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Beppe Arpia abitava in una vecchia casa signorile, posta in una delle vie piú centrali di Firenze; non importa dir dove, perocché anche oggi vi dimora uno de' suoi piú celebri discepoli, che l'ha fatta sontuosamente rimodernare, e vi tiene il portinaio in livrea. Il piano terreno e le cantine erano piene di mercanzie d'ogni specie. Nel primo piano vi teneva il banco, nel secondo ed ultimo la
famiglia. Lo aspetto dell'edifizio non era quello d'un palazzo, ma d'una casa vasta, considerata la parsimonia de' tempi in cui fu fabbricata; e la tinta bruna delle mura, benché non fossero decorate della bellezza architettonica de' monumenti del quattrocento, richiamava lo sguardo dell'artista che a caso vi passava accanto. L'entrata pareva quella d'un antro, nel cui fondo aprivasi una scala ripida e buia, che intenebrava l'animo ispirandovi un senso indefinibile di malaugurio. Un galantuomo non l'avrebbe scelta per propria abitazione.
Pochi giorni dopo ch'era principiato il martirio domestico dell'Amalia, il banco dell'Arpia risonava d'urli tali che stava per accorrere tutto il vicinato. Era un duello di vituperi e di bestemmie combattuto fra Beppe Arpia e Sandro Imbroglia, a cagione d'un affare, che allo strozzino pareva sciupato, ma che in sostanza era un capolavoro dell'astuzia del suo mezzano.
Sandro gli aveva presentate certe cambiali del valore di ventimila lire, accettate dal duca Nottoloni all'ordine S. P. del duchino suo figlio.
Beppe spiega i fogli, li legge; e sta bene: ma figge gli occhi sulla firma, e come quello che aveva in uso la scrittura del duca, ne concepisce qualche sospetto; e secondo soleva fare in simili occorrenze, la guarda a traverso d'una lente convessa, ed a guisa d'ebbro traballa dando tre passi indietro. Gli s'infuoca la faccia, gli schizzano quasi fuori dalla fronte gli occhi, gli tremano i muscoli, pareva una testa di primo abbozzo, o meglio, preparata con le tinte locali, come costumano fare gli artisti innanzi d'impastare il dipinto. E mandando un urlo da toro ferito che scosse gli scaffali e le panche come un tempo il cenno di Giove, quando gli girava, faceva scuotere l'Olimpo: — Tu mi hai assassinato — gridò correndo come forsennato per la stanza di su, di giù, di qua, di là, quasi fosse rapito dal vento che mena i lussuriosi nell'Inferno di Dante — tu mi hai rovinato!
E Sandro impassibile: — O che c'è egli? Che tu voglia arrabbiare come un cane? Che t'è venuto un accidente?
— L'accidente lo farò venire a te, ladro da forche, io ti stritolerò, non so chi mi tenga ch'io non ti levi coll'ugne quel po' d'effigie di cristiano che tu hai. Sanguedimmio! — Questa che, scritta nella sua genuina pronunzia, non so se entri nella classe delle bestemmie semplici o in quella delle composte, era una frase intercalare, che Beppe Arpia ripeteva in fine d'ogni periodo di tutti i suoi discorsi. Ne tengo avvertiti i lettori, perché, se la decenza mi ha persuaso a non riprodurla, come vorrebbe la scrupolosa verità del dialogo, ve la suppliscano da sé, ove fossero desiderosi di gustare lo effetto di quell'osceno parlare.
— Noe, noe — disse Sandro sempre impassibile — la smetta, la si calmi, ché la sbaglia.
— Come sbaglio! O le firme di queste cambiali non sono tutte false? Ventimila lire! Ma tu sai che monte di quattrini sono ventimila lire? Ed ora come si rimedia? Come mi farò pagare da quel figuro del duchino, che una volta me ne fece una solenne, ma solenne davvero?
— Gli è questo e null'altro? Oh! Dio ti ringrazio: la si confonde in un bicchier d'acqua, Sor Beppe carissimo; io le torno a dire; io le dirò sempre che la sbaglia.
— Ma la firma non è falsa? Rispondi un sí, o un no: Sanguedimmio! Negami anche questa.
— Falsissima.
— Assassino! E te ne avvedi e me lo confessi? O ch'eri cieco dopo trent'anni che fai il mestiere? Ma che hai perso il giudizio? Ma che t'hanno stregato? Gli era meglio che invece di fare il mezzano tu avessi imparato a fare il boia.
— E invece fo lo strozzino, cioè ti aiuto a far lo strozzino che torna tutt'uno col boia. — E in cosí dire tentennando il capo e muovendo una gamba in atto di canzonare, mirava fissamente in volto Beppe Arpia, che gli figgeva gli occhi stralunati credendo che fosse ammattito davvero.
E Sandro: — Scusami, io parlo franco — e qui allungando il collo verso Beppe ed abbassando la voce: — Tu dici una corbelleria, tu hai torto, ed io ho ragione, e quasi quasi ti direi qui chiaro e tondo senza mandartelo a dire per il procaccia, sei un bue senza che tu aspetti la corda per confessarlo. — E volgendo il capo intorno la stanza quasi volesse spiare se dalle pareti spuntassero orecchie per ascoltare ciò ch'egli era per dire, seguitò: — La firma è falsa, e questo è un affarone. Vedi: se mi dessero cambiali per ventimila lire colla firma di... che so io — nomina pure qualunque de' piú ricchi banchieri del mondo — io non farei a baratto con queste che hanno la firma falsa.
— Sanguedimmio! È impazzato davvero: chi l'avrebbe detto che quell'arnesaccio da galera sarebbe ito a finire in Bonifazio?
E Sandro si smascellava dalle risa, e credendo di troppo prolungare il tormento del suo abborrito principale, ricomposta la persona e preso un contegno di chi si apparecchi a parlare da senno, con la palma stesa accennando all'altro di calmarsi, prese a dire: — O senti. Tu mi consigliavi di concludere il negozio dando le ventimila lire al duchino a babbomorto, n'è vero? Considerate bene le condizioni di quel giovanotto, io credetti ben fatto porre da canto gli ordini tuoi, e seguire i miei. Dimmi un poco, l'hai tu guardata bene bene la cifra del suo castelletto? La non arebbe a esser piccina, sai; di cambiali a babbomorto ne hai avere di molte nel tuo portafoglio — Noe, non importa che tu verifichi ora, supponi che la somma sia grossa — dunque dargli piú danari a babbomorto sarebbe stata una... dilla tu la parola, tanto toccherebbe a te — bisognava dunque negoziare a babbovivo: ne vai d'accordo anche tu? Già principia ch'io voglio un gran bene al duchino: e' non mi manca mai di rispetto, è uno di quel signori che quando mi danno quel po' di senseria che mi guadagno sudando sangue, non guardano a vensoldi. Da quindici giorni, povero signore! mi è venuto sempre dreto dalla mattina alla sera; ma che potevo io fare per lui? Se avessi avuto de' capitalucci miei, oh! gli avrei fidato fino all'ultimo quattrino del patrimonio, cioè del valsente del suo patrimonio. Ma lavoro da trent'anni giorno e notte come un assassino, e la fortuna mi trovò Sandro quando mi posi al suo servizio, e Sandro mi lascia sempre. Lavora, lavora, mi sto a tribolare tant'ore, ed appena ci cavo da desinare e da cena, e l'avessi sempre questa sorte. Basta; io dico per dire...
— In somma?
— In somma delle somme, senti come è ita la faccenda. Io, mosso da compassione per quel signore, come mi mandò il suo cameriere e, o dentro o fuori, voleva una risposta, gli dissi: «Dite al signor duchino che proprio mi trafigge il core, che ho tentato tutte le vie, e non c'è modo da trovar dieci paoli: il commercio va male e i banchieri in oggi tirano tutti a ritirare: nonostante, ditegli che faccia in maniera di metter la firma del duca vecchio sulle cambiali, e domattina vedrò di contargli la somma in tanti plurimi ballanti e sonanti». Il cameriere mi rise in faccia, dicendo che sarebbe stato piú facile addirizzare il campanil di Pisa che muovere il vecchio a firmare un foglio per una somma di venti lire. «E che importa?» soggiunsi io, «non sa egli scrivere il duchino? O la faccia lui la firma del babbo; tanto non lo saprà nessuno, perché gli è solo per avere carta in mano: questi bindoli di scontisti, questi ladri strozzini...».
— E di chi intendevi parlare? — l'interruppe Beppe.
— Di tutti; anche di te; io dicevo per dire d'altronde bisogna sempre far cosí, se no, non se ne chiapperebbe né anche un solo.
— Tu infami troppo la professione; che altri lo faccia, sia pure, ma tu? O tira via, e finisci che mi pare tu mi voglia empire la testa di chiacchiere, e farmi ingozzare una pillola che non v'è modo d'andarmi giù.
— Il quale io dico come qualmente il servitore, persuaso di quel ch'io gli avevo detto, andò via, e dopo un'ora, eccolo qui chi lo vuole il signorino con le cambiali firmate dal babbo; e l'affare fu bell'e stiacciato, alle condizioni, secondo cui tu mi avevi dato il benestare, cioè al frutto legale del cinque per cento, eccetera.
— Qui sta il busilli; e ti farò vedere che tu hai spigionato l'ultimo piano — e coll'indice della destra toccavasi la fronte — e che se da qui in avanti non apri gli occhi, tutti i gran quattrini che hai fatti, ti si struggeranno fra le mani. Oramai i mezzi antichi sono conosciuti, bisogna inventarne degli altri, 'gna macinar sempre cose nuove nella testa; e questo che ti dirò mi pare bellissimo. Ascoltami: noi abbiamo questi fogli; la firma è falsa, ma non s'ha a sapere per ora, cioè tu non l'hai a sapere; il duca crede che io te l'ho appioppata. La scadenza è a sei mesi; dopo sei mesi ed un giorno, quatto quatto io mi presento, o anche sarà meglio mandare uno dei nostri giovani a riscuotere; il giovane presenterà le cambiali false, e quel buon signore 'gna che paghi su due piedi: perché o paga o non paga; se paga e sta bene e gli si dirà: «Ne faccia pure di simili cambiali c'ingegneremo di scontarle», se non paga si va dal babbo. Il babbo vedrà la firma falsa; brontolerà, bestemmierà, diventerà satanasso in carne e in ossa come sei diventato tu stamani; peggio per lui se si guasta il sangue per nulla, ma 'gna sempre che paghi; se nega gli si dirà freddo freddo: «Uh! Faccia lei; o ventimila lire qui or ora in tante monete di dieci paoli (Pisis), o il suo signor figlio va in galera come falsario: le cambiali ce l'ha portate lui, ed abbiamo i testimoni che gli hanno visto consegnare i quattrini: la legga: moneta ricevuta in pronti contanti e pongo a mio debito». Non v'è mezzo, bisogna che paghi. Ora queste cambiali false a babbovivo, non sono venti mila volte piú sicure delle cambiali vere a babbomorto? E se una caduta da cavallo — giacché ora tutti questi signori hanno il vizio di saltare a cavallo i fossi e i cancelli — te ne ammazza qualcuno, come ti caverai d'imbroglio? Mentre cosí, se muore il babbo, e il figlio paga perché è diventato ricco; se il babbo vive, e il babbo paga perché il figlio non vada in galera.
Allo strozzino, che, come Sandro spingeva il ragionamento verso la conclusione, gli si venivano spianando i muscoli convulsi e contratti delle ciglia, gli si slargarono le labbra ad un certo risolino di contento appena l'altro ebbe terminato: gli getta le braccia al collo dicendogli:
— Tu se' il gran capo ameno: scusami, Sandrino me lo avevi a dire innanzi quello che m'hai detto dopo; cosí io non sarei andato in furia, non sarei entrato in bestia; tu lo sai che io sono un po' lesto di cervello, e piglio l'a ire per nulla, ma poi subito mi fermo e me ne pento. Scusami, via; ridi un poco: alla tua provvisione oggi aggiungerò una liretta di regalo.
— Che gran sforzo che fai a darmela: io credo che tu voglia morire.
— Già tu non se' mai contento — stamani anche desinerai da me, tiriamo via: ora raccontami come hai fatto il pagamento.
— Quattromila lire in diciannovini12, come t'ho detto; ci sarà stato qualche mezzo paolo buono, ma va a trovalo tu fra tanti. Egli voleva per lo meno diecimila lire in contanti, ma io lo messi alle strette, gli feci credere ch'era impossibilissimo avere un soldo di piú e in altra moneta che quella, anzi aveva a ringraziare tutti i santi per aver potuto mettere assieme quella somma che non era piccina in oggi che i quattrini son cari; e che con una miseria di spesa il cambia-monete glie li avrebbe barattati con de' francesconi. Gli ho dato quella carrozza vecchia da viaggio, dieci colli di baccalà, e otto somare da latte, dicendogli che erano tutte mercanzie, che viste e prese e' son quattrini, e gl'indicavo un onesto mezzano che l'avrebbe subito esitate. Mandai il nostr'omo che ricomprò la carrozza per la metà del prezzo ch'io l'aveva valutata al duca; ricomprò le somare, salvo due che non son buone a nulla; non feci ricomprare i colli del baccalà perché è marcio, e se lo scopre la polizia, dicerto lo farà buttare in Arno. Dissi al duca che avesse pazienza, ché in altro affare si farebbe meglio, e che d'altronde in questo egli non pagava che il frutto legale del cinque per cento di sconto, il quale per sei mesi, a ragione di trecento lire per ogni mille, somma a milledugento; e cosí ritenendo lo sconto, gli ho consegnato lire due mila e ottocento, le quali poi furono portate dal nostro cambia-monete per barattarle in tanti pezzi di dieci paoli, pagando la miseria di due crazie per ogni francescone, che fa il due e mezzo per cento. Sicché il duca Nottoloni in effettivi contanti non ha avuto altro che due mila settecento trenta lire. Ti torna?
— Non c'è malaccio; gli utili sono stati pochi, ma per essere un affare sicuro mi posso contentare. Ora dimmi un po', cosa ti ha dato per senseria?
— Una miseria che mi vergogno a dirlo; se avessi guardato al mio vantaggio, ti giuro che non ne avrei fatto nulla.
— Non dir bugie: tu m'hai insegnare a cantare e non coteste cose. Non ne parliamo piú. Stamani c'è altro?
— E' ci sarebbe un affare, ma non v'è fondo: a meno che tu non pensi diversamente. Il conte Cavalcanti avrebbe bisogno di diecimila lire: poveraccio! Gli è tanto bono, che non so cosa farei per contentarlo. Mi disse che te ne facessi parola io, perché con te non vuol parlare: dopo quell'ultima scenata che gli facesti, assicurati, che sentendo il tuo nome è come sentir nominare il diavolo. Tanto tu hai fatto grandi affari con lui; canti pure quanto vorrà, ma i quattrini non vengono. Ma è sempre un buon signore, e ti giuro che mi sento smuovere tutte le volte che gli discorro. Oggi però pare che abbia il diavolo addosso per aver diecimila lire; io al solito, gli dissi che i quattrini in Firenze non sono stati mai tanto scarsi quanto son oggi, e che in piazza non v'è piú credito, e che non se ne trova né anche col pegno in mano. E gli chiesi se nel palazzo avesse qualcosa da disporre, puta, quadri, libri, scritture — c'è da far bene, sai — poiché ho sentito dire fra l'altre che ha cinque o sei grossi libroni di disegni che costano un tesoro, e ci sarebbe da averli per poco. Egli mi rispose che essendo stati sempre in casa sua da secoli, ci rimarrebbero finché la casata de' Cavalcanti avrebbe un erede e che vendendoli si sentirebbe disonorato. Ma sempre tutti principiano cosí; anch'egli verrà a noi, 'un pensare, gli è certo che ha gran bisogno di quattrini, e questo è il forte.
— Quest'affare de' disegni non mi dispiacerebbe, e in ispecie delle pitture, che mi farebbero comodo dovendo adornare la casa per il vicino sposalizio di mio figlio. Basta: vedi tu, Sandro, e fa' presto; ma bisogna far comparire una persona terza come compratore; non ci sarebbe qualche forestiere che si volesse prestare?
— O che c'è egli bisogno di forestiere? O Cecco non serve? 'Un ti rammenti quando faceva l'inglese a Borgognissanti? E tutti dicevano: «Come recita bene quel coso lí». In fine vedrò. Ma in questo negozio voglio essere a parte anch'io, ve': te lo dico innanzi, perché poi non s'abbia a questionare fra noi.
Mentre cosí discorrevano, e Sandro disponeva in ordine le cambiali da riscuotere in quel giorno, Beppe Arpia rimase come colpito da paralisi, con la bocca spalancata, cogli occhi spalancati, col portafoglio in mano, nel vedere la figura d'un uomo, che s'era fermo sull'uscio. Non si muoveva, non profferiva parola, ma guardava fisso lo strozzino con certo ghigno ironico, tenendo il cappello fitto in sul capo e inclinato tutto da un lato. Era giovane d'anni, ma sulle forme del suo volto, irrigidite e chiazzate di macchie livide e giallastre, la universa famiglia dei vizi aveva lasciati tali vestigi, che sotto il suo ritratto, supposto che avesse fatta parte d'una raccolta di teste-tipi, poteva scriversi: «fisonomia del rompicollo».
Come Beppe Arpia si riebbe alquanto dal colpo repentino, sforzandosi di rendere ilare il viso e la voce che pur gli usciva a stento dalla gola inaridita, gli disse: — Buon giorno, amico; di nuovo in Firenze?
— Non ci vengo da me, mi ci conduce il destino — rispose l'altro avanzandosi di un passo. — Sono arrivato or ora da Livorno, e il mio primo pensiero è stato quello di venire ad ossequiare il signor Giuseppe, il mio generoso benefattore.
— Troppo garbato; grazie. Avresti da dirmi nulla?
— Una sola parolina, e vado via.
— Sandro ritirati, e va' per quel negozio, ch'io ho da rimaner solo con l'amico.
Sandro, dopo d'aver squadrato dal capo alle piante lo straniero, si allontanò dicendo fra sé, mentre scendeva le scale: — Chi sa che razza d'imbrogli; uh!
Appena furono soli, Beppe ansiosamente chiese all'altro: — Ch'è egli seguito? Io ti credeva già in Costantinopoli a far fortuna in mezzo ai Turchi; o come sei qui un'altra volta?
— Eppure son qua, e ripeto che non ci vengo per mio gusto. Appena usciti dal porto di Livorno, s'erano fatte poche miglia, quando venti, pioggia, tuoni e saette sconvolsero il mare sí che ci credevamo perduti. La tempesta, che durò tre giorni, ci trasportò a Marsiglia col legno quasi fatto in pezzi. Scendemmo a terra, ed entrato in un'osteria posta lungo il porto, alla quale ero corso per profittare de' vostri consigli ed assuefarmi all'economia, un figuro di francese mi messe in brio. Io non conoscevo quel vini, era egli che li chiamava: bevemmo e ribevemmo; il cervello principiò ad andarmi in giro, e mi lasciai condurre dal mio compagno ad una stanza in fondo; si dette una ripassatine alle carte: il tristo me li finí tutti. Il dí dopo, quando fui desto da un sonno grave che mi durò ott'ore di fila, conobbi l'inganno, cercai la birba che mi aveva spogliato: ma non mi riescí di trovarlo, ché l'avrei ammazzato in pubblica piazza. Colpito da tanta sciagura inaspettata, appena potei trovare pochi franchi per imbarcarmi come mercanzia per Livorno; ed eccomi qui nuovamente fra le mani di Dio e fra le vostre.
— Ma io non ho che ti fare; gli è parecchi anni che dura la storia, la pareva finita da un pezzo; giurasti di partire, ed ora mi ricomparisci dinanzi. Io non credo punto a queste tue sciagure; sarà una storiella inventata per ingannarmi: ma questa volta l'avrai da fare con me.
— Non andate in collera, perdinci! In fine una bagattella mi serve; quindici mila lire, e se il diavolo mi cava anche queste di tasca, vi giuro che mi ammazzo e vi levo l'incomodo.
— Quindici mila lire! O che credi che la zecca lavori a conto mio? Tu sei impazzito.
— Io dico da senno; datemeli, son tanto pochi! Per voi, è come dare una presa di tabacco.
— E torna, sanguedimmio!
— Non andate in collera; per un par vostro anche quindici volte quindici mila sarebbero una miseria. Via, siate buono, discorsi corti, torno fra due ore, piglio i quattrini, vi do l'ultimo abbraccio, e due ore dopo ripartirò per non piú tornare. Se poi non vorrete favorirmi, ricorrerò alla generosità di un impiegato di polizia che mi è tanto amico, non può dirmi di no. A rivederci dunque a or ora: quindici mila lire in napoleoni, che son moneta corrente da per tutto.
Lo strozzino rimase pallido di ribrezzo come avesse visto un gran serpe avventarglisi contro. Cadde sur una seggiola a bracciuoli e si pose a meditare. Dopo qualche ora d'immobilità, si scosse dicendo:
— E' non v'è rimedio; i quattrini bisogna darglieli... se glie ne offrissi ventimila e gli facessi firmare una promessa di non molestarmi piú?... Ma che serve? Oh! Ci fosse modo di farlo ammazzare! Se l'inducessi ad imbarcarsi davvero, e se qualcuno volesse pigliare l'impegno di buttarlo in mare? Se ne discorressi con Ignazio, che ha tanti mezzi, e poi combina le cose sí bene; ora che gl'interessi suoi sono i miei, che non s'abbia a prestare, non abbia a trovare un mezzo? Infine bisogna rimediare; è necessario ch'io mi levi questa molestia; ne vada quello che può, bisogna rimediare, sanguedimmio: un migliaio di birbe tutte insieme non mi hanno fatto mai paura, e son bastato io solo; e questo figuro davvero mi mette spavento.
Intanto che Beppe Arpia cosí discorreva con la propria coscienza a modo di forsennato, un facchino del banco gli annunzia che il signor cavaliere Lumaca, chiedeva di parlargli.
La venuta di questo rispettabile personaggio gli parve un provvedimento mandatogli da Dio, a sviarlo dalle moleste immagini che lo conturbavano. — Passi, passi — diss'egli al facchino, alzandosi dal seggiolone, e facendosi verso l'uscio per ricevere il nuovo venuto, cui egli porse la mano dicendo: — Servo umilissimo, signor cavaliere; la segga, la segga.
— Son servo a lei, illustrissimo signor Giuseppe — e si assise in una seggiola di contro, ponendo sul banco un fascio di carte ed un rotolo, che pareva di pergamena.
Il dottore Lumaca, cavaliere anch'esso dello Spron d'Oro, era un uomo fatto come tanti se ne incontrano ogni giorno, senza che richiamino gli sguardi altrui, cioè era volgare di persona; non aveva nulla di bello o di deforme che lo distinguesse dagli altri negli atti e negli abiti, tranne il volto dove, osservandovi attentamente, si ravvisavano caratteri evidentissimi che lo facevano aggregare al genere degl'imbroglioni; non apparteneva a quella specie malefica, che tira per arte e per istinto a rovinare, abbindolando, la, misera umanità, che da Adamo in poi si è lasciata sempre abbindolare; ma apparteneva a quella razza d'innocui o poco nocivi, che considerando la fatuità umana come miniera contenente metalli preziosi in gran copia, vi si buttano su, e la lavorano ad utile proprio e con poco danno de' proprietari: e per dirla piú chiara, il dottore cavaliere Lumaca faceva la professione di vendere lucciole per lanterne, professione ch'egli esercitava senza mistero e senza paura, come se da un collegio universitario ne avesse ottenuto il diploma: egli faceva l'arte del blasonaio, come altri fa quella del calzolaio, del legnaiuolo, del magnano e simili. Il colto e rispettabile publico — come lo chiamano sempre i cartelloni de' teatri — ci credeva; i pochi ne ridevano; e il governo lo lasciava fare, perché non reputava savio proponimento esser d'impaccio ad un uomo, il quale, considerando bene la cosa, altro non faceva che accrescere il numero de' patri blasoni. Qualunque spazzaturaio, o cenciaiuolo arricchito desiderava una patente di nobiltà, non per grazia graziosa — secondo la frase di Guittone Aretino, poeta del secolo decimoterzo — del graziosissimo principe, ma per diritto di nascita, il miracoloso dottore, nel fangoso e torbido pelago dell'età trapassate pescando cavalieri, conti e baroni, nonni e bisnonni de' sullodati spazzaturaio, e cenciaiuolo, dimostrava che il loro postero era caduto in bassa fortuna, ma che nelle sue vene, coperte d'una epidermide lorda e incallita, scorreva un sangue purissimo, celeste, quanto poteva essere quello del' grande e nobile signore, dipinto stupendamente da Giuseppe Parini.
L'onorando dottore — a somiglianza del proverbio che dice: tutte le strade menano a Roma — aveva foggiata una sua massima, consona alla dottrina ortodossa: tutti gli uomini discendono da Adamo; e però son tutti d'una ciccia, tutti di un pelo e d'una lana. Altro in sostanza non faceva che eseguire da maestro cotesta riduzione, e farla accettare come documento genuino; e in tal guisa rendevasi benemerito alla patria, come colui che la nobilitava accrescendo allo infinito il numero de' nobili; e chi poteva impedire, come dicevo piú sopra, lasciava fare adesso che i nobili non costano nulla allo stato, perocché anch'essi pagano tasse, dazi, imposizioni, contribuzioni, e balzelli, che un tempo erano dolcezza che la munificenza feudale faceva gravitare sopra le gens taillables et corvéables, conforme in Francia chiamavasi, ed oggi nelle teste del partito dell'ordine si chiama tuttavia, il popolo sovrano.
In una delle conferenze concernenti gli affari matrimoniali tra la famiglia Arpia e la famiglia Pomposi, Ignazio Gesualdi fra gli altri ammonimenti e consigli dati allo strozzino, avevagli detto esser necessario far fabbricare un albero genealogico della sua famiglia, e far dipingere l'arme secondo il costume de' nobili. A vincere la repugnanza dell'amico — il quale pensando alla propria nascita, e non essendogli mai venuto fatto di scuoprire né anche il proprio padre, reputava impossibile di andare piú in dentro nella storia degli avi suoi, parendogli piú oscura della storia antediluviana, e per tutte queste ragioni temeva di rendersi obietto di dileggio — Ignazio gli additò vari esempi di cavalieri quondam facchini, macellai, o mercantucci; e siccome lo esempio, comunque non istia sempre d'accordo con la logica pure fra le prove palpabili è la piú convincente, lo persuase a porsi nelle mani di un genealogista, o blasonaio che dir si voglia. Il Gesualdi ebbe cura di presentargli il piú riputato; l'Arpia gli discorse, litigò un paio d'ore per fissare il prezzo dell'opera, ma in quanto alle altre cose ne lasciò tutto il pensiero all'amico.
L'uomo dotto, con una squadratina d'occhio misurata la intelligenza dello strozzino, s'accorse che non importava d'ammattire per dare apparenza di vero alle piú balorde bugie; in meno d'otto giorni sbrigò il lavoro, ed era andato a portarglielo onde ricevere la mercede fissata.
Appena dunque arrivato, dopo d'avere ricambiati i complimenti d'uso, il blasonaio disse: — Il signor Gesualdi mi fece gran fretta, e mi sono affaticato giorno e notte; ho finito il lavoro e son venuto per farglielo vedere, e se la lo troverà buono, lasciarglielo — E slegato il fascio delle scritture, spiegava con maestosa gravità un gran foglio di cartapecora, nel quale era raffigurato l'albero e il blasone della nobilissima casata Arpia.
In basso v'era disegnata la figura d'un uomo coperto d'una ruvida armatura, steso in terra, con la guancia appoggiata sopra la palma, a guisa delle statue di marmo che fanno coperchio alle urne sepolcrali. Dal fianco gli scappava fuori un tronco d'albero, il quale inalzandosi, si partiva in gran numero di rami, e ciascun ramo aveva uno o piú tondi, e in ogni tondo era scritto un nome: nell'ultimo, che faceva culmine alla piramide, si leggeva in caratteri piú grandi il nome di Beppe Arpia. In basso del foglio, a dritta, v'era dipinta l'arme.
Era uno scudo di figura ovale, sormontato — vocabolo blasonico — da un cimiero, da cui partivano sette lunghe piume che si ripiegavano ai lati. Sopra un fondo rosso e oro vi stava una arpia nera, con corona del medesimo colore, con una zampa appoggiata sopra una borsa parimente nera; di sotto in una striscia bianca era la seguente leggenda: strangulando nutrior. Blasone semplicissimo e mirabilmente espressivo.
Beppe lo esaminò, lesse uno per uno i nomi dei suoi antenati, e rivoltosi al blasonaio, disse: — La veda, io ci capisco poco o nulla; mi faccia il piacere di capacitarmi d'ogni cosa.
E l'altro, cominciò a dichiarargli come quell'uomo, dal cui fianco usciva il tronco dell'albero, fosse il ceppo, ossia il fondatore della famiglia, e che i vari rami indicassero la discendenza. Seguitò quindi a mostrargli, uno dopo l'altro, gli individui ch'erano usciti da quell'unico fondatore, facendo di ciascuno una brevissima biografia. Il tale fu alla battaglia di Campaldino, il tal altro fu implicato nella congiura de' Pazzi. Questi ebbe quattro figli, tre de' quali morirono nella guerra contro Siena, il superstite fu bene accetto a Cosimo I, e diventò tanto ricco che chiese ed ottenne in moglie una principessa romana. Il figlio di lui che combatté sulle galere toscane, fu preso dai corsari e venduto schiavo in Tunisi, di dove gli riuscí di fuggire, e ridursi in Firenze, e credendolo già morto, il fisco o il principe — di questo particolare il blasonaio non era sicuro non avendo potuto trovare documenti autentici — si era insignorito di tutti gli averi e ne aveva disposto a benefizio de' suoi cortigiani; ed un galantuomo che allora trovavasi ministro, con ingiustizia inaudita, glie ne rese piccolissima parte, come sarebbe a dire di cento che gli spettavano gli rese appena dieci. E questo fu il primo colpo che spinse la famiglia verso la rovina. L'industria e l'abilità grande del figlio la rimesse in piedi. E qui, accelerando il discorso — come se nell'albero ci fosse notata la formula musicale prestissimo — seguitava: — Questo fu maggiordomo del Cardinale de' Medici tanto benemerito della Galleria degli Uffizi; quest'altro accompagnò come segretario d'ambasciata Atanasio Bidolfi alla Pace di Westfalia. Ecco qui un giureconsulto, che guadagnava cinquantamila lire l'anno; quest'altro non fu punto ambizioso, fu fatto canonico a ventun anni ed appena lo poterono persuadere di diventare arcidiacono: questo qui poi, che gli fu nipote, ambí d'esser papa e vedendo che tirava cattivo vento in un conclave crepò di rabbia. — E continuando di questo andare, giunse al padre di Beppe Arpia, dicendo, che fu un giovane avvenente, ma scapato e rogantino, e spendeva come un Cesare; e che preso in protezione da Giuseppe II imperatore, il quale in lui conobbe il genio di un gran capitano, si coprí di gloria combattendo sempre nelle prime file in tutte le campagne di quel gran principe. Non curò mai il patrimonio ch'era tutto in poderi, lasciando che se lo divorassero i fattori; s'innamorò della figlia di un colonnello, e la sposò contro il volere de' genitori, quando, sette mesi dopo lo sposalizio, una palla di cannone gli portò via la testa mentre egli audacemente aveva ghermita una bandiera nemica. La moglie rimase miserabile; i parenti non la vollero accogliere in casa, e la meschina, gravida di cinque mesi, a stento si ridusse a Firenze con la speranza di raccogliere le reliquie delle sostanze del marito; ma non assistita da nessuno, in una povera casa di là d'Arno partorí il signor Giuseppe, e ci rimesse la vita.
Lo strozzino udiva con orecchie tese il racconto dell'uomo dotto, e provava tale un senso misto di superbia, di compiacenza, di credulità, che il suo volto repentinamente cambiava di espressione. Ma tanto profluvio di parole, dette come se il blasonaio dicesse davvero, vinse ogni sua velleità; e sebbene non si rischiasse a fargli delle interrogazioni non che opporgli delle difficoltà, temendo di entrare in un ginepraio dove la sua ignoranza sarebbe rimasta troppo a nudo, pure per non parere, o a dir vero, per pretta formalità, come l'altro ebbe finito, disse:
— Veramente io resto ammirato, caro signor cavaliere, della sua sapienza: sarà tutto vangelo quello che la mi ha detto; ma noi che stiamo al commercio, siamo assuefatti sempre a volere in ogni cosa della nostra professione trovare il suo perché; la mi scusi s'io le chiedo come ha ella fatto a trovar tante buscherate.
— Come! Buscherate? — disse il blasonaio rizzandosi inviperito.
— No, non si riscaldi il sangue, la si cheti; ho detto cosí per parlar famigliare, io non ho mai preteso mettere lo zampino nelle cose che non entrano nel mio mestiere; ma essendo io quello che deve pagare, la non mi vorrà dar torto se m'ingegno d'esaminare la qualità del lavoro. Innanzi tutto la sappia ch'io ne resto contento, giacché non credo che la mi abbia voluto mettere in mezzo: la ne ha fatti tanti di questi alberi a tante famiglie cascate in bassa fortuna, non è vero? E siccome gli altri non hanno avuto da ridire, che debbo essere io il primo a non contentarmi? Oh! Le pare? Ma la scusi, come ha ella fatto in sí poco tempo a trovare tutti questi miei antenati, mentre io, che sono la parte interessata, non ne conoscevo neppur uno?
— E la non è il solo che ignori la storia antica della propria famiglia: ciò non mi sorprende: se la sua nobile casata da seicent'anni in qua non avesse avute tante strane vicissitudini, se gli eredi del fondatore avessero sempre abitato nei loro aviti palazzi, ell'avrebbe trovato l'albero e l'arme bell'e fatti, ed appesi ad una parete della sala d'entrata, e non avrebbe avuto bisogno dell'opera mia. Ma la nostra professione non è quella di scrivere le cose che già si sanno; è bensí quella di trovare le ignote frugando, rovistando le antiche scritture, mettendo sottosopra gli archivi, e se non ci avessimo un po' di verso e di pratica, ci affaticheremmo per degli anni senza concludere nulla. D'ogni nome ch'ella vede scritto qui, d'ogni segno, d'ogni virgola io ho i documenti atti a giustificarli, e quando la voglia avere l'incomodo di esaminarli, eccoli qua, l'avrà da divertirsi per due o tre mesi, poiché alcuni sono in lingua latina, altri in cifra, in altri ci si raccapezzerebbe poco. Le fa maraviglia forse il tempo breve ch'io vi ho speso sopra? Ma oltre la pratica grande ch'io ho — giacché dieci anni addietro non mi sarei fidato di fare un simile lavoro né anche in sei mesi — la sappia, che avendo dato parola da cavaliere al signor Gesualdi, ho fatto sudar sangue notte e giorno a tre de' miei piú valorosi giovani, tanto che uno mi si è messo a letto e non so come abbia a finire, e bisogna che io gli faccia le spese della malattia. Costui che sa tutto quello che si contiene negli archivi pubblici e privati di Firenze ebbe l'abilità di trovarmi anche un suo antenato, piú antico di quello che io ho posto come il fondatore delle famiglia. Ma siccome io aveva stabilito di principiare dal mille dugento e tanti, cioè dalla vera fondazione della repubblica fiorentina, gli dissi che non bisognava tanto rinculare, se no ci saremmo ridotti ai tempi delle invasioni de' barbari, e li si trova cosí grande scompiglio in fatto di antenati che si perde il filo e ci si smarrisce.
— Or chi era egli questo mio antenato? — interruppe lo strozzino.
— Era uno che da Lucca venne a Firenze, dove piantò una casa di commercio; diventò tanto celebre che lo rammenta anche Dante.
— E chi è egli cotesto sor Dante, che non ho sentito mai nominare?
— È il grandissimo de' poeti d'Italia; un gran personaggio che cinquecento trent'anni addietro fece un viaggio all'inferno, al purgatorio e al paradiso, e conobbe tutti gli uomini del mondo cominciando da Adamo; lí vide anche il suo antenato...
— Nell'inferno.
— E perché non in paradiso?
— O bella! Perché non c'era. — L'uomo dotto s'avvide che Beppe Arpia aveva dato in uno sdrucciolo, che avrebbe potuto riescirgli di nocumento, tanto piú che non aveva per anche intascato il danaro; e quindi pensò di rimetterlo in carreggiata, dicendo: — Ma la saprà di certo che qui si parla di un viaggio poetico, cioè fatto con la fantasia; e però il suo antenato nell'inferno non sarà stato, sebbene la via ch'egli batteva spuntasse lí. Ma per non divagarsi in ragionamenti che ci condurrebbero a lungo; mi dica francamente, rimane ella contenta del mio lavoro?
— Contentissimo, ed eccomi qui a fare il mio dovere. — E tirando un cassetto del banco, cava fuori da un sacco parecchi rotoli contenenti francesconi, la vista de' quali fece scintillare uno schizzettino di riso appena visibile negli occhi furbi del blasonaio. L'Arpia ponendogli nelle mani quattro di que' rotoli, gli chiese: — È ella contenta?
— Ma di grazia...
— Ciascuno di questi contiene venticinque zecchini, che in tutto fanno cento.
— La mi perdoni, si è fissato trecento scudi; cento zecchini non mi servono né anche a pagare i giovani.
— Ma per otto giorni di lavoro, mi pare che ci dovrebbe essere il suo tornaconto.
— Si vede che Ella s'intende di commercio, e in questo le fo di cappello; ma degli studi miei, a quel che vedo, l'ha poca pratica. Se ella mi chiedeva un albero di cento o dugent'anni, una ventina di zecchini bastavano; ma come si va piú in su, siccome il buio sempre cresce, il lavoro moltiplica e naturalmente la spesa ingrossa.
— Se avessi saputo ciò, le avrei detto di fare un albero piú piccino: tanto serviva arrivare fino al mio nonno, o a una generazione piú in là, e me ne avanzava.
— Ma il signore Ignazio mi raccomandò fervidamente e me lo ridisse tante volte, ch'io andassi piú in là che potevo, imperocché gli era necessario...
— E se glie l'ha detto lui, non se ne discorra piú ecco qui gli altri cinquanta zecchini, ma abbia la compiacenza di farmene ricevuta.
— Sicuro. — Il blasonaio scrisse, e consegnando il foglio all'Arpia, diceva: — Spero di vederla presto alle Cascine in tir'a quattro con l'arme dipinta nella sua carrozza, ed uguagliare i primi signori della città per magnificenza d'equipaggio, come li uguaglia per nobiltà di sangue, e per ricco patrimonio.
Lo strozzino parve compiacersi delle parole del dottor Lumaca, e fece un cenno d'approvazione.
Come l'altro, dopo d'essersi inchinato piú volte, se n'andava, Beppe gli corse dietro dicendogli: — Un'altra parolina, sor cavaliere, prima che la vada via; mi direbbe ella un poco perché ha messo nella mia arme una bestia ch'io non conosco di che razza la sia?
— O che vorrebbe il blasone senza bestia? N'ha ella mai viste arme di famiglia senza un animale in mezzo? Come in quelle degli altri c'è il leone, o l'orso, o l'aquila, o l'ippogrifo, e per fino la scrofa, ovvero troia, secondoché si vede nell'arme degli Scrovigni, famiglia nobilissima nominata da Dante, cosí nel suo c'è una bestia talmente antica, che ora risplende in pochissimi blasoni di primissima nobiltà, anzi, come vorrebbero taluni, è arme governativa.
Lo strozzino mostrandosi satisfatto, fece una riverenza all'altro, dicendo: — La scusi.
Il blasonaio era appena partito, quando nella sala del trono del facchino s'udiva un'alterco accompagnato da qualche urlo e da qualche giurammio; e Beppe Arpia che era da tant'anni avvezzo ad intromettersi nelle piú piccole faccende di casa sua, sonato furiosamente il campanello, chiese al facchino che accorse frettoloso: — Cos'è stato?
— Un calzolaio piú rozzo di un villanaccio mi ha fatto saltare il moscerino sul naso; e' vuole in tutti i modi parlarle, mentr'io gli dicevo di lasciare la roba e tornare a un'altr'ora.
— Buon dí signoria — disse il calzolaio, tenendo in una mano il cappello — le avevo portato i tronchi ch'ella voleva in fretta e in furia.
— Li avrete fatti male, e in tre giorni saranno bell' e iti.
— La guardi che sorte di lavoro ch'è questo, la veda da sé.
— Via, non c'è malaccio — disse Beppe dopo di averli esaminati dentro e fuori per un quarto d'ora — tornate fra quindici giorni e sarete pagato.
Il calzolaio impallidí, e non si muoveva.
— Andate, andate — ripigliò l'Arpia, ponendosi a sedere e rassettando le carte sparse qua e là sul banco.
— La mi perdoni, lustrissimo... la mi farebbe una gran carità...
— Di che?
— Se la mi volesse dare ora le dieci lire: la creda ne ho proprio bisogno.
— È impossibile.
— La mi faccia questa carità... per amore della madonna...
— O che novità l'è questa?
— La veda, io non le ho chiesto mai nulla; ella ha fatto sempre il suo comodo; magari fossero stati di molti... ma stamani ne ho proprio bisogno.
— Ma, figliuolo, v'ho detto che non ne ho.
— Povero a me! Se mi mancano sette lire, fra mezz'ora sarò ruinato.
— Che dite? Che volete voi dire? Cosa v'è seguito? — chiese Beppe rizzandosi come vide la disperazione dipinta sulle pallide sembianze del calzolaio.
— La senta, oggi gli è venerdí; tra mezz'ora chiudono, e non vi sarà piú rimedio.
— Chi chiudono?
— I prenditori del lotto. La s'assicuri, me li dette proprio un amico, che da tanti mesi corre sempre dreto al Padre Ambrogino, e finalmente glie l'ha cavati; glie l'ha dati proprio lui colla sua bocca senza sutterfugi: 8, 17, 51; la veda che numeri! E questa volta non isgarrano. Son sedici anni che gioco e non ho mai vinto un ambo; si vede che son disgraziato perché non ho saputo cavarli da' sogni, ché la cabala non l'ho potuta mai imparare. Ne ho persi dimolti, sa ella, me li sono levati dalla bocca; ed ora che la sorte mi viene fra' piedi, la mi faccia la carità, la non me la faccia perdere; almeno un ternettino per ripigliare quelli che ci ho rimessi, se non posso mutare stato: la non m'abbandoni.
E stendeva la mano come l'affamato che chiegga la limosina d'un quattrino.
Mentre il calzolaio parlava, il primo pensiero che corse alla mente dello strozzino fu quello di fargli una predica contro la immoralità del giuoco del lotto, che per lui anche era stato una sorgente di lucro, poiché egli dava quattrini ai prenditori, i quali col guadagno degli storni, ogni sabato sera gli rendevano la somma prestata col frutto di una crazia per ogni moneta. Ma un secondo pensiero facendosi innanzi e dando un urto all'altro, quasi gli dicesse: «Va' via con la tua moralità, tu sei sempre importuno», persuase allo strozzino di profittare dell'urgenza e dello acciecamento del malaugurato mestierante, per guadagnare una o due lire. E quando non vi fosse stato tale incentivo, lo stesso genio di sgozzare lo spingeva a menare gli artigli; di fatti se qualche giorno gli seguiva d'andare a letto senza avere strozzato o scorticato qualche misera creatura, non poteva prender sonno, e rivoltolandosi ora su questo ora su quel fianco, esclamava con l'usato intercalare: — Ho perduto un giorno, sanguedimmio! — Ma questo gli seguí una o due volte sole in vita sua; tra le vittime che reclutava Sandro, tra quelle che correvano da sé a porgere la gola e lasciarsi adattare il capestro, al celebre Arpia non mancò mai lavoro.
Avendo dunque trionfato nella sua mente il pensiero nell'interesse, voltosi al calzolaio:
— Vi credo, vi credo, pover'uomo; è mi rincresce di non potervi servire, proprio mi sento... ma no... vediamo se la s'accomoda in questo modo — e finse di raccogliersi un poco come uomo che mediti — Sentite, se vi piace cosí; voi avete bisogno del vostro danaro, voi avanzate da me, io avanzo da tanti altri; se gli altri non pagano me, io non posso pagar voi, ne convenite? Per fare lo sforzo di pagarvi, io avrei a sospendere qualche altra operazione e perdere qualcosa: siete contento di fare il sacrificio d'una liretta?
— Anche di due.
«Sanguedimmio!» urlò fra sé lo strozzino, «glie ne potevo chiedere due; e questa l'è andata.». E preso un pugno di diciannovini, ne contò ventisette sulla palma stesa del calzolaio, che rompendosi la schiena a fargli mille inchini, e dicendogli: — Dio glie ne renda merito — ruzzolò per le scale, e corse a versare nelle finanze dello stato la sua quota settimanale.
E questa e simile altre scene seguivano negli ultimi anni gloriosissimi di Beppe Arpia, cioè quando egli aveva ammassato parecchi milioni; e per ora ti bastino, o lettore, per saggio de' fatti della sua vita; piú in là parecchi strozzati che compariscono nella nostra storia, ci racconteranno in allegra comitiva, i suoi stupendi miracoli. Facciamo presto ad uscire da questo pantano, da questo lurido macello; il sangue, il marciume, il lezzo, i lacerti divelti, le strida disperate delle vittime, la cruda impassibilità de' carnefici che sgozzano, strozzano, e scorticano: insomma il nefando e schifoso spettacolo ne caccia ad aria meno pestifera: seguiteremo a calcare la dolorosa via delle miserie; ci faranno piangere o rabbrividire: ma forse non patiremo l'orrore e il puzzo che ammorba il banco dello strozzino.