrambe, che non ostante l'involucro corporeo, si mirano, quasi in limpido specchio, si riconoscono, e si mischiano come due rivi confluenti in un medesimo lago a comporre un'onda sola. Da quello istante le vite loro si accentrano in una sola esistenza: sorgano pure mille ostacoli, non vi è forza umana che vaglia a separarle. In questo misterioso congiungimento principia per l'uomo la vita vera, principia la felicità che nella terra preludia la indefinita beatitudine della creatura transumanata; la creatura consegue la sua perfettibilità, ella ama, ella è riamata: la via del paradiso per essa non è un sentiero erto, ripido, pericoloso, e coperto di triboli e di spine, ma un cammino piano, ridente, sicuro e sparso di fiori: il suo angelo custode d'allora in poi può risparmiarsi l'incomodo di farle da pedagogo.

Cosí filosofava Socrate, al quale facevano plauso i suoi gravissimi colleghi fra la schietta allegria e le bottiglie di Sciampagna che spumavano, nel famoso banchetto descrittoci da Platone e da Senofonte, i quali stavano nella loggia degli stenografi a prendere ricordo dei brindisi, dei toast e dei discorsi che i commensali vi declamavano. Cosí anche pensavano tutti i dotti del mondo moderno sul rinascere delle lettere, e massime il Petrarca, il quale, secondo la predica di un reverendo, citata dal Tiraboschi uomo dottissimo e gesuita, amando madonna Laura e cantandone le lodi con versi inimitabili, la mandò diritto alla gloria del cielo facendole appena lambire il Purgatorio, cosí di volo, per non si dire.

È sistema immaginario, è sogno, è un tessuto d'illusioni? Sarà: ma trovane uno migliore e piú convincente, e m'inchinerò rispettoso alla tua sapienza; se non che io vedo che anche i tuoi confratelli, in elaborati volumi di scienza, — fra' quali rammenterò solo il tedesco Burdach, gravissimo professore di fisiologia — si danno tanta cura a torre ad esame il mito di que' savi sognatori della vecchia Grecia.

E però le anime di Roberto e d'Amalia quella sera eransi trovate, s'erano riconosciute, s'erano date il mistico bacio di amore.

Di a poco una celerissima corsa di dita da un capo all'altro della tastiera dello strumento, diede il cenno ai danzanti di mettersi in posizione.

Principiata a sfilare la prima coppia, le altre vi corsero dietro. Amalia e Roberto anch'essi si misero a ballare, ma badavano poco alla materialità della cosa: quel celere moto di gambe, quell'armonico giro di corpi forse faceva loro provare il senso di chi dalla terra si sente sollevare per aria verso il puro azzurro del cielo.

Quando i ballerini fecero pausa, Roberto, tanto piú timoroso di offendere le convenienze sociali, quanto il suo cuore non era piú tranquillo, ringraziata la giovinetta, ed inchinatosi con nobile atteggiamento, scostossi. Quasi avesse bisogno d'aria fresca e di solitudine, corse all'ultima stanza dove era poca gente, e si affacciò ad un verone che sporgeva sul giardino. Con ambe le mani appoggiate sull'orlo, fissò gli occhi al cielo; ma non guardava nessuna dello infinito numero delle stelle di che tremolava il firmamento: non beavasi a contemplare i leggiadri colli e la vallata, in mezzo alla quale fra i giardini e le ville sorgeva la città, sopra cui la luna stendeva un'onda di luce simile ad un ampio manto d'argento.

Roberto pensava!

Nella sua testa le idee si affollavano come un popolo in tumulto; il suo cuore era commosso; l'anima sua passava e ripassava dalla testa al cuore con moto scomposto e continuo. Dopo qualche tempo, si mise le mani al capo, ne scompose le chiome, e lo scosse, e sforzandosi di rimettersi in calma, si scostò dal balcone. Percorre lentamente le sale, va difilato a quella del ballo; volge lo sguardo per tutte le parti, lo ficca in ogni angolo; ma le persone gli paiono una massa moventesi di cose: ei cerca l'Amalia. Non era fra l'allegro drappello de' ballerini; — È forse partita? — Questo pensiero gli fece provare un senso istantaneo di sciagura; retrocede, rispia con piú calma e con maggiore studio, e finalmente la scuopre.

La giovinetta stava seduta sopra una poltroncina, la quale era ombrata da un mobile che proiettando, con la sua forma la riparava dalla troppa luce. Sedeva in atteggiamento d'abbandono, coi piedi, adorni di un bianchissimo coturno di seta, l'uno posto sull'altro; aveva una mano mollemente abbandonata sull'uno dei bracciuoli, con l'altra sostenevasi graziosamente la guancia col pugno semichiuso, tranne il pollice, e l'indice che si alzava allato dell'occhio. Teneva gli occhi fissi in un punto, ma apparivano senza sguardo. Il suo volto non era lieto, non era tristo, ma rivelava che un moto interiore le agitava l'anima: la sua vita pareva essersi tutta ripiegata all'indentro.

Amalia pensava!

Innanzi all'occhio della sua fantasia stavasi l'immagine del giovane: ella beavasi a contemplarlo e ne provava quel diletto che si sente allo inaspettato giungere di un amico, dal quale ci credevamo lungo tempo o per sempre divisi: la gioia, la sorpresa, il timore confluiscono in uno e medesimo punto al cuore e vi producono un sentimento, che per essere straordinario, sopraffà l'anima, la quale si sforza di giudicare e non sa, ma sente confusamente e con veemenza.

In questa attitudine, piú che in quella di donna leggiadramente adorna e disposta a danzare, l'Amalia parve piú bella a Roberto. Non appena l'ebbe veduta, stette fermo a contemplarla maravigliando. La massa del corpo di lui, la quale si pose improvvisa tra lo sguardo intento della giovinetta e il lume riflesso dalle pareti, la scosse: l'Amalia si vede dinanzi Roberto; e quasi avesse trovata l'arcana parola scioglitrice di uno enimma, rizzossi e fece due passi innanzi, mentre dal canto suo il giovine ne fece altrettanti, e si trovarono vicini. Il vero affetto abborre da ogni ipocrisia; Roberto, rompendo il silenzio, disse:

Signora! Temevo di non piú vederla, e credevo la fosse partita; a me rimaneva il rimorso di non averla abbastanza ringraziata.

— Le son grata di questa sua cortesia; anch'io volevo vederla per ringraziar lei.

Oltrediché, se non temessi di essere importuno... se ella volesse dirmi il suo riverito nome...

Amalia Pomposirispose la giovinetta con ischietta ansietà — e non userebbe ella a me la gentilezza di dirmi il suo?

Roberto Cavalcanti.

E si tacquero: e spinti da unico impulso si presero le destre ed affettuosamente se le strinsero.

La stretta di mano d'una fanciulla italiana non è la pressione gentile delle dita fredde e foderate di guanto della donzella inglese, non la scossa della tedesca, che ti sloga una spalla, e se hai la fortuna di non ricorrere al chirurgo perché te la rimetta, ti rimane indolenzita per un mese; ma è una pressione elettrica che percuotendo una fibra, in un baleno si diffonde per lo infinito tessuto de' nervi e delle vene, e porta un fuoco vivificante nel cuore: una toccatina sentimentale di mano nuda di guanto, uno sguardo schietto ed affettuoso d'una giovinetta italiana, da principio rimane inavvertito, ma insinua in petto tale favilla, che cova sorda e continua, e finalmente divampa in un incendio che ti consuma d'amore. — Badaci, o giovane, come baderesti ad una lieve graffiatura fatta dal dente di un cane arrabbiato, la quale, non curata senza indugio e con arte, ti farebbe inevitabilmente, quando meno lo aspetti, morire d'idrofobia!

 

Roberto Cavalcanti era unico figlio della contessa Beatrice. Aveva sette mesi d'età

 allorquando il padre, nel vigore della giovinezza, morí d'una caduta da cavallo. La sposa lo amava di vero amore, lo pianse inconsolabilmente, e ne tenne sempre impressa la memoria nel cuore. Priva del suo diletto consorte, raccolse tutti gli affetti suoi e li pose nell'unico figlio, che era la viva immagine del padre, gli mutò perfino il nome e lo volle chiamare con quello del defunto, come aveva fatto la madre di Filippo Strozzi. Non volle che si scostasse mai dal suo fianco, lo crebbe, lo educò: Roberto era la sola consolazione della madre, la quale con esempio degno de' tempi in cui le virtù domestiche inghirlandavano le fronti delle ottime madri di famiglia, a venticinque anni, in tutta la gloria della sua bellezza, senza inghiottire, a simiglianza di quella eroina dell'antichità, le ceneri del perduto consorte, tenne l'anima sua indissolubilmente congiunta a quella di lui, e si serbò vedova vereconda e castissima.

Questa egregia donna, mentre studiavasi di infondere nel petto del figlio il benefico seme di tutte le virtù, vi sviluppò, non volente, il germoglio di qualche vizio: fatalità forse inevitabile, in ispecie quando l'indole dell'animo è rigogliosa di spiriti vitali. Lo fece ammaestrare in tutte le arti che compongono il corredo di un perfetto gentiluomo: lettere, musica, pittura, scherma e cose simiglianti; lo educò da vero signore: ma gli ammonimenti con che studiavasi di fortificargli l'animo, e i modelli che gli poneva innanzi agli occhi, convenivansi piú presto a' tempi cavallereschi che ad un'epoca di servitú civile: non gli diceva mai che gli antichi fiorentini della gloriosa repubblica non erano i barbari signori, discendenti da' ladroni che avevano invaso l'italico paese, ma erano i creatori dell'industria, de' commerci, i cultori delle arti e delle lettere, spiriti austeri e sobri, ma creditori di re ed ospiti splendidi di principi, erano i providi mercanti, in somma, i quali, spenta la patria libertà, furono decorati di titoli vani dai Medici, che volevano avvilirli e farne ridicoli addobbi di corte. E però i popolani grassi — come chiamavansi allora — novellamente titolati, invanirono, e senza poter mai acquistare quel piglio feudale, quella ferocia, comunque oggimai impotente, da medio evo, che predistingue oltremonti i baroni eredi de' barbari, rimaserocarnepesce, né popoloaristocrazia, ma esseri anfibi e singolari.

La contessa Beatrice, volendo nel cuore del figlio sviluppare massimamente il seme della liberalità e della magnificenza, vi fece accanto germogliare la prodigalità che a guisa di pianta parassita poteva diventare funesta e mortifera. La egregia matrona senza sottoporsi al vergognoso giogo della gretteria, studiava tutti i possibili risparmi, resisteva con coraggio e perseveranza, degni di Santo Antonio, a tutte le tentazioni con che l'assaliva di continuo la vanità donnesca, onde accrescere il patrimonio del figlio, vagheggiando sempre il tempo lieto, in cui lo avrebbe veduto nelle sale dello avito palazzo, padre di numerosa e bella figliuolanza a perpetuare gli eredi del suo splendido ed onorato nome. Economa ed industre come le donne del secolo decimoterzo, le quali ai tempi di Dante, che ne muove amaro lamento, avevano principiato a degenerare, vigilava sulle minute faccende della famiglia; nondimeno ogni qualvolta il maestro di casa le poneva sott'occhio la nota delle spese fatte dal figliuolo, se erano lievi, le si abbuiava l'anima di tristezza, se erano ingenti, le si allargava il cuore, e pagandole prontamente e con ilarità tale che consolava a vederla, diceva fra sé: — Oh! Mio figlio si conduce da signore!

Di leggieri si comprende che, non ostante le buone intenzioni di una madre fatta a quel modo, non ostante le belle doti di Roberto, egli di carriera muoveva difilato a gettarsi sulla via de' prodighi, degli spensierati, de' capi-ameni. Finché visse la madre il patrimonio prosperò; ma appena morta, quando egli pur allora usciva di minorità, si sentí come generoso destriero senza freno per i campi vasti ed aperti, abbandonato a tutto il rigoglio della sua vigorosa natura, e si mise a percorrerli per ogni verso con moto incomposto e bizzarroimmaginate un giovane a ventun anni, nobile, ricco, libero e bello, senza pensieri, senza famiglia!

E' fu allora che la prodigalità la quale aveva debolmente germogliato nel suo cuore, crebbe, e in un subito s'ingigantí. La casa di Roberto si trovò popolata di sedicenti amici, compagnacci sfrenati che spogli de' suoi pregi morali, a guisa di demoni tentatori, lo seducevano, lo incitavano alle intemperanze cui si suole abbandonare la giovinezza, e ne lo briacavano; feste, balli, serenate, amori, cacce, gozzoviglie, divertimenti d'ogni specie: Roberto spendeva la vita come fosse moneta vinta al giuoco del lotto.

Ma perché l'arcana provvidenza non lascia sul capo dell'uomo piovere una sciagura da una mano, senza versargli dall'altra il conforto, al prode giovane, mancato l'occhio amoroso e vigile della genitrice, era rimasto un servo fedele, che era nato e cresciuto in casa degli avi suoi, che aveva tenuto sulle braccia il padre di lui e ne aveva pianto la morte immatura, che aveva tenuto sulle braccia anche Roberto, e lo amava e lo adorava come l'unico sacro rampollo della magnifica casata de' Cavalcanti.

Zanobi, che, vivente la contessa, era stato economo, maestro di casa e segretario, morta lei, divenne, come direbbe Figaro, il factotum della famiglia. Trattava le faccende del padrone con sollecitudine e vigilanza tali che non avrebbe poste nelle sue proprie; nondimeno fra tante insigni virtú anch'egli aveva un insigne difetto, contratto e dal non essere mai uscito dal palazzo de' suoi signori, e dall'avere avuto piena e cieca fiducia nella contessa, della quale non sapeva né anche discernere quelli che apertamente sembravano ed erano sbagli; voglio dire anch'ei desiderava che il suo giovine padrone si mostrasse largo e liberale; e però supposto che avesse potuto raffrenare con salutari consigli il talento scialacquatore di Roberto, se non glie lo fomentava, glie lo tollerava e se ne mostrava satisfatto. Cosí il giovinetto rimase in assoluta balia de' suoi seduttori: in due o tre anni il patrimonio si trovò in grandissimo disordine. Zanobi come vide che il male ingigantiva, si provò piú volte d'avvertirne il conte: ma non era piú tempo; Roberto rideva dei timori del servo affettuoso, e battendogli in modo carezzevole la guancia, quasi lo incantasse di ammirazione e di affetto, gl'inchiodava in bocca la parola, e le cose restavano .

Quando a Zanobi non fu piú possibile procurarsi danari che Roberto chiedevagli di continuo con tormentosa insistenza, i perfidi amici che se n'erano accorti, gli additarono l'uscio cui picchiano tutti i figli di famiglia, l'uscio degli strozzini. Vinsero con astute parole la ritrosia e la vergogna, ch'egli mostrava a far debiti, lo schernirono perfino, anzi mostrandogli mille esempi di giovani bennati e signori, gli fecero toccare con mani che a compimento del suo credito, a tante sue doti, mancava quell'una di far circolare un buon numero di cambiali munite della sua rispettabile firma.

Lo messero in relazione con Sandro Imbroglia, il quale da quel profondo conoscitore degli uomini che l'aveva reso la lunga e continua pratica di scorticarli, ponderata e apprezzata l'indole del conte, gli si mostrò ansiosissimo di servirlo, lo rassicurò sulla onestà ed affezione del suo principale, e lo indusse a mettere il patrimonio di casa Cavalcanti fra gli artigli di Beppe Arpia, che non indugiò lungo tempo a farlo in brani e divorarlo tuta conscientia e senza chiasso. Il nome di Roberto Cavalcanti fu messo in capolista del numero interminabile delle vittime scannate sull'ara nefanda dell'Usura. Finché i compagnacci trovarono da rodere in casa di Roberto, lo corteggiarono e furono le trombe celebratrici de' suoi meriti: la biografia che di lui facevano correre per tutta la città era un tessuto di fatti che bastavano a rendere un uomo ben voluto ed invidiato da tutti. Roberto era diventato giovine di moda, uomo-tipo, tema delle conversazioni e de' desideri del sesso gentile; e come sovente avviene in simili casi, molte cose gli attribuivano con poco fondamento di vero, piú molte ne inventavano di pianta. Lo assomigliavano ora a questa, ora a quella delle celebrità antiche e moderne, e spesso in lui ravvisavano caratteri oppostissimi; come, a modo d'esempio, quelle donne che non riescivano a piegarlo alle loro voglie lascive — perocché la egregia natura del giovane era cosí pura e potente che, malgrado il suo perpetuo stropicciarsi con uomini dissoluti ed immersi fra le lordure della società, non seppe mai indursi a considerare l'amore nel suo aspetto sconcio, e quindi non imparò mai l'arte di mercanteggiare gli affetti — coteste rispettabili donne lo stimavano un Giuseppe Ebreo, e lo schernivano, e nel tempo medesimo che ammiravano con occhi cupidi la sua bella e robusta persona, lo commiseravano esclamando: — Che peccato! — Altre poi con una logica tutta naturale consentanea allo stato degli odierni costumi, mirando la stessa bella e robusta persona, concludevano, non per via d'ipotesi come sarebbe stato ragionevole, ma per via di certezza, che a nessuna donna era dato sottrarsi ai capricci di lui, e lo reputavano piú rompicollo di Don Giovanni, ed erano pronte a citare una lista di vittime. E il generoso giovane era puro come un giglio; fino al giorno in cui gli fu dato vedere l'Amalia, il suo cuore era rimasto vergine; se qualche leggiadro viso di donna era stato per accendergli in seno una fiamma d'affetto, quella fiamma che era limpida e lieve come l'etere senza ceneri e senza fumo, appena ne aveva lambita la superficie ed erasi spenta. Egli sapeva quel che il mondo, a questo riguardo, pensava di lui, ma non ci badava; e sebbene un affare di cuore gli paresse un avvenimento solenne — il piú solenne avvenimento nella vita d'un uomoimmerso nello affacendato non far niente del consorzio sociale, come cigno nelle onde d'un lago, lasciava che la gente lo facesse eroe di romanzi sentimentali, o di briose commedie, e serbava in petto un altare dedicato alla virtú, innanzi alla quale l'anima sua tenevasi devotamente prostrata.

Un solo de' tanti fatti de' suoi verdi anni basti a ritrarre con perfetta simiglianza la schietta indole sua.

Una giovane pittrice un giorno si presenta al palazzo del conte: il buon Zanobi vedendola sola e credendola una femmina di vita poco onesta, la squadrava in cagnesco; ed esitando e quasi ricusando di recare l'ambasciata, ella gli porge la sua polizza pregandolo la rechi al padrone perché le conceda pochi minuti di colloquio. Roberto prese la polizza, vi fissò gli occhi sopra, tentennado il capo quasi fosse incerto se dovesse o non dovesse farla passare, poi fe' cenno al servo che la introducesse. — In cosa posso servirla? — disse Roberto appena entrata, la giovine, ch'egli fece cortesemente sedere sopra un divano, mentre ponendo una seggiola di lato, si assise anch'egli.

Signorerispose la giovine con bel garbo e con quel tono di voce, che vellicando dolcemente gli orecchi e quasi toccandoli appena, scende diritto al cuore — sono venuta a chederle un favore; temevo d'essere importuna....

Dica, dica liberamente; e se posso, ci conti pure, mi presterò volentieri.

— Volevo pregarla di apporre il suo venerato nome fra il numero degli associati ad un'opera che pubblico — e in questo mentre, apre un portafoglio, e mostra un prospetto di una raccolta d'incisioni illustrate.

— Ed è lei, che l'ha scritta?

— I disegni gli ho fatti io, e gl'incido all'acqua forte; le illustrazioni, che sono brevissime, me le ha fatte gratuitamente un poeta.

Volentieridisse il conte, ed alzatosi e presa una penna, scrisse celeremente il suo nome sul foglio che l'avvenente artista gli aveva porto. Rendendoglielo poscia soggiunse: — Spero che questo lavoro le accrescerà gloria e fortuna.

— Ah! Signoreesclamò sospirando la giovinetta — il mio nome rimarrà nella oscurità e lo desidero dall'anima; per vanità ed anche per bramosia di vera gloria non avrei avuto il terribile coraggio o la temerità di presentarmi al pubblico: io mi conosco, e nessuno può essere giudice piú rigido di me sul mio poco sapere nell'arte; ma la morte di mio padre ha precipitata la mia famiglia nella sciagura; ho una madre inferma e quattro piccoli fratelli, che domandano pane da me, e da me sola: nella disperazione d'ogni umano argomento Iddio ha reso forte il mio animo, e mi sono indotta a provarmi a trarre qualche utile dall'arte ch'io già coltivava a solo e mero diletto...

Queste ed altrettali cose Roberto ascoltava e per non lasciarsi vincere dalla commozione che sentiva svegliarsi nel petto al racconto di tante sciagure, di quando in quando abbassava gli occhi non sapendo sostenere la ingenua espressione di verità con che la giovinetta e nel volto e negli atti accompagnava le sue meste parole.

— Ma chi le consigliò a venire da me? — disse interrompendola RobertoSa ella chi sono io? Mi conosce ella? Sa la reputazione che ho nel mondo?

— Nessuno mi consigliava; non ho veduto lei se non una sola volta nella Galleria degli Uffizi; un artista mi disse il suo nome; nella mia sventura mi ricorse alla memoria, e credendola amante delle arti, venni coraggiosa con la speranza che al suo bell'animo non avrei ricorso invano.

Grazie delle cose gentili che la mi dice; ma a venir qui non l'è stata guida la prudenza: non si maravigli; io le parlo con quella schiettezza con cui ella ha favellato; ella dunque non sa quale opinione hanno di me le genti? La senta, mi credono un galante, un dissoluto, uno che ha fatta maggiore strage di donne che Erode non fece d'innocenti; io non sono tale, e la coscienza non mi bisbiglia né anche un rimorso. Ma che monta? Il mondo mi reputa tale, e quindi le conseguenze sono le medesime. Or sappia che se la vedranno una seconda volta rientrare in casa mia, la sua fama sarà irreparabilmente perduta: ella è una giovane per bene, è bella — non arrossisca, la prego, mi ascolti pacatamente — ella è una giovane per bene, e me ne rincrescerebbe; e perché ciò non accada, mi permetta che io anticipatamente paghi le venti lire del costo dell'opera; come poi sarà pubblicata me la mandi per altri, la vedrò con piacere, l'ammirerò, ma non venga da sé. — E cosí dicendo prende da un cassetto presso, un fogliolino, lo esamina bene, vi appone la firma, lo ripiega, lo involge e porgendolo alla donna che guardava mezzo sbalordita — La prenda — le dice — è una cambialina, appunto del valore dell'opera; ella può anco stamani andare a riscuotere: mi mandi il volume, ma la scongiuro per l'onor suo, non ripeta la imprudenza di venire da me.

L'artista, copertosi il viso di un vaghissimo rossore, prese con un atto che mal si distingueva se fosse ammirazione, o incertezza o timore, il foglio ripiegato dal conte, e volgendogli una semplicissima espressione di complimento e di gratitudine, lo salutò vezzosamente, ed egli accompagnolla con benigno rispetto fino all'uscio della sala d'entrata.

La fanciulla scese le scale maravigliata del ricevimento fattole dal conte, nel quale non sapeva se piú dovesse lodare l'avvenenza della persona, la cortesia de' modi, la schiettezza del cuore, la generosità dell'animo, e perché le giovinette hanno la testa piena di angioli, di certo lo assomigliò ad un angiolo. Traversato il cortile, e fermatasi sulla soglia dell'uscio di strada, mossa meno dalla curiosità che dal desiderio di sapere il luogo dove riscuotere il fogliolino, lo spiega, ed appena lettolo, due passi indietro quasi si sentisse mancare l'equilibrio se non fosse stata sull'uscio che dava in una via popolatissima di gente, avrebbe mandato fuori un grido di maraviglia. Era una cambiale di cento scudi, pagabile a vista da uno de' piú ricchi banchieri di Firenze! Il suo primo pensiero fu quello di risalire le scale, ed avvertire il suo benefattore di ciò che ella credeva uno sbaglio: ma dopo il primo momento di commozione pensando come il magnifico signore avesse attentamente esaminato il foglio, comprese il pensiero di lui, ne concepí e serbò perenne nel cuore un affetto riverente e sacro, e divulgò il fatto per tutta la città.

Molti dissero che il conte era stato cosí prodigo per vanità romanzesca; moltissimi gli dettero dello stolto per avere gettato via cento scudi senza chiedere un compenso, che la giovinepensavano essi — non gli avrebbe negato; pochissimi intesero l'atto sublime di Roberto, e lo notarono fra gli avvenimenti rari del secolo mercante.

Allorquando Roberto dalla festa di sir Riccardo Glutton tornossene a casa dopo l'incontro con l'Amalia, il suo patrimonio pativa l'ultimo stadio d'etisia; sapevasi da tutti che quel tanto che rimanevagli non serviva a pagare i debiti; i creditori si agitavano, lo importunavano: Beppe Arpia lo minacciava di un sequestro generale. Egli non sapeva misurare la profondità della voragine che stava per inghiottirlo. Zanobi dopo d'avere venduto tutto ciò che possedeva, frutto di lunghe economie e di onestissima industria, aveva mutato contegno; gli parlava col rigore di un padre, giungeva a commuoverlo, ma era troppo tardi; i suo consigli erano i rimedi energici che il medico appresta all'ammalato agonizzante, dopo lunghi giorni di cura timida ed incerta. Nondimeno egli solo sentiva il tormento maggiore, come quei che moriva dalla passione vedendo il suo nobile e diletto signore languire nello stento, e far continuo sacrificio di tutte le sue voglie; ma non v'era altro rimedio, tranne quello di coprire ognora con nuovi ingegni la miseria della casa, usando la gelosa cura e gli artifizi innumerevoli, con che una bellezza appassita impiastra il volto ed appiana le grinze, rimedio che spesso serve a deformare e rendere ridicolo chi l'adopra.

Se l'affetto per l'Amalia, o parlando con vocaboli piú propri, se l'amore che divampò nel cuore di Roberto per quella rara fanciulla, vi fosse nato tre o quattro anni innanzi, lo sventurato giovine si sarebbe potuto salvare; dacché un affetto puro che splenda come stella indicatrice d'una via, come meta alle azioni della vita, ravviva il senno, e riaccende le morenti virtù nell'anima. Ma nella condizione in cui trovavasi il conte, ciò che sarebbe stato un farmaco era un veleno, era un liquore inebriante dato all'infermo per non fargli sentire le torture dell'agonia. Mentre Roberto aveva piú mestieri di vivere della trista realtà della vita, onde provvedervi con calma speculando a trovare quei compensi che nella sfera delle sue idee per lo innanzi non esistevano nemmanco di nome, l'ebrietà che gli aveva invaso il cuore, lo solleva da terra e lo scaraventa negl'interminati campi d'un mondo ideale; valeva lo stesso che curare con pozioni di sciampagna un cervello leggiero e balzano con lo scopo di moderarne l'impeto e renderlo savio.

Roberto, come sempre segue nelle profonde passioni, non poté né anche sospettare la immensità della fiamma che gli avevano accesa nel seno gli occhi divini dell'Amalia. Da quella sera, senza ricercarne non che scernere la ragione, si senti invadere d'una soave malinconia, la quale dapprima senza sopraffarlo, lo teneva in un certo languore ineffabile: l'anima sua era piena di desideri mal definiti, era irrequieta; non sapeva che si volesse, ma quasi prigioniero che giri attorno le pareti che lo richiudono, e per quanto la fantasia lo faccia vagare all'aperto, trovasi sempre nel medesimo ambito, il suo spirito era circondato dal pensiero dell'Amalia, che lo teneva stretto a sé, e non gli concedeva di muoversi che dentro i suoi confini; era il suo male; ma solamente, e non altrove, provava il solo possibile conforto.

Sperimentato salutare il rimedio, lo ricercava, se ne abbeverava in gran copia; finché dopo pochi giorni di quella vita interiore di meditazione e di contemplazione, si accorse pur troppo che il suo cuore ardeva d'amore; e una sera, sorgendo improvviso dopo lunga ora di estasi inebriante, esclamò — Oh! Io non posso piú vivere senza di lei.

Tali parole, stemperate in parafrasi, volevano dire: «Ella è la donna dell'animo mia, ella deve essere la perpetua compagna della mia vita, io non potrò trovare sulla terra diletto che nol sia in lei, e per lei, e con lei: Amalia è mia; e mia deve essere, congiurino contro me cielo e terra, nessuno me la potrà mai togliere».

Ma a questa scappata da Rodomonte innamorato, susseguiva una filastrocca di tristissime considerazioni. La Povertà, coperta d'uno splendido blasone, e quindi piú deforme, gli si presentava in aspetto tale che metteva orrore a vederla, e dicevagli: — Ma l'otterrai dai parenti? Ella è ricca, ed ove nol fosse, tanta luce di beltà non farebbe gola anche ad un principe? E se l'ami veramente, e s'ella è pronta a sacrificarsi a te, avrai cuore di patire che tanto celeste creatura, avvezza alle morbidezze della vita signorile, venga a languire in casa tua di parsimonia e di stento? Avrai cuore di condurre in un inferno lei che merita il paradiso come suo naturale abitacolo? — Mentre la Povertà parlava queste sconsolanti parole, usciva fuori il Dubbio con la faccia storta, diaccia, e scolorata soggiungendo: — Ma tu fai i conti senza l'oste; tu novello cavaliere della Mancha e non meno demente di lui, tu fai castelli in aria. T'ama ella? Nei sei sicuro? Uno sguardo, una stretta di mano ti paiono forse giuramenti solennemente giurati, o contratti fatti in regola e legalizzati? Ti ha ella mai parlato una sola parolina d'amore? E supposto anche che t'avesse fatta una formale confessione, le presteresti piena fede? Non sai tu che nel cuore d'una fanciulla, ciò che ella chiama amore e che ella sente ma non intende, altro non è che vaghezza mal definita, e quindi prontissima a svanire come fu prontissima a nascere? Chi sa in quanti balli ed a quanti giovani ella ha stretta la mano con quel moto inavvertito e naturale ad una giovanetta di diciotto anni! Smetti, insensato, e non ammattire per un'ombra vana che ti ha reso il zimbello della tua stessa fantasia, e ti renderà il ludibrio delle genti.

Roberto pareva assentire e dava in uno scoppio di risa convulse, dicendo: — Sicuro! Non voglio ammattire; son tutte giuccherie; stolto chi crede alla donna senza averla almeno per dieci anni messa alla prova; io mi vol divertire, io voglio godere; al diavolo le donne; crepino gl'innamorati se son corbelli. — E passeggiava su e giù per la stanza, e con atto sdegnoso si conficcava il cappello, e ponendosi la mazza sotto il braccio, si metteva i guanti bianchissimi apparecchiandosi a correre agli amici della sua vita gaia; ma un guanto per troppo stirare gli si lacera, il suo brio sforzato lo abbandona; e come nuvola, che, rada negli orli, cominci a velare leggiermente la faccia della luna, finché il troppo denso del centro la cuopra, e la natura che era illuminata a poco a poco si abbuia: cosí il volto gli diventa serio, poi si fa tristo, la mazza gli casca di sotto il braccio che spenzola senza moto; l'antica arcana malinconia gli ripiomba sull'anima, e il misero ricasca sul seggiolone standosi due, tre, quattro ore in profonda meditazione, prostrato col pensiero dinanzi all'immagine dell'Amalia, come dinanzi alla statua benedetta di un santo protettore.

Tale con poca varietà d'accidenti a un di presso, la vita dell'innamorato giovine seguitò per parecchi giorni, finché il pallore del volto, la spossatezza delle membra, la noncuranza di sé, lo allontanamento e quasi abborrimento delle sue consuete abitudini, messero in pensiero i famigliari; e soprattutti il buon Zanobi, il quale, ascrivendo la tristezza del suo signore al molesto pensiero delle sempre crescenti strettezze domestiche, sentiva squarciarsi il cuore non sapendo in che guisa trovare una via a liberarlo da quello stato angoscioso.

 

Roberto, morta la madre, sentendo il bisogno di tenere in casa una donna di fiducia, aveva chiamato a sé la sua balia, che stavasi in una sua villa posta verso San Salvi a pochissimi passi da Porta alla Croce. Questa buona donna, ch'egli aveva amata ed amava sempre come una seconda madre, mentre ella di ricambio amava lui piú che il frutto delle proprie viscere, aveva una figliuola nata pochi mesi innanzi che nascesse Roberto: entrambi succhiarono il latte del medesimo petto, entrambi crebbero e folleggiarono insieme fanciulli; Roberto amava Adelina come vera sorella.

Adelina era un soavissimo fiore cresciuto nell'angolo romito di un giardino. La sua figura a primo aspetto ti rammentava la danzatrice di Canova; biondina, col viso ovale tirante piú verso il tondo, il naso piccino, gli occhi cerulei, la pelle delicata, la persona snella: sulla sua faccia leggiadra stavano in mirabile accordo la ingenuità e l'accortezza; col vago parlare, col vaghissimo muoversi, con lo sguardo sereno ma vivo t'ispirava simpatia e confidenza. Un poeta errando un giorno per i campi di San Salvi la vide, fermossi e le disse: — Come siete bella! Lasciate che io vi guardi un poco. — Ed ella: — Si vede che lei signoria non è stata mai in questi posti, bellina io sono, e si sa; ma la giri il paese e ne vedrà tante assai piú belline di me. — Quando veniva in Firenze passando per le strade col volto ombrato da un ampio cappello di finissima paglia, dal quale pendeva un velo trasparente di seta verde che le sventolava alle spalle; adorna il collo di una collana di perle, linda negli abiti, con incesso semplice e dignitoso, i lavoranti si rizzavano, e si facevano sugli usci delle botteghe per contemplarla. L'Adelina era il tipo delle vaghe contadine degli ameni contorni di Firenze, le quali portano con tanto garbo e con tanta lindura il vestiario, che su per giú non costa piú d'uno zecchino, che paiono tante contesse.

Ma l'Adelina aveva un certo che di superiore alla sua condizione; pareva un rampollo di razze incrociate: e davvero taluni, che vogliono in ogni cosa trovare il perché, pensavano che un fratello maggiore del padre di Roberto, il quale era rimasto qualche anno in Francia innanzi la Rivoluzione, aveva seco portato in Firenze il droit du seigneur, e ne aveva fatto esperimento con parecchie delle donne de' suoi contadini.

Roberto amava la fanciulla di svisceratissimo amore fraterno, ne era oltremodo geloso e nel seno di lei deponeva il gravissimo pondo d'ogni sua angoscia. Ella dal canto suo studiavasi sempre di carezzare il diletto fratello inventando cento ninnoli e cento trastulli per fargli piacere. E però erasi avvezza a leggergli nel viso i moti dell'animo senza ingannarsi, e fu quindi la prima ad accorgersi che qualcosa di serio gli stava nascosto nel cuore e lo tormentava.

Dapprima non osò interrogarlo apertamente, ma cosí di volo con certi suoi vezzi gli strappava di bocca qualche frase senza costrutto, e scervellavasi per indovinare, di guisa che mentre la passione rodeva il cuore di Roberto, l'ansietà tormentava con infinita molestia quello dell'Adelina. Entrambi avevano perduta la pace!

Ma quando il suo male fu giunto allo stadio di sopra descritto, l'amorosa giovinetta determinò di volerne ad ogni costo sapere tuttaquanta la cagione. Uno di quei giorni in cui Roberto trovavasi sepolto in profonda meditazione col capo chino ed appoggiato sulle mani incrociate, muto, immobile, l'Adelina apre lievemente la porta, fa capolino, entra senza alitare, si avvicina al conte che rimane pur sempre immobile. Chinatasi un poco, con voce soave lo chiama:

Conte!... Signore!

Roberto alza gli occhi che muovevansi lenti ed umidi sotto le ciglia incavate; la guarda con affetto, tentenna lentamente il capo, e senza far motto lo richina nel medesimo atteggiamento di prima.

Roberto! — esclama Adelina con voce commossa ponendogli carezzevolmente la mano sopra una spalla: — Mio caro Roberto! Fratello! Tu hai un gran male; dimmelo, consolami; non mi far morire.

La voce lacrimosa della fanciulla toccò il cuore del misero giovane, e lo scosse dall'estasi in cui era rapito. Poi egli stese un braccio e ricingendole la persona: — ! Un gran male! Io vorrei morire.

— Non dirlo per carità! — e lacrime abbondanti le sgorgavano dagli occhi. — Aprimi il tuo cuore confidati con me: non foss'altro piangeremo insieme.

Roberto alzossi; ripassò celeremente e piú volte la mano sulla fronte quasi volesse cacciare dal cervello il molesto pensiero; passeggiò due o tre volte; si fece alla finestra, pareva gli fosse tornato il vigore delle membra. E l'Adelina, immobile, col capo ripiegato, guardava attonita, non sapendo se dovesse consolarsi, non credendo agli stessi occhi suoi. Egli tacito, le si appressa, si pone il braccio di lei sotto il suo, stringendo con ambe le mani la mano di lei, che ansiosa e palpitante lo mirava in volto aspettando una rivelazione che avrebbe fatto finire la tortura ch'ella pativa: si posero a passeggiare per la vasta sala con moto ora lento ora celere, che pareva che Roberto nella sua mente coordinasse le idee, e pensasse come principiare.

Dopo d'avere due o tre volte percorsa pel lungo la stanza, fermatisi, Roberto cominciò: — Mia Adelina, mia sorella diletta! Io muoio d'amore: credimi, io ne morrò.

— Siete innamorato? E gli è questo il gran che? — esclamò la giovinetta sul cui volto lampeggiò repentino e vi rimase un raggio d'ilarità, come baleno che squarci una nube, o meglio, come raggio di sole che vinca l'umida nebbia e faccia ridente l'aspetto d'una collina.

— Io muoio, io muoio davvero, io sono irreparabilmente perduto, mia buona Adele.

— No davvero.

— Io non so che mi fare; io mi dispero.

— Che! Ma che siete ammattito? O non c'è egli il rimedio?

— Ah! Che non ne scorgo, non ne trovo nessuno.

— O perché? L'è forse morta? — ed a questa parola che l'impeto del discorso le spinse sulle labbra, sul volto della buona Adelina strisciò una leggiera ombra di tristezza, ma tosto il raggio luminoso tornò a rischiararglielo.

— Io la ho veduta una volta sola; ho stretta la sua mano, mi ha stretta la mia; le ho detto poche parole... ma l'amo, l'amo quanto non potrò mai amare cosa al mondo: io morrò disperato, io mi dannerò l'anima.

Domine aiutalo: vergine santa! E vi disperate per cosí poco? Ah! Ah!

Roberto si senti insultato, schernito, e la spinse lungi da sé fissandola con certi occhi torvi che parevano fulminarla. La giovinetta ingenua proruppe in pianto dirotto. Il conte, accortosi d'essersi abbandonato ad uno storto giudizio e di averla crudelmente strapazzata, le si riaccostò, e carezzandole il mento le parlò: — Tu non sai quello che dici.

che lo so.

Sentiamo qual è questo tuo rimedio.

— Non le avete detto che l'amate? Sentite, quando l'uomo dice davvero, la donna la casca, non pensate, o prima o poi la casca, e non se n'esce.

— E se la non mi amasse?

— Ma che ha un core di sasso? Venite — e lo trasse celeremente dinanzi uno specchio; poi con la ingenuità d'un bambino — poiché tanto candore d'anima non poteva essere contaminato dalla vile perfidia dell'adulazioneseguitò: — Guardatevi un giovine bello come voi, bello come un angiolo, nobile come un principe, con cotesta bella persona, con cotesto bel naso, con cotesti begli occhi, con cotesta bella barba... andiamo! L'è vostra.

Il conte alle parole schiette ed amabilmente matte della sorella sorrise, e stava per risponderle, quand'ella ripigliò: — Via, ditemi tutto per filo e per segno, e' son qua io.

Dallo specchio passarono al divano che stava appoggiato alla parete di fronte e si assisero l'uno allato dell'altra. Chi non avesse conosciuto il cuore vergine ed aperto dell'Adelina, l'avrebbe reputato scemo di sentimento e non si sarebbe indotto a profanare la santità di tanto amore facendogliene la confidenza; ma Roberto che considerava le semplici e care virtù dell'Adelina come vene d'oro purissimo nascosto nel seno d'una miniera inesplorata, non esitò punto a versare nel petto di lei i piú riposti pensieri, sperandone non un rimedio, ma un momento di sfogo e di conforto. E quindi principiò a narrarle non solo l'accaduto nella festa del baronetto inglese, ma intera la genesi della propria passione, dal punto in che la prima scintilla gli entrò improvvisa, inosservata, non curata nel cuore, fino a che divenne incendio che lo consumava tutto e minacciava di condurlo disperato al sepolcro.

L'Adelina, nel tempo che Roberto faceva il minuto racconto, ascoltava con l'attenzione di un medico che ode le vicissitudini d'una pericolosa infermità. Come egli ebbe finito dicendole: — Or dunque tu che mi consigli di fare? Il rimedio dov'è?

— E' c'è, v'ho detto. Scrivete e ditele che le volete tanto bene: discorsi brevi; se la vi vuol bene anche lei, la vi manderà una parola di consolazione; poi il resto vien da sé.

— Tu dici bene tu; ma d'onde rifarmi?

— Che ci vuol tanto? Andiamo! Scrivete — e stende la mano e piglia una penna dimenandola sul tavolino in atto di scrivere. — Signorina — o Sora Amalia, o che so io; basta, come meglio vi torna. — Io sono un signore: la sera che vi veddi in casa di quel signore inglese, mi sembraste veramente bellina: io mi sono innamorato di voi, e v'amo piú dell'anima mia; so che siete un ragazza di garbo e una signorina ricca e per bene; i miei fini sono onesti, e vi prometto di darvi l'anello subito dopo che si farà la scritta; e però rispondetemi subito, e scrivetemi che mi portate anche voi l'amore che io vi porto, che è grande, ma grande assai; e vi saluto e vi do un bacio. E pensate che se mi direte di no, io ne morirò di dolore, e voi mi farete dannare l'anima, e Dio non potrà perdonarvi mai. Basta, aspetto subito, subito la risposta di , ché mi sono ammalato e mi consumo.

Va bene cosí? Via dunque scrivete la lettera; animo! Ecco qua la penna.

Il conte non rise al bizzarro dettato dell'Adelina: perocché, ponderate bene le cose, ed esaminata la faccenda per ogni lato, quella gli pareva la via unica, sicura ed onesta; ma mentre pensava intorno al modo di condursi e rimaneva muto, l'Adelina credendo ch'egli esitasse, soggiunse: — Se la fosse una ragazza del mio grado — una contadina, via — vi direi io di scriverle questo stornellino tanto bello:

 

Giovanottina, non ti par peccato

Rubare un core e non lo render mai?

Qual è quel prete che t'ha confessato?

Di penitenza non t'ha dato assai.

Rendimi lo mio cor, che tu n'hai dua;

La roba d'altri consuma la sua:

Rendimi lo mio cor, che due tu n'hai:

Se no 'l tuo core consumar vedrai.

 

E andate sicuro, se la non ha un sasso in petto invece di un core, vedrete in tre giorni come la vi diventa, e lo so io.

— E che sai tu cosa sia amore! Hai tu dunque fatto all'amore?

— L'ho fatto e lo fo, e quando Dio vorrà, spero di esser felice.

Il conte fece il viso un poco arcigno, quasi avesse subitamente scoperta una magagna in un diamante purissimo: ma gli pareva impossibile, e togliendo quelle parole per uno sfogo infantile, le disse: — Si? Raccontami un po' come gli è stato; sentiamo questo tuo amore.

— Perché no? Io non ho vergogna: gli è tanto buono, sapete, quel giovanotto, ed ha promesso a me ed alla mia mamma di sposarmi, e mi manterrà la parola, non dubitate.

Bene; raccontami, via.

— Vi dirò ogni cosa: tanto voi avevate a essere il primo a saperlo, e io vorrei anzi morire che fare ciò che non sarebbe di vostro piacere; e ne cercava l'occasione, e ho caro che la sia cascata da sé. Adunque, saranno quattr'anni — no, non vo' dir bugia, tre anni e mezzo — un giovanotto, che faceva il pittore, veniva a San Salvi; gli andava a dipingere la cena di Nostro Signore sul muro, che dicono che è tanto bella; lui non la faceva sul muro, ma sur un pezzo di tela. Tutte le mattine prestino passava di sotto alle nostre finestre canterellando con una voce che pareva d'un rosignuolo. Quando egli cantava passando, io mi sentiva tirare per forza alla finestra senza saper come; egli cominciò le prime volte a mirarmi sott'occhio; poi mi mandava certe guardature che sembrava volesse dirmi qualcosa. Pareva un giovine buono e modesto, aveva un paio di baffini biondi e certi capelli biondi e lunghi ch'erano tante ciocche d'oro filato: aveste veduto come gli stava bene quella cappa di velluto nero, e quella camicia sempre di bucato, rovesciata di qua e di , con un collo bianchissimo che bisogna vedere! Finalmente ci salutammo, lui me, io lui; in coscienza, fu lui il primo a mandarmi il saluto, non io. Poi veniva ogni tanto con qualche scusa in casa nostra, puta per un bicchier d'acqua, per un cencio, e sempre c'era, il casetto. Ma allora io non sospettavo di nulla. Poi invitò me e la mia mamma a vedere il suo lavoro; gli era tal e quale come quello del muropiú piccino già s'intende — ma come due gocce d'acqua. Io vi ritornai qualche volta e mi piaceva tanto di vederlo lavorare e dicevo fra me: se fossi un uomo, farei l'arte del pittore anch'io. Lui mi diceva: «La venga piú spesso; quando c'è lei lavoro con piú animo». Io per fargli riuscire meglio la pittura ci ritornavo ogni tanto. Stavamo per delle ore soli soli che non alitava né anche un mosca, e il poverino non ardiva mettermi un dito di sopra: come era diverso da que' contadinacci, che appena vedono una ragazza andar fuori sola, principiano a darle noia, e perfino a brancicarla tutta! Un giorno fra gli altri io e la mia mamma ci andammo insieme; ma sapete che gli era seguito eh? E' non lavorava piú alla cena di Nostro Signore del muro, ma dipingeva un pezzo di tela che poteva esser largo un braccio e mezzo. Ora indovinate cosa aveva fatto? C'era una madonnina seduta accanto a una fonte, piú in san Giuseppe che da un ramo coglieva le ciliege e le dava a Gesú Bambino, il quale alzava le sue manine per chiapparle. Indovini a chi somigliava la madonna: era tutta me, proprio me; la mamma mandò fuori uno strillo come avesse avuto paura; io non dissi nulla ma pensavo tra me: dunque s'egli mi ha fatta come una madonna, vuol dire che son bellina davvero; e ne provai gran consolazione; ma rimasi zitta e lasciai discorrere la mamma. La mia mamma se n'ebbe quasi per male; ma il pittore con certe paroline che era un piacere a sentirle, le assicurò che il suo maestro faceva anch'egli cosí, e che in fondo non v'era nessun male, anzi gli era un onore. E per dirla com'è, anche la mia mamma ci aveva piú piacere di me, come mi confessò poi, ma per allora non me ne disse nulla. Da quel giorno in poi — che volete che io vi dica? — io pensava sempre a lui, ma il giorno non era nulla; gli era la notte. La sera, dopo dette le mie divozioni, me ne andavo a letto. Appena spento il lume, eccoti lui; mi ficcavo il capo sotto le lenzuola e lui ; chiudevo gli occhi, e lui ; m'addormentavo, e lui ; cioè mi pareva, ma lui proprio non c'era, sarà stato il poverino con la sua pace in casa sua a Firenze. La mattina appena aprivo gli occhi e la prima cosa ch'io vedevo era lui. Lo dissi al confessore, il quale mi rispose che l'era tentazione del demonio, e che mi segnassi con l'acqua benedetta, e sarebbe andata via. Lo feci la stessa sera, e nulla: il giovanottino mi stava sempre avanti gli occhi, ma non mi faceva paura, sapete, gli era tanto buono! Una mattina passava al solito: io mi trovavo a caso innanzi all'uscio e lo salutai, cioè gli resi il saluto. — Che fa — mi disse egli avvicinandosisora Adelina — per dire come egli disse — sta ella bene? — Bene, e lei?  Io male, ma dimolto. — O cosa gli è seguito? — Nulla; ma oggi finisco il lavoro e non ci verrò piú, forse non la vedrò piú; io le volevo tanto bene. — Io abbassai gli occhi e gli risposi che anch'io glie ne volevo, e dimolto, ma che le mie scale non potevano arrivare alle sue finestre; ed egli mi rispose che l'amore fa sbassare le finestre, cioè che pareggia le persone. Allora mi confessò, che da piú mesi aveva proprio perduta la testa, e che gli era innamorato di me e si consumava ché aveva sempre avuta paura di dirmelo. Io non mi potei piú tenere e gli dissi: — Anch'io il simile. — Allora mi prese la mano, se l'appressò alla bocca e cominciò a baciarmela tremando, di que' baci, conte mio, di que' baci che scottano. Io tremava tutta come una foglia; ed egli per farmi animo, mi disse: — Non avere paura, io voglio sposarti; dov'è la tua madre? Io gnene dico subito. — E senza aspettare risposta salí su per le scale piú ratto del vento, e discorse con la mamma; salii su anch'io, e ci giurammo d'amarci per tutta la vita e d'essere presto sposi. Due giorni dopo e' venne tra lieto e malinconico; io non avevo animo d'interrogarlo. Egli si lasciò cascare sopra una seggiola e seguitava a star zitto. Io mi sentivo un gran male, il core mi batteva come se volesse scoppiare, non mi potei tener ferma. — Che hai, caro? — gli chiesi — Cosa t'è egli seguito? Dimmelo per l'amore che ti porto. — Non è nulla di male — mi rispose — ma temo non t'abbia a recare dolore; io non ho coraggio di dirtelo. — Io diventai pallida come un panno lavato; il poverino allora corse verso di me, mi prese tutte due le mani e se le pose fra le sue stringendomele con tanto amore; poi soggiunse: — Mia buona Adelina! Il governo mi ha data la pensione per quattr'anni... — Gesú! Cos'è cotesta pensione? — dissi io tremando da capo a piedi. E lui: — È una provvisione di trenta scudi il mese. — Ed io: — O dov'è egli il male? — E lui: — Il male non istà qui; il male è che dobbiamo dividerci... — Dividerci! O povera a me! — e non mi potei tenere di piangere. Egli carezzandomi, mi disse: — Ma calmati, sentimi un poco, prima di disperarti, e vedrai che la cosa è per il nostro bene. Il governo mi manda a Roma per quattro anni insieme con altri due giovani, acciocché io vada a imparar meglio l'arte mia, e poi torni in Firenze con piú riputazione; ed avrò di molto lavoro: tutto per il nostro bene. Chi sa quanti ringrazierebbero il cielo di tanta fortuna! — Mentre io mi asciugava gli occhi, la mamma non istava piú ne' suoi panni dall'allegrezza, e corse ad abbracciare il mio caro sposo; i' lo abbracciai anch'io. Allora il poverino riprese animo e cominciò a ragionare, e mi fece toccar con mani che tutto era per il nostro meglio. Io mi detti pace, ma gli dissi: — Mi vorrai tu sempre bene, penserai tu sempre a me? — Sempre, sempre finché avrò fiato, io sarò tuo per tutta la vita. — Dopo pochi giorni partí; e non passa settimana che non mi scriva, ma di quelle letterine cosí care, cosí consolanti che bisogna sentire. Gli è vero che io patisco a star lontana da lui; ma ha a venire quel giorno, e, Dio volendo, sarò contenta e felice.

La giovinetta tacque; il calore con cui raccontava la storia de' suoi innocenti amori, le aveva cosparse le gote d'un vago rossore, gli occhi suoi lampeggiavano; l'anima innamorata le era dipinta sul viso.

Roberto, stringendola al seno, e baciandola in fronte, esclamò: — Contenta e felice! , lo sarai, ed io son qui tutto per te, e per accrescere la tua felicità io ti darò la dote: amalo poiché ti ama; e compiangi il tuo misero fratello.

— Non dir cosí, mio amato Roberto! Anche tu sarai lieto e felice: fai a mio modo, scrivi la lettera.

— E dopo scritta, in che modo glie la porrò nelle mani? Come potrà giungerle senza che altri la scuopra? L'amore, mia diletta Adelina, si nutre in segreto; l'occhio altrui lo profana e lo spenge.

La giovinetta coll'indice fitto sulla fronte come chi speculi a cercare un partito, a trovare il bandolo d'una matassa arruffata, guardava fisso al pavimento. Poco dopo, scuotendosi ed alzando il capo, esclama: — Sicuro: gli è questo; , — e batteva le palme in modo festevole — proprio cosí; non può esser meglio.

— Tu vaneggi! Che pensi? Che vuoi tu dire?

Dicevate ora ch'è poco, che volevate sapere il come porre la lettera nelle mani della vostra Amalia? Non è vero? Eccolo qua, io l'ho trovato il mezzo. Sentite: compro un bel cappello di paglia, figuro d'essere una contadina che lavora di treccia, e vado io stessa al palazzo con la scusa di farglielo vedere; e poi per darle la lettera lasciate fare a me.

Il pensiero dell'Adelina parve a Roberto un raggio che squarci improvviso la fitta tenebra e faccia veder chiaro dove prima tutto era buio. Pensò che in quella guisa la lettera sarebbe giunta sicura e segreta nelle mani dell'Amalia; pensò parimente che l'Amalia, supponendo che rispondesse a tanto amore, si sarebbe affezionata all'Adelina; l'Adelina gli parve un conduttore per il quale l'affetto poteva comunicare puro e limpido fra' due cuori. A Roberto mancarono le parole per significare il proprio contento; si strinse la fanciulla nuovamente al seno con tale espressione che pareva le dicesse: «Tu sei il mio angelo tutelare, tu mi hai tratto dalla procella di tanti affanni, tu mi condurrai in porto».

Roberto divenne lieto; Adelina pareva impazzata di gioia; e nel separarsi a notte inoltrata, il conte le disse: — Bene! Farò come tu vuoi, scriverò la lettera; provvedi il cappello, domattina andrai.

Roberto, ridottosi nel suo scrittoio, si pose a pensare. Con la palma sostenendosi la fronte e tenendo la penna stretta fra le dita, pronto a principiare, rimase lunga ora immobile come cosa inanimata. Dopo avere mandato fuori dal gonfio petto un sospiro, si pone a scrivere. Scritte poche righe, e lettele, lacera il foglio; ritenta la prova piú volte, e piú volte torna a lacerare lo scritto. — Una lettera che debba contenere la confessione di un vero amore è impresa piú difficile d'una solenne comunicazione diplomatica. Il diplomatico, freddo come un marmo, giuoca la salute dello stato, e se lo stato va a rotoli, la pubblica sciagura lo tocca tanto quanto, ma ei non perciò si dispera: l'innamorato giuoca la sua felicità, la vita del proprio cuore, e spesso il destino della sua esistenza. — Roberto non sapeva d'onde rifarsi. Dalla fronte il sudore gli gocciolava copioso; dimenavasi sul seggiolone senza trovar posa: poi, giunte le mani, e sollevato il capo, guardava su in atteggiamento di un santo che preghi ispirazione dall'alto.

Quand'ecco, ripresa la penna, scrive tutta d'un fiato la seguente lettera:

 

«Nobile Signora. Se avete l'anima bella come bella avete la faccia, se il cuor vostro è tenero come i vostri occhi, se il cuor mio non m'inganna, udite la confessione di un uomo, che vivendo nella incertezza, patisce inenarrabili torture. Dalla sera che io ebbi la fortuna di vedervi e di parlarvi alla festa di Sir Riccardo Glutton, io ho perduta la pace dell'anima: è un mese ch'io tento ogni umano argomento per riacquistarla e invece l'affanno mi cresce, io languisco come il derelitto che non trovi via di salvazione: veggo, pur troppo, e sento che la forza onnipotente del fato mi spinge. Io vi amo! E pronunzio senza rimorso, senza rossore, ma tremando, questa sacra parola; vogliate ascoltarla e commiserarmi. Aspetto che esca dalle vostre labbra la sentenza, la quale o mi farà provare in terra la gioia de' celesti, o mi precipiterà irreparabilmente nello abisso. Parlatemi schietta; ed ove avessi la sciagura di spiacervi, ove nel vostro cuore ardesse un affetto per altro uomo piú avventurato di me, io morrò di dolore, ma darò l'estremo anelito benedicendo al vostro nome».

 

Roberto dormí un sonno tranquillo. La dimane l'Adelina corse a destarlo, ma egli aveva già smesse le abitudini signorili ed erasi fatto mattiniero. Rilesse piú volte la lettera, ed appostavi la sua firma, la segnò del sigillo de' Cavalcanti, e porgendola alla fanciullaBada! — le disse — tu hai nelle tue mani la mia vita o la mia morte; se l'Amalia non m'ama, piangimi per estinto.

— State tranquillo, e cacciate via queste sperpetue. Guardate: io né anche ci penso: secondo me, la cosa è bell'e fatta. O addio, sapete: non uscite di casa finché io non torni.

Torna presto, pensa ch'io sto in agonia.

L'Adelina, postosi addosso il suo piú bel vestito, messasi in tutta gala, si avvia verso il palazzo Pomposi.

Franca, ardita, tranquilla come una volpe politica, ad un vecchio servitore, che fattosele incontro le domandava che volesse, rispose dover parlare con la signorina. Colui reca il messaggio e torna dicendole: la padroncina non avere bisogno di cappelli; ma l'Adele, senza smarrirsi, insiste rifaccia l'ambasciata ed aggiunga che la ragazza è mandata da una persona di relazione della signora, ed ha una lettera da darle.

L'Adelina fu fatta passare. Mentre traversava le stanze, Ignazio Gesualdi appena la vide, sporgendo la testa da un uscio socchiuso come fa la belva carnivora fuori la tana, per ispiare, com'era suo costume, chi entrava, uscí fuori, fermandosi senza far parola; ma con gli occhiacci divorava la fanciulla, improvvisando nella sua testa infernale nefandi disegni a' danni della innocenza..

La bellezza, raggio purissimo del cielo, è la migliore credenziale che possa raccomandare una persona, anche ad un cuore sordo alle armoniche ispirazioni dell'arte: e però lo apparire della vezzosa contadina fece soavissima impressione nel cuore dell'Amalia, la quale ricevendola con modi cortesi, le chiese: — Buona ragazza, che bramate da me?

Signora, ho lavorato un cappello fine, e sono venuta qua per farglielo vedere, e se la lo volesse prendere, la mi farebbe veramente piacere.

— Ma io non ne avrei bisognodisse l'Amalia, prendendo in mano il cappello ed osservandolo intentamente; — è bello davvero! Ma non saprei cosa farmene: o come vi è egli nato il pensiero di venire da me? Chi vi manda?

— Eccolo — e le porse la lettera.

L'Amalia dette un'occhiata alla soprascritta, ma non seppe indovinare nulla; que' caratteri le erano affatto ignoti. Dissigillato il foglio ed appena spiegatolo, fa un atto di leggiera sorpresa; poi la sorpresa le cresce, le tremano le mani, le trema tutta la persona, la sua faccia si cuopre d'improvviso pallore; dal suo petto agitato esce affannoso l'anelito; ma prosegue a leggere fino in fondo: Roberto Cavalcanti! — Ed abbassando le braccia e seguitando a tenere spiegata la lettera con ambe le mani, e senza fissare gli occhi sull'Adelina — che tremava anch'essa, non sapendo indovinare l'impressione che la lettura del foglio aveva fatta nel cuore della signora — la interroga:

Dite, chi vi manda?... Chi siete?... Che volete da me?...

— Ma la lettera non le dice nulla? Eppure le avrebbe a dire ogni cosa.

— E voi chi siete?

— Io sono la sorella di latte del conte, e con la mia mamma, che gli vuol tanto bene, sto in casa di lui. Signorina cara, la mi creda, il poverino muore dalla passione; la gli dica di : la salva un'anima, e Dio glie ne renderà merito. Se la vedesse, signorina mia, come gli è diventato il poverino! Non si riconosce piú, e la sa che è il piú bel giovane di Firenze; ne conviene anche lei? Se non l'aiuta lei, il conte mi muore.

Mentre che l'Adelina cosí parlava, l'Amalia aveva riacquistata la calma e poté apprezzare il mezzo squisitamente delicato adoperato da Roberto a farle giungere la lettera, la quale non poteva essere recata da migliore ambasciatrice. Anche a lei, come a Roberto, la giovinetta parve uno stupendo veicolo per il quale le due anime potevano senza arrossire e senza periglio comunicare. L'Adelina non le sembrò un occhio straniero che potesse profanare le arcane dolcezze dell'amor loro, ma un custode affettuoso, un ministro indispensabile a condurre prosperamente un affare di cuore. In simiglianti affari la donna ha un senso innato e potente che non la spinge mai, finché l'affetto si mantenga puro, a rovinosi provvedimenti. Amalia approvò non solo l'espediente di Roberto, ma ne godé d'immensa gioia; ed all'Adelina, che pendeva dal suo labbro aspettando una risposta consolatrice, disse:

— Dunque voi non fate e non vendete cappelli?

— Ma che non l'ha inteso? Gli è stata una scusa per poterle parlare; queste cose si sanno.

L'Amalia sorrise: — E fu il conte che vi disse di fare a cotesto modo?

— Sono stata io la furba, sa ella. Il conte era disperato, non sapeva che si fare, smaniava, e sarebbe morto se io non mi ci metteva d'intorno per iscoprire la cagione di tanto dolore; dalli, dalli, finalmente mi confidò ogni cosa. Fui io che gli feci scrivere la lettera, fui io che inventai la scusa del cappello, fui io che gli feci animo e gli dissi che lei signoria è una signora tanto buona, e che gli vuol tanto bene: la mi faccia la carità, la gli scriva una parolina, non costa poi nulla, la lo consoli...

Mentre l'Adelina con tanta semplicità, e con tanto calore arringava la causa di Roberto, e aveva in cuore dell'Amalia svegliato affetto e fiducia, si sente un trapestìo per le stanze vicine. L'Amalia ponendosi un dito sulle labbra: — Andate — le disselasciate il cappello, e domattina tornate alla medesima ora, e vi farò trovare la risposta: vien gente, non vi fate scorgere, e partite come nulla fosse stato.

— Per amore del Cielo, la mi creda, se torno a casa senza un suo fogliolino, il conte si butterà dalla finestra; la scriva qui un solo rigo. — E preso un piccolo foglio e una penna, la porgeva all'Amalia, insistendo: — La scriva, la scriva.

Amalia ratta come un lampo principiava

« V'amo... ».

Ma crescendo il rumore, interrompe la lettera e scrive questi due versi di Dante:

«Sto come torre, ferma, che non crolla,

Giammai sua cima per soffiar di venti».

E ripiegato subito il foglio, lo diede all'Adelina, la quale tosto se lo nascose in seno, nello istante medesimo, che entrava una vecchia fante, mandata dalla marchesa per sapere chi vi fosse in camera della figliuola e cosa seguisse. L'Adelina se ne accorse, e con istudiata indifferenza le chiese: — Dunque devo venire domattina?

— Ve l'ho già detto.

Baciatale la mano, partí.

Ed era tanta la gioia dell'anima sua che traversando le stanze non si accorse che Ignazio Gesualdi stava ad aspettarla salutandola con modi audaci e lascivi ed avventandole certe occhiate micidiali, che ove la sua commossa fantasia non fosse stata in presenza del conte, l'avrebbero agghiacciata d'orrore come la vista di un serpente. La buona fanciulla provava il contento d'una sorella che rechi seco il farmaco che deve sanare la piaga tormentosa del suo diletto.

Non è mestieri dire con che passi celeri divorasse la via. Appena comparsa dinanzi a Roberto, per la gran furia con che era volata su per le scale, si abbandonò sulla prima seggiola, e il respiro che le usciva affannoso, non le lasciava profferire intere le parole. Roberto l'ebbe appena mirata in viso, e quasi vi leggesse su scritta la sua buona fortuna, si sentí inondare il cuore di ineffabile letizia: — Beneesclamò egli — cosa hai concluso?... L'hai tu veduta?... Le hai parlato?... Cosa ti disse?... Lesse la lettera? Si sdegnò? Mi ama? Ti diede una risposta?...

Uh! Che furia!... lasciatemi respirare un momento, e vi dirò tutto.

Dopo un istante, calmatasi alquanto, riprese

— Tutto va benone: l'Amalia vi vuol bene: state tranquillo: che bella ragazza eh? Di quelle bellezze non ne ho mai viste in vita mia. O bravo il sor conte! L'avete trovata la vostra sposina: e poi come è buona! Come è cara! Ora intendo che avevate ragione di disperarvi; ora intendo che se la non vi amava, vi sareste ammazzato...

— Ma in somma raccontami... dov'è la risposta?

— Eccola qua — e si trasse di seno il foglio e lo porse a Roberto.

Roberto appena vide le sole due righe, mentre aspettavasi una filastrocca lunga quanto gliela poteva far desiderare l'anima sua arsa di sete, senza leggerle mutò di colore nel viso; poi le lesse ma non vi sapeva veder chiaro. E sedutosi di faccia alla fanciulla, le fece minutamente e piú volte ripetere quel che era seguito. L'Adelina compiacevasi a ridire le cose già dette, a dirle secondo che le aveva concepite nella sua calda e vergine immaginazione.

Allora il conte dalla sola parola «V'amo» poté immaginare completamente la risposta, che Amalia, ove ne avesse avuto l'agio, avrebbegli scritta; rilesse ad alta voce i versi del grande poeta, e li considerò come autorevoli parole d'un libro sacro, chiamate in testimonio a rendere solenne un giuramento; baciò e ribaciò, e poi baciò di nuovo il fogliolino.

E l'Adelina, godendo di vederlo inebbriato di contento, esclamava: — Dio benedetto! Ora mi diventa matto davvero!

 

Il dopo, all'ora fissata, la fanciulla corre a casa Pomposi, ed è ricevuta dall'Amalia come se fra loro ci fosse stata lunga dimestichezza. Non meno che al conte ella aveva tutta notte pensato all'Adelina, ed all'utile che poteva derivare da tanta messaggiera, di cui la leggiadria della persona e la schiettezza del cuore, le richiamò alla immaginazione i bei genii, per mezzo de' quali i numi antichi comunicavano co' mortali. Nelle cento e varie domande che le andava facendo, porgeva alla facoltà pittrice della vezzosa contadina i subietti di tante pitture. Adelina ora le descriveva la beltà di Roberto, la sua bontà, la sua generosità; ora le parlava della buon'anima della defunta contessa Beatrice, ora la conduceva mentalmente entro il palazzo de' Cavalcanti, e le faceva osservare la magnificenza degli appartamenti: ma non faceva la lugubre pittura del patrimonio ridotto come le rovine di Pompei, perché ella non intendeva siffatte cose, o anche avendone una idea confusa, vedendo sempre ritte le splendide mura delle case de' suoi signori, non valeva a misurare l'abisso dove il conte era caduto, senza speranzapossibilità di rialzarsi.

Amalia, mentre l'Adele partiva contenta e satisfatta della sua seconda visita, le disse di venire a vederla spesso e recarle le nuove di Roberto. Aveva in casa disposto destramente le cose onde la familiarità della giovinetta contadina non desse sospetto nessuno alla marchesa; primo perché essendo ordinariamente il mestiero di messaggiera amorosa esercitato da femmine, come sul dirsi, andate ai cani, cariche d'anni e consumate nella malizia, il vigile occhio della madre non iscopriva nella Adelina il personaggio di un incaricato d'affari di qualche giovane presso il cuore della figliuola: poscia perché Ignazio Gesualdi avendo concepito disegni d'invasione sopra l'innocenza della fanciulla, approvava che la venisse spesso al palazzo, e dacché ciò che piaceva a lui, andava a genio della marchesa Eleonora, l'Adelina era ogni giorno a casa Pomposi, quasi fosse diventata dama di compagnia della marchesina.

Chi potrebbe ridire gli arcani e soavi colloqui di queste due vergini intemerate, che amavano Roberto di amore immenso, sebbene diverso? Tutti i loro discorsi principiavano da lui e finivano in lui: quanti castelli in aria, quante scene incantevoli immaginate di pianta e colorite con le tinte che Amore apprestava alle loro infiammate fantasie! La vita loro era una continua beatitudine, la romita stanza era diventata un santuario dove l'Amalia in compagnia dell'affettuosa amica stavasi a bearsi mirando Roberto come fosse presente. L'amore aveva data ai sembianti dell'Amalia una nuova espressione rivelatrice della novella forma della sua esistenza; ne' momenti d'esaltazione, nelle sue estasi non pareva piú donna soggetta alle miserie dell'umanità, pareva bensí la creazione di un artista, che ispirato dal genio, colga la bellezza della natura, la ricrei nella sua fantasia e riproducendola, gareggi con la stessa natura e la vinca abbellendola.

Roberto intanto non aveva potuto ottenere un colloquio con l'Amalia: le porte di casa Pomposi, aperte a tutti i bindoli d'ogni forma e d'ogni colore, purché ci andassero coperti del tristo manto della ipocrisia, erano rigorosamente interdette a' giovani della taglia di Roberto, massime per la fama che godeva di scapato e di seduttore; onde le caste madri, riserbandosi il diritto di chiapparlo nelle proprie reti, lo tenevano lontano dalle figliuole come una colomba si tien lungi dalla vista d'un rapace sparviero. Divorato dalla sete di vedere da presso e favellare con la donna del suo cuore, di raccontarle la beatitudine che provava nel sapersi e sentirsi riamato, di manifestarle la venerazione e l'adorazione che sentiva per lei, era irrequietissimo. Questo desiderio non satisfatto lo rendeva infelice; ma la fortuna apparecchiavagli il modo di appagarlo anche in ciò, senza porlo al pericolo di rompere il mistico segreto del suo affetto, ch'egli alimentava ed accresceva, pensando pur sempre all'ora in cui, congiunto con nodo sacro ed eterno all'Amalia, avrebbe potuto al cospetto del mondo esclamare: «Ella è mia!» e sentirne l'orgoglio che prova un guerriero quando, trionfante sul campo nemico, sente gridare «La battaglia è vintaMisero! Gettava spensieratamente legna sul fuoco e ne attizzava le fiamme, amava come un eroe da romanzo, non considerando che il matrimonio è storia vera e spesso lacrimosa, la quale abborre dall'ebbrezza della fantasia e richiede mente fredda e severa: non pensava che la povertà dell'Amalia congiunta con la sua propria, avrebbe mutato l'allegro dramma in luttuosa tragedia, e che, supponendo che l'amor loro fosse cotanto avventurato da trionfare di tutti gli ostacoli, il ghiaccio mortale dell'indigenza avrebbe consunto tanto tesoro di purissimo affetto.

Ma per allora l'anima dell'innamorato giovane non era turbata da queste procelle, e se qualche nugolo nero glie l'abbuiava, quel buio durava breve ora, e la faccia vaga e radiante della speranza tornava a consolarlo di nuove illusioni: per allora egli altro non bramava che spengere l'ardentissima sete di contemplare l'Amalia e favellarle; e come si è detto, la fortuna non fu sorda ai suoi voti, ed ecco in che guisa.

Dopo pochi giorni che l'Adelina era diventata famigliare in casa Pomposi, l'illustre marchesa recavasi a villeggiare a Bellosguardo. A dispetto delle domestiche strettezze, doveva ad ogni costo andare in villa; il costume signorile voleva cosí, l'economia vi mise anch'essa di mezzo una parola, e difatti la marchesa partí recando seco il vecchiume di casa sua della vecchia mobilia, una vecchia carrozza, due vecchi servitori, il Gesualdi vecchio, lei vecchia passabilmente; fra tante anticaglie non v'era di nuovo che la sola Amalia, la quale come moneta uscita pur allora dalla zecca, faceva un troppo aperto e mirabile contrasto fra tanti cosi irrugginiti e rosi dal tempo.

Bellosguardo! Sai tu, o lettore che non sei nato o non sei mai venuto in Firenze, cosa significhi Bellosguardo, quel vago e ridente colle, dove l'immenso Galileo dalla cima di una torre, spiando per lunghi anni le interminate regioni del firmamento, slargava l'ambito della scienza, e mutandone le leggi vi operava la rivoluzione che nella industria a' nostri la invenzione del vapore ha prodotta? Oggimai il viandante visita que' luoghi compreso di riverenza, e mentre s'imparadisa nello spettacolo della bella natura, manda una parola di esecrazione a coloro che infamarono e forse posero alla tortura il gigante dei filosofi!

Il poggio di Bellosguardo è uno di que' punti, da cui l'occhio, volgendosi in cerchio, si pasce d'una vista cosí amena e inaspettata da non potersene lungo tempo saziare; il primo desio che nasce nel cuore di chi si reca a Bellosguardo è quello di voler essere pittore paesista per ritrarre tanta bellezza di natura e d'arte. Qui dunque ti aspetteresti una ricca descrizione, una descrizione di lusso;

ed a primo aspetto non v'è che dire; l'arte vuole cosí; e perché io sono di maniche larghe in quanto a certe regole tradizionali e inalterabili di rettorica, m'era apparecchiato a satisfare questa tua giusta aspettazione. Aveva preparate due tavolozze; una con tinte classiche, l'altra con tinte romantiche. Tentennai lungo tempo a risolvere quale delle due adoperare; mi venne anche in mente di tenere una via di mezzo, ed offrirti una descrizione mista. Ma considerando come ti avrei dovuto regalare il sole che sorge dietro le spalle del gran padre Appennino e indora le cime dei monti, e la cima del campanile di Giotto, e la cima della cupola di Brunellesco, e quella delle torri di Palazzo Vecchio, del Bargello, di Santa Croce, e di tutte le cose, insomma, che hanno cima; e gli uccelletti che danno il ben venuto al nuovo giorno; e le villanelle che cantano anch'esse rispetti e stornelli; e l'aura che mormora tra le foglie degli alberi; e la rugiada che sparge di perle d'argento i prati fioriti; e il vecchio Arno che serpeggia per le valli e se ne va con tutto il suo comodo a gettarsi in seno della Teti tirrena, o se ci fosse piena, come quella del quarantaquattro, irrompe, quasi popolo in tumulto, ed allaga la campagna vicina — e ciò sarebbe poco male — ma le cantine, le botteghe e i piani terreni delle case: in fine ti avrei dovuto annoiare con questa ed altra simile roba, a uso di tutti i poeti principiando da Omero, sovrano di Parnaso, fino al piú ciuco degli arcadi, o al piú animale dei romantici; senza fare qualcosa di nuovo, o almeno senza cucinare ed acconciare con una salsettina nuova simili vecchi ingredienti, c'era da far fiasco: ne vai d'accordo anche tu? D'altronde a che sciupare due o tre pagine del libro empiendole di cose fritte e rifritte? La novità era indispensabile, e non ti si poteva dar torto ove tu l'avessi richiesta senza remissione. Pensa e ripensa, non mi riesciva di venire a capo di nulla, allorquando mi si offerse, non cercata, una occasione stupenda, e volli chiapparla, essendo certo che tu mi avresti applaudito battendomi le mani. Ecco come andò la faccenda.

Un giorno, errando su per i dintorni di Firenze, mi colse la notte presso una villa appartenente ad un canonico. Uomo raro e dabbene! Sempre lieto, sempre ridente, semplice, alla mano, commiserevole delle sventure del prossimo; al suo buon cuore il povero non ricorse mai invano; se non si fosse trovato nulla addosso, avrebbe dato, come san Martino, mezzo il suo mantello per cuoprire il misero che intirizziva di freddo: ormai è andato diritto in paradiso, ed io non posso rammentarlo senza che il cuore mi mandi una lacrima sugli occhi. Accostatomi dunque all'uscio, e chiestagli ospitalità per quella notte, mi prese per mano senza tante iperboli, con una cortesia da signore de' tempi cavallereschi, e mi condusse dentro la villa, la quale sebbene avesse aspetto rustico, ci si vedeva nondimeno che vi stava di casa l'abbondanza col suo cornucopia appeso in sull'uscio, come la frasca all'uscio de' vinai. Dopo una cena lauta ma paesana, mi menò dentro una cameretta augurandomi il buon riposo. Io ho un'usanza, la quale ha poste in me cosí profonde barbe da non poterla abbandonare, cioè che, messomi a letto, non mi riesce di addormentarmi, senza prima avere scorso un paio di pagine di un libro qualunque; menoché quando Morfeo mi sta cento miglia lontano, allora mi fa mestieri ricorrere a qualche opera di un qualche Accademico, scritta in purgatissima favella; ed appena arrivo a mezza pagina, il prefato Morfeo, come ferro tratto da calamita, piomba sopra la mia persona e quasi vi stendesse sopra un coltrone soporifero, non solo mi chiude gli occhi, ma mi cuce le palpebre: e però ho sempre pensato, che caso mai — il che non pare possibile — si perdesse l'oppio, le pagine elaborate de' sullodati libri, di cui sono piene le nostre biblioteche, potrebbero servire di succedaneo — per la verità di quanto asserisco, mi rimetto agli accurati esperimenti de' medici e degli speziali — chi sa! Da tanta roba che adesso non serve a nulla, potrebbe cavarsi un'utilità maggiore di quella che ne danno le vendite a' pizzicagnoli e a' tabaccai. — Seguitando dunque il discorso, quella sera frugai per la stanza, onde trovare un libro, ma non v'era né anche il Libro de' sogni8. Allora avendo conosciuta la buona indole del mio ospite, mi feci ardito di andare a dirgli il mio bisogno. Egli, abbottonatosi le brache e infilatosi un soprabito cosí largo che vi entravano due o tre a pigione, cortesissimamente mi condusse ad una stanza terrena, e girando la lucerna attorno le pareti, mostravami un esercito di fiaschi e di bottiglie dicendomi: — Ecco la mia biblioteca: la scelga quale le fa piacere, e vada franco che qualunque di questi individui, appena entratogli in corpo, la farà dormire per un mese: di libri non ho né anche il Sesto Cajo Baccelli9. La dimane albeggiava appena, quando salimmo ambedue sopra un barroccino tirato da un cavallino di maremma che andava ratto come un demonio; e giunti sotto Bellosguardo, levammo gli occhi ad un poggio che guarda la città e vedemmo un magnifico ciuco, che cantava con tanta ispirazione — gli era di maggio, già s'intende — e con tanto garbo, che sebbene io e lui de' ciuchi ne avessimo visto tanti, non potemmo fare a meno di ammirarlo e gridareSalve, o bestia felice! L'esistenza dell'asino nel mese di maggio è la felicità incarnata in forma d'animale; un suo raglio è un inno di gioia, è una massima d'Epicuro: vedendo la beatitudine che esso gode, fa meraviglia il pensare come Giove che si degnò di assumere le forme di vari animali, non s'incarnasse in un ciuco; probabilmente la sua condizione — voglio dire del ciuco — ai tempi degli dei d'Omero, non era quale è oggigiorno; che anzi pensando come il grande poeta paragoni l'eroismo di Ulisse all'eroismo dell'asino, volendo forse alludere alla virtù della pazienza, o della longanimità, o della caparbietà, parrebbe che la vita del ciuco a quel tempi fosse amara e tribolata come quella del diplomatico dacché Ulisse era il capo del corpo diplomatico al campo greco. Ma, oggimai anch'esso il ciuco ha sperimentati gli effetti del progresso; e lavorando dalla mattina alla sera, e per giunta martoriato a furia di continue mazzate, pare che imiti Anassarco, allorché a Nicocreonte tiranno che lo faceva pestare vivo in un mortaio, diceva: — Pesta la scorza di Anassarco, ma non arriverai a pestarne l'anima; — o imiti Ercole che mentre bruciava vivo tra le fiamme, esclamava fiero ed indomito: — Grandi torture io soffro e non mi dolgo —; il ciuco si ride del suo spietato tormentatore ed esprime la sua gioia cantando.

— Chi sa quanto paghereidiss'io — per sapere cosa dice quell'innocente animale che pare, che, rivolto a Firenze, le faccia una predica! — Di certo dice qualcosa — rispose il buon canonico — e se vuole, farò io l'interprete, perocché ho qualche pratica a ridurre il linguaggio inarticolato degli asini a quattro piedi in quello articolato degli asini a due piedi. — E me lo tradusse fedelmente, e mi dette occasione di tessere un canto, i concetti del quale sono de' piú sublimi e morali che uscissero mai dal cervello piú voluminoso e piú vano del mondo.

Mentre io mi scervellava a fare la descrizione di Bellosguardo per inserirla in questo luogo del mio libro, mi vennero a mente e il canonico, e il ciuco e il suo canto, e mi parve potersene cavare un quadretto affatto nuovo, comunque bizzarro, e mi posi all'opera, e ne rimasi satisfatto, ed auguravami il plauso de' miei lettori. Lo aveva già dato allo stampatore: ma un consiglio del torcoliere m'indusse a sopprimerlo, perocché le cose che diceva la mia cara bestia erano tanto vere e palpitanti d'attualità (frase da giornali francesi); ma tanto arditemassime dove paragona sé all'uomo — che non potevano mancare d'insospettire chi ha interesse di sigillare le labbra anche alle bestie; e a dirti il vero, non voglio che la coscienza mi rimorda d'essere stato il primo a denunziare i ciuchi e porli sotto la sorveglianza della polizia. Abbi quindi un po' pazienza, o lettore garbato, per adesso, e in altra Commedia, che succederà a questa, e i personaggi della quale saranno tutti uomini dotti, inserirò il canto misterioso che ivi starà a pennello: quod differtur, non aufertur. Ad altra volta adunque, e per ora bastiti immaginare che dalla villa della marchesa a Bellosguardo si godeva uno de' piú belli spettacoli fra' tanti che ne presenta l'italico giardino, il quale tornerà piú ameno e ridente allorquando il benefico sole della libertà avrà diffusa l'immensa sua luce su tutta la penisola suscitandovi quello spirito di vita, che spento non è, ma aspetta l'aura seconda per crescere in tal fiamma che renda attonite le genti del vecchio mondo e del nuovo.

Dopo questa tirata, della quale, se occorre, ti chiedo scusa, ripigliando il filo della nostra storia, dico che l'Amalia partendo per Bellosguardo, volle condurre seco, come potrebbe di leggieri supporsi, la sua fida Adelina. Roberto nell'assenza della donna del suo cuore vaneggiava in mille guise. Lunga ora del giorno stavasi sulla loggia del suo palazzo, che nel Lungarno elevava la sua bruna mole, coeva di Brunellesco, stavasi cogli occhi fissi al bel colle sul quale era posta la villa Pomposi; se vedeva passare una rondine e dirigersi al di d'Arno, la seguiva con lo sguardo finché perdevasi nello azzurro dell'aria, dicendole di recare i suoi saluti, i suoi sospiri all'Amalia; e forse ripeteva una contadinesca canzone che aveva tante volte sentito cantare all'Adelina10.

Non potendo piú oltre resistere all'affanno di non vedere l'Amalia, amore gl'ispirò un pensiero che gli gustare le piú soavi e pure delizie che uomo innamorato provasse mai al mondo. Come s'è già detto, egli nella sua prima giovinezza aveva atteso con perseveranza allo studio del disegno; ma sebbene arrivasse a colorire mirabilmente all'acquerello, genere di lavoro che richiede fantasia e gusto, piú che dottrina, l'aveva poscia abbandonato allorquando la compagnia degli amici lo distrasse da ogni ragione di egregi studi. Scervellandosi a trovare qualche mezzo onde avvicinare l'Amalia senza scandalo non che senza svegliare nella famiglia di lei il piú lieve sospetto, gli venne in mente di fingersi artista e far delle gite a Bellosguardo con lo scopo apparente di ritrarre i moltiplici e vari aspetti di paese che offre per ogni lato quel poggio.

Uscito fuori Porta Romana, e deposto il costume del figurino di cui era scrupolosissimo osservatore e additato come modello ai giovani galanti, vestivasi cosí un poco alla carlona, secondo l'usanza degli artisti o di coloro che vogliono parere tali, e con un portafoglio sotto il braccio girava ogni attorno la villa Pomposi, disegnandone le piú belle vedute.

Dopo pochi giorni di esercizio, la sua mano disavvezza riacquistò la perduta facilità, e quella bravura di fare, che forma la grazia degli schizzi pittorici.

Non mi fermerò a raccontare quali artifici usasse per vedere la sua diletta, la quale essendone stata avvertita dall'Adelina, ammirava sempre piú la prudenza del conte, e trovava l'agio e l'opportunità di offrirsi agli sguardi del suo amatore. Qualche volta girando per il giardino gli riescí di farsele presso e parlarle; ma non ostante che da lontano si proponesse di farle lunghissime allocuzioni, e vi si apparecchiava con lo studio di un oratore di professione, e intendesse di parlare chiaro e coraggiosamente, nondimeno, appena trovavasi al cospetto dell'Amalia, il cuore cominciava a battergli con veemenza, l'anelito ad uscirgli a balzi dal petto, e provava quel sentimento di soave trepidazione che è cosí bene e spesso dipinto dai poeti italiani del trecento, spiriti gentili che amavano davvero e con cortesia cavalleresca.

L'anima dell'Amalia era di certo nella medesima condizione; ed ove un osservatore del cuore umano fosse stato testimone di quelle scene, di que' colloqui a voci rotte e brevi, a periodi scomposti, di quel continuo alternare di pallore e di vermiglio, di quello scambievole tremito, avrebbe potuto cavarne utili ammonimenti e si sarebbe potuto convincere che l'affetto vero non è svanito co' tempi del forte e generoso sentire, ma di quando in quando si incontra anche nel secolo nostro, che per soprannome potrebbe chiamarsi secolo dell'abbaco.

Malgrado la perenne timidità de' due amanti, un giorno seguí tra loro tale una scena, che i loro cuori si trasfusero l'uno nell'altro; dacché quando amore invade l'anima e sveglia un tumulto nel sangue, l'uomo diventa mero strumento d'una forza onnipotente che lo spinge, e non c'è timore, non prudenza, non ostacoli che vagliano a frenarne gl'impeti, se non è lo stesso amore che muove, e segna i confini, oltre i quali, nella stessa ebbrezza illuminando la mente, addita una rovina.

Roberto in ciascuno de' suoi disegni poneva de' gruppi di figure, che i paesisti un tempo chiamavano macchiette, e in essi quasi sempre ritraeva sé, l'Amalia, e l'Adele. L'Amalia suonava con arte squisita e con inimitabile sentimento l'arpa, ed accompagnandosi da sé, cantava a sfogo del cuore qualche tenera canzone. Quando stavasi intenta a trattare lo strumento era bella oltre ogni credere, ma a Roberto, come potrebbe supporsi, pareva un ente sceso dal cielo che si renda in terra visibile sotto forme umane: ogni qualvolta egli la vedeva e l'udiva in que' soavi momenti, rimaneva come tocco d'incantesimo, e non appena l'anima estatica gli concedeva di pensare, talvolta invocò la morte a troncargli la vita in seno a quelle celesti delizie.

Un giorno, animato mirabilmente dallo spirito dell'arte, volle provarsi a rappresentare l'Amalia in uno de que' tali momenti; la fece di memoria, perocché la sua fantasia non aveva bisogno della presenza di lei che riempiva tutto il suo cuore: e riuscí in modo da maravigliare dotti e non dotti; Roberto non artista produsse ciò che non s'impara dall'arte ma si ottiene dal cuore che muove la mano. Ed ecco come dispose la composizione in cotesto lavoro, in cui le figure erano soggetto principale, il paese non era se non accessorio, cioè serviva di fondo: l'Amalia assisa sopra un sasso coperto d'un velluto di muschio, ed ombreggiato da un albero di mirto e da uno d'alloro che bizzarramente intrecciavano i rami, e come se avessero senso, mischiavansi e quasi carezzavansi; le sue dita scorrevano sulle corde dell'arpa; la testa lievemente inchinata sulla spalla mancina, che insieme col bel collo staccava per chiaro dalla massa bruna de' capelli che abbondanti e inanellati le cascavano dietro; gli occhi rivolti al cielo, gli occhi grandi e neri e parlanti: la espressione del suo viso pareva quella della Santa Cecilia del Domenichino; coperta d'una veste candida e trasparente, raccolta ai fianchi da un largo nastro ceruleo; dalla bocca socchiusa pareva sciogliesse un tenero concento d'amore. Piú in giú con ambe le mani appoggiate sul medesimo sasso stava l'Adelina come un serafino che adori un santo; dal lato opposto ma piú di fronte, Roberto, seduto sul margine d'una fontana, con una mano sostenevasi la faccia, che intenta ed estatica pendeva dalle labbra della donna bella, mentre appoggiava l'altra sul capo d'un cane che mansueto e intento anch'esso sembrava gustare della squisita armonia — l'artista lo aveva introdotto nella composizione, non per far massa, ma come simbolo della fedeltà — in fondo vedevasi accennata a tocchi rapidi e vaghi la città di Firenze con l'ameno paese de' colli fiesolani che le servono di scena.

L'innamorato giovane vi aveva versata tutta l'anima sua: questo disegno valeva ciò che suole chiamarsi un capolavoro. Dopo parecchi giorni di assidue cure, vi andava dando il finito dell'arte, voglio dire que' tocchi animatori, che sono nelle opere d'arte, come il soffio vivificante con che l'Eterno animò e mosse la creta celeste che si chiamò uomo. Attendeva appunto a questo ultimo lavoro, mentre l'Amalia, appoggiata al braccio dell'Adelina, vagava lentamente attorno il giardino. Roberto stava seduto a piè d'un sasso, considerando ogni pennellata che dava sul dipinto; la sua mano gli andava d'ispirazione, ed egli, come avvenne a Prometeo, vagheggiava da innamorato con indicibile compiacenza l'opera propria. L'Adelina lo scoprí da lontano, e senza avvertirne la compagna, la trascinò verso quel luogo. Giunte a pochi passi, temendo la sorpresa non l'avesse a turbare oltremodo: — Sento Roberto — le disse sottovoce premendole affettuosamente il braccio — mi par che sia che disegni. — L'Amalia si commosse, ma non indugiò a ricomporsi: erano sole, non v'era occhio di spia domestica o straniera che le osservasse. L'Adelina all'Amalia, che s'era ferma, quasi fosse incerta tra il tornare indietro, o l'avvicinarsi a Roberto, bisbigliò — Non v'è nessuno, sarebbe bella accostarsi al conte pian piano senza alitare, e di dietro al sasso, senza esser viste, osservare quel ch'egli fa. — L'Amalia non rispose ma si lasciò condurre. Arrivate al luogo, l'Adele si trasse di lato; e l'Amalia piegata alquanto la persona, con un ginocchio puntellato sul terreno ed ambe le mani sul sasso, pendeva sopra le spalle di Roberto: il cuore le batteva, le membra le tremavano; ma quando nella pittura riconobbe se stessa, e l'Adelina e Roberto, e i luoghi diletti, quando in quell'opera vide espressa la storia del suo amore, il tumulto dell'anima sua non ebbe piú freno; il suo respiro, come auretta tepida e leggiera, ventilò il capo del giovane, il quale rivolse il viso indietro nel punto stesso che quello dell'Amalia per impulso arcano e potente si era abbassato: le loro labbra furono presso che, quasi attirate da virtú magnetica, si toccarono, e si dettero un bacio cosí forte, cosí caldo, ma casto, ma santo: le anime loro, che erano già moralmente unite, si congiunsero sensibilmente in quel mistico bacio...

— Oh! oh! oh! Questo poi gli è troppo...

Zitta! La non mi secchi, mia nobilissima lettrice, la non mi rompa il filo; mi lasci finire, e poi la farà le sue osservazioni: oh critici, oh sofisti del secolo decimonono!

Dove troverò le tinte a dipingere quale divenne Roberto a quello evento inaspettato? O Correggio, qual subietto per il tuo magico pennello! Pareva sbalordito, trasognato, trasfigurato: non osava profferire parola; la gioia, l'impeto di tanti affetti inebbrianti gli aveva mozzo il respiro. L'Amalia non conscia a se stessa dell'audacia dell'attoaudacia per la ipocrita corruzione degli odierni costumiera lieta, era contenta, era satisfatta; sembrava un'anima, che, spoglia del velo corporeo, gusti la letizia degli angioli. Cuore innocente e caro!

Roberto rizzatosi, barcollava come avesse il capogiro; la piena della letizia era cotanto immensa che si sentiva sopraffatto. Cadde in ginocchio, l'Amalia si piegò anch'essa sulle proprie ginocchia; si passarono le braccia intorno al collo con pari atteggiamento, mentre stendevano l'altre e stringendosele in atto di giurarsi fede, con uguale desio, come due abitatori della sede de' beati prostrati innanzi al trono di Dio, tenevano gli occhi levati al cielo verso una nuvola che squarciata nel seno lasciava scappare un limpidissimo raggio di sole che pareva scindere in mezzo un ampio arco baleno. Tutta la natura sembrava godere della loro felicità; il cielo visibilmente la benediceva: e l'Adelina a pochi passi con occhi lacrimosi contemplava i due amanti, quasi temesse che subitamente mettessero le ali, e volassero in paradiso, lasciando sulla terra lei derelitta che li amava tanto!

Riavutisi dal contento, le lingue de' due innamorati si sciolsero; giuraronsi colle labbra di amarsi eternamente — i loro cuori se l'erano già detto innanzi e piú volte — le loro vite si fusero in una vita sola, le due anime metà erano tornate alla perfettibilità primigenia di un essere solo.

Giunta l'ora di partirsi, le donzelle si avviarono verso la villa; Roberto, come ebbro che meni macchinalmente le gambe, scendeva il poggio per ridursi a Firenze.

Qual divenisse Roberto da quell'ora non v'è lingua che vaglia a ridirlo: l'Amalia era sua, tutta sua, chi avrebbe osato contrastargliela? Egli avrebbe sfidato l'universo congiuratogli contro. Sventurato! Non sapeva quali atroci e infernali serpenti cingevano l'innocente vergine, e cospiravano ad avvelenarne la vita! Non sapeva che tanto sublime creatura tra poco sarebbe stata posta in vendita da cedersi al migliore offerente ed a pronti contanti! Inebriati pure, o Roberto, bèati nella memoria di quel giorno; quel giorno è l'ultimo della tua letizia; tu hai pregustato il supremo d'ogni umano contento; adesso folleggia come un fanciullo: qual profano oserebbe schernirti? Ma apparecchiati ad esser forte, o generoso; il calice che ti si appresta è cotanto amaro che non v'è creatura umana che possa eroicamente libarlo!

 

Sentiamo adesso lei, mia nobilissima lettrice cosa avrebbe ella a ridire della scena or ora descritta e copiata dal vero?

— Non è naturale, non istà bene ad una giovane il dare un bacio ad un amante novellino...

— Non si sfiati tanto, che so dove la vorrebbe andare a parare. So anche che nel primo incontro dell'Amalia con Roberto alla festa del baronetto inglese, quel porgersi le destre, quell'interrogazione della giovine intorno alla cicatrice sul viso del conte, le parve cosa improbabilissima; me ne sono accorto a certa smorfia, o come ella dice, a certa grimace, ch'ella fece, e che tradotta, voleva dire che lo scrittore in ciò mostra poca conoscenza delle convenienze sociali. Ora la sappia, mia amabile sofistessa, che, oltreché l'Amalia voleva chiarirsi di un certo sospetto, cioè se Roberto era quel giovine generoso che per vendicare l'onore offeso d'una signora, con la quale non aveva che lievissima relazione, aveva sfidato a duello un bindolo francese e ne aveva riportata una ferita in fronte, e della sua azione magnanima si menò altissimo rumore per tutta Firenze, e il giovane il dopo ricevé una ventina di viglietti contenenti tante dichiarazioni amorose — e forse anche lei, senza aver consultato lo specchio, o il libro della sua parrocchia, o il registro dello stato civile, avrà avuta la cecità di mandargli la sua — oltre che io non amo i pettegolezzi, né anche quelli che seguono ne' saloni di sua maestà, e non mi garba di annoiare i miei lettori cinguettando tutte quelle minuzie che potrebbero di leggieri supporsi, come per l'appunto erano le domande e le risposte fattesi scambievolmente da' due giovani, prima che l'Amalia s'inducesse a fare quella domanda, che per la signoria vostra fu né piú né meno d'una saetta cascata improvvisa a cielo sereno — oltre tutte queste cose, le quali, da per sé, costituiscono una buona, ampia, e solida ragione, da farsi valere innanzi al tribunale d'ultimo appello della critica; o che crede ella, che l'Amalia e Roberto fossero personaggi come lei e come sua eccellenza il suo nobile consorte? In questo caso, sarei io stato tanto grullo da richiamare gli sguardi del pubblico alla storia della loro passione? La non mi fulmini co' suoi begli occhi torvi, la non s'ingrugnisca; ella sarà una perla, sarà buona per brillare in una festa di corte, sarà maestra consumata per ordire un intrigo, dieci intrighi galanti alla volta; ma la creda a me, l'amor vero, l'amor puro, l'amore schietto la non sa dove sta di casa. La scusi se son franco; ne incolpi se stessa che fra tanti altri pruriti ha avuto quello di stuzzicare il cane che dorme. Queste che a lei paiono violazioni delle convenienze sociali, per l'Amalia e per Roberto erano impulsi di cuore non corrotto. Lo capisco anch'io che nel fango mondano in cui viviamo, sono arcate di violino fuori di chiave; ma tra tanta sozzura di esistenza — la frase non è di mia invenzione, ma di cento scrittori, e segnatamente di Chateaubriand che l'applicava alla Francia dell'anno di grazia millottocentoquarantasette, immagini cosa direbbe della Francia d'adesso! — tra tanta sozzura di esistenza, non è ufficio dello scrittore sollevare gli spiriti de' suoi lettori alle bellezze del mondo ideale? Impresa difficile, lo so, e so parimente che la meccanica, scienza regina del secolo, è affaccendata ad inventare gli argani necessari a ciò fare; eppure, il provarcisi è argomento di buona intenzione che è sempre commendevole. Sono castelli in aria? Saranno; ma tant'è se procacciano un solo momento di conforto, se per pochi minuti fanno battere il cuore di vita pura come l'etere, non si perde nulla; anzi ci si guadagna un tanto. Si è ella persuasa? Oh! Facciamo la pace; mi lasci asciugare il sudore della fronte; via, mi sorrida un poco, e mi venga dietro che spero di farla divertire.

VI

 

 

Chiusa la stagione del villeggiare, la marchesa Eleonora con tutta la famiglia fece ritorno a Firenze.

Pochi giorni innanzi che s'iniziassero le trattative del matrimonio surriferito, Amalia e Roberto avevano perduto il modo di vedersi e favellarsi, e perfino quello di comunicare per mezzo della leggiadra contadina. A lei, cui tante volte era riescito sottrarsi alle insidie schifose d'Ignazio Gesualdi mentre dimorava in villa, tornata in città, fu teso tale un agguato da quella sozza ed inferocita belva, che ella fu quasi per buttarsi giú da una finestra onde campare dagli osceni artigli del sanfedista. Questi per evitare uno scandalo, lasciò partire la fanciulla, la quale ebbe tanto spavento di quella turpissima scena che con suo immenso dolore fu costretta ad interrompere le quotidiane visite al palazzo Pomposi, né ebbe tempomodo di avvertirne l'Amalia, che mentre seguiva la nefanda scena, trovavasi insieme con la madre fuori di casa.

E' fu in questo intervallo di interrotte comunicazioni che vennero intavolate le trattative matrimoniali di sopra raccontate: l'Amalia quindi non poté farne consapevole Roberto, perché non aveva agio di favellare all'Adele, da lei supposta inferma, né sapeva indursi a scrivergli, credendo ognora che il divisato matrimonio, rimanendo lei, come era determinata di fare, fermissima sul no, sarebbe svanito a guisa di un sogno.

Le poche parole della madre, allorché primamente glie ne dette avviso, non le parvero tali da metterla in pensiero; e sebbene in sulle prime le turbassero l'anima, credeva potersene distrigare come di un pruno, che passeggiando per avventura nel giardino, le avesse implicata la veste. L'infelice non sapeva i tremendi apparecchi con che la madre e l'esecrabile compagno de' suoi anni maturi, intendevano di trascinarla al macello.

Come Ignazio Gesualdi, non senza adoprare tutta la sua astuzia, si fu concertato con Beppe Arpia intorno agl'interessi, venne l'ora in cui Babbiolino doveva essere presentato alla sposa. Il Gesualdi aveva per pochi scudi, in un giro di posta, ottenuto a Babbiolino l'ordine detto cavalleresco dello Spron d'Oro; a lui era costato cinquanta lire, ma aggiungendo un solo zero alla cifra, se ne fece pagare cinquecento dallo strozzino, al quale pareva un sogno sentir chiamare l'amato figliuolo: signor cavaliere. Il Gesualdi lo mise anche in via di ottenere la decorazione della Legion d'Onore, per mezzo della moglie di un attaché alla legazione francese, a patto di saldare, a negozio finito, la nota di una modista, la quale — la nota, non già la modistaimportava sette o ottomila franchi.

Babbiolino adunque, ficcato dentro una giubba nuova di finissimo panno, con lo Spron d'Oro all'occhiello; adorno di un panciotto nuovo bianchissimo che risaltava sopra un paio di pantaloni neri e nuovi, luccicante di una catena nuova d'oro che scendendogli dal collo finiva in una tasca gonfia di un enorme oriuolo d'oro, con una camicia nuova di finissima batista, piene le dita di ambe le mani di grossi anelli d'oro; dai suoi solini ritti ed alti fino alle orecchie e stretti da un cravattone alto due sesti di braccio, usciva a guisa di tartaruga la sua innocente testina: il povero piccino si sentiva come stecchito, impalato, dacché volendosi voltare a dritta o a sinistra, gli era mestieri girare tutta la propria massa corporea come modello sullo zoccolo d'uno scultore. Cosí acconciato ed accompagnato dal babbo, messo in tutta gala anche'egli, venne imballato dentro una carrozza chiusa, e trascinato a casa Pomposi.

L'Amalia insieme con la marchesa stava in salotto: non sapeva nulla della presentazione del suo futuro sposo; ma un certo insolito apparato le dava sospetto; onde era agitata da una sorda inquietudine d'animo, che le dava al volto una espressione d'uggia e di tristezza, il che spiaceva alla marchesa, la quale di tanto in tanto, quasi a rianimarla dicevale: — O tu che hai stasera? Stai allegra, sollevati un poco, figliuola mia; animo, animo! Ché s'aspetta gente che ti farà piacere.

Amalia taceva.

Come fu entrato lo strozzino ed ebbe presa la mano della marchesa baciandogliela, la malarrivata giovinetta si senti gelare il sangue; ma non si era per anche accorta di Babbiolino, il quale stavasi cucito accanto al babbo senza dir parola, guardando intorno co' suoi grand'occhi di cristallo. La marchesa lo prese per la mano e se l'assise allato. Rivolta poscia alla figlia, le disse: — Amalia, ecco il tuo sposo.

La giovinetta fissò lo sguardo in quella figura, la quale le parve tale che se l'impresario Ricci ne avesse una simile e la potesse solo mostrare alla Piazza Vecchia11 per una stagione di Carnovale, spopolerebbe tutti i teatri di Firenze, e sveglierebbe in tutti i cittadini un riso universale e interminabile da farli ammattire come quei d'Abdera. Rimase attonita, sbalordita, senza fiato; poi come si riebbe un poco dal primo colpo, parendole di sognare, diceva fra sé: «Ma che dicono davvero? Pare impossibile

Un uomo avvezzo al misterioso muto linguaggio de' volti e degli atti che parlano le persone delle colte conversazioni, avrebbe in un subito letto nel cuore dell'Amalia, e conosciuta la impossibilità del negozio. Ma lo strozzino tra per la sua inveterata rozzezza, tra perché a forza di guardare la stupidaggine del figlio, ch'ei reputava semplicità e innocenza, erasi fatte certe sue seste speciali con che misurava la gioventú, prese lo sbalordimento dell'Amalia per quella timidità convenevole a tutte le ragazze, per quella confusione che esse provano in simili circostanze.

La visita fu breve, Babbiolino come metallo di tempra finissima che vaglia a sostenere immutabile tutte le temperature dell'atmosfera, uscí tale quale entrò. Dopo che la marchesa, chiamandolo: caro con un certo molle strascico di voce da gran signora, gli disse che ormai poteva venire, sempre che gli facesse piacere, a visitare la sua cara sposa, l'Amalia, tuttavia non ben riavutasi dal suo sbalordimento, pareva avere perdute le facoltà mentali, quasi fosse colpita da paralisi interna.

Partito Beppe col figlio, rimase la marchesa con l'Amalia, mentre Ignazio Gesualdi, secondo il concertato, si tirò in disparte nella stanza contigua, pronto ad uscire in iscena al momento opportuno per recitare la parte sua, ove nascesse il bisogno.

La marchesa era rimasta oltremodo scontenta del contegno della figlia; ma volendo sperimentare tutti i mezzi dolci innanzi di porre in uso gli amari, e come essa pensava, piú efficaci, si trasse l'Amalia accanto ed abbracciandola e baciandola sulle labbra, cominciò

— Ma perché stai cosí malinconica? Che hai? Via, fai cuore: quando lo avrai veduto un'altra volta, avrai piú coraggio...

Madre!

Parla, nina, che vuoi dirmi?

Madre! — e non le riesciva di proseguire il discorso.

— Ma, santo Dio! L'hai guardato appena; scommetto che i suoi dolci sembianti non ti sono rimasti in mente; fidati a me...

Madre mia! — ripigliò con voce languida e soave l'Amalia — ma tu dici davvero ch'io debba sposare quel...? — e cercava un vocabolo per esprimere la sua idea; poiché era nuova la idea che le aveva lasciato in mente la immagine di quell'animalino, non parendole possibile come avesse membra umane informate da anima d'uomo.

— O queste cose che si dicono per celia? — rispose la marchesa un po' piú animata, e contenta che la figliuola avesse sciolta la lingua a ragionare.

— Ed io debbo essere congiunta per tutta la vita a quel... — e di nuovo cercava la parola per nominare e qualificare quel pezzo di ciccia semovente — a lui? Conversare con lui? Ed amar lui? E per tutta la vita? Madre mia, madre diletta! L'hai tu guardato bene, l'hai tu considerato attentamente?

che l'ho ben guardato: o che ha egli di strano? Non è un buon giovinotto?

— E tu, fanciulla come me, l'avresti sposato?

Senti! Se l'avrei sposato! Con tanti milioni? L'avessi avuta questa fortuna! Non avrei patito quello che so io.

L'Amalia intese l'acerba allusione alla memoria del padre, e ne sentí amarissimo rammarico, che stette per spingerle sulle labbra dure parole; ma cacciò via il molesto pensiero, e placidamente, ma col tono di chi è fermo nel proprio proposito, disse:

Via, madre non ne parliamo piú.

— Come! Che vorresti tu dire? — esclamò la marchesa un po' stizzita, e guardando con fiero cipiglio.

— Io non voglio marito.

— Non vuoi marito? E cosí rispondi alla madre che si affanna tanto per farti del bene? Tu vaneggi... tu hai perduto il cervello.

— No, che non vaneggio; io dico davvero, io non voglio marito.

— O perché?

— Perché il mio cuore non potrà mai amar lui... perché quel giovine non è l'uomo per me... sarà un angiolo, come tu dici, ma...

Chetati, ch'io non te le senta mai dire un'altra volta queste cose. O che hai la testa ai grilli? Ma sai tu quanto è ricco? Sai tu che significa avere de' milioni al suo comando? E saranno tutti tuoi...

— Ma non posso amarlo...

— E tu sarai la padrona in casa.

— Ma non posso amarlo.

— E tu ti caverai tutte le voglie; e sarai invidiata da tutte le signore.

— Ma non posso, non posso amarlo, credimi...

— E che sciocchezze son queste? Che sai tu di queste faccende? Che c'entra l'amore col matrimonio?

La marchesa per troppo impeto era trascorsa, contro le regole della strategia femminile, a porre in opera tutti gli argomenti di riserva, assai prima di avere esauriti gli ordinari che s'era proposta di usare per indurre la figlia ad un . Perché questo immorale colloquio, che tra le madri e le figliuole in simiglianti faccende segue piú spesso di quel che si potrebbe immaginare, s'intenda; perché si spieghi soprattutto il contegno dell'Amalia, è mestieri sapere che questa rara giovinetta, ricca di tanti squisitissimi pregi di mente e di cuore, dignitosa, ferma, magnanima, amava la madre di fervidissimo amore, di amore tale che le chiudeva occhi ed orecchi per non farle scernere le imperfezioni di quella ch'erano numerosissime; onde vederla satisfatta avrebbe sofferto qualunque acerbo dolore. La marchesa erasi avvista di siffatta disposizione, la quale, invece di scemare cogli anni o raffrenarsi, andò sempre crescendo: e però agli occhi di lei la buona giovinetta era cosa senza volontà. E siccome finallora per essere ciecamente ubbidita era bastato il dire soltanto «io lo voglio», nella presente occasione, suppose ragionevolmente che serviva l'aver detto: «prendi il marito che ti do», perché l'Amalia senza profferire una sola parola si dovesse lasciar condurre, nuova Ifigenia in Aulide, all'ara coniugale per farvisi scannare lieta e ridente benedicendo la mano che le immergeva nel seno il ferro omicida.

E la marchesa Eleonora non ragionava male; ma per formare un esatto giudizio è d'uopo avere in mano tutti gli elementi bisognevoli a comporlo; e la marchesa in ciò che riguardava il cuore dell'Amalia, non gli aveva: avvegnaché fino a quel né anche avesse sospettato che nel seno della figlia ardeva secreto un amore per un giovine degno di lei, né le paresse nel numero delle cose possibili il supporre che essa innanzi alla faccia di Dio aveva giurata eterna fede a Roberto, e che era femmina da mantenergli la parola. La qual cosa non già che avrebbe scoraggiata la marchesa dal tirare diritto allo scopo, ma l'avrebbe persuasa ad appigliarsi a mezzi diversi, e fra gli altri al potentissimo di tutti, voglio dire si sarebbe studiata d'ammaestrare la figliuola in un certo catechismo di morale matrimoniale, in uso grandissimo tra tutte le classi alte di certi paesi, fra i quali sciaguratamente il nostro è uno del bel numero. Quali siano gli articoli principali di cotesto catechismo, tra poco ce lo dirà da sé la illustrissima marchesa: per ora lasciamola seguitare ad assalire la figliuola con le armi piú comuni e volgari; verrà tempo in cui porrà in opera le piú terribili e micidiali, scoprirà tutta l'artiglieria per espugnare un cuore sublime ed incorruttibile, ma infiammato d'amore materno, e quindi, da questo lato, prontissimo a cedere. La marchesa dunque seguitando l'interrotto discorso:

— Che c'entra egli l'amore col matrimonio? L'amore vien dopo. O io che conoscevo il marchese? Lo vidi appena una volta sola, appena ebbi il tempo di gettargli un'occhiata per osservare come gli era fatto, e lo sposai senza opporre la minima difficoltà ai miei genitori.

— Ma che vorresti paragonare colui al padre mio?

— E torna daccapo: gli è meglio, ti dico; il vantaggio è tutto per te.

— Ma ti pare egli un uomo costui? Sarà buono, sarà caro, sarà la mansuetudine incarnata; ma la stupidità non gli si legge evidentissima nel volto e negli atti? Oh! Madre, sacrificare la tua figlia che tu ami tanto, la tua unica, figlia, il sangue tuo, ad un uomo di quella sorte? Meglio ammazzarmi.

— E appunto perché t'amo, e t'amo quanto la pupilla degli occhi miei, t'ho cercato un marito senza volontà, che ti adorerà, sarà il tuo servitore, il tuo schiavo.

— Ma io non cerco una schiavo, cerco un compagno, una guida che mi sostenga e mi aiuti a compire il terreno pellegrinaggio.

Senti, io dovrei sdegnarmi teco udendoti cosí favellare; ma perdono all'età; penso che sei una fanciulla e non sai punto punto di queste cose. Ma ora è tempo ch'io ti parli chiaro, come a donna che presto diventerà madre di famiglia. Tu devi sapere, figliuola mia, che l'uomo, da taluni detto tiranno della creazione, meriterebbe d'esser chiamato il carnefice della donna; egli la seduce, l'assale con ogni specie d'inganno, e fattosene signore, la tratta come un paese conquistato; voglio dire crede avere il diritto di assassinarla e devastarla. Tu che hai letto tanti libri, ti rammenterai del racconto che fa l'Ariosto di quel regno di donne, le quali onde porre fine ai loro guai altro rimedio non trovarono che quello di chiudere il paese, dove esse trovarono asilo, agli uomini tutti, giurando loro guerra implacabile, eterna. Di tutti i sacrifici che la donna possa fare, credi tu che l'uomo senta un briciolo di gratitudine? L'uomo comanda, e guai alla donna se la non obbedisce come un soldato russo alla voce del suo capitano. Ora questo istinto tirannico — giacché è istinto che si trova immedesimato nella sostanza stessa dell'uomo, ed è quindi invincibile, incorreggibile — si manifesta piú feroce in quelli cui la natura fu larga dispensatrice di mente. La donna quindi, la vittima sciagurata della creazione, per provvedere alla propria salvezza, deve sempre studiarsi di trovare fra i tiranni il piú mite, e — poiché la società le impone il giogo dell'uomo, se no la priverebbe da ogni riguardoindursi a congiungere a quello il proprio destino. Fortunata dunque la donna che abbia maggior copia di cervello che non ne ha il marito, che lo superi in tutto, e riesca a renderselo soggetto. Tu mi guardi come attonita ti par forse strano questo mio discorso? Eppure gli è vero, come la stessa verità, e me lo detta la esperienza di me e di quante ne ho conosciute. Il cielo ti scampi, figlia cara, da un marito che abbia troppo cervello Queste ragioni che toccano il sesso in generale, provati adesso d'applicarle alle condizioni del nostro ceto. Che una donna del popolo, povera di fortune, e priva d'ogni speranza, vada a caccia d'un marito pieno d'ingegno e di abilità, oh! questo gli è giusto, anzi necessario; egli deve esserle di sostegno, egli deve camparla. Ma per una signora del nostro grado il primo requisito d'uno sposo è quello di essere ricco, il secondo d'essere buono, cioè con poco cervello, m'intendi? Con poco cervello, perché la donna possa meglio dominarlo; solo cosí il matrimonio può essere felice. Ora trovami un uomo che abbia tutte queste qualità al pari del giovane che deve esser tuo sposo.

— Ma l'amore?

— E torna coll'amore. L'amore, figliuola mia, si può far meglio con un marito sciocco; degli amanti ne troverai non uno, ma mille...

Madre! Ed io dovrei amare un altro uomo diverso da colui che deve essere mio sposo?

— Oh la sciocca! Scusami se te lo dico a tanto di lettere. E come fanno tutte le signore? Non dubitare, tu avrai il tuo amico, e quando uno ti verrà a noia, ne sceglierai un altro, e via discorrendo.

La pillola era troppo amara, e fece nodo in gola all'Amalia, che non avrebbe mai potuto supporre che la madre le avesse a tenere quell'immorale discorso. Per la qual cosa smettendo quel tono soave e supplichevole di voce con cui opponeva resistenza alle incalzanti aggressioni della marchesa, esclamò commossa: — Ma io rabbrividisco! Tradire l'uomo cui ho giurato d'esser fedele per tutta la vita?

Maledetti i libracci che ti hanno sciupata la testa, maladetti i romanzi! — urlò la marchesa gesticolando con le mani come fosse invasa da un repentino acceso di collera. — Guardate che sentimenti son questi! O non fanno tutte cosí? O che vorresti essere tu la sola?

— Ma io non m'indurrò mai a sposare un uomo per esser poi spergiura ed infame: facciano pure le altre femmine — e qui appoggiò la voce come se la parola fosse scritta in corsivo — a modo loro, io non tradirò mai la mia coscienza, non sarò spergiura, non sarò svergognata, non sarò infame; no, non mai: meglio morire.

Coscienza, spergiura, svergognata, infame! O che parolacce sono queste? Se non fossi certa d'averti portato nove mesi dentro il mio seno, io direi che tu non sei mia figliaurlò la marchesa non si aspettando alle audaci dissonanze dell'Amalia. All'urlo della illustrissima signora, Ignazio sbucò fuori ansante, come se venisse da lungisolito ripiego cui s'appiglia sempre chi è stato ad ascoltare di nascosto, e non vuol pareredicendo: — Cos'è stato?

— Questa pettegola mi fa disperare: è tanto che mi sfiato e non v'è speranza di farle intendere la ragione: ha per il capo certi grilli che non par vero... ditegnene anche voi, Ignazio, la non vuol credere che tutti si vuole il suo bene.

Qui la scena cangia, di semiseria diventa tragica; entra il personaggio che ha le Furie accovacciate nell'anima come tigri in un antro, e che schizza veleno dagli occhi. Il sanfedista, facendo eco alla marchesa, incominciò:

, tutti vogliamo il vostro bene: io mi maraviglio come la signora Amalia trovi difficoltà ad accettare un partito che sarebbe ambìto da una principessa di sangue reale. Si tratta di milioni!

Quando l'Amalia vide intromettersi un terzo interlocutore in un colloquio, ch'ella bramava rimanesse arcano tra lei e la madre, senti svegliarsi nell'animo tutta l'altera ingenita dignità dell'indole sua, tutta la forza morale onde erasi arricchita la mente con la lettura de' suoi libri prediletti, quindi, smesso subitamente il tono incerto ed affettuoso con cui sempre aveva combattute le enormezze della marchesa, rispose: — A me de' milioni importa poco: tutti i tesori del mondo, recatimi da un uomo ch'io non potrei amare, mi farebbero piú misera. In mezzo a tutti gli splendori mondani immaginabili a me toccherebbe lo stato che un tale augurava, imprecando ad un suo mortale nemico, voglio dire contemplerei cogli occhi il paradiso, ma avrei l'inferno nell'anima. Madre mia, tu lo sai meglio di me, che quando la donna si congiunge ad un uomo cui la sua anima ripugni, ella trova due braccia dove credeva di trovare un cuore; la sua vita è irreparabilmente perduta; la intenzione del creatore è empiamente falsata. Io non debbo, io non posso, io non voglio sposare l'uomo che mi avete mostrato: non se ne parli piú.

Le parole franche ed assolute dell'Amalia turbarono la marchesa, la quale non trovava neppure una delle sue solite scempiezze a risponderle; sbuffava, dimenavasi, la fulminava cogli occhi pieni di rabbia. Ma non cosí l'astuto Gesualdi, che mentre la giovinetta ragionava, apparecchiavasi ad assalirla con armi, contro le quali non avrebbe potuto in nessun modo resistere; o almeno cosí egli pensava.

E però da quel consumato dissimulatore ch'egli era, ricominciò approvando i sentimenti dell'Amalia e dandole piena ragione; seguitò toccando dell'obbligo che hanno i genitori di non fare violenza al volere de' figli in una faccenda di grave momento; parlò di vocazione, di predestinazione, di voce di Dio che parla nel cuore e muove inevitabilmente, per quella via che a lui piace, i passi della creatura: ma di questo cumulo di precetti morali voleva servirsi come di poggio per saltare a piè pari, ma cauto e inavvertito, sulla conclusione che preparava, a guisa di colpo bene assestato; voglio dire si fece a ragionare con unzione, degna di un predicatore, dell'obbligo che hanno i figli di sacrificarsi al bene di chi ha dato loro la esistenza, e convalidò le sue asserzioni con una schiera di esempi, tratti dalle leggende de' santi.

La marchesa che in questo mentre si sentiva riavere, a guisa di un guerriero battuto, che riguadagni il perduto terreno e speri rimettersi in istato di combattere nuovamente il nemico che pareva trionfare, assentiva con parole tronche, con epifonemi, con cenni. Ma l'iniquo, dopo ch'ebbe ruzzolato quel profluvio di melliflue parole, vedendole andare a vuoto, cominciò a pennelleggiare da vero maestro una spaventevole pittura delle faccende domestiche di casa Pomposi. Parlò di creditori implacabili, di litigi intricati, di sequestri disonoranti; parlò di rovine, di condizioni disperatissime, e ne accusò la insania del defunto marchese; parlò di disonore della famiglia, di miseria, di carcere: messe fuori, insomma, tutte le sciagure e tutti i terrori, che valevano a spaventare l'animo piú saldo; e concludendo, si volse alla giovinetta e le disse:

— Voi sola, o buona Amalia, potete salvare la famiglia dal disonore, la memoria del padre dalla infamia, la vita della madre vostra dalla miseria, non contando nulla la vergogna, lo scherno, lo sprezzo cui sarebbe fatta segno, e che la farebbero presto morire di crepacuore. L'occhio solo dell'Onnipotente vede quanto studio e sollecitudine ho posto a trovare un mezzo onde salvare voi tutti: ma umano argomento non giova; il matrimonio vostro con quel raro giovine è la sola tavola di salvazione che in questo terribile naufragio potrà condurre in porto voi, la madre, l'onore di casa vostra. Un gran peccato peserebbe sulla vostra coscienza, e ne avreste a render conto agli uomini in questo mondo, e a Dio nell'altro: pensateci, consultatela la vostra coscienza, la vostra religione, e poi, se potete, abbiate coraggio di ricusare una fortuna, che, credete a noi che si ha assai piú anni de' vostri, vi renderà felice.

L'Amalia, mentre il Gesualdi con la bocca, e la madre coi cenni le venivano recitando quel funesto sermone di guai presenti e di malanni futuri, ascoltava intentamente, e il suo volto a grado a grado prendeva la espressione di chi si senta aggravare da un profondo pensiero. I due carnefici, accortisi di ciò, dicevano negli animi loro «è vinta». Ignazio aggiungeva quella conversione alla lista de' suoi trionfi.

E s'ingannavano.

La giovinetta dallo stesso apparato solenne, dalla troppa rettorica di cui il perfido favellatore aveva fatto uso strabocchevole, aveva dubitato della verità di quanto colui asseriva. Pensò esservi nelle cose allegate un fondo di vero, perocché anch'ella, comunque straniera alle ambagi dell'amministrazione domestica, erasi un poco avvista, massime negli ultimi tempi, delle strettezze della propria famiglia, ma credevale esagerate studiosamente onde trarla nella rete; e siccome l'aggressione, per legge di natura, provoca la resistenza, cosí, se era già ferma a non cedere, divenne fermissima. Poscia supponendo anche in gran parte vera la rovina con che l'avevano voluta spaventare, ammettendo eziandio l'efficacia del rimedio che le proponevano, pensò che congiungendosi in matrimonio al suo Roberto, avrebbe potuto provvedere medesimamente — non sapeva la misera che l'abisso spalancato sotto i piedi del suo diletto, era maggiore e piú spaventevole di quello che minacciava inghiottire la propria famiglia — e se sentiva vivissima, la religione del giuramento, in cuor suo tornò a giurare e dichiararsi fedele. E come il sermone fu finito, e successero pochi momenti di silenzio, e il Gesualdi e la marchesa cogli occhi inchiodati su lei aspettavano che profferisse il consolatore, si senti confusa a rispondere: perocché non osava palesare il nodo che la univa a Roberto, cui fortunatamente la madre non aveva fatta la piú lontana allusione, non osava palesarlo senza averne innanzi chiesto consiglio al conte; non voleva né anche inasprire di nuovo il colloquio, e soprattutto perché la presenza del Gesualdi le dava molestia, e la costringeva a serbare un contegno serio ed altero, mentre il suo candido cuore avrebbe voluto con piena effusione di affetto conquidere la materna ostinazione.

L'infelice taceva.

La marchesa con modi carezzevoli, rompendo il silenzio, le disse: — Hai tu sentito? Si, figlia mia, tu non vorrai la nostra rovina, tu non mi lascerai morire nella disperazione; tu ci salverai tutti. Amor mio, dillo un ; ti costa poi tanto?

Il cuore dell'Amalia si gonfiò di amarezza infinita, e stava per iscoppiarle nel seno; la natura la soccorse col farmaco che nella donna mitiga il dolore, col dolce sfogo del pianto: l'Amalia abbandonandosi fra le braccia della madre diede in uno scoppio di lacrime. La marchesa, stringendola al seno, interrogava cogli occhi il Gesualdi, il quale, anch'egli cogli occhi, le rispondeva: «È vinta; lasciatela sfogare».

E nuovamente ingannavasi.

Quando la marchesa l'ebbe colmata di tutti i nomi diminutivi, di tutte le frasi vezzeggiative di cui strabbonda la toscana favella; quando l'Amalia cessò dai singhiozzi e parve riaversi un poco, la marchesa riprese: — Chetati, fai cuore, datti pace: noi si vuole il tuo bene; sarai felice come una regina col tuo sposo che t'amerà tanto...

L'Amalia all'idea ostinatamente ripetuta dello sposalizio abborrito, rabbrividí; quella scossa di nervi le richiamò il vigore corporeo che l'aveva abbandonata; si staccò improvvisamente dal petto materno, dirizzandosi maestosa, come persona che siasi sentita trafiggere da una parola d'insulto, e disse:

— Ma, cara madre, il tormento ch'io provo è troppo; tu mi uccidi; uccidimi pure in altra guisa, ma non torturarmi, come fai, battendo e ribattendo su questo sciagurato affare.

— Ed io — esclamò lo scellerato sanfedista, saltando in piedi con moto repentino, non aspettando mai lo scoppio di quella terribile conclusione, e trovandosi deluso nella sua preveggenza — ed io me ne lavo le mani; da ora in poi, signora marchesa, cercate chi amministri gli affari vostri, io non vi posso salvare dal precipizio dove vi spinge la vostra figliuola garbata.

— Lo senti? — urlò la marchesa, rizzatasi anch'essa ed infiammata di collera che il suo viso pareva come fosse tinto di sangue — lo senti, trista cagione di tutte le mie sventure, dove tu mi vuoi ridurre? Lo senti, assassina della tua povera mamma, in che abisso mi vuoi precipitare? Ah pur troppo, il cielo mi ti ha data per pena de' miei peccati! Sarebbe stato meglio se...

Qui la storia tace le orribili ed oscene parole, con le quali la inviperita signora fulminò la fanciulla innocente. Posti da canto tutti i modi signorili, tutte le frasi artefatte che le persone dell'alta società preferiscono alla patria loquela, con quella sua lingua blesavezzoso stigma delle labbra nobili di puro sanguerovesciò sul capo della figlia tutte le imprecazioni e le contumelie piú triviali che fanno eloquenti le bocche delle dame de' Camaldoli. E mentre la giovinetta rimaneva avvilita, trovandosi attrice d'una scena che non le pareva possibile seguisse in casa sua, la cruda signora, stese la mano per darle uno schiaffo, e quella tirandosi indietro cadde rovescio sul divano, e intricandole i piedi uno sgabello, perse l'equilibrio e stramazzò sul pavimento.

La marchesa non corse a rialzarla, ma come il vile che conficchi il coltello traditore in petto al valoroso che è caduto morente a terra, piegandosi su la figliuola, la trafisse con nuovi vituperi, detti in via d'appendice; e poiché uno de' pochi libri che essa avea letti in gioventù, era la storia di Clarissa Harlowe, le minacciò uguali e maggiori tormenti, e brontolando uscí via dalla stanza, mentre il Gesualdi, tenendole dietro, volgeva il capo due o tre volte a mirare la vittima gemente.

 

Prostesa sul pavimento, immobile, derelitta, l'Amalia non aveva perduti i sensi; ma la sua mente vagava convulsa quasi si dibattesse fra i vincoli di qualche orribile sogno.

Allo strepito dell'uscio che furiosamente si richiuse dietro ai due manigoldi, successe un silenzio di sepoltura. L'infelice apre gli occhi, e solleva alquanto la persona guardando all'intorno a modo di sbalordita come si trovasse in un luogo infame per la memoria di un gran delitto. Rimanendo tuttavia seduta sul pavimento, col capo fra le palme appoggiato su l'orlo del divano, provavasi di riandare le cose testè seguite. Pensando alle dure, crude e volgari parole della madre, pensando al contegno del Gesualdi, ignara sempre del loro segreto matrimonio, credé che fra i suoi carnefici esistesse un sozzo legame, e sentí per la prima volta intiepidirsi in seno l'affetto che aveva sempre portato alla genitrice. Pensò alla fine delle sue sciagure, e le parvero interminate. Le pareti della sala echeggiavano ancora le terribili minacce della marchesa; la sinistra immagine del Gesualdi le appariva dinanzi come implacabile furia d'inferno, a ghermirla, a stringerla fra le ugna sanguinose, e divorarle la vita. Sconsolata! Non sapeva che si fare; studiavasi se le venisse fatto mirare in volto la speranza che finallora le aveva confortato il cuore come l'alito di primavera: anch'essa, che è l'ultima ad abbandonare i miseri, anch'essa era sparita. Lo amore che ella aveva giurato a Roberto e che voleva veder benedetto dalla madre, non era piú agli occhi suoi lo spazioso, incantevole giardino di fiori che le imparadisava il cuore; la scena lieta della sua fantasia erasi improvvisamente mutata nell'orrendo aspetto d'una caverna. «Chi mi soccorrediceva fra sé dimenando disperatamente il capo fra le mani; «chi mi salva?» E le pareva di vedere Roberto che stendevale amorosamente le braccia, la sollevava dalla voragine dove era caduta dicendole: «Perché gemi? Mentre io t'amo, che t'importa se anche tutti gli uomini ti congiurino contro?» — «» ripigliava ella, «Roberto è mio, egli darebbe non una ma mille vite per me: ma se gli rivelo il mio stato, chi frenerà l'ira sua generosa, chi varrebbe a frenarla da eccessi cui il mio cuore ripugna, come quelli che produrrebbero fra le genti uno scandalo inaudito? Che farò? Dove andrò? Dio, padre degli sventurati, io mi rifugio fra le braccia della tua misericordia». E sollevando il capo dal divano si atteggiò in modo che parrebbe avesse ispirato a Lorenzo Bartolini la statua della Fiducia in Dio; col bel corpo abbandonato soavemente sulle ginocchia, su le quali posavano le mani giunte, cogli occhi animati di speranza e intenti al cielo, senza profferire un accento, mandava mentalmente tale preghiera all'Eterno da strappare il pianto agli occhi degli angioli beati nella eterna letizia.

Pregava sempre, come assorta in estasi, e sentiva tanto consolarsi che una celeste calma le si era sparsa su la pallida faccia, quando lo improvviso strepito dell'uscio che spalancossi di nuovo, la richiamò alla scena delle proprie miserie. Gettò lo sguardo stanco verso la parte donde muoveva il rumore, e vide la marchesa che tornava sbuffando e brontolando con piú rabbia di prima. L'amore filiale, lo immenso amore che fin da' suoi primissimi anni la presenza della cara genitrice le soleva destare in petto, si velò la faccia con l'ale, e l'Amalia, priva di quel vago prisma, guardò la figura della marchesa nella sua nudità, e vi ravvisò un carnefice che le correva contro, armato d'un flagello che grondava sangue.

— La si rizzi di costígridò la novella Erinne, stendendo la destra ed accennando con tono imperioso — la si rizzi e venga meco. Giacché l'è una figlia scellerata, senza onore, senza religione; giacché ardisce cosí sfacciatamente ribellarsi ai comandi della madre, la starà rinchiusa, nella sua camera, senza vedere anima nata, e vi rimarrà finché avrà fatto senno e sarà disposta ad ubbidire. Animo! La venga via.

La derelitta non poteva profferire una sola parola, la sua lingua era impigliata al palato; le sue labbra socchiuse erano pallide, aride, ed alitava come se la febbre le bruciasse le viscere; le sue membra non avevano moto; i soli occhi suoi parlavano un linguaggio che avrebbe commossa una tigre — ma il cuore dell'uomo, e piú quello della donna, invaso e sconvolto dall'ira, non vince in ferocia la iena? Ella ascoltava la sua condanna col sentimento del disperato, cui tardi l'ora di essere condotto al patibolo per accorciare le torture dell'agonia.

La marchesa, vedendola rimanere immobile, le si appressa e l'afferra rabbiosa per un braccio: l'infelice cosí strappata, casca sur un fianco che parea si fosse rotta le gambe, e quella furia d'averno la riafferra per il braccio che le si era svincolato dal pugno, e con un vigore da facchino la trascina seco dicendo: — Carogna, io t'ho fatta e sarò anche buona a disfarti, non pensare — e la trascina spietatamente seco. La marchesa credeva che in cima alle sue materne prerogative stasse il jus vitæ et necis che esercitavano i genitori ai tempi patriarcali.

Fedele alle vomitate minacce, la rinchiude in camera, con l'intendimento di copiare, esagerando, il rimedio applicato alla ostinazione di Clarissa; e però taccio la storia della prigionia dell'Amalia non contenendo se non pitture simiglianti a quelle di cui è troppo pieno il libro di Richardson, che un tempo corse famoso; pitture che si ripetono spessissimo nelle famiglie, e che quasi sempre, se non sempre, corrompono la mente e il cuore delle piú care e mansuete fanciulle, e le spingono disperatamente alla ruina, dove per istinto pervertito di salvazione, precipitano sé, l'onore e la felicità loro.

Nella sua prigionia che fu accompagnata da tutte le crudeltà morali, che la marchesa, ispirante Ignazio Gesualdi, nella sua alta saviezza riputava dovessero rendere piú efficace il rimedio, la misera Amalia non iscerneva via nessuna di liberazione; teneva spesso sollevata la mente a Dio, e col suo aiuto confidava d'uscire vincitrice di quella terribilissima prova. Ma tutte le volte che l'anima sua dal cielo ripiegavasi in terra, il solo conforto, che valeva a farle tollerare quegli atroci tormenti, era lo amore di Roberto: con lui conversava come Torquato Tasso col suo genio nella prigione di S. Anna; nel seno di lui sfogava tutti i suoi affanni, la certezza di sentirsi riamata era il soave liquore sparso intorno agli orli del funesto calice per fargliene meno sentire l'amarezza.

Per parecchi giorni la medicina prescritta dal Gesualdi rimase senza efficacia a curare la infermità dell'Amalia.

 

Intanto il sanfedista che non trovava riposo, non sapendo intendere donde veramente muovesse la ostinazione della fanciulla, speculando a trovarne la ragione, fra le altre cose che gli corsero alla mente, pensò di provarsi a scuoprire un vestigio di qualche amore segreto che le ardesse in cuore; cosa possibilissima, non ostante che l'Amalia fino dall'infanzia fosse stata custodita come reliquia dentro un tabernacolo.

E in ciò indovinava.

Interrogare i famigliari sarebbe stato inutile; in casa Pomposi non penetravano se non poche persone elette, sulle quali non poteva cadere il minimo sospetto. La dimestichezza che egli aveva da lunghi anni cogli uffici della polizia, lo mosse ad appigliarsi ad un mezzo legale, e spesso efficace, voglio dire al mezzo di una perquisizione domiciliare. A tal fine comanda che l'Amalia venga subito tradotta in altra stanza, senza che le fosse concesso di recar seco nulla. La innocente, strappata dalla sua cameretta, senza poterne sapere il perché e il per quanto tempo, ottenne di prender seco una bibbia che sempre soleva avere fra mani.

Eseguiti gli ordini, l'inquisitore entra in quella cameretta, che meritava d'essere venerata come un santuario, avendo per tanti anni custodita una vergine pura come un purissimo raggio di sole, ne scompiglia gli addobbi, rompe le serrature de' cassetti, mette sottosopra ogni cosa, ficca l'occhio in ogni nascondiglio; non gli riesce di trovar nulla e freme come l'avaro che dopo d'aver fatta una lunga e perigliosa operazione per disincantare un tesoro, resta deluso e schernito dal demone dell'ingordigia che gli asseta l'anima. In tanta devastazione altro non rimane d'intatto che uno sgrigno, prezioso per isquisito lavoro d'intarsio, opera mirabilissima dei grandi artisti del cinquecento, i quali perfino nelle inezie ponevano il sentimento dell'arte, obietto caro all'Amalia come quello ch'era un ricordo donatole dal padre poco tempo innanzi di morire. Il manigoldo lo afferra, ne rompe il fermaglio sciupandone il coperchio, lo guarda con occhi d'affamato, lo fiuta, scomiglia tutti i ninnoli che l'Amalia vi serbava come cose che agli occhi suoi avevano inestimabile pregio; sospetta che nel fondo vi fosse un secreto, e con una coltellaccia da cucina lo frange, lo sfascia, e tra il fondo e una sottilissima lamina che rendeva invisibile il nascondiglio, scuopre due lettere legate con una trecciolina di nerissimi capelli.

La gioia che invase il cuore d'Archimede, allorquando, dopo lunghissimo studio, arrivato a sciogliere un problema, saltò fuori dal bagno gridando a guisa di demente: «L'ho trovato!» non fu pari alla gioia infernale che mostrò il Gesualdi alla vista di que' fogli; si mise a mirarli, crollando la testa, e tenendo tuttavia stretta nel pugno la coltella come assassino che insulti la vittima prima di scannarla: — Finalmente ho trovato quello ch'io andava cercandourlò con voce che pareva un rantolo di persona che abbia impedito il respiro. Poi quasi temesse che quelle lettere mettessero le ali e sparissero, vi stende su la zampa. Le snoda, butta via dalla finestra la trecciaera un riccio di capelli di Roberto, che l'Amalia aveva intrecciato con uno de' suoi — le spiega, e rimane alquanto disilluso. Erano lettere d'amore, ma piene di senno, di modestia, di nobilissimi sensi; il più cinico e dissoluto uomo del mondo, leggendole, si sarebbe sentito compreso di rispetto. Nella prima eravi una sola R in vece di firma, ma nell'altra leggevasi chiaro il nome di Roberto. — Ma va a trova chi sia questo monello; de' Roberti ce ne son tanti — mormorava il tristo inquisitore mentre richiamavasi alla memoria tutti i nomi de' giovani di famiglie nobili, e non sapeva raccapezzarsi.

Poi postesi le lettere in tasca, e lasciate le cose cosí in iscompiglio, se ne andò via dicendo: — Tant'è, il bandolo è trovato; da cosa nasce cosa; un po' di tempo e provvederemo. — Ed entrato in camera della marchesa: — Vedetegridòvedete, Eleonora, la vostra figliuola, innocente come un giglio, candida come una colomba, mansueta come un agnello, la vostra figliuola, ha degli amori segreti.

Amori! — esclamò, saltando in piedi la marchesa — non mi canzonate?

— Eccola qui la prova — e si trasse di tasca i fogli — per questo la signorina faceva l'ostinata: pare impossibile! Tutta la vostra e la mia vigilanza non è giovata a custodirla; chi piú guarda meno vede; diceva bene quello: le femmine come compiscono i quindici anni, bisogna maritarle, anche col diavolo; ma fuori di casa.

— Oh sfacciata! Oh pettegola! Oh briccona! Me l'ha fatta davverobrontolava la marchesa, mentre spiegava, tremante di rabbia, e divorava cogli occhi le lettere. — Ma, non dicono nulla; le solite scapataggini dei giovani. O chi sarà egli questo Roberto? Ma dove l'ha visto? Chi le ha fatto da mezzano — la marchesa invece della parola mezzano ne adoperò un'altra piú plateale ed espressiva., perocché le gran dame divote, e i gran bindoli ipocriti, che innanzi le genti tengono contegno d'anacoreti, quando si trovano a quattr'occhi, come se il troppo portare la maschera rechi loro soverchio incomodo, se la cavano e usano vocaboli che potrebbero servire di testo di lingua agli ospiti de' postriboli. — Qui bisogna. indagare. La cameriera? La non è capace; ma chi sa, a volte queste vecchiacce si prestano; anzi è questo il loro forte. Insomma, Ignazio mio, che s'ha egli a fare?

— Per ora sicut erat; fra ventiquattr'ore ci riparleremo. Non dubitate, adesso la non mi scappa di mano.

E uscí via.

La povera martoriata fu ricondotta in camera. Quando vide il profano saccheggio, pianse l'amaro pianto che sparsero gl'Israeliti sulle ruine della patria diletta; rabbrividí, nelle sue viscere senza fiele traboccò la bile. Vedendosi cosí empiamente trattata compianse la cieca madre; pensò al Gesualdi, riesaminò tutte le azioni di lui con nuovo discernimento, e in lui le parve ravvisare un personaggio che in casa Pomposi recitava la parte di Egisto nella reggia d'Agamennone. Questa idea le richiamò al pensiero la morte del padre, e il poco rispetto con che la marchesa ne straziava la memoria, e per un istante provò un brivido di orrore per innanzi ignoto al suo candido cuore. Quindi rimproverandosi, come se la collera la facesse vaneggiare, esclamava: — Povera madre! Tu sei piú infelice della tua misera figlia che cotanto ingiustamente vai tormentando!

E in cosí dire, le andarono gli occhi allo sgrigno, custode delle sue memorie piú care, lo vide in frantumi, e si senti fare in pezzi il cuore: le lettere di Roberto non v'erano piú. — Hanno dunque scoperto tutto? — gridò sospirandoOramai non v'è piú rimedio; il nascondere non giova, coraggio! E beviamo gli ultimi sorsi del calice amaro; io dirò tutto, io non temo piú di nulla, io non devo arrossire dell'uomo ch'io amo: segua quello che può, la mia agonia è presso al suo termine.

Nuovo vigore di vita tornò a rianimare le stanche membra dell'Amalia, nuova forza d'animo la rese piú tranquilla, e piú ferma; le si presentino pure i suoi tormentatori, ella, parlerà intrepida e fiera, ella risponderà loro: «Io ho giurato di essere per sempre di Roberto, e sarò sua».

Il Gesualdi non aveva nulla concluso dalle sue lunghe ed astutissime indagini: consigliò quindi la marchesa di farsi venire dinanzi la colpevole, e mostrarle le lettere onde indurla a confessare i suoi disonesti intrighi — con tal nome il sanfedista chiamava l'amore piú puro che ardesse mai in cuore di donna.

Evviva la mia signorina! — disse ironicamente la marchesa, appena comparsa l'Amalia — La lavora bene di nascosto ai genitori. Me l'hai fatta, sfacciata, svergognata...

L'Amalia figgeva imperterrita lo sguardo sugli occhi della madre, la quale sentendosi da quell'atto temerario accrescere il furore, seguitò: — Fraschetta; civetta; e poi mettersi con uno sguaiato, con un giovinastro...

Roberto Cavalcantigridò interrompendola l'Amalia — è un cavaliere d'animo grande, di illustre famiglia, che potrebbe onorare qualunque delle piú nobili signore d'Italia...

Roberto Cavalcanti! — esclamarono in duo, intonato sulla medesima chiave, la marchesa ed Ignazio — Oh vitupero! — seguitò sola la marchesa  il giovine piú dissoluto, piú immorale, piú detestabile di Firenze! Oh! Questa poi non me la sarei mai, mai aspettata.

— È spiantato, è rovinatodisse Ignazio — è scialacquatore in guisa che in otto giorni darebbe fondo alla cassa di Rothschild: non potevate scegliere peggio, non potevate cascare in un uomo piú disonorato e piú pernicioso di lui...

Taci, malignodisse l'Amalia mozzandogli la oscena parola — tu non sei degno di profferire il nome di quell'angiolo; tu lo profani, tu lo appesti, demonio funesto della nostra famiglia.

La faccia livida del Gesualdi divenne come fiaccola accesa, la bocca gli si contorse; avrebbe sbranata la fanciulla: lanciò uno sguardo di rimprovero alla marchesa e le comunicò tutto l'atroce veleno che gli sgorgava dal cuore. La marchesa, dando di piglio ad una ventola, che fu la prima cosa che le cascò sotto la mano convulsa, la lanciò in faccia alla figlia; ed urlando con voce scomposta e stridente, a chiamare la cameriera, le fece comandamento di ricondurre la martire alla sua prigione.

Rimasti soli i due coniugi, Ignazio rovesciò un cumulo di rimproveri sul capo della marchesa, e concluse che non avrebbe patito simili insulti se il loro matrimonio fosse stato palese, e l'Amalia avesse in lui ravvisato il capo della famiglia. La marchesa, carezzandolo svenevolmente e chiamandolo «amor mio, bambino mio, angiolo dell'anima mia», ed altre tali dolcezze, che vanno rappresentate tra le fitte tenebre, perocché, viste alla luce del giorno, produrrebbero la scena piú sconciamente ridicola che possa mai immaginare la fantasia piú comica del mondo, gli promise che, sposata l'Amalia col figlio dello strozzino, ella si sarebbe fatto un onore di partecipare alle dame della città il proprio matrimonio con Ignazio, e se lo avrebbe assiso accanto in carrozza, e se ne sarebbe inorgoglita. Intanto pensasse a condur bene le cose; ella poneva tutta la faccenda nelle mani di lui, disponesse, ch'ella eseguirebbe con cieca fiducia i suoi ordini.

Le flosce ed esagerate carezze della marchesa ammansarono gli spiriti feroci d'Ignazio, il quale le disse che lasciasse a lui il pensiero di porre fuori di combattimento il contino Cavalcanti, e che da parte sua si apprestasse a rappresentare da maestra dell'arte l'ultimo atto della commedia. Pensava il perfido che l'unico lato donde poter espugnare il cuore della giovinetta era l'amore, l'adorazione ch'essa aveva per la madre, e che, se pareva per adesso quasi spento per lo sprezzo, e le torture che le facevano patire, era talmente radicato che bastava una sola scintilla a riaccenderlo in fiamma piú viva di quel che fosse innanzi. Qui il tristo non s'ingannava; per la qual cosa erasi determinato ad appigliarsi a un mezzo da spingere l'Amalia dentro tal rete, da cui non si sarebbe in nessun modo svincolata mai.





p. -
8 Ad uso de' giuocatori del lotto; potrà avere diversi nomi, ma si trova in tutti i paesi, ne' quali esiste quel giuoco.



9 È il lunario fiorentino piú popolare in Toscana.



10 I versi che soleva cantare l'Adelina erano questi:

Rondine, che nel poggio sei volata,

Rondine, che nel sasso hai fatto nido,

Dammi una penna della tua bell'ala,

Che scriver vo' una lettera al mio fido

E quando l'avrò scritta e fatta bella,

Ti renderò la penna, o rondinella;

E quando l'avrò scritta e sigillata,

Ti renderò la penna, innamorata.

Questo e quello riportato di sopra, che si chiamano propriamente rispetti (a differenza degli stornelli che generalmente sono composti di un verso corto e di due lunghi) ma che il popolo con vocabolo comune chiama sempre stornelli, non furono composti dall'autore, ma raccolti dalla bocca de' contadini.



11 Teatro popolare di Firenze.



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